Summa Teologica - I |
In 2 Sent., d. 11, q. 1, a. 3; De Verit., q. 9, a. 4; In 1 Cor., c. 13, lect. 1
Pare che un angelo non parli con l'altro.
1. Dice S. Gregorio [ Mor. 18,48 ] che nello stato di risurrezione « la corporeità delle membra non nasconde la mente dell'uno agli occhi dell'altro ».
Molto meno dunque la mente di un angelo può essere nascosta all'altro.
Ma il parlare ha lo scopo di manifestare agli altri ciò che è nascosto nella mente.
Non vi è dunque bisogno che un angelo parli all'altro.
2. Si parla in due modi: interiormente con se stessi ed esteriormente con gli altri.
Ma questa seconda locuzione si compie o per mezzo di segni sensibili, quali la voce e il gesto, o per mezzo di organi corporei, quali la lingua e le dita: tutte cose che gli angeli non possono avere.
Quindi un angelo non parla con l'altro.
3. Chi sta per parlare eccita prima l'attenzione di chi deve ascoltare.
Ma non si vede con quale mezzo un angelo potrebbe eccitare l'attenzione di un altro angelo: poiché ciò avviene tra noi uomini mediante segni sensibili.
Quindi un angelo non parla con l'altro.
Sta scritto [ 1 Cor 13,1 ]: « Se anche parlassi le lingue degli uomini e degli angeli ».
Esiste una locuzione negli angeli: « è necessario però », come osserva S. Gregorio [ Mor. 2,7 ], « che la nostra mente si elevi al di sopra delle condizioni del parlare materiale, e consideri i sublimi e occulti modi del parlare interiore ».
Per capire dunque in che modo un angelo parli all'altro bisogna ricordare, come si è detto precedentemente [ q. 82, a. 4 ] trattando degli atti e delle potenze dell'anima, che è la volontà a muovere l'intelletto alla sua operazione.
Ma l'oggetto intelligibile si trova nell'intelletto in tre modi: primo, sotto forma di abito, cioè come oggetto della memoria, stando all'insegnamento di S. Agostino [ De Trin. 14, cc. 6,7 ]; secondo, come oggetto del pensiero attuale; terzo, come riferito ad altro.
È chiaro poi che il passaggio dell'oggetto dal primo modo al secondo si compie sotto il comando della volontà: infatti nella definizione dell'abito si dice [ Averroè, De anima 3, comm. 18 ]: « del quale uno fa uso quando vuole ».
E similmente ancora per mezzo della volontà si compie il passaggio dal secondo modo al terzo: è per mezzo della volontà infatti che il concetto della mente viene riferito ad altro, cioè o a compiere una cosa o a manifestarla ad altri.
Ora, quando la mente si applica a considerare ciò che possiede in maniera abituale si dice che uno parla a se stesso: infatti il concetto della mente viene chiamato parola interiore.
Quando invece l'idea di una mente angelica viene ordinata dalla rispettiva volontà a essere manifestata a un altro, essa viene a essere conosciuta dall'altro: e così un angelo parla all'altro.
Parlare infatti è lo stesso che manifestare agli altri i propri pensieri.
1. In noi il concetto interiore della mente è come racchiuso da un doppio recinto.
Il primo ostacolo è costituito dalla stessa volontà, che ha il potere di ritenere internamente quel concetto o di indirizzarlo al di fuori.
E sotto questo aspetto nessuno, a eccezione di Dio, può vedere la mente di un altro, come scrive S. Paolo [ 1 Cor 2,11 ]: « Chi conosce i segreti dell'uomo se non lo spirito dell'uomo che è in lui? ».
- Il secondo recinto è costituito invece dalla materialità del corpo.
Per cui avviene che, anche quando la volontà ha ordinato il concetto della mente a essere manifestato a un altro, esso non è subito conosciuto dall'altro, ma si richiedono dei segni sensibili.
E a questo proposito scrive S. Gregorio [ Mor 2,ib. ]: « Per gli occhi estranei noi stiamo nel segreto della mente quasi come dietro le pareti del corpo; ma se desideriamo manifestarci usciamo fuori quasi passando per la porta della lingua, per mostrarci quali siamo internamente ».
Ora, l'angelo non ha un tale ostacolo.
Non appena quindi ha determinato di manifestare il suo pensiero, l'altro lo conosce all'istante.
2. Il parlare esteriore, che si effettua mediante la voce, è a noi necessario per superare il recinto del corpo.
Esso quindi non conviene all'angelo, ma a lui conviene solo il parlare interiore; e questo si effettua non soltanto col parlare a se stessi pensando, ma anche con l'indirizzare, per mezzo della volontà, il proprio pensiero ad altri.
Quindi la lingua degli angeli metaforicamente non è altro che la virtù dell'angelo con la quale egli manifesta il suo pensiero.
3. Quanto agli angeli buoni, che sempre si vedono reciprocamente nel Verbo, non ci sarebbe bisogno di porre un mezzo per eccitarne l'attenzione: poiché come l'uno vede sempre l'altro, così in esso vede sempre tutto ciò che quello gli rivolge.
Siccome però gli angeli potevano parlarsi anche nello stato di natura, e gli angeli malvagi si parlano tuttora, si deve rispondere che, come il senso è mosso dall'oggetto sensibile, così l'intelletto è mosso da quello intelligibile.
Come quindi il senso viene eccitato mediante un segno sensibile, così la mente dell'angelo può essere eccitata all'attenzione mediante una qualche virtù intellettiva.
Indice |