La Trinità

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Libro XIV

1.1 - La sapienza è il culto di Dio

Ora dobbiamo trattare della sapienza, non di quella di Dio che senza alcun dubbio è Dio, perché sapienza di Dio è chiamato il suo Figlio unigenito, ( Sir 24,5; 1 Cor 1,24 ) ma parleremo della sapienza dell'uomo, però della vera, che è secondo Dio, e che è il vero e principale culto reso a lui, che i Greci chiamano con una sola parola θεοσέβεια.

Questo termine i Latini, come ho ricordato, volendo tradurlo anch'essi con una sola parola, l'hanno tradotto con pietas, benché la pietas sia chiamata più ordinariamente dai Greci ενσέβεια, ma θεοσέβεια, poiché non si può rendere nel suo pieno significato con una sola parola, è meglio tradurla con due parole e dire di preferenza "culto di Dio".

Che questa sia la sapienza dell'uomo, come ho stabilito già nel libro XII di quest'opera,1 ce lo dimostra l'autorità della Sacra Scrittura, nel libro del servo di Dio Giobbe, dove si legge che la sapienza di Dio ha detto all'uomo: Ecco: la pietà è sapienza; astenersi invece dal male è scienza; ( Gb 28,28 ) o ancora, secondo la traduzione che alcuni fanno del greco έπιστήμη, è disciplina, termine che deriva certamente da discere ( imparare ), e per questo si può anche chiamare "scienza", perché qualsiasi cosa si apprenda, lo si fa per saperla.2

Tuttavia il termine disciplina è usato di solito in un'altra accezione: designa i mali che ciascuno, a motivo dei suoi peccati, sopporta per emendarsi.

Per questo si legge nell'Epistola agli Ebrei: Qual è il figlio al quale il padre non applichi la disciplina?

E più chiaramente nella stessa Epistola: Ma ogni disciplina sembra dapprima causa di dolore e non di gioia; tuttavia in seguito produrrà, in coloro che per mezzo di essa hanno combattuto, frutti di pace e di giustizia. ( Eb 12, 7-11 )

È dunque Dio stesso la sapienza suprema, invece il culto di Dio è la sapienza dell'uomo, sapienza di cui ora parliamo.

Infatti: La sapienza di questo mondo è stoltezza presso Dio. ( 1 Cor 3,19 )

Di questa sapienza, che è culto di Dio, ( Gb 28,28 ) parla la Scrittura quando dice: La moltitudine dei sapienti è la salvezza del mondo. ( Sap 6,24 )

1.2 - Il filosofo amico della sapienza

Ma se è privilegio dei sapienti discutere della sapienza,3 che faremo noi?

Oseremo far professione di sapienza per non arrossire nel discutere su di essa?

Non saremo trattenuti dall'esempio di Pitagora?

Questi, non avendo osato dirsi saggio, preferì dirsi filosofo, cioè amico della sapienza; la parola "filosofo", che trae origine da lui, ebbe in seguito presso coloro che vennero dopo di lui tanto successo, che nessuno, per quanto eminente apparisse ai suoi occhi o agli occhi degli altri per l'ampiezza delle sue conoscenze riguardanti la sapienza, non ricevette altro nome che quello di filosofo.4

Se dunque nessuno di questi uomini osava dirsi sapiente, è perché forse pensavano che il sapiente è senza peccato?

Ma non dicono questo le nostre Scritture, che affermano: Riprendi il sapiente e ti amerà. ( Pr 9,8 )

Certamente giudicano peccatore colui che ritengono che si debba riprendere.

Tuttavia nemmeno in questo senso io oso dichiararmi sapiente; mi basta sapere - e questo nemmeno gli antichi lo possono contestare - che è compito anche del filosofo, cioè di colui che ama la sapienza, discutere circa la sapienza.

Non hanno fatto a meno di far questo essi, che si sono proclamati amici della sapienza, piuttosto che sapienti.

1.3 - Scienza e sapienza

Discutendo intorno alla sapienza, la definirono così: La sapienza è la scienza delle cose umane e divine.5

Per questo anch'io, nel libro precedente, non ho mancato di dire che si poteva chiamare sapienza e scienza la conoscenza delle une e delle altre cose, cioè delle cose divine ed umane.6

Ma la distinzione che fa l'Apostolo, quando dice: Ad uno è dato il linguaggio della sapienza, ad un altro il linguaggio della scienza, ( 1 Cor 12,8 ) ci invita a dividere questa definizione, così da chiamare propriamente sapienza la scienza delle cose divine e riservare propriamente il nome di scienza alla conoscenza delle cose umane.

Di questa ho trattato nel libro XIII, non attribuendo certamente alla scienza tutto ciò che l'uomo può sapere circa le cose umane, in cui si trova tanta vanità superflua e pericolosa curiosità, ma solo la conoscenza che genera, nutre, difende e fortifica la fede supremamente salutare, che conduce l'uomo alla vera beatitudine, scienza che non possiedono in modo vigoroso molti fedeli, sebbene sia assai vigorosa la loro fede.

Infatti altro è sapere appena quello che un uomo deve credere per conseguire la vita beata, la quale non può essere se non eterna, altro è saperlo in tal modo da metterlo a profitto dei buoni e da difenderlo contro i cattivi;7 questa sembra che sia in senso proprio la scienza di cui parla l'Apostolo. ( 1 Cor 12,8; Col 2,3 )

Pertanto, prima di essa, mi sono preoccupato di raccomandare particolarmente la fede, distinguendo anzitutto in poche parole le cose temporali dalle eterne, e ho trattato allora delle cose temporali, riservandomi di parlare delle eterne in questo libro.8

Ho mostrato che la fede concernente le stesse cose eterne appartiene al tempo ed abita temporalmente nei cuori dei credenti, ma che è necessaria tuttavia, per attingere le cose eterne stesse.9

Ma ho spiegato anche l'utilità, per il conseguimento delle cose eterne, della fede circa le cose temporali che per noi ha compiuto l'Eterno ed ha patito nella sua umanità, umanità che ha creato nel tempo e che ha promosso all'eternità; ed ho spiegato che le virtù stesse che ci fanno vivere con prudenza, fortezza, temperanza e giustizia, durante questa vita temporale e mortale, non sono vere virtù se non sono rapportate a questa medesima fede, che, sebbene temporale, conduce alle cose eterne.

2.4 - La trinità della fede non è immagine di Dio

Perciò, poiché è scritto: Mentre siamo nel corpo peregriniamo lontani dal Signore, perché camminiamo per fede, non per visione, ( 2 Cor 5,6-7 ) fino a quando il giusto vive di fede, ( Rm 1,17; Ab 2,4; Gal 3,11; Eb 10,38 ) sebbene viva secondo l'uomo interiore ( Rm 7,22 ) e per mezzo di questa medesima fede temporale si sforzi di attingere alla verità e tendere alla Verità eterna, tuttavia nel possesso, nella contemplazione, nell'amore di questa stessa fede temporale non si trova ancora una trinità che si debba chiamare immagine di Dio; non bisogna ritenere che sia posta nelle cose temporali un'immagine che deve essere posta nelle cose eterne.

Infatti lo spirito umano, quando vede la sua fede, con la quale crede ciò che non vede, non vede qualcosa di eterno.

Non è infatti eterno ciò che cesserà di esistere quando, al termine di questa peregrinazione in cui viaggiamo lontani dal Signore - per cui è necessario che camminiamo nella fede -, succederà la visione, con cui contempleremo a faccia a faccia; ( 1 Cor 13,12 ) ed è così che, sebbene ora non vediamo, tuttavia, poiché crediamo, meriteremo di vedere e godremo di essere stati condotti per mezzo della fede alla visione. ( 2 Cor 5,6-7 )

Infatti non ci sarà più allora la fede con la quale crediamo ciò che non vediamo, ma la visione con cui si vede ciò che si credeva.

Allora dunque, anche se ci ricorderemo di questa vita mortale che sarà passata e ci ricorderemo di un tempo in cui credevamo ciò che non vedevamo, tuttavia questa fede sarà annoverata tra le cose passate e finite, non tra le cose presenti e che restano sempre.

Per questo anche questa trinità che ora consiste nella memoria, nella visione e nell'amore della fede, che è presente e perdura, ci accorgeremo allora che è finita e passata, che non dura sempre.

Se dunque questa trinità è già immagine di Dio, si deve concludere che anche questa immagine si trova non nelle cose eterne, ma nelle cose che passano.

3 - Soluzione di una difficoltà

Ma si tratta di un'ipotesi inammissibile, perché se l'anima, per natura, è immortale né cessa di esistere dal momento in cui è stata creata, è impossibile che ciò che vi è di migliore in essa non duri quanto essa, che è immortale.

Ora che c'è di migliore in essa del fatto di essere stata creata ad immagine del suo Creatore?10

Non è dunque nel possesso, nella contemplazione, nell'amore della fede, che non esisterà sempre, ma in ciò che esisterà sempre che dobbiamo trovare ciò che si deve chiamare immagine di Dio.

3.5 Dobbiamo scrutare ancora più diligentemente e profondamente se in realtà è così?

Si può infatti obiettare che non perisce questa trinità, anche quando la fede sarà scomparsa, perché, come ora la conserviamo nella memoria, la vediamo con il pensiero, l'amiamo con la volontà, così anche allora, quando la conserveremo nella memoria come una cosa passata, e ce ne ricorderemo e uniremo queste due operazioni con quel terzo termine che è la volontà, rimarrà questa stessa trinità.

Perché se il suo passaggio non ha lasciato in noi nulla che ne sia come un vestigio, è certo che nella nostra memoria non resterà nulla cui ricorrere, quando vorremo ricordare questa fede passata e unire con l'attenzione, che costituisce il terzo, questi due termini, ossia ciò che esisteva nella memoria, quando noi non vi pensavamo, e la rappresentazione che se ne forma il pensiero.

Ma chi afferma questo non distingue la trinità che esiste ora, quando possediamo, vediamo, amiamo la fede presente in noi, da quella che esisterà allorquando non ci sarà più la fede, ma come il suo vestigio, esistente sotto forma di immagine nel segreto della memoria, che contempleremo con l'atto del ricordo e uniremo con la volontà, che costituisce il terzo, questi due termini, cioè quanto esisteva nella memoria di colui che conserva tale vestigio e ciò che si imprime nello sguardo di colui che ricorda tale realtà.

Per comprendere ciò prendiamo un esempio dalle realtà corporee, delle quali abbiamo sufficientemente trattato nel libro XI.11

Ascendendo dalle cose inferiori alle superiori, o entrando dalle cose esteriori a quelle interiori, abbiamo trovato una prima trinità formata dal corpo percepito, dallo sguardo del soggetto, che quando percepisce è informato dal corpo, dall'attenzione della volontà che unisce l'uno all'altro.

Costituiamo una trinità simile a questa, a partire dalla fede presente attualmente in noi; come il corpo è situato in un luogo determinato, così la fede è nella nostra memoria; essa informa il pensiero di colui che se ne ricorda, come il corpo informa lo sguardo di colui che vede; a questi due elementi, affinché si completi la trinità, se ne aggiunge un terzo, la volontà, che connette e congiunge la fede presente nella memoria e una sua immagine impressa nello sguardo del ricordo, allo stesso modo che, nella trinità della visione corporea, l'attenzione della volontà unisce la forma del corpo veduto e l'immagine che se ne produce nello sguardo di chi guarda.

Supponiamo dunque che il corpo che si vedeva sia scomparso, sia svanito, che non ne resti in nessuna parte alcuna traccia a cui possa ricorrere la vista per vederlo: forse perché permane nella memoria l'immagine dell'oggetto scomparso e passato dalla quale è informato lo sguardo di chi pensa, e la volontà, come terzo termine, congiunge l'uno all'altra, si deve dire che questa trinità è la stessa che c'era quando si contemplava la configurazione del corpo posto in un luogo determinato?

Certamente no, è una trinità totalmente diversa, perché, a parte il fatto che la prima era esteriore e la seconda interiore, la prima aveva certamente come punto di partenza la configurazione del corpo presente, questa l'immagine del corpo scomparso.

Così pure nel caso di cui ora ci occupiamo e per il quale abbiamo ritenuto utile ricorrere a quell'esempio: la fede attualmente presente nella nostra anima, come l'oggetto in un luogo, fintantoché è conservata, veduta, amata, costituisce una certa trinità; ma tale trinità cesserà quando questa fede non sarà più nell'anima, come cessa quando l'oggetto non è più nel luogo in cui si trovava.

La trinità che si avrà, quando ci ricorderemo che la fede fu in noi ma non c'è più, sarà certamente diversa.

Quella che esiste ora infatti procede da una realtà presente e fissata nell'anima del credente; quella che esisterà allora, procederà dall'immagine di una realtà passata, lasciata nella memoria di colui che ne evoca il ricordo.

4.6 - L'immagine di Dio va trovata nell'anima immortale dell'uomo, in cui è immortalmente impressa

Non dunque quella trinità, che ora non esiste, sarà immagine di Dio; nemmeno questa, che un giorno non esisterà più, ma è nell'anima umana, razionale ed intelligente, che bisogna trovare l'immagine del Creatore, immortalmente incisa nella sua immortalità.

Infatti, come è in un certo senso che si parla di immortalità dell'anima, perché anche l'anima può morire, quando è priva della vita beata, che si deve chiamare veramente vita dell'anima, ma si dice immortale perché, qualunque sia la sua vita, fosse pure la più miserabile, non cessa mai di vivere, così benché la ragione o l'intelligenza sia talvolta in essa assopita, talvolta appaia grande, talvolta piccola, tuttavia giammai l'anima umana cessa di essere razionale e intelligente.

Perciò se essa è stata fatta ad immagine di Dio,12 nel senso che può far uso della ragione e dell'intelligenza per comprendere e vedere Dio, è evidente che, dal momento in cui ha incominciato ad esistere una così grande e meravigliosa natura, sia che questa immagine sia talmente logorata da non esistere quasi più, sia che sia ottenebrata e sfigurata, sia che sia chiara e bella, non cessa di essere.

Finalmente è compassionando la deformazione della sua dignità che la Scrittura dice: Benché l'uomo cammini nell'immagine, tuttavia si agita invano; egli accumula senza sapere per chi raccoglie. ( Sal 39,7 )

La Scrittura non attribuirebbe così la vanità all'immagine di Dio, se non vedesse che ha perduto la sua forma.

Questa deformazione tuttavia non giunge al punto da far scomparire l'immagine, come lo mostra sufficientemente la Scrittura dicendo: Benché l'uomo cammini nell'immagine. ( Sal 39,7 )

Per questo si può, senza falsarne il senso, enunciare questa frase invertendo le proposizioni; invece di dire: Sebbene l'uomo cammini nell'immagine, tuttavia si agita invano, si può dire: "Benché l'uomo si inquieti invano, tuttavia cammina nell'immagine".

Infatti, sebbene la sua natura sia grande, tuttavia ha potuto essere viziata, perché non è la natura suprema e, benché abbia potuto essere viziata, in quanto non è la natura suprema, tuttavia in quanto è capace e può essere partecipe della natura suprema, è una natura grande.

Cerchiamo dunque in questa immagine di Dio una specie di trinità nel suo genere con l'aiuto di Colui che ci ha fatti a sua immagine. ( Sir 17,1; Gen 1,27 )

Perché non possiamo in un modo diverso proseguire questa ricerca in maniera salutare, né scoprire qualche verità in conformità alla sapienza che deriva da lui.

Ma se il lettore conserva nella sua memoria e ricorda ciò che abbiamo detto dell'anima umana e dello spirito nei libri precedenti, soprattutto nel libro X, o se rileggerà con diligenza i passi in cui queste riflessioni sono state espresse, non desidererà qui un discorso troppo prolisso su un argomento tanto importante.

4.7 Abbiamo dunque detto, tra le altre cose, nel libro X, che lo spirito dell'uomo conosce se stesso.13

Infatti non c'è nulla che lo spirito conosca altrettanto bene come ciò che gli è presente e nulla è più presente allo spirito che lo spirito a se stesso.

Abbiamo portato altri argomenti, per quanto ci sembrava necessario, per stabilire questa verità con la più grande certezza.

5 - Lo spirito del fanciullo ha coscienza di sé?

Che si deve dunque dire dello spirito del bambino, ancora così piccolo e ancora immerso in una così grande ignoranza delle cose, che lo spirito dell'uomo, che possiede qualche conoscenza, freme di fronte alle tenebre di questo spirito?

Bisogna credere che anch'esso conosce se stesso ma che, troppo attento agli oggetti delle sensazioni corporee che incomincia a sentire con un piacere tanto più grande, quanto è più nuovo, se non può ignorare se stesso, non può tuttavia pensare se stesso?

Con quanta avidità esso si porti verso gli oggetti sensibili che sono all'esterno, si può congetturare anche da questo solo fatto: esso desidera così vivamente di captare la luce che, se qualcuno per poca cautela, o ignorando ciò che a causa di questo possa accadere, ponga di notte una luce sulla culla ove giace un bambino, in un posto verso cui il bambino, dalla sua culla, possa volgere gli occhi senza poter piegare il collo, il bambino non ne staccherà lo sguardo, e ne abbiamo conosciuti alcuni che in questo modo sono diventati strabici, conservando i loro occhi quella conformazione che l'abitudine ha in qualche modo fissato in essi, quand'erano teneri e delicati.

La stessa cosa vale per gli altri sensi corporei; le anime dei piccoli, per quanto lo permette quell'età, concentrano per così dire la loro attenzione sui sensi in tal maniera che solo ciò che li incomoda o diletta nella loro carne provoca una violenta repulsione e un violento desiderio; ma non pensano alle realtà interiori che sono in essi e non si può consigliarli che lo facciano, perché non conoscono ancora i segni di chi li consiglia, fra i quali le parole occupano il primo posto; ma i piccoli le ignorano totalmente come tutti gli altri segni.

Ora che sia una cosa non conoscersi e un'altra non pensarsi, l'abbiamo mostrato nello stesso libro.14

5.8 Ma lasciamo da parte questa età che non si può interrogare su ciò che in essa accade e che noi stessi abbiamo totalmente dimenticato.

Ci basterà sapere con certezza che, quando l'uomo potrà riflettere sulla natura della sua anima e trovare la verità, non la troverà altrove, ma in se stesso.

Ora troverà non ciò che ignorava, ma ciò a cui non pensava.

Che sappiamo infatti se non sappiamo ciò che è nel nostro spirito, dato che, tutto ciò che sappiamo, non lo possiamo sapere che con lo spirito?

6 - La trinità della coscienza di sé

Tuttavia così grande è la forza del pensiero, che lo spirito stesso, in qualche modo, non si pone sotto il proprio sguardo che quando pensa se stesso.

Così, dunque, nulla cade sotto lo sguardo dello spirito se non ciò a cui esso pensa, cosicché lo spirito stesso, con cui si pensa tutto ciò che è pensato, non può cadere sotto il suo sguardo se non pensando se stesso.

Come possa accadere che, quando non pensa se stesso, lo spirito non cada sotto il suo sguardo - dato che non può mai essere separato da se stesso, come se esso e lo sguardo che ha di sé fossero cose differenti - è cosa che non posso comprendere.

Si può affermare questo, senza cadere nell'assurdo, dell'occhio del corpo, perché l'occhio occupa un posto fisso nel corpo, ma il suo sguardo tende verso le cose che sono al di fuori e si estende fino agli astri.

Ma l'occhio non cade sotto il suo sguardo, perché non vede se stesso, se non in uno specchio, come ho già detto.15

Ma non è affatto il caso dello spirito, quando si pone sotto il suo sguardo con il pensiero.

Dunque vede esso una parte di sé con un'altra parte di sé, quando si vede pensandosi, allo stesso modo che con quegli organi corporei che sono i nostri occhi guardiamo altre nostre membra, che possono cadere sotto il nostro sguardo?

Che si può pensare od affermare di più assurdo?

Da che cosa si ritrae lo spirito, se non da se stesso?

Dove è posto sotto il suo sguardo, se non di fronte a sé?

Esso non sarà più dunque dove era, quando non stava in presenza di se stesso, perché, se è stato posto qui, è stato tolto di là.

Ma se per essere visto si è spostato, dove resterà per vedersi?

O può forse godere di una bilocazione così da essere qui e là; qui per vedere, là per essere visto; in sé, soggetto contemplante, davanti a sé, oggetto contemplato?

La verità, se la si interroga, non ci risponde nulla di simile, perché quando pensiamo in questo modo, pensiamo soltanto false immagini materiali, e che lo spirito non è nulla di questo è cosa assolutamente certa per pochi spiriti, presso i quali si può cercare la verità su questo argomento.

Perciò non resta che affermare che è un qualcosa che appartiene alla natura dello spirito il vedere se stesso e, quando pensa se stesso, il ritornare su di sé, non mediante un movimento spaziale, ma con una conversione immateriale.16

Ma quando non pensa se stesso, certamente non vede se stesso e non informa di sé il suo sguardo, ma ciononostante si conosce come se fosse a se stesso la memoria di sé.

È come ciò che accade ad un uomo che possiede molte conoscenze: le cose che conosce le ha nella sua memoria, ma soltanto quelle che sono oggetto del suo pensiero attuale sono sotto lo sguardo dello spirito, le altre sono nascoste in una specie di sapere misterioso, che si chiama memoria.

Di qui la trinità che presentavamo nel modo seguente: ciò che, presente nella memoria, informa lo sguardo di chi pensa; la forma che lo riproduce, come l'immagine impressa a partire dalla memoria; ciò che unisce invece l'uno all'altra: l'amore o la volontà.

Quando perciò lo spirito si vede con il pensiero, si comprende e si riconosce; esso genera dunque questa intelligenza e questa conoscenza di sé.

Una realtà immateriale infatti è vista se è compresa, e viene conosciuta comprendendola.

Ma lo spirito, quando, pensandosi, si vede per mezzo dell'intelligenza, non genera certo in tal modo la conoscenza implicita di sé, come se prima fosse sconosciuto a se stesso; mentre era noto a se stesso, alla stessa maniera che sono note le cose che sono contenute nella memoria, sebbene non siano pensate; diciamo infatti che un uomo conosce le lettere anche quando non pensa alle lettere, ma ad altre cose.

Queste due conoscenze, quella che genera e quella che è generata, sono unite da un terzo termine, la dilezione, che non è altro che la volontà la quale appetisce e possiede qualcosa per fruirne.

È dunque ancora per mezzo di queste tre parole, riteniamo, che si deve dare un'idea della trinità dello spirito: memoria, intelligenza, volontà.17

6.9 - Diversità tra il conoscersi ed il pensare sé: lo spirito si ricorda sempre di sé, sempre si conosce e si ama

Ma poiché abbiamo detto verso la fine del libro X che lo spirito si ricorda sempre di sé, che esso sempre si comprende e si ama, sebbene non si pensi sempre come distinto dalle cose che non sono ciò che esso è,18 bisogna indagare in che senso l'intelligenza appartenga al pensiero e d'altra parte in che senso si dica che la conoscenza ( notitia ) di tutto ciò che è nello spirito, anche quando esso non vi pensa, appartenga alla memoria.

Se infatti è così, lo spirito non possedeva queste tre cose: la memoria, l'intelligenza, e l'amore di sé; aveva soltanto la memoria di sé, ed è in un secondo momento, quando incomincia a pensarsi, che ha intelligenza e amore di sé.

7. Consideriamo dunque con maggiore attenzione l'esempio addotto, con l'aiuto del quale abbiamo mostrato che una cosa è il non conoscere una realtà, altra cosa il non pensarla; e che può accadere che un uomo conosca qualcosa a cui non pensa, quando il suo pensiero è fisso su un altro argomento, non su quello.

Perciò un uomo, versato in due o più scienze, quando pensa ad una, conosce tuttavia l'altra, o le altre, anche se non vi pensa.

Ma possiamo forse essere nel giusto, se affermiamo: "Questo musicista conosce certamente la musica, ma ora non la comprende, perché non pensa ad essa; comprende invece ora la geometria, perché vi pensa"?

Questa frase è assurda, per quel che mi pare.

Che dire ora di questa frase: "Questo musicista conosce certamente la musica, ma ora non la ama, fin quando non vi pensa; ama ora invece la geometria, perché pensa ad essa"?

Tale frase non è forse ugualmente assurda? Invece è perfettamente giusto affermare: "Quest'uomo che vedi discutere di geometria, è anche un perfetto musicista; infatti, e ricorda quella scienza e la comprende e l'ama; ma, sebbene la conosca e l'ami, ora non vi pensa, perché pensa alla geometria della quale discute".

Questo esempio ci rivela che abbiamo, nel segreto dello spirito, delle conoscenze di alcune cose, che in qualche modo vengono in piena luce e si situano con maggior chiarezza sotto lo sguardo dello spirito, quando vi pensiamo; è allora infatti che lo spirito si accorge che ricordava, comprendeva e amava anche ciò cui non pensava, quando pensava ad altro.

Ma quanto alle cose a cui non abbiamo pensato per lungo tempo e alle quali non siamo capaci di pensare senza esservi incitati, non so per qual mistero dello stesso genere accade che, se posso dirlo, non sappiamo che le sappiamo.

Finalmente quando un uomo invita un altro a ricordarsi di qualche cosa ha ragione di dirgli: "Tu sai questo, ma non sai di saperlo; te lo ricorderò e scoprirai che sapevi ciò che credevi di non sapere".19

La stessa funzione la possono svolgere i libri, quando trattano di cose di cui il lettore, sotto la guida della ragione, scopre la verità; non quelle che egli ritiene vere basandosi sulla testimonianza dello scrittore, come accade per la storia, ma quelle che scopre vere lui stesso, sia guardando in se stesso, sia guardando in quella verità che è la guida dello spirito.

Colui che, anche quando si attira su di esse la sua attenzione, è incapace di comprendere queste cose, per un grande accecamento del cuore è immerso più profondamente nelle tenebre dell'ignoranza ed ha bisogno di un aiuto divino più straordinario per giungere alla vera sapienza.

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1 Sopra 12,14,22
2 Agostino, Solil. 2,11,20
3 Cicerone, Hort., fragm. 100;
Agostino, C. Acad. 3, 14, 31: NBA, III/1
4 Cicerone, Tuscul. 5, 3, 8;
Diogene Laerzio, Vir. ill. 1, 12
5 Cicerone, De fin. bon. mal. 2, 12, 37;
De off. 1, 43, 153; 2, 2, 5;
Tuscul. 4, 26, 57; 5, 3, 7;
De orat. 1, 49, 212;
Crisippo, Fragm. 35;
Seneca, Ep. 84, 9;
Agostino, C. Acad. 1, 6, 16; 1, 8, 23: NBA, III/1;
Girolamo, Ephes. 1, 1, 9
6 Sopra 12,14,22
7 Clemente Alessandrino, Strom. 6, 18, 162
8 Sopra 13,1,1-19,24
9 Sopra 13,7,10-20,25
10 Gen 1,27;
Origene, In Gen. hom. 1, 3; 13, 4;
Ambrogio, Hexaem. 6, 7, 40 - 8, 45
11 Sopra 11,2,4
12 Gen 1,27;
Gen 5,1;
Gen 9,6;
Origene, In Gen. hom. 1, 3; 13, 4;
Ambrogio, Hexaem. 6, 7, 40 - 8, 45
13 Sopra 10,7,10
14 Sopra 10,5,7
15 Sopra 9,3,3;
Sopra 10,3,5
16 Porfirio, Sent. 40, 5-6
17 Cicerone, De invent. 2, 53, 160;
Agostino, De div. qq. 83 31, 1: NBA, VI/2;
Ep. 169, 2, 6
18 Sopra 10,12,19
19 Girolamo, In Hiez. 13, 42;
Epp. 53, 9, 2; 57, 12, 4;
Cicerone, Acad. 2, 23, 74