Summa Teologica - II-II |
De Malo, q. 11, a. 1
Pare che l'accidia non sia un peccato.
1. Come dice Aristotele [ Ethic. 2,5 ], « le passioni non ci rendono degni né di lode né di biasimo ».
Ma l'accidia è una passione: infatti nel relativo trattato [ I-II, q. 35, a. 8 ] abbiamo visto che essa è una specie della tristezza, come insegna il Damasceno [ De fide orth. 2,14 ].
Quindi l'accidia non è un peccato.
2. Nessun difetto corporale che capita in determinate ore ha natura di peccato.
Ma tale è appunto l'accidia.
Cassiano infatti [ De instit. monast. 10,1 ] così scrive: « Specialmente verso mezzogiorno essa disturba il monaco, come una febbre che colpisce periodicamente, procurando all'anima malata ardentissimi bruciori in certe ore stabilite ».
Quindi l'accidia non è un peccato.
3. Ciò che deriva da una buona radice non può essere un peccato.
Ma l'accidia deriva da una buona radice: infatti Cassiano [ ib., c. 2 ] afferma che l'accidia nasce dal fatto che uno « geme perché non ricava alcun frutto spirituale », e « magnifica gli altri monasteri lontani », il che pare dovuto all'umiltà.
Quindi l'accidia non è un peccato.
4. Un peccato va sempre fuggito, poiché sta scritto [ Sir 21,2 ]: « Come alla vista del serpente fuggi il peccato ».
Ora, Cassiano [ ib., ult. ] afferma: « È provato dall'esperienza che gli assalti dell'accidia non vanno vinti con la fuga, ma superati con la resistenza ».
Perciò l'accidia non è un peccato.
Ciò che viene proibito dalla Sacra Scrittura è peccato.
Ma tale è il caso dell'accidia, poiché sta scritto [ Sir 6,25 ]: « Piega la tua spalla e portala », la sapienza spirituale, « non disdegnare con accidia i suoi legami ».
Quindi l'accidia è un peccato.
L'accidia, secondo il Damasceno [ l. cit. ], è « una tristezza spossante », che cioè deprime lo spirito di un uomo fino al punto di togliergli la volontà di agire: poiché le cose inacidite sono anche fredde.
Quindi l'accidia implica il disgusto dell'operare, come insegna la Glossa [ ord. ] a commento di quelle parole del Salmo [ Sal 107,18 ]: « Rifiutavano ogni nutrimento »; e alcuni [ Rabano, De eccl. disc. 3 ] definiscono l'accidia « il torpore dell'anima che trascura di intraprendere il bene ».
Ora, tale tristezza è sempre cattiva: talora in se stessa e altre volte nei suoi effetti.
È cattiva infatti in se stessa la tristezza che ha per oggetto un male apparente che è un bene vero; come viceversa è cattivo quel piacere che ha per oggetto un bene apparente che è un male vero.
Essendo quindi il bene spirituale un bene vero, la tristezza del bene spirituale è per se stessa cattiva.
Ma anche la tristezza che ha per oggetto il male vero può essere cattiva nei suoi effetti, se abbatte l'uomo in maniera tale da distoglierlo totalmente dal ben operare: infatti l'Apostolo [ 2 Cor 2,7 ] non voleva che [ l'incestuoso di Corinto ormai ] pentito « soccombesse per un dolore troppo forte » del suo peccato.
Poiché dunque l'accidia di cui stiamo parlando sta a indicare la tristezza del bene spirituale, essa è cattiva sotto due aspetti: in se stessa e nei suoi effetti.
Quindi l'accidia è un peccato: infatti la malizia riscontrata nei moti appetitivi la diciamo peccato, come si è visto in precedenza [ q. 10, a. 2; I-II, q. 71, a. 6; q. 74, a. 3 ].
1. Le passioni non sono peccaminose in se stesse, ma sono riprovevoli quando hanno per oggetto il male, mentre sono lodevoli quando si riferiscono al bene.
Perciò la tristezza di per sé non è né lodevole né biasimevole, ma la tristezza moderata del vero male indica qualcosa di lodevole, mentre la tristezza del bene, come pure la tristezza esagerata del male, indica qualcosa di biasimevole.
E sotto tale aspetto l'accidia è considerata un peccato.
2. Le passioni dell'appetito sensitivo possono essere di per sé peccati veniali, e inoltre inclinano l'anima al peccato mortale.
E poiché l'appetito sensitivo ha un organo corporeo, ne segue che l'uomo diviene più pronto a certi peccati in forza di una trasmutazione fisiologica.
Può quindi capitare che a motivo di qualche trasmutazione fisiologica che avviene in determinati momenti certi peccati ci tentino maggiormente.
Ma ogni deficienza corporale di per sé predispone alla tristezza.
E così quelli che digiunano sono maggiormente tentati dall'accidia verso mezzogiorno, quando cominciano a sentire la mancanza del cibo e a soffrire il caldo del sole.
3. Si deve all'umiltà il fatto che un uomo, considerando i propri difetti, non si esalti.
Non si deve però all'umiltà, bensì all'ingratitudine, il disprezzo dei doni ricevuti da Dio.
E l'accidia deriva da un tale disprezzo: infatti noi ci rattristiamo di quelle cose che consideriamo vili o cattive.
È quindi necessario che uno esalti i beni altrui senza disprezzare i beni che Dio gli ha dato: altrimenti quelli diventerebbero per lui occasione di tristezza.
4. Il peccato va sempre fuggito, ma il suo assalto in certi casi va vinto con la fuga, in altri con la resistenza.
Con la fuga quando il pensarci accresce l'incentivo al peccato, come avviene nella lussuria: per cui S. Paolo ammonisce [ 1 Cor 6,18 ]: « Fuggite la fornicazione ».
Con la resistenza invece quando il pensarci toglie l'incentivo alla colpa derivante da qualche apprensione superficiale.
E questo è il caso dell'accidia: poiché quanto più pensiamo ai beni spirituali, tanto più essi ci diventano piacevoli; per cui cessa l'accidia.
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