Summa Teologica - II-II |
C. G., III, c. 120; Expos. in Decal., c. De Primo Praecepto; In Rom., c. 1, lect. 7
Pare che l'idolatria non sia un peccato.
1. Nulla di ciò che la vera fede usa nel culto di Dio può essere un peccato.
Ma la vera fede nel culto divino fa uso di alcune immagini: infatti nell'antico tabernacolo c'era l'immagine dei Cherubini, come si legge nell'Esodo [ Es 25,18ss ], e nelle chiese sono esposte delle immagini che i fedeli adorano.
Perciò l'idolatria, che consiste nell'adorare degli idoli, non è un peccato.
2. Si deve prestare l'onore a tutti i superiori.
Ma gli angeli e le anime dei santi sono superiori a noi.
Se quindi si presta loro onore con il culto, o con il sacrificio, o con altre cose del genere, non vi sarà peccato.
3. Il Dio supremo va onorato con l'interiore culto dell'anima, secondo le parole evangeliche [ Gv 4,24 ]: « Dio va adorato in spirito e verità ».
E S. Agostino [ Enchir. 3.9 ] precisa che « Dio è onorato con la fede, la speranza e la carità ».
Ora, può darsi che uno esteriormente adori gli idoli senza però scostarsi interiormente dalla fede.
Pare quindi che uno possa adorare esteriormente gli idoli senza pregiudizio per il culto verso Dio.
A proposito delle sculture e delle immagini, nell'Esodo [ Es 20,5 ] si legge: « Non le adorerai », cioè esternamente, « e non presterai loro un culto », cioè internamente, come aggiunge la Glossa [ ord. ].
Quindi è peccato prestare agli idoli un culto esterno o interno.
Ci furono in proposito due errori.
Alcuni infatti [ i Platonici ] pensarono che offrire sacrifici e altri atti di latria non solo al Dio supremo, ma anche alle creature ricordate sopra [ a. 1 ], fosse una cosa doverosa e intrinsecamente buona, inquantoché ritenevano che si dovessero prestare onori divini a qualsiasi creatura superiore, come più vicina a Dio.
- Ma tale opinione è irragionevole.
Sebbene infatti si debbano onorare tutti i superiori, tuttavia non a tutti è dovuto il medesimo onore, e un onore speciale è dovuto al sommo Dio, il quale in modo singolarissimo eccelle su tutti gli esseri: e questo è il culto di latria.
- E neppure si può dire, come pensavano alcuni [ cf. Agost., De civ. Dei 10,19 ], che « questi sacrifici visibili si addicono alle altre divinità, mentre al vero Dio supremo, per la sua eccellenza, sono dovuti sacrifici più eccellenti, quelli cioè della sola anima »: poiché, come nota S. Agostino [ De civ. Dei 10,19 ], « i sacrifici esterni sono segni delle disposizioni interiori, come le parole articolate sono segni delle cose.
Perciò, come quando preghiamo o innalziamo lodi noi indirizziamo le parole a colui al quale offriamo interiormente le cose stesse che esse significano, così quando offriamo un sacrificio visibile non possiamo pensare di offrirlo se non a colui al quale dobbiamo offrire noi stessi come sacrificio invisibile ».
Altri invece pensavano che agli idoli si dovesse prestare un culto esterno di latria non perché intrinsecamente buono e giustificabile, ma perché consono alle usanze del popolo.
E in proposito S. Agostino [ De civ. Dei 6,10 ] cita le parole di Seneca: « Noi adoreremo in modo da ricordare che questo culto ha più valore di usanza che di sostanza ».
Ma nel De vera religione [ De Vera Rel. 5.8 ] il Santo fa osservare che « la religione non va ricercata presso i filosofi, i quali accettavano gli stessi riti sacri del popolo, mentre nelle loro scuole facevano risuonare sentenze varie e contrastanti sulla natura dei loro dèi e del sommo bene ».
E questo errore fu seguito anche da alcuni eretici, i quali affermavano non essere condannabile uno che, imprigionato in tempo di persecuzione, venerasse esternamente gli idoli, purché conservasse la fede nell'anima.
- Ma tutto ciò è manifestamente falso.
Essendo infatti il culto esterno il segno del culto interno, come è una menzogna riprovevole affermare il contrario di quanto si crede interiormente mediante la vera fede, così è una riprovevole falsità prestare un culto esterno a un qualche essere contro ciò che si pensa interiormente.
Scrive perciò S. Agostino [ De civ. Dei 6,10 ], a condanna di Seneca, che « egli agiva in un modo tanto più riprovevole », prestando culto agli idoli, « in quanto ne accettava le pratiche bugiarde in modo da far pensare che lo facesse per convinzione come il popolo ».
1. Nel tabernacolo, o nel tempio dell'antica legge, come anche oggi nelle chiese, le immagini sono state ammesse non perché si presti ad esse un culto di latria, ma solo per esprimere qualcosa, cioè per imprimere e confermare con esse nella mente degli uomini la fede nell'eccellenza degli angeli e dei santi.
- Diverso è però il caso delle immagini di Cristo, alle quali, per rispetto alla divinità, è dovuto un culto di latria, come vedremo nella Terza Parte [ q. 25, a. 3 ].
2, 3. La seconda e la terza obiezioni sono state già risolte con quanto abbiamo detto [ nel corpo ].
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