Summa Teologica - II-II

Indice

Articolo 10 - Se l'uomo forte nel suo agire possa servirsi dell'ira

Infra, a. 11, ad 1; De Verit., q. 26, a. 7; In 3 Ethic., lect. 17

Pare che l'uomo forte nel suo agire non possa servirsi dell'ira.

Infatti:

1. Nessuno deve prendere come strumento del proprio agire una cosa di cui non può fare uso a suo piacimento.

Ora, l'uomo non può servirsi dell'ira a suo piacimento, in modo da assumerla e deporla a volontà: poiché, come dice il Filosofo [ De mem. 2 ], quando una passione corporale è scatenata non si acquieta subito come uno vuole.

Quindi il forte non deve servirsi dell'ira nel proprio atto.

2. Chi può compiere un'azione da solo non deve cercare l'aiuto di cose più deboli e più imperfette.

Ora, la ragione basta da sola a compiere gli atti della fortezza, mentre l'ira ne è incapace.

Scrive infatti Seneca [ De ira 1,16 ]: « La ragione basta non soltanto a prevedere, ma anche a compiere le cose da fare.

E che c'è di più stolto che chiedere soccorso alla collera?

Non è come se la stabilità chiedesse aiuto all'incertezza, la fedeltà all'infedeltà, la sanità alla malattia? ».

Quindi la fortezza non deve servirsi dell'ira.

3. Se è vero che alcuni a motivo dell'ira compiono con più veemenza degli atti di fortezza, è anche vero che altri lo fanno per il dolore, o per la concupiscenza.

Infatti il Filosofo [ Ethic. 3,8 ] fa osservare che « le belve sono spinte ad affrontare i pericoli dalla tristezza o dal dolore, e gli adulteri compiono molte imprese temerarie a motivo della concupiscenza ».

Ma la fortezza non si serve nel proprio atto né del dolore, né della concupiscenza.

Quindi per lo stesso motivo non deve servirsi dell'ira.

In contrario:

Il Filosofo [ ib. ] insegna che « il furore aiuta i forti ».

Dimostrazione:

Come si è già notato [ I-II, q. 24, a. 2 ], a proposito dell'ira e delle altre passioni i Peripatetici e gli Stoici espressero opinioni diverse.

Infatti gli Stoici escludevano l'ira e tutte le altre passioni dall'animo del sapiente, ossia del virtuoso.

Invece i Peripatetici, guidati da Aristotele, attribuivano alle persone virtuose l'ira e le altre passioni, però moderate dalla ragione.

E forse può darsi che in sostanza non ci fosse divergenza, ma solo un diverso modo di esprimersi.

Infatti i Peripatetici chiamavano passioni, come si è visto [ I-II, q. 24, a. 2 ], tutti i moti dell'appetito sensitivo, buoni o cattivi; e poiché l'appetito sensitivo si muove sotto il comando della ragione per cooperare ad agire con maggiore prontezza, essi ritenevano che le persone virtuose dovessero servirsi delle passioni, moderate dal comando della ragione.

Invece gli Stoici chiamavano passioni certi affetti disordinati dell'appetito sensitivo ( che denominavano malattie o morbi ), e quindi le escludevano del tutto dalla virtù [ I-II, q. 24, a. 2 ].

Così dunque il forte nel suo agire si serve dell'ira, però di quella moderata, non già di quella sregolata.

Analisi delle obiezioni:

1. L'ira moderata è soggetta al comando della ragione, per cui uno può servirsene come vuole; non è così invece per l'ira sregolata.

2. La ragione non si serve dell'ira nel suo atto per averne un aiuto, ma perché si serve dell'appetito sensitivo come di uno strumento, come si serve anche delle membra del corpo.

E non c'è nulla di strano se lo strumento è più imperfetto dell'agente principale: ad es. se il martello è più imperfetto del fabbro.

Seneca poi era uno Stoico, e pronunzia le parole riferite espressamente contro Aristotele.

3. Avendo la fortezza, come si è visto [ aa. 3,6 ], due atti, cioè il resistere e l'aggredire, essa non si serve dell'ira nel resistere, poiché tale atto è compiuto direttamente dalla ragione, ma nell'aggredire.

E in tale atto la ragione si serve più dell'ira che delle altre passioni inquantoché è proprio dell'ira scagliarsi contro ciò che rattrista, per cui nell'aggredire essa coopera direttamente con la fortezza.

Invece la passione della tristezza o dolore di per sé soccombe sotto il male, e solo indirettamente aiuta ad aggredire: o in quanto il dolore, come si è detto sopra [ I-II, q. 47, a. 3 ], è causa dell'ira, oppure perché uno si espone al pericolo per liberarsi dal dolore.

Parimenti anche la concupiscenza, di per sé, tende al bene dilettevole [ cioè al piacere ], a cui per natura sua ripugna l'affrontare i pericoli; tuttavia in certi casi essa coopera indirettamente ad affrontarli nel senso che uno preferisce esporsi al pericolo piuttosto che rinunziare al piacere.

Per cui il Filosofo [ Ethic. 3,8 ] afferma che fra tutti gli atti di fortezza derivanti dalle passioni « il più naturale è quello che nasce dall'ira; e se la fortezza che ne deriva è deliberata e ordinata al debito fine, essa diventa una vera virtù ».

Indice