Summa Teologica - II-II |
In 4 Sent., d. 15, q. 3, a. 1, sol. 4
Pare che il digiuno non sia di precetto.
1. I precetti non possono riguardare le opere supererogatorie che sono di consiglio.
Ora, il digiuno è un'opera supererogatoria: altrimenti dovrebbe essere osservato sempre e dovunque allo stesso modo.
Quindi il digiuno non è di precetto.
2. Chi trasgredisce un precetto pecca mortalmente.
Se quindi il digiuno fosse di precetto, tutti quelli che non digiunano peccherebbero mortalmente.
Il che sarebbe di grande pregiudizio per gli uomini.
3. S. Agostino [ De vera relig. 17 ] scrive che « la sapienza stessa di Dio umanata, dalla quale siamo stati chiamati alla libertà, istituì pochi efficacissimi sacramenti per tenere unita la libera società del popolo cristiano sotto un unico Dio ».
Ma la libertà del popolo cristiano non è compromessa meno dalla molteplicità delle osservanze che dal numero eccessivo dei sacramenti: infatti il medesimo Santo [ Epist. 55,19 ] si lamenta del fatto che « alcuni aggravano di pesi servili la nostra stessa religione, che la misericordia di Dio ha reso libera non imponendole se non pochissimi ed evidentissimi sacramenti ».
Pare quindi che la Chiesa non dovesse imporre il digiuno sotto precetto.
S. Girolamo [ Epist. 71 ] così scrive a proposito del digiuno: « Ogni provincia segua il proprio criterio, e consideri leggi apostoliche i precetti dei suoi maggiori ».
Quindi il digiuno è di precetto.
Come le autorità civili hanno il compito di stabilire in ordine al bene comune dei precetti legali che determinino la legge naturale in rapporto alle cose temporali, così i prelati ecclesiastici hanno il compito di comandare con delle leggi ciò che riguarda il bene comune dei fedeli nel campo spirituale.
Ora, sopra [ a. 1 ] abbiamo detto che il digiuno serve a cancellare e a reprimere il peccato, e a elevare l'anima alle realtà spirituali.
Quindi in base alla ragione naturale ciascuno è tenuto a usare del digiuno quanto per lui è necessario in vista del raggiungimento di tali scopi.
E così il digiuno in forma generica viene a essere un precetto della legge naturale.
Invece la determinazione del tempo e del modo di digiunare secondo l'utilità e la convenienza del popolo cristiano ricade sotto un precetto della legge positiva, stabilita dai prelati della Chiesa.
E questo è il digiuno ecclesiastico, mentre l'altro è quello naturale.
1. Considerato in se stesso, il digiuno non è qualcosa di appetibile, ma di afflittivo: è reso però appetibile in quanto serve a raggiungere un fine.
Considerato quindi in se stesso non è necessario come qualcosa di precetto, ma lo diventa per tutti coloro che hanno bisogno di tale rimedio.
E poiché la moltitudine degli uomini per lo più ne ha bisogno, sia perché secondo S. Giacomo « tutti quanti manchiamo in molte cose », sia anche perché, come dice S. Paolo [ Gal 5,17 ], « la carne ha desideri contrari allo spirito », era conveniente che la Chiesa stabilisse dei digiuni da osservarsi comunemente da parte di tutti, non per rendere di precetto delle cose soltanto supererogatorie, ma per determinare in particolare una cosa che è necessaria in generale.
2. I precetti che sono imposti come leggi universali non obbligano tutti alla stessa maniera, ma come richiede lo scopo a cui mira il legislatore.
Se dunque uno trasgredendoli disprezza l'autorità, o impedisce il fine da essa perseguito, pecca mortalmente.
Se invece uno non osserva la norma stabilita per una causa ragionevole, specialmente nei casi in cui lo stesso legislatore se fosse presente approverebbe la cosa, tale trasgressione non costituisce un peccato mortale.
Non è detto quindi che tutti quanti non osservano i digiuni della Chiesa pecchino mortalmente.
3. S. Agostino nel testo citato parla delle osservanze che « non sono avvalorate né dell'autorità della Scrittura, né dai concili dei Vescovi, né dalla consuetudine della Chiesa universale ».
Ma i digiuni di precetto sono stati prescritti dai concili e dall'uso della Chiesa universale.
E neppure sono in contrasto con la libertà dei fedeli, ma servono piuttosto a impedire la schiavitù del peccato, che è incompatibile con la libertà spirituale, di cui così parla S. Paolo [ Gal 5,13 ]: « Voi, fratelli, siete stati chiamati a libertà.
Purché questa libertà non divenga un pretesto per vivere secondo la carne ».
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