La teologia mistica di San Bernardo |
Le analisi precedenti mettono a nostra disposizione tutti i mezzi necessari per risolvere un certo numero di problemi essenziali.
Anzitutto è importante affrontarli secondo un certo ordine.
Sarei quasi tentato di dire che non ha importanza quale sia questo ordine, ma è necessario che ve ne sia uno per evitare quelle deduzioni circolari nelle quali si impegnano i critici di san Bernardo senza accorgersi che, arrivati al termine, non si sono allontanati dal punto di partenza.
Esaminiamo per prima cosa il problema del « panteismo » o delle « tendenze panteiste » della mistica cistercense e diciamo immediatamente che, in linea di principio, la nozione di mistica cristiana panteista è contraddittoria e, di fatto, quella di san Bernardo è radicalmente opposta a ogni panteismo.1
Per quanto riguarda il primo punto, va da sé che la sua determinazione si basa su un certo numero di definizioni.
Tutte le concezioni del misticismo sono possibili, a partire da quelle così ampie da abbracciare le vaghe emozioni poetiche di William Wordsworth o di Alphonse de Lamartine, sino a quelle che lasciano sussistere solo il rigore di un san Tommaso o di un san Giovanni della Croce.
Motivo in più per prendere posizione; bisogna offrire agli avversari un concetto chiaro da discutere.
Nel caso in questione è importante comprendere prima di tutto che il problema della mistica cristiana cessa di porsi ove ci sia un segno, pur lieve, di panteismo.
Infatti, ammettiamo, per ipotesi, uno di quegli stati poetico - metafisici2 nei quali si produce una sorta di fusione dell'anima e di Dio, come se le due sostanze ne formassero una sola, anche solo da un certo punto di vista.
In qualunque modo se ne spieghi la natura, tali stati suppongono che non vi sia trascendenza reale, irriducibile, dell'essere divino in rapporto a quello umano.
Senza dubbio nessuno contesta che, anche per il poeta o il metafisico che si muovono in questo senso, gli stati che egli considera come mistici siano rari, eccezionali, accessibili soltanto a una élite e a prezzo di una severa disciplina; ma non è questo il problema, perché si tratta soltanto di sapere se si ammette o no che sia possibile una coincidenza, anche parziale, della sostanza umana e della sostanza divina, se si ammette o no che in quel momento, di fatto, si trovi realizzata.
Ammetterlo significa svuotare la nozione di misticismo di tutto ciò che essa contiene per un cristiano.
Poiché il Dio cristiano è l'Essere - ego sum qui sum - e questo essere creatore è radicalmente altro rispetto all'essere delle sue creature; il dramma del misticismo cristiano sta nel fatto che la creatura si trova in un bisogno del proprio creatore molto più profondo di quello in cui si trova, in qualunque altra economia metafisica, qualsiasi altro essere nei confronti del proprio dio, e che, per lo stesso motivo, il creatore è molto meno accessibile alla propria creatura di quanto non lo sia qualunque altra divinità per gli esseri che dipendono meno radicalmente da lui.
Ciò che costantemente si domanda il mistico cristiano è in quale modo egli che non è nulla potrà congiungersi All'Essere.
Se si abbassa, anche solo per un istante e in un punto, la barriera che la contingenza dell'essere erige tra l'uomo e Dio, si priva il mistico cristiano del suo Dio, lo si priva quindi della sua mistica: egli può fare a meno di ogni dio che non sia inaccessibile, l'unico Dio del quale non può fare a meno è quello che per natura è inaccessibile.
D'altra parte non esiste altro Dio.
Ed è ciò che san Bernardo ha chiaramente spiegato per chi vuole intenderlo.
In qualunque modo si interpreti l'unione mistica nella sua dottrina, bisogna considerare prima di ogni altra cosa che essa esclude radicalmente ogni confusione, ogni unificazione sostanziale dev'essere divino in quanto tale con l'essere umano in quanto tale, o viceversa.
In mancanza del senso generale della sua mistica, e anche in mancanza del cristianesimo così totale di cui essa è espressione, avremmo, se ce ne fosse bisogno, le sue dichiarazioni formulate per rassicurarci.
Mai, in nessun caso, la sostanza del mistico diventerà la sostanza di Dio; mai, in nessun caso, neppure nella visione beatifica - la quale altrimenti distruggerebbe ciò che deve portare a compimento e realizzare - una parte della sostanza umana coinciderà con quella di Dio; mai, in nessun caso, quella parte della sostanza dell'anima che è la volontà umana coinciderà con questo attributo sostanziale di Dio: la volontà di Dio.
Manebit quidem substantia,3 il testo è formale.
Ve ne sono altri che mostreremo più avanti, ma, prima di arrivare a quel punto, dobbiamo precisare una seconda tesi che deriva immediatamente dalla precedente.
Senza arrivare fino a scoprire in san Bernardo tendenze panteiste, né a pensare in alcun modo a simili assurdità, alcuni storici gli hanno attribuito una vaga tendenza a concepire l'unione mistica come un annientamento della personalità umana la quale allora si dissolverebbe in Dio.
Ancora una volta l'interpretazione non regge all'esame degli stessi testi che la suggeriscono.
Tutti pensano qui ai famosi paragoni proposti da san Bernardo tra l'anima « deificata » dall'estasi e la goccia di acqua che si diluisce nel vino, o l'aria che si trasfigura in luce, o il ferro incandescente che diventa fuoco.
Prestiamo attenzione alle espressioni che usa, perché il suo stesso ardore non gli fa mai perdere quella misura che è la regola d'oro del vero teologo.
La goccia di acqua? « Deficere a se tota vìdefur », essa sembra, ma sappiamo che, anche se indefinitamente diluita, non cessa di esistere.
Il ferro incandescente? « Igni simillimum fit », esso gli diventa il più simile possibile, ma non è fuoco, e bisogna proprio che non lo sia perché gli possa diventare simile.
L'aria illuminata dal sole? Si impregna a tal punto della sua luce, « ut non tam illuminatus quam ipsum lumen esse videatur ».
Anche qui non è che un'apparenza, la trasfigurazione di una sostanza indistruttibile da parte della forma glorificante di cui essa è ormai rivestita.4
San Bernardo non ha quindi mai parlato di un annullamento della creatura, ma di una trasformazione.
È vero che questa trasformazione può apparire, a prima vista, come l'equivalente di un annullamento: pene adnullari, ma in realtà non è che un'apparenza.
Dovremo cercare ciò che contiene di illusorio e in quale senso corrisponde a una realtà.
Per il momento è importante soprattutto comprendere che essa non solo non può significare una distruzione dell'anima nell'unione estatica, ma neppure una diminuzione della propria individualità.
È esattamente il contrario.
L'estasi, posta sul cammino della visione beatifica, sebbene se ne distingua essenzialmente, la prefigura e partecipa delle sue caratteristiche.
La visione beatifica è il coronamento dell'opera della creazione che essa porta a compimento: la collocazione della creatura in uno stato divino di gloria, nel quale essa si trova condotta al punto supremo della perfezione che solo Dio poteva gratuitamente conferirle.
Creatio, reformatio, consummatio,5 queste sono le tre grandi tappe del piano divino; e come la « riforma » è quella della creazione corrotta, la « consumazione » è quella della creazione restaurata.
La stessa cosa si verifica per l'unione mistica nella quale l'anima si trova portata, per pochi istanti, fino a una perfezione più che umana, la quale, lungi dall'annientarla, la esalta e la glorifica.
Abbiamo già quindi accertato due punti strettamente connessi: l'anima non diventa la sostanza di Dio e neppure si perde nell'estasi.
Dobbiamo ora considerare il contenuto positivo di questi stati e trovare una spiegazione della loro natura che non falsifichi il senso delle espressioni usate da san Bernardo, ma permetta di conservarle tutte senza indebolirne il significato.
Infatti non esita a parlare di « deificazione »: sic affici, deificari est.6
Quindi, cosa può essere questo stato?
Certamente una unione e l'unità che ne consegue, ma qual è la natura di questa unione?
La risposta può essere formulata in poche righe: l'unione mistica rispetta integralmente la distinzione reale della sostanza divina e della sostanza umana, della volontà di Dio e della volontà dell'uomo; essa non è né una confusione di sostanze in generale, né una confusione della sostanza di due volontà in particolare; essa è invece il loro accordo perfetto, la coincidenza di due volontà.
Due sostanze spirituali distinte - e persino infinitamente distinte -; due volontà non meno distinte nell'ordine esistenziale, ma nelle quali coincidono l'intenzione e l'oggetto, al punto che l'una è l'immagine perfetta dell'altra: queste sono l'unione e l'unità mistica concepite da san Bernardo.
Basta paragonarle all'unione e all'unità deIle persone divine per vedere fino a che punto arrivano, ma anche quali ne sono i limiti.
L'unità di Dio è quella del consubstantiale, quella dell'uomo con Dio si limita al consentibile: « Tra l'uomo e Dio, al contrario, non vi è né un'unica sostanza, né un'unica natura; non si può quindi dire che essi siano Uno, sebbene si possa dire con ogni certezza e verità assoluta che essi sono uno spirito, se essi sono legati l'uno all'altro e aderiscono nell'amore.
Tuttavia, questa unità risulta meno da una coesione di essenze che dalla connivenza di due volontà.
Da ciò si vede chiaramente, se non mi sbaglio, non solo la differenza tra queste unità, ma la loro disparità, l'una trovandosi in una sola essenza, l'altra in essenze distinte.
Cosa vi è di maggiormente diverso dell'unità del singolo rispetto a quella di molti?
È la stessa cosa per queste due unità.
Come ho già detto, ciò che delimita i loro rispettivi ambiti è la linea che separa essere uno dall'essere l'Uno, in quanto l'Uno designa l'unità di essenza nel Padre e nel Figlio; ma uno, tra Dio e l'uomo designa una unità diversa: una specie di tenera concordia tra i loro affetti.
Certamente si può correttamente applicare a Dio il termine uno, se vi si aggiunge qualcosa; ad esempio, un Dio, un Signore e via dicendo, perché ciò si dice di ognuno riferito a se stesso e non all'altro.
La loro divinità, o la loro maestà, in effetti non è distinta in loro più di quanto lo sia la sostanza o l'essenza o la natura.
Tutto ciò, per chi lo considera con pietà, non è in loro come cose diverse o distinte, ma esse sono Uno.
Cosa dico? Esse sono ancora Uno con loro.
Che cosa è quindi quest'altra unità, per la quale molti cuori possono essere considerati uno e parecchie anime uno?
Non si deve neppure considerarla, per quanto mi sembra, come meritevole del nome di unità, se la si paragona a quella che, invece di essere l'unione di una pluralità, designa la singolarità dell'Uno.
Questa è quindi una unità suprema e singolare; non deriva da una unione, ma è tale da tutta l'eternità …
Ancora meno possiamo pensare che sia prodotta da una qualsiasi congiunzione delle loro essenze, o da un accordo delle loro volontà, perché non ve ne sono.
Come ho detto, non vi è in loro che una essenza, una volontà e, in colui che è Uno, non vi è né consenso, né composizione, né legame, né altro di questo genere.
È necessario che vi siano almeno due volontà, perché vi sia accordo; bisogna parimenti che vi siano due essenze, perché vi sia congiunzione o unificazione per comune accordo.
Nulla di simile nel Padre e nel Figlio, poiché non hanno né due essenze, né due volontà.
L'una e l'altra sono una in loro o, piuttosto, come mi ricordo di aver detto, queste due cose sono l'Uno in loro e con loro; pertanto, rimanendo così immutabili e incomprensibili l'uno nell'altro, essi sono veramente e singolarmente Uno.
Se qualcuno tuttavia vuole dire che vi è accordo tra il Figlio e il Padre, io non lo contraddico, a condizione che egli intenda non una unione delle volontà, ma l'unità della volontà.
Quanto a Dio e all'uomo, sussistenti e separati l'uno dall'altro nelle volontà e nelle sostanze loro proprie, intendiamo in modo totalmente diverso il loro modo di essere l'uno nell'altro: non è la confusione di due sostanze, ma l'accordo di due volontà.
Ecco in che cosa consiste la loro unione: la comunione della volontà e l'accordo nella carità.
Unione felice, se la sperimentaste! Ma nulla, se la comparaste.7
Parole dense di significato, che definiscono in modo ammirevole la posizione di san Bernardo: la deificazione di cui il De diligendo Deo contiene la promessa non è nulla di meno, ma nulla di più, che l'accordo perfetto tra la volontà della sostanza umana e quella della sostanza divina, in una rigida distinzione delle sostanze e delle volontà.
Non crediamo che si tratti qui di un'interpretazione minimizzante della dottrina di san Bernardo; rifiutarla con il pretesto che assomiglia a qualche pia interpretatio significherebbe rinunciare a comprendere qualsiasi cosa del suo pensiero.
Non dobbiamo neppure immaginare che, in mancanza di timidezza nel suo interprete, si sia in diritto di denunciare un imbarazzo nello stesso san Bernardo.
Harnack l'ha creduto e avrebbe voluto farlo credere a noi.
Vedendo in san Bernardo una pietà mistica ardente - la pietà vera - farsi strada tra gli ostacoli accumulati dalla rigidità del dogma, non poteva non vedere nella sua dottrina l'espressione concreta di questo conflitto tra il dogma e la vita interiore, la cui storia è ai suoi occhi quella della stessa teologia medievale.8
Strana illusione soggettiva di un erudito la cui opera, decantata per la sua obiettività, risente più di tutte le altre della fede personale dell'autore.
Si tratta infatti di un completo errore nell'interpretazione dei fatti.
San Bernardo non è un mistico dell'amore obbligato, dal dogma della trascendenza divina, a restare, anche se a malincuore, al di fuori del proprio oggetto; i tre punti che abbiamo successivamente toccato sono uniti da una linea continua che li attraversa per condurci a un quarto: la sostanza di Dio non sarà mai la nostra sostanza, la volontà di Dio non sarà mai la nostra volontà, l'unione a Dio non può essere che l'accordo di due volontà distinte, quindi l'unione a Dio non può realizzarsi se non per e nell'amore.
Non è quindi un amore che si rassegna alla trascendenza del proprio oggetto: se il proprio oggetto non fosse trascendente, l'amore non avrebbe più motivo di esistere.
Anche qui non siamo ridotti a una di quelle ricostruzioni logiche alle quali talvolta deve rassegnarsi la storia.
San Bernardo non è soltanto capace di comprendere se stesso: eccelle nell'esprimersi: « Dio, lo stesso che ha detto: Ego sum qui sum, è nel vero senso del termine, in quanto ciò che è l'Essere.
Quale partecipazione, quale riunione vi può quindi essere tra colui che non è e Colui che è?
Come possono ricongiungersi cose così diverse?
Per me, dice il santo, il mio bene è aderire a Dio.
Noi non possiamo essere immediatamente uniti a lui; una tale unione potrebbe forse realizzarsi per mezzo di qualche intermediario.9
Qual è questo intermediario, questo termine medio tra la creatura e l'Essere?
Si potrebbe pensare alla cupidigia o al timore, ma noi sappiamo che essi sono solo espedienti provvisori.
Il solo legame veramente sicuro e indistruttibile è la carità, perché l'uomo nel quale essa abita: tam suaviter quam secure ligatus, adhaerens Domino unus spiritus est.
Si è quindi sicuri che il pensiero di san Bernardo è lineare; non è un compromesso tra le sue aspirazioni più profonde e non precisate costrizioni esteriori: l'amore, al contrario, si inserisce tra l'Essere e gli esseri; come chiamato dal vuoto che, senza di esso, separerebbe la creatura dal suo creatore, vi si riversa per colmarlo.
Ma notiamo bene in quale modo lo colma: l'uomo che ama Dio diviene unus spiritus cum eo.
L'unità di spirito è quindi l'unico genere di unità concepibile tra il Creatore e la creatura.
Che cosa bisogna intendere con ciò?
Una unità di spirito è anzitutto una unità che non è altro che quella di due spiriti, cioè non quell'identità di sostanza che abbiamo appena escluso, ma soltanto il perfetto accordo delle loro strutture e delle loro vite.
Il termine che designa senza equivoci la natura propria di questa unità è « similitudine ».
La somiglianza perfetta di uno spirito a un altro è per lui l'unico modo di diventare l'altro senza cessare di esistere.
Ciò che caratterizza la mistica di san Bernardo è il modo con il quale essa collega l'unione mistica alla natura dell'immagine divina nell'uomo,10 poiché a partire da qui tutte le difficoltà che gravano sulla teologia mistica si avviano verso la soluzione che egli fornisce.
Riprendiamo le obiezioni che sono state rivolte alla sua dottrina e vediamo come si modificano quando, al centro di tutto, si pone il fatto che l'uomo è una immagine di Dio.
L'estasi cistercense, è stato detto, tende, a causa del proprio carattere estatico, verso una sorta di perdita dell'individuo in Dio.11
L'amore, la cui violenza trascina l'anima verso il suo oggetto divino, non può raggiungerlo se non rinunciando totalmente a se stesso, esigenza contraddittoria con i fondamenti stessi della dottrina, in quanto l'amore di sé è considerato primitivo e indistruttibile.
L'obiezione è debole.
Qual è l'oggetto dell'ascesi cistercense?
Eliminare progressivamente il proprium per sostituirgli la carità.
Che cos'è il proprium? La dissomiglianza, ciò per cui l'uomo si vuole diverso da Dio.
D'altra parte, cos'è l'uomo? Una somiglianza divina.
È quindi chiaro che vi è coincidenza, in una simile dottrina, tra la perdita del volere proprio e la restaurazione della nostra vera natura.
Eliminare da sé tutto ciò che impedisce di essere veramente se stesso non significa per l'uomo perdersi, ma ritrovarsi.
Tutta la difficoltà che si crede di trovare nei testi di san Bernardo su questo punto si riduce quindi a un controsenso, perché l'anima che si libera, che si stacca da se stessa, lungi dal rinunciare a ciò che essa è, si stabilisce al contrario nella propria sostanza, così come l'amore divino la cambia.
Quale può essere, in effetti, il senso di espressioni quali « deficere a se tota videtur », « a semetipsa liquescere » e altre simili?
È sempre duplice. In primo luogo Bernardo vuol dire che l'anima si spoglia di quel falso io, di quella personalità illusoria del volere proprio che il peccato ha introdotto in lei.
Spogliandosene, lungi dall'annullarsi, si ristabilisce nella propria natura.
È una maschera che cade per lasciar vedere il vero volto di un'anima la cui natura è di essere fatta a immagine di Dio.12
In secondo luogo tali espressioni hanno sempre un senso positivo, quello che san Bernardo indica aggiungendo questo commento: « a semetipsa liquescere, atque in Dei penitus translindi voluntatem ».
Commento del quale si potrebbe lamentare la brevità se, a sua volta, non fosse commentato dall'intera opera mistica di San Bernardo.
Infatti questa trasfusione nella volontà di Dio è la stessa unità di spirito, e lo è in un doppio senso.
Ontologicamente l'anima vive ormai dello spirito di carità per la grazia che è in noi il dono dello Spirito Santo.
La vita dell'anima è quindi diventata, in virtù di questo dono e a titolo di dono, ciò che la vita di Dio è per natura.
Unità di spirito, perché di questo stesso Spirito, del quale Dio vive per sé, noi viviamo allora per mezzo della grazia: impossibile unire più strettamente due soggetti che devono rimanere sostanzialmente distinti.
Unità di spirito anche perché, essendo l'anima una somiglianza divina, più la sua volontà si conforma a quella di Dio, più diviene se stessa.
L'anima si conosce allora come Dio la conosce, si ama come Dio l'ama e ama Dio così come egli si ama.
Essa sussiste, ma bisogna allora considerarla come una sostanza che, irriducibilmente distinta da quella di Dio, non ha altra funzione che quella di essere portatrice della somiglianza divina.
Questa somiglianza e la sua « forma » ; più essa viene invasa da questa forma, come lo è ora dalla carità e lo sarà ancora di più nella gloria, più è difficile distinguerla da Dio, - e più sarà se stessa.
Dell'uomo si potrebbe quindi dire che egli tende, mediante l'amore, a rendersi invisibile, infatti questa Immaginerai Dio non sarà pienamente se stessa se non quando in essa non si potrà vedere niente altro che Dio: et tuac erit omnìa in omnibus Deus.13
Possiamo ormai rileggere uno di quei testi così discussi, con la speranza di capirlo quasi come lo comprendeva lo stesso San Bernardo.
« Ma la carne e il sangue, questo vaso di argilla, questa dimora terrena, quando arriveranno a comprenderlo [ questo amore in cui l'anima non si ama che per Dio ]?
Quando proveranno questo tipo di affetto [ affectum: qui è l'amore ], nel quale lo spirito inebriato di Dio si dimentica14 diviene per se stesso come il vaso perduto ( Sal 31,13 ), si dirige totalmente verso Dio e aderisce a lui sino a formare un solo spirito con lui?
È allora che dice: La mia carne e il mio cuore sono venuti meno, Dio del mio cuore e mia parte per l'eternità ( Sal 73,26 ).
Beato, dirò, e santo, colui al quale fu concesso di provare qualcosa di simile in questa vita mortale, anche se solo raramente, oppure una sola volta, e come di passaggio, solo lo spazio di un momento.
Infatti in un certo modo perderti, come se tu non esistessi più [ quodammodo, infatti l'uomo non si perde ], non sentirti più te stesso, spogliarti di te stesso, e quasi annullarti [ pene, infatti la sostanza rimane ], è la realtà della vita del cielo, non è un modo umano di sentire.
Se, d'altra parte, capita a qualcuno dei mortali di essere ammesso a questo amore di quando in quando, di passaggio, come ho già detto, e per un istante, il secolo malvagio lo invidia, la malizia del giorno15 lo turba, questo corpo di morte lo appesantisce,16 la necessità della carne17 lo sollecita, la debolezza della corruzione non lo sostiene e la carità fraterna, forza ancora più violenta, lo richiama.18
Ahimè! È obbligato a ritornare in sé, a ricadere in ciò che è proprio19 e a esclamare miseramente: Signore, io soffro nella violenza, rispondi per me ( Is 38,14 ), e ancora: uomo infelice io sono, chi mi libererà da questo corpo di morte? ( Rm 7,24 ).
Tuttavia, poiché la Scrittura afferma che Dio ha fatto tutto per se stesso ( Pr 16,4 ), è necessario che un giorno la sua opera si conformi al proprio autore e si accordi a lui.
È quindi necessario che un giorno arriviamo ad amare come lui e che, come Dio ha voluto che ogni cosa esistesse per lui, così anche noi non vogliamo più che noi e ogni altra cosa sia esistita o continui a esistere se non per lui, cioè in vista della Sua volontà, non della nostra voluttà.20
Ciò che farà quindi la nostra gioia non sarà tanto sentire che la nostra necessità si placa21 o ottenere la felicità,22 quanto piuttosto vedere che si compie la sua volontà in noi e su di noi.23
È proprio ciò che noi gli domandiamo ogni giorno nella nostra preghiera, dicendo: sia fatta la tua volontà, sulla terra come in cielo.
O intenzione pura e spogliata della volontà!
Certamente tanto più pura e spogliata, quanto più nulla di proprio26 vi resta ancora mescolato; tanto più soave e dolce quanto più quello che allora si prova è interamente divino.
Provare un tale affetto, significa essere deificato.27
Come una piccola goccia di acqua mescolata a una gran quantità di vino sembra perdersi interamente acquisendo il sapore e il colore del vino; o come il ferro arroventato e incandescente diviene simile al fuoco, come se avesse abbandonato la sua forma propria,28 e come l'aria inondata dalla luce solare si trasforma nella chiarezza stessa di questa luce, a tal punto da non sembrare tanto aria illuminata, quanto luce, così sarà necessario che, nei santi, ogni modo umano di sentire si fonda in un certo modo ineffabile e si riversi interamente nella volontà di Dio.
Diversamente, come Dio potrebbe essere tutto in tutti, se nell'uomo rimanesse qualcosa dell'uomo?29
In realtà, la sostanza rimarrà, ma sotto un'altra forma, in un'altra gloria, in un'altra potenza »30
Consideriamo il problema dell'amore alla luce delle conclusioni che precedono.
Sappiamo che l'uomo è una sostanza indistruttibile, che resiste alla fusione dell'estasi e anche a quella della visione beatifica.
Sappiamo anche che il fine per il quale questa sostanza è stata creata è di realizzare una somiglianza divina perfetta.
Ora, se è vero che per la sua forma essa tende a differenziarsi da Dio per una grandezza minore rispetto a ogni grandezza donata, consegue che, al limite, la famosa antinomia tra l'amore di sé e l'amore puro sparisce: al limite essa non ha più né senso, né ragione di esistere.
Dio è amore di sé per sé.
L'uomo è tanto più se stesso, quanto più è simile a Dio; in quanto immagine, meno si distingue dal proprio modello, più esiste.
Se quindi eliminiamo dalla sua natura questo proprium, che non appartiene alla sua natura, ma la corrompe, ciò che rimane è una immagine perfetta di Dio, cioè di un bene infinito che si ama solo per sé
Che differenza c'è quindi, al limite, tra amare Dio e amare se stessi quando non si è altro che una partecipazione all'amore che Dio ha per sé?
Nell'anima che ama se stessa solo per Dio, l'amore che essa nutre per se stessa è compreso nell'amore che Dio ha per sé, poiché Dio l'ama m quanto somiglianza di se stesso ed ella si ama in quanto somiglianza di Dio.31
È quanto sviluppa lungamente e minuziosamente un altro testo la cui meditazione, a causa della sua densità, si impone a ogni persona che desideri iniziarsi seriamente al pensiero di san Bernardo.
« 1 Per quanto ce lo ha permesso l'ora regolare che abbiamo fissato per parlare, abbiamo utilizzato tre giorni per dimostrare l'affinità del Verbo e dell'anima.
A cosa serve tutto questo lavoro? A questo.
Abbiamo insegnato che ogni anima, anche se carica di peccati, irretita dai vizi, sedotta dalle voluttà, nella prigionia dell'esilio, imprigionata nel corpo, immersa in questa argilla, affondata in questo fango, legata alle membra, inchiodata alle proprie pene, colma di preoccupazioni, contratta dai timori [ essendo la contractio l'effetto proprio del timor ], afflitta dai dolori, smarrita negli errori, in preda alle sollecitudini, tormentata dai sospetti, ed infine come uno straniero in un paese nemico32 corrotta con i morti, come dice il Profeta ( Bar 3,11 ), e compresa tra coloro che si trovano all'inferno; sebbene, dico, essa sia così dannata, così disperata, sappiamo che può scorgere in sé non solo di che respirare nella speranza del perdono, nella speranza della misericordia, ma anche di che aspirare alle nozze del Verbo, non temere di concludere con Dio una alleanza di unione, non temere di portare con il Re degli angeli il giogo soave dell'amore.
In effetti, cosa non può osare con sicurezza vicino a colui di cui vede che ha l'onore di portare l'immagine [ poiché la possiede ancora, in quanto è indistruttibile ] e di cui sa [ sebbene non la veda più, avendola persa ] che la somiglianza è la propria gloria?
Cosa teme, dico, della sua maestà, ella, colmata di fiducia dalla propria origine?
[ immagine di Dio si sa ancora capace della maestà divina: capax majestatis ].
Tutto quello che deve fare è restare fedele alla nobiltà della propria natura con la dignità della propria vita, e più ancora lavorare per ornare e abbellire con colori appropriati, con i propri costumi e i propri affetti, l'onore celeste che riceve dalla propria origine.33
2. Perché, in effetti, lasciar dormire lo zelo? [ industria: parola che designa la parte che ritorna al libero arbitrio nella restaurazione della somiglianza perduta ].
In effetti, costituisce in noi un grande dono della natura: se non svolge il proprio ruolo, tutto il resto della natura non viene forse turbato e come interamente coperto di una ruggine di vecchiaia?
Sarebbe ingiuriare il suo autore.
Infatti, se il suo autore, Dio stesso, volle che questo segno della generosità divina [ l'immagine ] si conservasse eternamente nell'anima, era perché essa avesse sempre in sé, da parte del Verbo [ in quanto egli è l'Immagine e l'anima è fatta ad imaginem ],34 un ammonimento permanente a rimanere con il Verbo o a ritornare a lui se se ne fosse allontanata.
Non allontanata da un cambiamento di posto o da un cammino, ma come può muoversi una sostanza spirituale,35 cioè peggiorando a causa dei propri affetti o piuttosto dei propri difetti [ in quanto così perde la similitudo che aveva ] quando, per la malizia della propria vita e dei propri costumi, si rende dissimile da Dio e degenera.
Notiamo, tuttavia, che tale dissomiglianza non abolisce la natura [ che è l'immagine ], ma la corrompe, infatti la macchia, invadendola, nella misura stessa in cui diminuisce la bontà della natura.
Quanto al ritorno dell'anima, è la sua conversione verso il Verbo [ conversio, movimento della volontà che da propria diviene comune ], il quale deve riformarla e al quale essa deve conformarsi [ per ritrovare se stessa, poiché era stata creata a sua somiglianza ].
In cosa? Nella carità.
Infatti egli dice: Siate imitatori di Dio, come figli carissimi [ infatti la carità eleva il servo e il mercenario allo stato di figli ] e camminate nell'amore, come Cristo stesso vi ha amati ( Ef 5,1-2 ).
3. Una tale conformità [ della volontà divenuta « comune » per mezzo della carità ] sposa l'anima al Verbo, poiché già simile a lui per natura [ egli è Imago, essa è ad imaginem ], essa si mostra simile a lui nella volontà, amando così come essa è amata [ essa si ama per Dio, come Dio l'ama per sé ].
Se quindi essa ama perfettamente, essa è sposata.
Cosa è più delizioso di questa conformità?
Cosa più desiderabile della carità, se, per suo mezzo, non contenta di andare a lui guidata da un maestro umano, è da sola, o anima, che puoi accedere al Verbo con piena fiducia, aderire a lui costantemente, interrogarlo familiarmente, consultarlo per ogni cosa, dal momento che l'audacia del tuo desiderio eguaglia la capacità della tua intelligenza?
Questo è il contratto di un matrimonio veramente spirituale e veramente santo.
Che dico, un contratto? È un abbraccio.
Veramente un abbraccio in quanto volere la stessa cosa e non volere la stessa cosa, fa di due spiriti uno solo.36
E non crediamo che la disuguaglianza delle persone possa qui rendere zoppicante l'accordo della volontà, perché l'amore ignora il rispetto.
È dal verbo amare che deriva l'amore, non da onorare.
L'onore si addice a chi prova orrore, stupore, timore, ammirazione; tutto ciò è assente in colui che ama.
L'amore non ha bisogno di tutto il resto; quando arriva riconduce a sé ogni altro affetto [ il timore e la cupidigia ] e li sottomette.
È per questo che colei che ama, ama e non sa nient'altro.
Quanto a Lui, che sarebbe giusto onorare, giusto riverire e ammirare, preferisce essere amato.
Sono sposo e sposa.
Quale altro legame desiderate tra due sposi, quale altra unione se non amare ed essere amato?
Questo vincolo supera anche il più stretto che la natura abbia creato: quello dei genitori e dei figli.37
D'altra parte è per questo che egli ha detto: l'uomo lascerà suo padre e sua madre e si unirà alla sua sposa ( Mt 19,5 ).
Vedete che negli sposi questo sentimento non solo è più forte degli altri affetti, ma supera anche se stesso.
4. Aggiungete che questo sposo non solo è amante, è l'Amore.
È onore? Chi vuole può sostenerlo; io personalmente non ho letto così.
Ciò che ho letto, al contrario, è che: Deus caritas est ( 1 Gv 4,16 ), ma che sia onore e dignità non l'ho letto.
Non che Dio non esiga l'onore, lui che dice: Se io sono il Padre, dov'è il mio onore?
Ma allora è il Padre che, parla, perché se si presentasse come sposo credo che cambierebbe linguaggio e direbbe: Se io sono lo sposo, dov'è il mio amore?
Non aveva già detto in precedenza: Se io sono il Signore, dov'è il mio timore?
Dio esige quindi di essere temuto come Signore, di essere onorato come padre, ma in quanto sposo vuole essere amato.
Tra tutto ciò, cosa prevale? Cosa è più grande? È l'amore.
Senza di esso il timore è penoso [ perché allora è il timore del castigo e non il timor di Dio] e l'amore è senza attrattiva.
Il timore è servile finché non è liberato dall'amore; quanto all'onore che non deriva dall'amore, non è onore, è adulazione.
Così quindi, a Dio solo onore e gloria; ma Dio non accetterà né l'uno, né l'altro, se non sono ricoperti dal miele dell'amore.
L'amore è sufficiente a se stesso, piace a se stesso e per se stesso.
È per se stesso il proprio merito e la propria ricompensa.
L'amore non richiede altra causa e altro frutto che se stesso.
L'uso che se ne fa, ecco il suo frutto.38
Amo perché amo, amo per amare.
Che grande cosa l'amore, a condizione che ritorni al proprio principio, ritorni alla propria origine e, rifluendo verso la propria sorgente, ne tragga di che scorrere senza sosta!
Tra tutti i movimenti, sentimenti e affetti dell'anima, l'amore è il solo nel quale la creatura se non può rendere al creatore tanto quanto riceve, può almeno ricambiare la stessa cosa.
Ad esempio, se Dio si irrita con me, mi devo a mia volta irritare con lui?
Sicuramente no, ma obbedirò, tremerò e gli chiederò perdono.
Allo stesso modo se mi rimprovera, non lo rimprovererò, ma gli darò ragione.
O anche, se mi giudica, neppure lo giudicherò, ma lo adorerò; e quando mi salva, non mi domanda di salvarlo, perché non ha bisogno, a sua volta, di essere liberato, egli che libera tutti gli altri.
Se esercita il proprio dominio, non devo far altro che servirlo; se comanda, devo obbedire e non devo pretendere da lui che mi serva o mi obbedisca.
Allora potete vedere che per l'amore è diverso.
Infatti, quando Dio ama non desidera altro che essere amato, ama solo per essere amato, sapendo che sarà lo stesso amore a fare la felicità di coloro che l'ameranno.
5. È una grande cosa l'amore, ma ha dei gradi.
La sposa è su quello più alto.
Infatti anche i figli amano, ma pensano all'eredità e finché temono di perderla in un modo qualsiasi, onorano di più colui dal quale attendono l'eredità, ma lo amano di meno.
Ritengo sospetto l'amore che incoraggia la speranza di ottenere qualcosa.
È un amore debole, come quello che si spegne o diminuisce, se per caso la speranza gli viene sottratta.
Impuro è l'amore che desidera anche altre cose.
L'amore puro non è mercenario; l'amore puro non trae le forze dalla speranza e tuttavia non sente le sofferenze della sfiducia.39
Esso appartiene alla sposa perché la sposa è amore, chiunque essa sia.
Per la sposa l'amore è allo stesso tempo la speranza e la realtà.
È di questo che la sposa è ricca ed è di questo che lo sposo si accontenta.
Egli non cerca altro, ed ella non ha altro.
È per questo che egli è lo sposo, è per questo che ella è la sposa.
Appartiene quindi io proprio agli sposi ciò che nessun altro può raggiungere, nemmeno i figli.
Perché infine egli grida ai figli: Dov'è il mio onore? ma non: dov'è il mio amore?
Quest'ultimo lo riserva alla sposa, come sua prerogativa.
Certamente viene comandato all'uomo di onorare il padre e la madre ( Dt 5,16 ) e non è fatta menzione dell'amore.
Questo non significa che i genitori non debbano essere amati dai propri figli, ma significa che un grande numero di figli sono più inclini a onorare i genitori che non ad amarli.
È possibile che l'onore di un re si diletti a giudicare, ma l'amore dello sposo, e ancor più questo sposo che è l'Amore stesso, chiede in cambio solo amore e fede.
La sposa può quindi a sua volta amarlo.
E come potrebbe non amarlo, lei sposa e sposa dell'Amore?
Come potrebbe l'Amore non essere amato?
6. È quindi giusto che, rinunciando a ogni altro affetto, essa si dedichi interamente all'amore e a lui solo, poiché è all'Amore stesso che essa deve rispondere ricambiando amore.
Infatti, anche se effondesse completamente nell'amore, cosa sarebbe in confronto allo scorrere perpetuo dell'Amore?
Come l'amante e l'Amore, l'anima e il Verbo, la sposa e lo Sposo, la creatura e il Creatore potrebbero effondersi con la medesima abbondanza?
Essi sono come la sete e la fonte.
Che dunque! Sarà necessario abbandonare e trascurare completamente il voto della fidanzata, il desiderio di colei che sospira, l'ardore dell'amante,40 la fiducia41 di questa audace, con il pretesto che ella non può correre veloce come un gigante, superare in dolcezza il miele, in delicatezza l'agnello, in candore il giglio, in luminosità il sole, in carità colui che è la Carità?
No; infatti sebbene la creatura ami meno di Dio, perché è inferiore a lui, dal momento che ella ama con tutta se stessa, il suo amore è completo, in quanto vi ha messo tutta se stessa.
Per questo, come ho già detto, amare così è essere sposata.42
Infatti ella non può amare in questo modo ed essere poco amata, poiché è nell'accordo di due esseri che consiste un matrimonio perfetto e completo.
A meno che, tuttavia, si dubiti che l'anima non sia amata in anticipo e di più dal Verbo.
Ma noi sappiamo che nell'amore essa è prevenuta e vinta.
Felice colei che ha meritato di essere prevenuta dalla benedizione di una così grande dolcezza!
Felice colei alla quale fu donato di provare un abbraccio così soave!
Infatti proprio questo è un amore santo e casto, un amore soave e dolce, un amore la cui sincerità eguaglia la purezza: amore mutuo, intimo e forse che unirà due esseri, non in una sola carne, ma in un solo spirito, secondo la parola di san Paolo: Colui che aderisce a Dio, è un solo spirito con lui ( 1 Cor 6,17 ).
E ora piuttosto ascoltiamo quella che Dio ha reso di gran lunga nostra maestra in questa materia: l'unzione che istruisce e la frequente esperienza.
Ma forse è meglio riservare questo per l'inizio di un altro sermone, per non costringere un argomento così importante nei limiti ristretti di questo che è quasi terminato.
Se siete di questo avviso, termino prima del previsto, affinché domani torniamo affamati quando sarà venuto il momento di metterci alla tavola delle delizie di cui l'anima santa merita di gioire, felice con il Verbo, suo degno sposo.
Gesù Cristo nostro Signore che è Dio, benedetto nei secoli. Amen » ( SC 83,1-6, il, 298,10-302,27 ).
Questo testo molto importante non contiene solo l'esposizione dei principi teologici dell'estasi come è concepita da san Bernardo, ci informa anche, con tutta la precisione desiderabile, sulla sua concezione dell'amore.
Sono state certamente notate, di passaggio, le formule con le quali egli definisce l'amore puro, perché si sa quale uso, per non dire quale abuso, ne hanno fatto più tardi i Quietisti.
Si possono infatti citare tutti i testi che si vogliono per sostenere il quietismo di san Bernardo, ma a condizione di far dire loro il contrario di ciò che significano.
La prima caratteristica dell'amore puro, nella dottrina di san Bernardo è dI essere esclusivo di ogni altro sentimento.
Mi esprimo qui come lui, ma ciò che Bernardo vuoi dire è piuttosto che l'amore puro è inclusivo di ogni altro sentimento.
Eccone il motivo. La purezza dell'amore è tutt'uno con la sua intensità; diciamo, se si vuole mantenere ad ogni costo una distinzione tra queste nozioni, che la purezza dell'amore è il primo e il più immediato effetto della sua intensità.
È per questo che nei suoi scritti ricorre spesso l'espressione amore ardente.
L'ardore dell'amore, spinto al suo ultimo grado, ha per effetto apparente di eliminare dall'anima tutto ciò che non è amore.
Non vi è più posto in essa per altro.
Non bisogna però dimenticare che l'amore è per essenza il contrario di una forza distruttrice: elimina veramente solo il non-essere, il resto lo trasforma e lo compie.
È ciò che avviene nei confronti degli altri sentimenti.
Nessuno di essi viene distrutto in ciò che ha di positivo.
Così la cupidigia è mantenuta in tutti gli aspetti positivi della propria essenza; essa viene « ordinata »; cioè, quando tutto ciò che la alterava viene eliminato, resta di essa solo ciò che era ordinabile: l'amore.
Avviene lo stesso per il timore e la speranza: l'amore consuma tutto, ma per compierlo.43
In secondo luogo, poiché tutti gli altri sentimenti si riassorbono nell'ardore dell'amore, ne consegue che l'amore puro è disinteressato.
È la sua stessa definizione che lo esige, ma lungi dall'escludere la sostanza degli altri sentimenti che la creatura deve al proprio creatore, essa li assorbe e li esalta portandoli al loro punto di perfezione.44
È quanto bisogna notare particolarmente per quanto concerne il desiderio della beatitudine.
L'amore puro non si augura e non spera alcuna ricompensa, ma ne gode; esso è essenzialmente fruizione del bene divino.
Si domanderà forse come questa caratteristica possa aggiungersi all'amore senza alterarne la purezza?
In realtà non vi si aggiunge: è l'essenza stessa dell'amore, ed è per questo che san Bernardo dice che l'amore è ricompensa a se stesso.45
Essendo per natura una partecipazione alla vita divina, che è beatitudine, esso è una partecipazione alla beatitudine.
Dire che la sua ricompensa è in se stesso, significa dire semplicemente che la sua purezza è quella della fruizione di Dio.
Per gli storici della spiritualità le espressioni dell'amore puro, dell'amore disinteressato, suscitano quasi sempre un sospetto di quietismo.
Lo spettro di Madame Guyon si aggira attorno a una verità che la sua vicinanza rende inabitabile.
È vero che l'amore puro, come viene concepito da san Bernardo, è un amore senza alcun desiderio di ricompensa, ma ne abbiamo visto il perché.
All'origine di tutto il problema bisogna porre la parola della Scrittura che abbiamo spesso citato: l'amore espelle il timore.
Tutte le meditazioni di san Bernardo ci fanno in effetti assistere alla progressiva eliminazione del timore del castigo divino nella certezza del possesso di Dio nell'amore.
Finché il pensiero del contemplativo è ancora alla considerazione della provvidenza divina, o dei giudizi divini su di noi,46 esso non è ancora giunto al suo termine: non ha ancora raggiunto l'amore puro.
Supponiamo invece che l'intensità dell'amore gli abbia conferito quella purezza che gli fa assorbire in sé tutti gli altri sentimenti, a partire da quello stesso momento esso è unito al Verbo; gode quindi di Dio; è in quello stato di fiducia che non è altro che la stessa coscienza di essere unito alla beatitudine divina.
È quindi ovvio che, a partire da quel momento, esso non potrebbe aprirsi ad alcun timore del castigo.
Assorbito com'è nella propria gioia, non può più neppure pensare a un castigo.
È ciò che san Bernardo indicava nel testo precedente, dove dice che l'anima che ama così non spera più in nessuna ricompensa, ma non avverte più neppure la sfiducia.
È questo punto che decide ogni cosa ed è per non averlo preso in considerazione che i quietisti hanno posto dei problemi la cui stessa formulazione è esclusa nel modo più formale dalla dottrina di san Bernardo.
Per accertarsi di questo aspetto, è sufficiente riassumere le principali posizioni di san Bernardo riguardo alla natura e alle condizioni dell'amore puro.
Se ci si riferisce al testo fondamentale del De diligendo Deo, VII, 17, vi si vede anzitutto che l'amore di Dio non può essere senza ricompensa e, poi, che l'amore puro di Dio è nondimeno un amore che non ha di mira alcuna ricompensa: non enim sine proemio diligitur Deus, etsi absque proemii intuitu diligendus est.
Cosa significa? Significa che l'amore puro, come lo concepisce san Bernardo, è essenzialmente un'esperienza mistica.
Non si tratta qui di un'idea né di una disposizione abituale, ma dell'excessus, breve, continuamente interrotto, nel quale si trova l'anima del mistico, mentre Dio l'unisce a sé con grazie eccezionali.
Questa prima differenza tra san Bernardo e i quietisti è importante e non bisogna mai dimenticarla.
Ciò di cui parla è un'estasi momentanea - rara bora, sed parva mora - e in nessun modo uno stato; ciò che per lui è lo stato abituale non si chiama amor purus, nurmcissitudo.47
Un languido e continuo desiderio, inframmezzata dalle gioie passeggere e sempre imprevedibiIi della unione divina, ecco la sua vita.
Inoltre egli sa che il suo stesso amore puro, quando lo ricompensa con le sue gioie, è lontano dall'essere completamente puro: l'amore completamente puro si avrà solo in cielo.
Questo punto ne comporta un secondo: poiché l'amore puro è una esperienza mistica, è un sentimento e niente altro.
Almeno, non è niente altro per la coscienza di colui che lo prova.
Intendiamo con questo dire che nel momento in cui lo prova, l'estatico ne è completamente occupato, senza che nella sua anima resti posto per qualsiasi altra cosa.
Al primo posto tra le cose che l'amore espelle, per la propria intensità, vi sono le considerazioni della ragione, e questa esclusione opera contro due possibili ordini di calcoli razionali, quelli della cupidigia e quelli del timore.
Quelli della cupidigia: in effetti l'anima che gode di Dio non pensa più a lui come a una ricompensa.
Essa non pensa più a lui come ad una ricompensa possibile, in quanto essa lo possiede: una tale assurdità è esclusa dalla natura stessa dell'estasi, che è beatificante.
Ma essa non pensa a lui neppure come a una ricompensa presente, poiché non se lo immagina in alcun modo: essa lo ama e questo è tutto.
San Bernardo dice esattamente: « absque praemii sit intuitu diligendus ».
In altri termini, la nozione di ricompensa non cade più allora sotto lo sguardo dell'anima.
L'estatico non dice più: questo amore mi beatifica, bisogna quindi che lo provi; oppure: se Dio mi beatifica con l'amore come sta facendo, continuerò ad amarlo affinché continui a beatificarmi.
Nulla di simile; l'amore non è un contratto, è un sentimento: « Affectus est, non contractus ».
Non è un « contractus », è un « amplexus ».
Ecco perché, per sua stessa natura, non può essere né vuoto, né mercenario: « Vacua namque vera caritas esse non potest, nec tamen mercenaria est ».
Non è mai vuoto, poiché è un « amplexus », ma non è mai mercenario, poiché non è altro che un « amplexus ».
Quindi o c'è calcolo razionale, e allora non siamo più in presenza di un semplice affectus, di un amore che non è altro che amore - esso non merita quindi più alcuna ricompensa o, piuttosto, è impossibile che l'abbia, poiché questa ricompensa è proprio l'abbraccio semplice dell'amore; se non è questo, cosa è? - o non vi è più alcuna considerazione della ragione, alcun calcolo contrattuale, ma soltanto il sentimento puro di un'anima che ama e non sa nient'altro - la ricompensa allora le è dovuta o, piuttosto, è essa stessa, poiché è l'amplexus, molto meno abbraccio di Dio da parte dell'anima che dell'anima da parte di Dio.
« Verus amor seipso contentus est. Habet praemium, sed id quod amatur ».48
Consideriamo ora il rapporto tra l'amore puro e il timore.
Deve necessariamente ridursi a un'esclusione, e per gli stessi motivi.
L'amore puro non può più amare né per timore né in vista della ricompensa, in quanto esclude ogni altro motivo.
Non è in alcun modo un contratto, né per ottenere una gioia, né per evitare una pena, è un sentimento.
La fiducia di san Bernardo esprime quindi la soddisfazione di vedere scartare la prospettiva di un castigo decisamente meritato, non più di quanto il suo amplexus esprima la gioia di raggiungere infine una ricompensa per lungo tempo desiderata.
L'una esclude ogni pensiero di castigo, come l'altra esclude ogni idea di ricompensa.
Letteralmente, secondo la parola della Scrittura il timore è stato messo alla porta, e vi resta finché dura l'estasi, ma non più a lungo.
La spontaneità dell'amore - sponte affidi, et spontaneum facit - suppone quindi la eliminazione radicale di ogni motivo, oltre a se stesso, per tutto il tempo in cui sussiste nella sua purezza e proporzionalmente a questa stessa purezza.
Siamo lontani tanto dallo stato di fiducia di Lutero quanto dallo stato di amore puro immaginato dai feneloniani.
Forse la fiducia di san Bernardo è una certezza, ma si dovrebbe piuttosto dire che essa segna il punto in cui il problema della salvezza non si pone più, né a favore né contro.
La fiducia luterana è una fede che permette al peccatore di sentirsi peccatore e di sentirsi tuttavia salvato da Gesù Cristo.49
La fiducia di san Bernardo è una carità che, non per tutta una vita ma per brevi istanti riesce a trascendere lo stato normale in cui si pone ancora il problema del castigo.
Mentre l'anima vi pensa, non può pensare a niente altro, se non che lo merita; quando non si accorge più di meritarlo, non significa che sa di essere colpevole ma perdonata, significa che non ci pensa più.
Ecco perché dimenticare il Dio potente, il Dio giusto, il Dio giudice, non può che essere l'opera dell'amore puro; esso soltanto ha il potere di raggiungere, senza pudore e senza paura, questa Beatitudine sussistente il cui possesso rende prive di senso le stesse nozioni di promessa o di speranza, di minaccia o di castigo.
Si vede qui, allo stesso tempo, quanto il genio di san Francesco di Sales sia stato lontano da quello di san Bernardo, quando si dichiarava pronto a preferire l'inferno con la volontà di Dio, che il paradiso senza la volontà di Dio.50
Naturalmente non si tratta di obiettargli che il paradiso è la volontà di Dio.
San Francesco di Sales non è sprovveduto su questo argomento, sa che la propria ipotesi è una « immaginazione di cosa impossibile »; ma ciò che, al contrario, è importante evidenziare - poiché l'errore dei feneloniani parte da qui - è che fino a quando si è capaci di immaginare, sia cose impossibili che cose possibili, non si è ancora nell'amore puro.
Infatti l'amore puro non immagina nulla, lo possiede.
San Francesco di Sales sa molto bene che l'amore è inseparabile dalla gioia che dona,51 ma forse egli non ha mai conosciuto la gioia donata all'estatico dall'amore attuale di Dio per Dio; è per questo che ragiona ancora e discute, mentre è tempo soltanto di amare.
Illusione doppiamente fatale, poiché trascinerà i feneloniani a misconoscere l'essenza dell'amore puro; del resto era inevitabile, poiché doveva necessariamente venire il giorno in cui qualcuno avrebbe voluto parlare la lingua di san Bernardo per fargli esprimere la vita spirituale di Madame Guyon o di Fénelon.
Ciò che si intende con amore puro è l'estasi cistercense o lo stato feneloniano, non può essere contemporaneamente l'una e l'altra cosa.
Senza dubbio Fénelon era libero di scegliere la definizione che preferiva, ma quando cita san Bernardo a sostegno della propria tesi, si può scegliere solo tra due ipotesi: o non lo ha capito o lo falsifica.
Sono assolutamente convinto che non lo ha capito.
Infatti, la definizione dell'amore puro per i quietisti è la definizione dell'amore impuro per san Bernardo.
Purificate ancora di più il vostro amore, dirà loro, e vedrete che il problema che vi agita non si potrà più neppure porre.
Domandarsi se possiamo amare Dio, persino con la certezza di non possederlo mai, è un problema, ma solo finché l'amore non avrà occupato tutta l'anima.
Lasciategli sviluppare tutta la sua forza, dimenticherà i castighi fino a non temerli più e le ricompense fino a rinunciarvi.52
Così, da qualunque parte ci si volti, bisogna sempre ritornare all'immagine di Dio nell'uomo per risolvere i problemi che solleva l'interpretazione della dottrina.
Al di fuori di questo centro prospettico, tutto è fuori posto, le difficoltà e le contraddizioni apparenti si accumulano; quando vi si rientra, tutto torna in ordine.
È ciò che ci resta da verificare a proposito della famosa dottrina della carità come conoscenza di Dio.
San Bernardo dice e ripete, riferendosi esplicitamente a Gregorio Magno,53 che la carità è la conoscenza o persino la visione di Dio.
Come bisogna interpretare queste formule?
Si potrebbe essere tentati di considerarle nel loro senso immediato, nel senso che l'amore esercita una funzione conoscitiva propriamente detta ed è una « visione » nel senso proprio del termine; ci sarebbe allora una identificazione formale della conoscenza e dell'amore.
D'altra parte una simile tesi è, a prima vista, così paradossale che si potrebbe esser tentati di considerarle come metafore senza contenuto dottrinale definito, ma le espressioni di san Bernardo sono così formali che una tale soluzione del problema apparirebbe immediatamente come un espediente per evitare il problema.
La risposta al problema deve mantenersi equidistante dalle due precedenti; l'amore per san Bernardo è veramente una visione di Dio, ma solo in un certo senso.
Notiamo anzitutto che sebbene egli ci abbia lasciato poche indicazioni sul modo in cui intende la conoscenza, sappiamo almeno che per lui si basa completamente sulla somiglianza del soggetto conoscente all'oggetto conosciuto.
Là dove manca questa somiglianza, la conoscenza è impossibile.
Come san Bernardo concepiva l'assimilazione del soggetto all'oggetto nella conoscenza sensibile o intellettuale? Non lo sappiamo.
Il suo amico Guglielmo di Saint-Thierry ci ha lasciato delle indicazioni precise sul modo in cui egli stesso rispondeva a questa questione.
Non sarebbe forse un'ipotesi troppo audace immaginare che san Bernardo pensasse quasi allo stesso modo su questo punto, ma non ne sappiamo nulla e, dopo tutto, la cosa è senza importanza.
San Bernardo forse non aveva un pensiero preciso a riguardo.
Ciò che invece è molto importante, è notare, con lui, che la somiglianza tra l'oggetto e il soggetto è la condizione necessaria alla conoscenza.
Una volta affermato questo principio, la tesi di cui noi cerchiamo il senso si impone come una conclusione necessaria.
In qualunque modo si interpreti la conoscenza intellettuale degli oggetti, essa è possibile solo perché una determinata azione dell'oggetto ha trasformato il soggetto conoscente a propria somiglianza.
D'altra parte, una volta stabilita la somiglianza tra il soggetto e l'oggetto, la conoscenza dell'oggetto da parte del soggetto viene di conseguenza.
Si può quindi dire che la somiglianza è la conoscenza stessa, nel senso almeno che essa è la condizione necessaria e sufficiente alla conoscenza.
Ora, quando si tratta di conoscere Dio, cosa trasforma l'anima a somiglianza di Dio?
La carità, l'amore e niente altro.
Esattamente nella misura in cui l'anima sarà trasformata dall'amore a somiglianza di Dio, il cui nome è carità, nella stessa misura sarà in grado di conoscerlo e lo conoscerà effettivamente.54
Ma, ci si domanda, con quale genere di conoscenza lo conoscerà? Lo conoscerà sentendolo.
Il sentimento dell'amore di Dio per Dio è, per l'anima che ama, se non l'equivalente almeno ciò che sostituisce la visione che essa ha dei corpi.
Dio non è né percepibile ai nostri sensi, né concepibile dal nostro intelletto, ma può essere sentito dal cuore.
Amarlo come egli si ama, amarsi come egli ci ama, e con il dono dello stesso amore con cui egli si ama e ci ama, è veramente, come già diceva sant'Agostino, avere Dio in noi.
Percepire in sé questo amore divino che circola nell'anima, ormai una nello spirito con Dio, significa percepire Dio nel solo modo in cui questo Spirito è percepibile dal nostro sulla terra: nella carità.
Così, per l'anima riformata nella somiglianza divina per mezzo dell'amore, lo stesso affetto dell'amore è ora l'unico sostituto possibile della visione di Dio che ci manca, esso quindi ne è per noi la visione.
È ciò che san Bernardo ci spiegherà se gli restituiamo nuovamente la parola; avremo così l'occasione di veder passare un'ultima volta davanti ai nostri occhi le tesi principali della sua dottrina, in una delle più dense sintesi che ci abbia lasciato.
« Vedendo nella sua unica natura queste cose così distanti [ la somiglianza dell'immagine e la dissomiglianza del peccato ] come potrebbe l'anima non esclamare, presa tra la speranza e la disperazione: Signore, chi è simile a te?
Trascinata nella disperazione da un così grande male [ la dissomiglianza ], essa è invitata alla speranza da questo gran bene [l a persistenza in sé dell'immagine ].55
È per questo che, più non si piace nel male in cui si vede, più tende ardentemente verso quel bene che vede anche in sé, desiderosa di diventare ciò per cui era stata creata [ non solo un imago, ma una similitudo ], semplice [ per l'assenza di cupidigia ] e retta [ per l'assenza di timore ],56 ma tuttavia timorosa di Dio [ e non del castigo di Dio ] e allontanantesi dal male.
Perché non potrebbe allontanarsene, giacché ha potuto avvicinarvisi?
Perché non potrebbe avvicinarvisi a colui da cui ha potuto allontanarsi?
Io intendo, sia ben chiaro, che lo può se fa conto sulla grazia, non sulla natura e neppure sul suo zelo [ industria ].
Infatti è la sapienza che vince il male ( Sap 7,30 ), non lo zelo, né la natura.
Ma non senza ragione si fa conto sulla grazia poiché è verso il Verbo che la conversione dell'anima la orienta [ il Verbo è proprio la Sapienza ].
Questa feconda parentela dell'anima con il Verbo, di cui parliamo già da tre giorni, non resta sterile [ parentela, infatti il Verbo è Imago, l'anima è ad imaginem ], e neppure la similitudine persistente, testimone di questa parentela [ l'imago ].
Lo Spirito [ introdotto dal Verbo ] ammette con favore nella sua società questa anima che gli assomiglia in natura, e questo per una ragione molto naturale, perché il simile cerca il proprio simile.
Ascoltate la voce di colui che chiama: Ritorna, Sunamita, affinché ti vediamo ( Ct 6,12 ).
Egli la vedrà, ora che gli è simile, lui che non la vedeva più, poiché era a lui dissimile, ma anche lui si offrirà alla sua vista.
Sappiamo che quando ci sarà apparso [ visione beatifica ], saremo simili a lui, perché lo vedremo così come egli è ( 1 Gv 3,2 ).
Questo interrogativo esprime quindi una difficoltà piuttosto che una impossibilità: Signore, chi è simile a te? ( Sal 35,10 ).
O meglio, se voi preferite, diciamo che è una parola di ammirazione.
Similitudine veramente stupefacente e ammirevole quella da cui deriva la visione di Dio, anzi di più, che è la visione di Dio; e intendo dire: nella carità.
Questa visione è la carità, essa è anche questa similitudine [ in quanto ristabilisce la somiglianza, che determina la visione ].
Chi non sarebbe stupito dalla carità di un Dio disprezzato che tuttavia ci richiama?
A ragione viene rimproverato quell'iniquo, di cui abbiamo parlato prima, che usurpa a proprio vantaggio la somiglianza divina [ volendo fornire a se stesso la propria legge, ciò che è privilegio di Dio ], poiché amando l'iniquità [ la volontà propria ] non può né amare se stesso [ poiché non è più se stesso da quando non è più simile a Dio ], né Dio [ poiché si preferisce a lui].
È così che bisogna interpretare queste parole: Colui che ama l'iniquità, odia la propria anima ( Sal 11,6 ).
Una volta dunque tolta questa iniquità, causa in noi della parte di dissomiglianza che vi si trova, vi sarà unione di spirito [ poiché l'unione tra due spiriti è fatta dalla loro somiglianza ], vi sarà mutua visione [ poiché ciascuno dei due può conoscere l'altro conoscendo se stesso ], vi sarà mutua dilezione [ poiché il simile ama il proprio simile ].
In effetti, quando giungerà ciò che è perfetto [ la carità ], verrà eliminato ciò che è parziale in noi [ la dissomiglianza ], vi sarà solo una dilezione mutua, casta e consumata, una mutua e piena riconoscenza, una visione manifesta, una salda congiunzione, una indivisa società, una perfetta similitudine.
Allora l'anima conoscerà così come essa è conosciuta ( 1 Cor 13,10 ); allora amerà così come è amata, e lo Sposo troverà la propria gioia nella Sposa, conoscente e conosciuto, amante e amato.
Gesù Cristo nostro Signore che è Dio e che è benedetto nei secoli dei secoli. Amen. ( SC 82,7-8, II, 297, 1-298,4 ).
Abbiamo cercato di prendere in esame le principali nozioni che entrano nella composizione della mistica di san Bernardo e di suggerire la maniera in cui si collegano.
Bisognerebbe piuttosto dire: alcune delle loro connessioni più frequenti, perché nulla eguaglia la maestria e la disinvoltura delle combinazioni alle quali egli le piega.
Sarebbe un'illusione, certamente ingiusta nei confronti di san Bernardo, considerare queste analisi, anche supponendo che siano sempre esatte, come un equivalente della sua teologia mistica.
Esse sono, nei confronti di questa, nello stesso rapporto in cui sono le parti anatomiche rispetto all'organismo vivente da cui provengono.
Per comprendere nella sua autenticità bisognerebbe poter cogliere, in un'unica e semplice intuizione, l'opera di un Dio che crea l'uomo per associarlo a sé con la beatitudine nella sua somiglianza, che restituisce all'uomo la somiglianza perduta per rendergli la beatitudine perduta e, nell'attesa che la sua opera si compia, eleva gratuitamente sino a una felicità simile le anime che il dono della carità ha già conformato alla sua natura - Deus charitas est - e con tale forza che possano gustare sin d'ora la sua vita beata.
È allora che tra Dio e la creatura, fatta a sua immagine, regna quella conformità perfetta, quell'unità di spirito in cui la sostanza umana trova alla fine la sua piena attuazione; in lei si compie la grande opera della creazione, perché essa diviene ciò per cui era stata creata: uno specchio traslucido nel quale Dio non vede altro che se stesso e dove l'anima non vede altro che Dio: una partecipazione creata della sua gloria e della sua beatitudine.
Indice |
1 | Forse non è superfluo notare, poiché talvolta si attribuiscono alla mistica cistercense delle tendenze panteiste, che essa è la piena fioritura della vita di grazia in noi; ora la grazia è Dio, solo nel senso che essa è il " dono " di Dio. San Bernardo ha fortemente marcato la distinzione tra Dio, carità sostanziale, e la grazia, qualità della carità. La differenza metafisica tra Dio, che è Carità, e l'uomo, che riceve una carità'creata, è quindi chiaramente tracciata: " Dicitur ergo recte caritas, et Deus, et Dei donum. Itaque caritas dat caritatem, substantiva accidentalem. Ubi dantem significat, nomen substantiae est; ubi donum, qualitatis ", Dil XII, 35, in, 149, 26-28. Guglielmo di Saint-Thierry usa la medesima distinzione, in termini molto simili: " Quidquid de Deo potest dici, potest dici et de cariiate; sic tamen ut, considerata secundum naturas doni et dantis, in dante nomen sit substantiae, in dono qualitatis ", Guglielmo di Saint-Thierry, De natura et dignitate amoris, V, 12, P.L., 184, 587-588. I due trattati risalgono all'incirca alla stessa epoca e non sappiamo, qui come altrove, se questa contemporaneità sia indizio di un influsso, ne in quale senso esso si sia esercitato. |
2 | M. Smith, An Introduction to thè Hisfory of Mysticism, S.P.C.K., London 1930. Il problema non è quello di negare l'esistenza di sentimenti poetici corrispondenti, su un piano completamente diverso, agli stati mistici. Tuttavia si tratta di qualcosa di molto diverso a cui la qualifica di mistico potrebbe essere applicata solo icon una sostanziale improprietà. |
3 | Dil X, 28, III, 143, 23-24 |
4 | Dil X, 28, III, 143 |
5 | Gru XIV, 49, III, 201. |
6 | Si troveranno numerosi riferimenti riguardanti l'uso di questa espressione, in W.W. Williams, ed. cit., p. 50, nota 1. |
7 | SC 71, 8-10, II, 220, 5-221, 12. Da questo testo sono tratte le righe scritte nell'epigrafe all'inizio di questo libro. |
8 | Su questo punto vedi A. Harnack, Lebrbuck der Dogmengeschichte, m, Nohr-Siebeck, Tubingen 1909, p. 342. |
9 | " lile autem qui idem ipse est, qui dicit: Ego sum qui sum ( Es 3,14 ), veraciter est, cui est esse quod est. Quae ergo participatio, quae conventio illius qui non est ad illum qui est? Quomodo possunt tam diversa coniungi? Mihi, ait Sanctus, adhaerere Deo bonum est ( Sal 73,28 ). Immediate ei iungi non possumus, sed per medium aliquod poterit fieri fortassis ista coniunctio ", Div 4, 2-3, VI-I, 95, 12-17. Per la formula che segue, vedi Div. 4, 3, VI-I, 96, 4. L'origine della formula è evidentemente san Paolo, 1 Cor 6,17: " Qui autem adhaeret Domino, unus spiritus est ". A lui basta questo testo per fissare una delle posizioni fondamentali della mistica cistercense: solo l'amore è capace di stabilire, tra l'uomo e Dio, l'unità di spirito che è il termine della vita spirituale. Aggiungiamo che il testo di san Paolo era per Bernardo un invito irresistibile a commentare in questo senso il Cantico dei Cantici; san Paolo vi paragona l'unione carnale all'unione spirituale ( 1 Cor 6,16 ); si poteva quindi interpretare il Cantico nel medesimo senso. D'altra parte, come abbiamo già visto, Cicerone ha descritto l'amicizia come il sentimento che fa, di due spiriti, uno solo (vedi sopra, cap. i); Bernardo aveva quindi doppiamente ragione nel vedere nell'amore il principio di unificazione spirituale della creatura al creatore. |
10 | Dico: il modo con cui essa la collega e non il fatto stesso che essa la colleghi. Guglielmo di Saint-Thierry collega allo stesso modo l'unione mistica all'immagine di Dio nell'uomo, ma la sua dottrina è piuttosto una descrizione del modo in cui la " memoria " di Dio, cancellata dal peccato, è progressivamente recuperata dall'anima. La somiglianza si ristabilisce in due modi diversi nelle due dottrine, in quanto non risiede esattamente nello stesso luogo. In san Bernardo si trova nel corretto uso del libero arbitrio; la sua restaurazione è quindi essenzialmente quella della libertà. In Guglielmo risiede soprattutto nella " memoria " agostiniana di Dio, dalla quale nasce la ragione; la restaurazione dell'immagine cancellata consiste quindi nel ricordo della presenza di Dio. Ciascuna dottrina ritrova le conclusioni e fa posto a tutti gli elementi essenziali dell'altra, ma vi arriva secondo vie proprie. |
11 | P. Rousselot, Pour l'histmre du problème de l'amour au moyen àge, pp. 53-54. È interessante leggere attentamente queste due pagine, perché il loro autore continua a correggersi da una riga all'altra e a correggere tutto il testo con una nota (p. 53, nota 1), che conterrebbe gli elementi essenziali della soluzione. Rousselot vede bene che san Bernardo parla dell'annichilamento e che, tuttavia, la personalità individuale, che sembra un ostacolo all'unione mistica, vi è accuratamente conservata. Inoltre, se " la défaillance des àmes est leur état parfait " (p. 54) significa che ciò che manca in loro è la dissomiglianza. Rousselot aveva individuato la risposta giusta scrivendo: " Cela revient a dire qu'on ne peut pleinement posseder Dieu sans pleinement se posseder soi-méme, et que ce proprium dont il faut se débarrasser pour arriver a la perfection de l'amour, ce n'est pas l'appetii naturel, c'est une sollicitude que gène, resserre et restreint l'appetii naturel " (p. 53, nota 1). Nulla di più esatto, e se avesse ricostruito tutto il suo libro su questa base, Rousselot avrebbe visto svanire molte pseudo-contraddizioni che credeva di chiarire, mentre in gran parte era proprio lui a crearle. |
12 | La distruzione del falso me stesso per mezzo dell'amore è certamente ciò che san Bernardo vuole esprimere nel testo che analizziamo e che ora citeremo. Rousselot (op. cit., p. 66) ha d'altra parte avuto il merito di segnalare un testo di sant'Agostino che mostra come san Bernardo abbia semplicemente approfondito la sua indicazione su questo aspetto importante. Il testo è tanto più significativo in quanto sant'Agostino vi commenta Ct 8,6: " Valida est sicut mors dilectio ". Ecco il brano: " Propterea viribus ejus [se. mortis] caritas comparata est, et dictum est, valida est sicut mors dilectio. Et quia ipsa caritas occidit quod fuimus, ut simus quod non eramus, fecit in nobis quamdam mortem dilectio ", S. Agostino, Enarrationes in Psalmos 122,12. Bisogna accuratamente distinguere l'idea della morte, nel senso di distruzione del proprium, o dissomiglianza, dall'idea di languore, stato nel quale si trova l'amore in assenza dell'oggetto amato, e dall'idea di invincibilità dell'amore, che comporta per l'uomo, o anche per Dio, una sconfitta che si deve considerare come un trionfo. Rousselot sembra aver considerato queste idee come derivanti le une dalle altre (pp. 66-67), mentre corrispondono a stati della vita spirituale essenzialmente distinti, e anche opposti. |
13 | Rousselot ha ben osservato che deve essere così anche in san Bernardo: " II n'y a plus de suum, l'otre s'est vide de lui-mème; l'homme qui alme Dieu s'est tran-sporté au centre de tout, il n'a plus d'autres inclinations que celle de l'Esprit ab-solu: il doit aimer, de toutes facons, ce qui est meilleur, il est comme identifié a la Raison pure " (op. cit., p. 70). Lasciamo da parte una terminologia che fa del Deus charitas una Ragione pura; non sono che dettagli. Ciò che è importante, è sapere cosa si intende con suum. Se si commette l'imprudenza di sottintendere con ciò la personalità stessa dell'estatico, si è condotti, come Rousselot, a contrapporre decisamente la concezione detta " estatica " a quella che egli chiama " greco-tomista ", e a distruggere inoltre l'unità del pensiero cistercense. Se è il falso suum, quello della dissomiglianza, che viene eliminato, ne consegue che il più estatico degli amori non esclude ne la sussistenza della parte in quanto tale, ne l'inclusione dell'amore che la parte ha di sé in quello che essa ha per il tutto. Essa allora si ama solo per Dio. Ciò che bisogna aggiungere è che, in questo caso, le espressioni parte e tutto non possono che significare immagine e modello, osservazione che vale sia per san Tommaso che per san Bernardo. L'opposizione che si vuoi stabilire tra le due scuole su questo punto ha per primo risultato quello di distruggere la coerenza dell'una e dell'altra; le loro differenze sono reali, ma esse sono altrove e incomparabilmente meno profonde di quanto non lo siano state queste. |
14 | Debriatus amore: metafora il cui senso è preciso, vedi cap. IV, nota 54, e cap. V, nota 40 |
15 | Malitìa dici: metafora biblica con valore tecnico. Questa espressione ha, in san Bernardo, questo significato: i doveri della vita attiva in quanto ostacolo alla vita contemplativa. Vedi SC 3, 6, I, 17 |
16 | Corpus morfis: la concupiscenza generata dal peccato, vedi cap. IV, nota 17. Cfr. Sap 11,15 citato in SC 16, 1, I, 89 15-16 |
17 | Carnis necessitar, la necessità naturale, i bisogni della natura, in opposizione alla cupidigia peccatrice. Vedi cap. IV, nota 17. |
18 | La necessità di esercitare la carità spirituale verso i fratelli e di aver cura delle loro anime strappa il contemplativo alle sue gioie. Vedi SC 9, 9, I, 47. |
19 | Di ricadere in sua: in quella parte in cui non è uno spirito con Dio e si separa dalla vita divina. |
20 | L'intera struttura della mistica di san Bernardo appare qui chiaramente: Dio ha creato ogni cosa per sé; il fine ultimo dell'uomo è la conformità a Dio; l'estasi porta questa conformità al punto più alto che essa possa raggiungere in questa vita; l'unione mistica consiste quindi nel realizzare la più stretta conformità possibile tra l'immagine creata da Dio e il suo modello. |
21 | Cioè: di non sentire più il bisogno al quale ci sottomette in questa vita la necessità naturale del nostro corpo. Vedi sopra, p. 106 |
22 | Perché così l'avremo ottenuta, ma non penseremo più ad essa come a una ricompensa, non più di quanto Dio, alla cui volontà saremo allora uniti, consideri la propria beatitudine eterna come una ricompensa alla propria perfezione. Torneremo più avanti sulla questione del disinteresse dell'amore. |
23 | In nobis, perché ormai esiste accordo perfetto tra la sua volontà e la nostra; de nobis, perché la realizzazione di questo accordo è il fine per cui Dio ci ha creati. |
24 | SANCTUS, SANCTE: l'amore santo [amor sanctus, sancte amare) è l'amore spirituale di Dio in opposizione alla concupiscenza della carne, " Amat sancte quia non in concupiscentia carnis, sed in puritate spiritus ", SC 7, 3, I, 32, 17-18. |
25 | CASTUS, CASTE: casto, nel linguaggio di san Bernardo, significa sempre: disinteressato. Questo termine vuoi quindi dire che l'amore, in questo stato, tende verso il proprio oggetto per l'oggetto stesso, escludendo ogni altra considerazione e ogni altro sentimento. Per questo motivo amor castus è sinonimo di: amar purus. " Amat profecto caste, quae ipsum quem amat quaerit, non aliud quidquam ipsius ", SC 7, 3, I, 32, 16-17. |
26 | Cioè del proprium: della volontà propria che costituisce in noi la dissomiglianza. |
27 | San Bernardo ha tratto questa espressione, come i paragoni che seguono, da Massimo il Confessore, Ambigua, toc. cit., p. 39 |
28 | Ricordarsi che, nella terminologia di san Bernardo, la forma non è mai la sostanza di cui essa è forma, tanto che un cambiamento di forma non implica alcun cambiamento di sostanza. |
29 | Sia la necessità naturale, sia la propria, cioè qualcosa di ci per cui l'uomo è dissimile da Dio. |
30 | Dil X, 27-28, III, 142, 9-143, 24. |
31 | " Nunc vero, etsi ex parte iam similis, ex parte tamen dissimilis, contenta esto ex parte cognoscere. Teipsam attende, et altiera tè ne quaesieris… Alioquin si igno-ras tè, o pulchra inter mulieres (Cant 1, 7), nam et ergo tè dico pulchram, sed inter mulieres, hoc est ex parte; cum autem venerit quod perfectum est, tunc evacuabiotur quod ex parte est ( 1 Cor 13,10 ). Si ergo ignoras tè. Sed quae sequuntur dieta osunt, et non oportet iterum dici ", SC 38, 5, II, 17, 26-18, 5. |
32 | Perché in esilio "in regione dissimilitudinis ". |
33 | Cioè: tutto ciò che deve fare è rimanere fedele alla nobiltà originale di una natura creata libera, all'immagine di Dio, e di restaurare in sé, mediante l'acquisizione delle virtù, la somiglianza divina che ha perduto per propria colpa. |
34 | Vedi su questo punto, oltre ai testi già analizzati, SC 80, 2-5, II 277-281. La dottrina dell'imago e della similitudo vi è ampiamente sviluppata. |
35 | I rapporti detti di " prossimità " e " lontananza " tra sostanze spirituali sono' in realtà rapporti di somiglianzà e dissomiglianza. Vedi S. Agostino, De Trinitate VII,6 |
36 | Certamente reminiscenza di Cicerone, De amicitia, xxv. Vedi sopra, cap. i. Cfr. Sallustio, De coniuratione Catilinae, XX |
37 | Reminiscenza molto probabile di Cicerone, De amici fio, V: " Namque hoc praestat amicitia propinquitati… ". |
38 | Reminiscenza certa di Cicerone, De amicitia, ix: " Omnis ejus fructus in ipso amore inest… ". Vedi cap. I. |
39 | È in effetti impossibile separare l'amore dalla fiducia. FIDUCIA: stato dell'anima nel quale l'ardore e l'ebbrezza dell'amore, alla quale questo ardore si accompagna, le danno sufficiente fiducia per osare desiderare il bacio dell'unione mistica. fiducia è quindi l'opposto di timor e accompagna la liberazione dell'anima nella carità. È per questo che ogni genere di sfiducia è escluso, come per definizione, dall'amore. "O quanta vis amoris! Quanta in spirita fiducia libertatis! Quid manifestius, quam quod perfecta caritas foras mittit timorem? ( 1 Gv 4,18 ) ", SC 7, 3, I, 32, 23-25. |
40 | ARDENS, ARDENTE": l'amore ardente (amor ardens, amare ardenter) è l'amote giunto a un tale grado dì intensità che dimentica la maestà infinita di Dio e osa desiderare di unirsi a lui. Bemardo paragona spesso questo ardore a un'ebbrezza. Esso è caratteristica della condizione della sposa, in contrasto a quella del discepolo (obbedienza) o del figlio (onore): " Amat ardenter, quae ita proprio debriatur amore, ut maiestatem non cogitet ", SC 7, 3, I, 32, 18-19 |
41 | Vedi sopra, nota 39: FIDUCIA |
42 | Poiché l'amore è un sentimento reciproco per definizione, implica questo accordo di due volontà che costituisce l'unità di spirito. L'unità di spirito, cioè la somiglianza, che è, per gli spiriti, l'equivalente dell'unione carnale nell'ordine corporale. |
43 | È la famosa dottrina della " cupiditas ordinata ", cara a Fénelon; ma qual è il suo significato? Per saperlo, bisogna far riferimento al significato fondamentale dei termini: ORDINATUS, ORDINARE: gli affetti sono ordinati quando si susseguono nell'ordine che conviene per condurre l'uomo al proprio fine. Il loro ordine deve essere: timore, gioia, tristezza, amore. " Ordinantur autem sic: in initio timor, deinde laetitia, post hanc tristitia, in consummatione amor. Compositio quarum talis est: ex timore et laetitia nascitur prudentia, et est timor causa prudentiae, laetitia fructus; de laetitia et tristitia nascitur temperantia, et est tristitia causa temperantiae, laetitia fructus; de tristitia et amore nascitur fortitudo, et est tristitia causa fortitudinis, amor fructus. Clauditur circulus coronae. De amore et timore nascitur iustitia, et est timor causa iustitiae, amor fructus ", Div 50,1, VI-I, 271, 22-273, 3. La dottrina significa quindi che la cupidigia è cattiva se non è preceduta dal timore di Dio: è cattiva perché non può condurci al nostro fine; al contrario se il timore la precede diviene buona perché diviene amore. D'altronde l'ordinamento degli affetti è parente prossimo della loro " purgazione ". Vedi le espressioni: PURGATUS, PURGARE: la purgazione degli affetti consiste nel riferirli al loro fine. Amare ciò che è necessario, amare di più ciò che bisogna amare di più; temere ciò che è necessario, temere di più ciò che bisogna temere di più, ecc. " Sunt autem affectiones istae quattuor notissimae: amor et laetitia, timor et tristitia… Purgantur autem sic. Si amamus quae amanda sunt, si magis amamus quae magis amanda sunt, si non amamus quae amanda non sunt, amor purgatus erit. Sic et de ceteris ", Div 50, 2, VI-I, 271 16-17.20-22. |
44 | San Bernardo si oppone qui direttamente a una delle tesi di Abelardo condannate nel 1140 al Concilio di Sens. Secondo lo spirito della propria dottrina (vedi Appendice II), Abelardo insegnava: " Quod etiam castus timor excludatur a futura vita ", in P. Ruf e M. Grabmann, Ein neuaufgefundenes Bruchstuck der Apologià Abaelards, Bayerische Akademie der Wissenschaften, Mùnchen 1930, p. 10, r. 24-25. Cfr. J. Rivière, Les " capitula " d'Abélard, in " Recherches de théologie ancienne et medievale", 5 (1983) p. 17. |
45 | Il testo più importante su questo punto è la medita2Ìone ampiamente sviluppata che si trova in SC 33, 11-16, I, 241-245. Il testo si sviluppa interamente sul piano mistico, cioè, non della semplice " considerazione ", ma della " contemplazione " propriamente detta (vedi, sul significato di questi termini, Cons II, 5, III, 414; SC 52, 5, n, 92-93). È quindi una serie di visioni, di certezze intuitive, che pongono l'anima in presenza di fatti di cui essa prende atto. Sono, nell'ordine: 1°) la Provvidenza: Dio come potenza ordinatrice dell'universo: " Est locus iste altus et se-cretus, sed minime quietus ", SC 23, 11, I, 145, 28. 2°) Dio come giustiziere: luogo di timore e di tremore (SC 23, 13, I, 147). Questo luogo è superiore al primo in quanto nel primo Dio insegna, nel secondo tocca; il primo è un accessus alla saggezza, il secondo è Yingressus, perché la saggezza inizia con il " sentimento " di Dio (SC 23, 14, I, 147-148). 3°) Dalla paura del giudizio l'anima si getta allora nella certezza della misericordia, della non imputazione del peccato: " Omne quod mihi ipse non imputare decreverit, sic est quasi non fuerit ", SC 23, 15, I, 148, 29-149, 1. (Vedi, su questo punto, solfo, nota 49). L'anima è allora interamente invasa da: a) una totale fiducia nella propria salvezza (fiducia); b) una gioia infusa che trasforma in dolcezza i timori precedenti; e) una devozione " quod non est aliud, nisi concepta de spe indulgentiae exsultatio ", SC 18, 5, I, 106, 27; d) la pace infine, che si stabilisce nella assenza di ogni problema: " Visio ista… inquieta" curiosita-tem non excitat, sed sedat; nec fatigat sensus, sed tranquillai. Hic vere quiescitur. Tranquillus Deus tranquillat omnia", SC 23, 16, I, 149, 19-21. Cfr. SC 16, 7, I, 93-94; SC 6, 8-9, i, 29-30; Div 16, 7, vi-i, 148-149. |
46 | Div VII, 17III, 133-134 |
47 | Questa inevitabile alternanza dell'estasi e dello stato di languore è quindi esattamente l'opposto dell'amore puro. San Bernardo lo chiama: VICISSITUDO: alternanza di presenze e assenze dello sposo, fino a quando l'anima è unita al corpo non glorificato. " Ergo si cui nostrum cum sancto Propheta adhaerere Deo bonum est ( Sal 73,28 ), et, ut loquar manifestius, si quis in nobis est ita desiderii vir, ut cupiat dissolvi et cum Christo esse, cupiat autem vehementer, ardenter sitiat, assidue meditetur: is profecto non secus quam in forma spensi suscipiet Verbum in tempore visitationis, bora videlicet qua se adstringi intus quibusdam brachiis sapientiae atque inde sibi infundi senserit sancti suavitatem amoris. Siquidem desiderium cordis eius tribuetur ei, etsi adhuc peregrinanti in corpore, ex parte tamen, idque ad tempus et tempus modicum. Nam cum vigiliis et obsecrationibus et multo imbre lacrimarum quaesi-tus affuerit, subito, dum teneri putatur, elabitur; et rursum lacrimanti et insectanti occurrens, comprehendi patitur, sed minime retineri, dum subito iterum quasi e ma-nibus avolat. Et si institerit precibus et fletibus devota anima, denuo revertetur, et voluntate labiorum eius non fraudabit eam; sed rursum disparebit et non videbitur, nisi iterum toto desiderio requiratur. Ita ergo et in hoc corpore potest esse de prae-sentia spensi frequens laetitia, sed non copia, quia etsi visitatio laetificat, sed molestai vicissitudo. Et hoc tamdiu necesse est pati dilectam, donec, semel posila corpo-reae sarcina molis, avolet et ipsa levata pennis desideriorum suorum, libere iter car-pens per campos contemplationis, et mente sequens expedita dilectum quocumque ierit ", SC 32, 2, I, 227, 6-24. " Nunc vero constai in anima fieri huiuscemodi vicis-situdines euntis et redeuntis Verbi, sicut ait: Vado et venia ad vos ( Gv 14,28 ); iteci: Modicum, et non videbitis me; et iterum modicum, videbitis me ( Gv 16,17 ). O modicum et modicum! O modicum longum! ", SC 74, 4, II, 241, 28-242.1. |
48 | Dil VIIi, 17, III, 133-134. Rousselot ha visto in questa formula delle
esitazioni di pensiero che segnalano le sue personali esitazioni (op. di., p.
52). Non si può " avec une égale vraisemblance, soutenir, ou que Bernard
condamnait, comme contraire a la pureté de l'amour, le désir de posseder
Dieu,
ou qu'il exceptait ce désir de ses condamnations ". L'amore è il
desiderio di possedere Dio, ma l'amore puro è il possesso di Dio. Non si tratta
quindi di "condannare" questo desiderio ma di " constatare "
che, finché sussiste, l'amore non ha raggiunto il proprio termine che,
dove l'amore raggiunge il proprio termine, ipso facto, sparisce. San Bemardo crede, di conseguenza, che la promessa di una ricompensa è necessaria
nella misura stessa in cui l'amore non è ancora puro, cioè in cui essa non è
ancora stata ottenuta. La vita spirituale è quindi una perpetua alternanza tra
speranze di ricompense (languor), e ricompense (amor purus), nuove speranze e
nuove ricompense: " Praemium sane necdum amanti proponitur, amanti debetur, perseveranti redditur ", Dil vii, 17, III, 134, 6-7. Siamo lontani, come si vede, da ciò che Fénelon considererà come un " état habituel de justes sur la terre ", quello che caratterizza " un amour pleinement désintéressé, qui a été nommé pur, pour faire entendre qu'il n'est d'ordinaire excité par aucun autte motif que celui d'amer uniquement en elle-méme, et pour elle-méme, la souveraine bonté de Dieu ", Fénelon, Explicatìon des Maximes des saints sur la vie intérieure (ed. crit. di A. Chérel), Bloud, Paris 1911, pp. 133, 135. Fénelon ne parla con disinvoltura. Se non ne avesse parlato solo per sentito dire, mai si sarebbe sognato di descrivere come uno stato ciò che per san BernaRdo è un'estasi. |
49 | Sulla radicale differenza della non imputazione del peccato in san Bernardo e in Lutero, leggere le eccellenti osservazioni di W.W. 'Williams, alle quali non trovo nulla da aggiungere; De diligendo Dea (ed. W.W. Williams), University Press, Cambridge 1926, p. 6. San Bernardo dice il suo editore, " has no notion of a mere foren-sic righteousness ". È il minimo che si possa dire, ma è sufficiente. |
50 | " Insomma, il beneplacito di Dio è l'oggetto supremo dell'anima indifferente; dovunque lo scorge, corre all'odore dei suoi profumi, e cerca sempre il luogo dove ce ne sia di più, senza altre considerazioni; si lascia condurre dalla divina volontà come da vincolo amabilissimo, e la segue dovunque vada. Preferirebbe piuttosto l'inferno con la volontà di Dio che il paradiso senza la volontà di lui: anzi, preferirebbe al paradiso l'inferno, se sapesse esservi in questo un po' più del beneplacito divino che in quello, cosicché se, per impossibile, sapesse che la sua dannazione fosse più gradita a Dio che la sua salvezza, rinunzierebbe alla salvezza e correrebbe alla dannazione ", S. Francesco di Sales, Trattato dell'amar di Dio, IX, IV, UTET, Torino 1969, pp. 729-730. Cfr. Fénelon, Explication des Maximes des saints, ed. A. Chérel, pp. 136-138 |
51 | " Parecchie persone si compiacciono nell'amore divino solo se presentato con lo zucchero di qualche soavità sensibile, e farebbero volentieri come i bambini, i quali, quando si da loro del miele su un boccone di pane, leccano e succhiano il miele e poi gettano via il pane; infatti, se la soavità fosse separabile dall'amore, lascerebbero l'amore e succhierebbero la soavità; pertanto, siccome seguono l'amore per la soavità, quando non vi trovino questa, non fanno conto dell'amore ". S. Francesco di Sales, Trattato dell'amar di Dio, IX, X, UTET, Torino 1969, p. 747. " Lo stesso accade, o Teotimo, ad un'anima grandemente travagliata da pene ulteriori. Infatti, sebbene abbia la possibilità di credere, di sperare e di amare Dio, e in realtà lo faccia, non ha però la forza di ben discernere se creda, se speri e se ami il suo Dio, poiché l'angoscia la occupa e la opprime così fortemente da essere incapace di riflettere sopra di sé per vedere quello che fa, e quindi le pare di non avere ne fede ne speranza ne carità, ma soltanto fantasmi e vane impressioni di tali virtù, sentendole quasi senza sentirle e sentendole come estranee, non come familiari alla sua anima… Tali sono i sentimenti dell'anima, che prova angustie spirituali, le quali rendono estremamente puro e netto l'amore, poiché, spoglio di ogni piacere che possa attaccarlo al suo Dio, ci congiunge e ci unisce immediatamente a Dio, volontà a volontà, cuore a cuore, senza che s'interponga soddisfazione o protesta di sorta. Oh, come è afflitto, o Teotimo, il povero cuore, quando, credendosi abbandonato dall'amore, cerca dappertutto e gli pare di non trovarlo! Non lo trova nei sentimenti esterni, poiché non ne sono capaci; non nell'immaginazione, che è crudelmente tormentata da varie impressioni; non nella ragione turbata da mille oscurità di discorsi e di apprensioni strane; e benché finalmente lo trovi nella punta più alta dello spirito, dove risiede la divina dilezione, tuttavia non lo riconosce e non gli sembra che si tratti di amore, perché la grandezza delle pene e delle tenebre gli impedisce di sentirne la dolcezza. Essa lo vede senza vederlo, lo incontra senza cono-scerlo, come se fosse in sogno o in immagine. Così la Maddalena, incontrato il suo caro Maestro, non ne provò conforto, perché non pensava che fosse lui, ma soltanto il giardiniere ", S. Francesco di Sales, Trattato dall'amor di Dio, IX, XII, UTET, Torino 1969, pp. 750-752. |
52 | Questa iniziale divergenza di punti di vista spiega perché le citazioni di san Bernardo con le quali Fénelon arricchisce i propri scritti sono quasi sempre sofistiche. Esse non lo sono intenzionalmente, ma era inevitabile che lo fossero, poiché l'amore puro non ha il medesimo significato nelle due dottrine. Temo di penetrare nell'Aorta? conclusus nel quale non ho alcun diritto di accesso, ma è forse permesso dire che la vita spirituale di Fénelon, e anche la tenerezza di san Francesco di Sales, sarebbero, agli occhi di san Bernardo, stati permanenti di languor. Per questo, mancando la certezza trionfante che solo l'estasi offre, rimane loro, per persuadersi della purezza del loro amore, solo l'accettazione dell'aridità. Lo stesso san Francesco di Sales fa conto solo sulle angosce per rendere l'amore puro e netto (vedi sopra, nota 51); questo amore puro assomiglia più a quello dei poeti cortesi o del- l'Astrea che a quello di san Bernardo, per il quale non è l'aridità o il languore che purifica l'amore, ma l'ardore. |
53 | "Exponit beatus Gregorius quia amor ipse notitia est", Dsv 29, 1, VI-I, 210, 10-11. Cfr. Gregorio Magno, In Evangelio, Hom. fi, P.L. 76, 1207: "Dum enim audita supercoelestia amamus, amata jam novimus, quia amor ipse notitia est ". Ricordiamo d'altra parte che Gregorio, come Bernardo, dipende qui da 1 Gv 4,7-8 |
54 | " Nani neque hoc luminare magnum, solem loquor istum, quem quotidie vides, vidisti tamen aliquando sicuti est, sed tantum sicut illuminai, verbi gratia, aerem, montem, parietem. Quod ne ipsum quidem aliquatenus posses, si non aliqua ex parte ipsum lumen corporis tui, prò sui ingenita serenitate et perspicuitate, cadesti lumini simile esset. Non denique alterum membrum corporis capax est luminis, ob multam utique dissimilitudinem. Sed nec ipse oculus, cum turbatus fuerit, lumini propinquabit, nimirum ob amissam similitudinem. Qui ergo turbatus nullatenus se-renum solem videt propter dissimilitudinem, serenus aliquatenus videt propter non-nullam similitudinem. Profecto si pari prorsus puritate vigeret, videret omnino inof-fensa acie eum sicuti est, propter omnimodam similitudinem. Ita et Solem iustitiae illuni, qui illuminat omnem hominem venientem in hunc mundum, videre in hoc mundo, sicut illuminat, illuminatus potes, tamquam iam in aliquo similis; sicuti est, omnino non potes, tamquam nondum perfecte similis ", SC 31, 2, i, 220, 11-24. |
55 | Questo grande bene è ciò che san Bernardo designa talvolta con una sola parola e che ricorda che siamo fatti a immagine di Dio: DIGNITAS: nel senso forte: il libero arbitrio: "Dignitatem in nomine liberum dico arbitrium, in quo ei nimirum datum est ceteris non solum praeeminere, sed et praesidere animantibus ", Dil II, 2, III, 121, 15-17. Cfr. Gru IX, 28, III, 185-186. L'origine dell'espressione è probabilmente stoica. Sulla " preminenza " conferita all'uomo dal libero arbitrio, vedi Cicerone, De natura deorum, II, 11 (citato da W.W. Williams, ed. cit., p. 11, nota 15). |
56 | Sul significato di " retta " e di " curva "-stato dell'anima che ha perso la somiglianza divina e si è abbassata verso ciò che è terrestre - vedi SC 24, 6-7, I, 157-161 |