Paterna cum benevolentia
Ci rivolgiamo con affetto, con fiducia e con speranza a tutti voi, confratelli nell'episcopato, membri amatissimi del clero, delle famiglie religiose e del laicato cattolico, all'inizio ormai della celebrazione dell'anno santo a Roma, presso le basiliche degli apostoli, dopo che, in pietà e in concordia di sentimenti e di propositi, voi avete già celebrato il giubileo nel cuore delle singole chiese locali.
È un momento di grande importanza per tutto il mondo, che guarda alla chiesa; ma lo è principalmente per i figli della chiesa stessa, i quali sono consapevoli della ricchezza del suo mistero di santità e di grazia, che il recente concilio ha opportunamente lumeggiato.
E perciò ad essi ci rivolgiamo per un caldo invito alla carità, alla unione reciproca, nello spirito della riconciliazione proprio dell'anno santo, nel vincolo dell'unica carità di Cristo.
Infatti, fin dal momento in cui noi, il 9 maggio 1973, manifestammo la nostra deliberazione di celebrare l'anno santo nel 1975, dichiarammo anche la finalità primaria di questa celebrazione spirituale e penitenziale: la riconciliazione che, fondata sulla conversione a Dio e sul rinnovamento interiore dell'uomo, risanasse le rotture e i disordini, di cui soffre oggi l'umanità e la stessa comunità ecclesiale.
Iniziatasi, poi, per nostra decisione, la celebrazione giubilare nelle chiese particolari fin dalla pentecoste del 1973, noi non abbiamo tralasciato alcuna occasione per accompagnarne lo svolgimento con i nostri interventi dottrinali e pastorali e con pressanti richiami a detta finalità, ritenendola in perfetta coerenza con lo spirito più autentico del vangelo e con le linee di rinnovamento tracciate dal concilio Vaticano II a tutta la chiesa.
Questa, istituita da Cristo come permanente attestazione della riconciliazione da lui compiuta in adempimento della volontà del Padre, ha il compito di " rendere presenti e quasi visibili Dio Padre e il Figlio suo incarnato, rinnovando se stessa e purificandosi senza posa sotto la guida dello Spirito santo ".
È parso, perciò, a noi necessario, perché a quel compito sia data sempre migliore soddisfazione, accentuare l'urgenza che tutti nella chiesa promuovano la " unità dello Spirito per mezzo del vincolo della pace " ( Ef 4.3 ).
Nell'imminenza, quindi, della solennità del natale del Signore - data da noi stabilita per l'apertura del giubileo universale a Roma -, rivolgiamo questa nostra esortazione ai pastori e ai fedeli della chiesa, affinché tutti si facciano attori e promotori di riconciliazione con Dio e con i fratelli, e il prossimo natale dell'anno santo sia davvero, per il mondo, il " natale di pace" come lo fu quello del Salvatore.
La chiesa ha avuto coscienza, fin dalle origini, della trasformazione attuata dall'opera redentrice di Cristo, e ne ha dato il lietissimo annuncio: che, per essa, il mondo è divenuto una realtà radicalmente nuova ( 2 Cor 5,17 ), nella quale gli uomini hanno ritrovato Dio e la speranza ( Ef 2,12 ) e, fin d'ora, sono resi partecipi della gloria di Dio " per mezzo del signore nostro Gesù Cristo, dal quale ora abbiamo ottenuto la riconciliazione " ( Rm 5,11 ).
Tale novità è dovuta esclusivamente all'iniziativa misericordiosa di Dio ( 2 Cor 5,18-20; Col 1,20-22 ), essa viene incontro all'uomo che, allontanatosi da lui per sua propria colpa, non poteva più ritrovare la pace col suo Creatore.
Quella iniziativa di Dio, poi, si è attualizzata mediante un intervento direttamente divino.
Egli, infatti, non ci ha semplicemente perdonati, né si è servito di un semplice uomo intermediario tra noi e lui; ma ha costituito il suo " unigenito Figlio come intercessore di pace ": " colui che non aveva conosciuto peccato, Dio lo trattò da peccato in nostro favore, perché noi potessimo diventare per mezzo di lui giustizia di Dio " ( 2 Cor 5,21 ).
In realtà Cristo, morendo per noi, ha cancellato " il documento scritto del nostro debito, le cui condizioni ci erano sfavorevoli.
Egli lo ha tolto di mezzo inchiodandolo alla croce " ( Col 2,14 ); e, per mezzo della croce, ci ha riconciliati con Dio, " distruggendo in se stesso l'inimicizia " ( Ef 2,16 ).
La riconciliazione, attuata da Dio in Cristo crocifisso, si iscrive nella storia del mondo, che annovera ormai tra le sue componenti irreversibili l'evento di Dio fattosi uomo e morto per salvarlo.
Ma essa trova permanente espressione storica nel corpo di Cristo, che è la chiesa, nella quale il Figlio di Dio convoca " i suoi fratelli da tutte le genti ", e, in quanto suo capo ( Col 1,18 ), ne è il principio di autorità e di azione che la costituisce sulla terra quale " mondo riconciliato ".
Poiché la chiesa è il corpo di Cristo e Cristo è " il salvatore del suo corpo " ( Ef 5,23 ), tutti, per essere membri degni di questo corpo, devono, in fedeltà all'impegno cristiano, contribuire a mantenerlo nella sua natura originaria di comunità di riconciliati, derivante da Cristo nostra pace ( Ef 2,14 ) che " ci rende rappacificati ".
La riconciliazione, infatti, una volta ricevuta, è, come la grazia e come la vita, un impulso e una corrente che trasforma i suoi beneficiari in operatori e trasmettitori della medesima.
Per ogni cristiano, questa è la credenziale della sua autenticità nella chiesa e nel mondo: " Inizia la pace da te, affinché, quando tu stesso sarai pacifico, possa portare la pace agli altri ".
Il dovere della pacificazione attinge personalmente tutti e singoli i fedeli; e, senza il suo adempimento, rimane inefficace perfino il sacrificio cultuale che intendessero fare ( Mt 5,23 ).
La riconciliazione reciproca partecipa, infatti, dello stesso valore del sacrificio stesso, e con questo costituisce insieme un'unica offerta a Dio gradita.
Affinché, poi, tale dovere sia effettivamente adempiuto, e la riconciliazione, che si opera nell'intimo del cuore, abbia anche carattere pubblico come la morte di Cristo che la procura, il Signore, ha conferito agli apostoli e ai pastori della chiesa, loro successori, il " ministero della riconciliazione " ( 2 Cor 5,18 ).
Essi, perciò, "assumendo quasi la persona di Cristo", sono stabilmente deputati a "edificare il proprio gregge nella verità e nella santità".
La chiesa, dunque, perché "mondo riconciliato", è anche realtà nativamente e permanentemente riconciliante; e, in quanto tale, essa è presenza e azione di Dio "che riconcilia a sé il mondo in Cristo" ( 2 Cor 5,19 ), le quali si esprimono primariamente nel battesimo, nel perdono dei peccati e nella celebrazione eucaristica, attualizzazione del sacrificio redentore di Cristo e segno efficace dell'unità del popolo di Dio.
La riconciliazione, nel suo duplice aspetto di recuperata pace tra Dio e gli uomini e degli uomini tra loro è il primo frutto della redenzione; ed ha, come questa, dimensioni universali tanto in estensione quanto in intensità.
In essa, quindi, è coinvolta tutta la creazione " fino ai tempi della restaurazione di tutte le cose " ( At 3,21 ), quando tutte le creature si incontreranno di nuovo con Cristo, il primogenito dei morti risuscitati ( Col 1,18 ).
E poiché detta riconciliazione trova privilegiata espressione e più densa concentrazione nella chiesa, questa è " come un sacramento o segno e strumento dell'intima unione con Dio e dell'unità di tutto il genere umano "; il luogo, cioè, di irraggiamento di unione degli uomini con Dio e di unità tra loro, che, attraverso progressiva affermazione nel tempo, troverà compimento nella consumazione dei tempi.
Per poter esprimere pienamente questa sua sacramentalità, alla quale è legata la sua stessa ragion d'essere, bisogna che la chiesa, come si richiede per ogni sacramento, sia segno significante; che realizzi e verifichi, cioè, quella concordia e convergenza di dottrina, di vita e di culto, che caratterizzarono i suoi primi giorni ( At 2,42 ), e che rimangono per sempre suo elemento essenziale ( Ef 4,4-6; 1 Cor 1,16 ).
Questa concordia - al contrario di ogni divisione che attentasse alla compattezza della sua compagine - non può che aumentare la forza della sua testimonianza, svela le ragioni della sua esistenza, e illumina maggiormente la sua credibilità.
Occorre, perciò, che tutti i fedeli, per cooperare ai disegni di Dio nel mondo, perseverino nella fedeltà allo Spirito santo, il quale unifica la chiesa " nella comunione e nel ministero " e " con la forza del vangelo fa ringiovanire la chiesa, e la rinnova continuamente e la conduce alla perfetta unione col suo sposo ".
Questa fedeltà non potrà non avere felici ripercussioni ecumeniche sulla ricerca dell'unità visibile di tutti i cristiani, nel modo da Cristo stabilito, in una sola e medesima chiesa; la quale sarà così più efficace fermento di coesione fraterna nella comunità delle genti.
Nondimeno, " benché la chiesa per la virtù dello Spirito santo sia rimasta sempre sposa fedele del suo Signore, e non abbia mai cessato di essere segno di salvezza nel mondo, tuttavia non ignora affatto che tra i suoi membri, sia chierici che laici, nella lunga serie dei secoli passati, non sono mancati di quelli che non furono fedeli allo Spirito di Dio ".
In realtà " in questa chiesa di Dio una ed unita, sono sorte fin dai primissimi tempi alcune scissioni, condannate con gravi parole dall'apostolo ".
Quando, poi, avvennero le note fratture non sapute arginare, la chiesa superò la situazione di interiore dissenso riaffermando chiaramente, come condizione insostituibile di comunione, quei principi che consentivano di mantenere intatta la sua unità costitutiva, e permettevano di manifestarla " nella confessione di una sola fede, nella comune celebrazione del culto divino e nella fraterna concordia della famiglia di Dio ".
Ma appaiono egualmente pericolosi, tali da richiedere questa chiarificazione e questo invito all'unità, i fermenti di infedeltà allo Spirito santo che qua e là si trovano nella chiesa ai nostri giorni, e tentano purtroppo di minarla dall'interno.
I promotori e le vittime di tale processo, in realtà poco numerosi in paragone dell'immensa maggioranza dei fedeli, pretendono di restare nella chiesa con gli stessi diritti e le stesse possibilità di espressione e di azione degli altri per attentare all'unità ecclesiale; e non volendo riconoscere nella chiesa un'unica realtà risultante da un duplice elemento umano e divino, analoga al mistero del Verbo incarnato, che la costituisce " sulla terra comunità di fede, di speranza e di carità quale organismo visibile ", mediante la quale Cristo " diffonde su tutti la verità e la grazia ", essi si oppongono alla gerarchia, quasi che ogni atto di opposizione sia un momento costitutivo della verità sulla chiesa da far riscoprire quale Cristo l'avrebbe istituita; mettono in causa il dovere dell'obbedienza all'autorità voluta dal Redentore; mettono in stato d'accusa i pastori della chiesa non tanto per quel che fanno o come lo fanno, ma semplicemente perché, come affermano, sarebbero i custodi di un sistema o apparato ecclesiastico concorrente con l'istituzione di Cristo; in tal modo essi provocano sconcerto nella intera comunità, introducendo in essa il frutto di teorie dialettiche estranee allo Spirito di Cristo.
Utilizzando le parole del vangelo, essi ne alterano il significato.
Noi osserviamo con pena questo stato di cose, anche se, come abbiamo detto, è ben piccolo in confronto con la gran massa dei cristiani fedeli; ma non possiamo non insorgere con lo stesso vigore di s. Paolo contro questa mancanza di lealtà e di giustizia.
Noi facciamo appello a tutti i cristiani di buona volontà perché non si lascino impressionare o disorientare dalle indebite pressioni di fratelli purtroppo sviati, e che pure sono sempre presenti alla nostra preghiera e vicini al nostro cuore.
Quanto a noi, riaffermiamo che l'unica chiesa di Cristo, " in questo mondo costituita e organizzata come società, sussiste nella chiesa cattolica, governata dal successore di Pietro e dai vescovi in comunione con lui, ancorché al di fuori del suo organismo si trovino parecchi elementi di santificazione e di verità ", riaffermiamo pure che questi pastori della chiesa, che presiedono al popolo di Dio in nome suo, con l'umiltà dei servi, ma anche con la franchezza degli apostoli ( At 4,31 ) ai quali succedono, hanno il diritto e il dovere di proclamare: "Fino a quando… sediamo in questa sede, fino a quando presiediamo, abbiamo autorità e forza, anche se ne siamo indegni".
Il processo che abbiamo descritto prende la forma di un dissenso dottrinale, che si vuol patrocinare dal pluralismo teologico ed è spinto, non di rado, fino al relativismo dogmatico, riduttore, in diverse maniere, dell'integrità della fede.
E anche quando non è spinto fino al relativismo dogmatico, detto pluralismo viene a volte considerato legittimo luogo teologico, tale da consentire prese di posizione contro il magistero autentico dello stesso romano pontefice e della gerarchia episcopale, unici interpreti autorevoli della divina rivelazione contenuta nella s. tradizione e nella s. scrittura.
Noi riconosciamo al pluralismo di ricerca e di pensiero che variamente esplora ed espone il dogma, ma senza eliminare l'identico significato obiettivo, legittimo diritto di cittadinanza nella chiesa, come naturale componente della sua cattolicità, nonché segno di ricchezza culturale e di impegno personale di quanti ad essa appartengono.
Riconosciamo anche i valori inestimabili da esso immessi nel campo della spiritualità cristiana, delle istituzioni ecclesiali e religiose, come pure nel campo delle espressioni liturgiche e norme disciplinari: valori confluenti in quella "varietà che agisce insieme" la quale "dimostra con maggiore evidenza la cattolicità della chiesa indivisa".
Ammettiamo, anzi, che un equilibrato pluralismo teologico trova fondamento nello stesso mistero di Cristo, le cui imperscrutabili ricchezze ( Ef 3,8 ) trascendono le capacità espressive di tutte le epoche e di tutte le culture.
La dottrina della fede, quindi, che da quel mistero necessariamente deriva - poiché, in ordine alla salvezza, " non c'è altro mistero di Dio, se non il Cristo " - reclama esplorazioni sempre nuove.
In realtà le prospettive della parola di Dio sono tante e tante sono le prospettive dei fedeli che le esplorano che la convergenza nella stessa fede non è mai immune da peculiarità personali nell'adesione di ciascuno.
Tuttavia le accentuazioni diverse nella comprensione della stessa fede non ne pregiudicano i contenuti essenziali, perché esse sono unificate nella comune adesione al magistero della chiesa; il quale, mentre è, come norma prossima, determinante della fede di tutti, tutti anche garantisce dal giudizio soggettivo di ogni differenziata interpretazione della medesima.
Ma che dire di quel pluralismo che considera la fede e la sua enunciazione non come eredità comunitaria, quindi ecclesiale, ma come un ritrovato individuale della libera critica e del libero esame della parola di Dio?
Infatti, senza la mediazione del magistero della chiesa, al quale gli apostoli affidarono il loro stesso magistero, e che, perciò, insegna " soltanto ciò che è stato trasmesso ", rimane compromesso il sicuro congiungimento con Cristo tramite gli apostoli, che sono i " trasmettitori di ciò che essi stessi avevano ricevuto ".
E perciò, una volta compromessa la perseveranza nella dottrina trasmessa dagli apostoli, avviene che, forse volendo eludere le difficoltà del mistero, si cercano formule di illusoria comprensibilità che ne dissolvono il contenuto reale; e si costruiscono, così, dottrine non aderenti all'obiettività della fede o addirittura ad essa contrarie e, per di più, cristallizzate in coesistenza di concezioni opposte anche tra loro.
Non ci si deve, inoltre, nascondere che ogni cedimento nella identità della fede importa anche decadimento nello scambievole amore.
Quelli, infatti, che han perduto la gioia che dalla fede deriva ( Fil 1,25 ), sono spinti a mendicare gloria gli uni dagli altri e a non cercare quella che viene solo da Dio ( Gv 5,44 ), con detrimento della comunione fraterna.
Al senso della chiesa, che a tutti fa riconoscere la stessa dignità e libertà dei figli di Dio, non si può sostituire lo spirito di parte che porta a scelte discriminanti, privando, in tal modo, la carità anche nel suo naturale supporto, che è la giustizia.
Sarebbe un intento vano quello di trasformare in meglio la comunione ecclesiale secondo il tipo condiviso a livello di gruppo.
Non dobbiamo, invece, tutti perfezionarci attraverso il vangelo?
E dove, questo, manifesta interamente operante la sua virtù divinamente congenita, se non nella chiesa, con l'apporto di tutti indistintamente i credenti?
Infine, tale spirito di parte si riflette negativamente anche nella necessaria convergenza di culto e di preghiera, e si traduce in un isolamento dettato da spirito di presunzione, non certo evangelico, che preclude la giustificazione davanti a Dio ( Lc 18,10-14 ).
Noi, per quanto ci è possibile, vogliamo comprendere la radice di questa situazione, e la paragoniamo all'analoga situazione in cui vive l'odierna società civile, divisa in gruppi l'un l'altro opposti.
Purtroppo, anche la chiesa sembra subire un po' il contraccolpo di una tale condizione: eppure essa non deve assimilare ciò che è piuttosto uno stato patologico.
La chiesa deve conservare la sua originalità di famiglia unificata nella diversità dei suoi membri; anzi, essa dev'essere il lievito che aiuta la società a reagire, come si diceva dei primi cristiani: " Vedete quanto si amano! ".
È con questo quadro della prima comunità davanti a gli occhi - quadro non certo idillico, ma maturato attraverso la prova e la sofferenza - che noi chiediamo a tutti di superare le illegittime e pericolose diversità per riconoscersi fratelli che l'amore di Cristo unisce.
Le interne opposizioni interessanti i vari settori della vita ecclesiale, qualora si stabilizzano in uno stato di dissidenza, portano a contrapporre all'unica istituzione e comunità di salvezza una pluralità di " istituzioni o comunità del dissenso ", che non sono secondo la natura della chiesa, la quale con la creazione di opposte frazioni e fazioni, fissate su posizioni inconciliabili, perderebbe il suo stesso tessuto costituzionale.
Avviene allora la polarizzazione del dissenso in forza della quale tutto l'interesse è concentrato sui rispettivi gruppi, praticamente autocefali, ognuno dei quali ritiene di rendere onore a Dio.
Questa situazione porta in sé e introduce per quanto può, nella comunione ecclesiale, i germi della disgregazione.
Auspichiamo vivamente che la voce della coscienza induca i singoli individui a un processo di riflessione che li porti ad una più consapevole scelta.
Noi a questo, tutti e ciascuno, esortiamo: "Scruta l'intimo segreto del tuo cuore e penetra, da diligente esploratore, nei meandri della tua anima".
E in ciascuno vorremmo risvegliare la nostalgia di quanto ha perduto: " Ricorda dunque da dove sei caduto, ravvediti e compi le opere di prima " ( Ap 2,5 ).
E vorremmo esortare ciascuno a riconsiderare il prodigio divino che in lui s'è compiuto e ad avvertirne le condizionanti esigenze davanti al Signore: " Di nient'altro deve avere paura il cristiano che di essere separato dal corpo di Cristo.
Se, infatti, viene separato dal corpo di Cristo, non è suo membro; se non è suo membro, non è alimentato dal suo Spirito.
E se qualcuno - dice l'apostolo - non ha lo Spirito di Cristo, non gli appartiene ".
È, quindi, una necessità vitale che tutti nella chiesa, vescovi, sacerdoti, religiosi, laici, prendano parte attiva ad un comune sforzo di piena riconciliazione, perché in tutti e tra tutti sia ricomposta la pace " nutrice di amore e genitrice di unità ".
Si manifesti, dunque, ciascuno sempre più docile discepolo del Signore, che fa della riconciliazione tra noi la condizione per essere perdonati dal Padre ( Mc 11,25 ), e della mutua carità la condizione per essere riconosciuti come discepoli suoi ( Gv 13,35 ).
Chiunque, perciò, si senta in qualsiasi modo implicato in questo stato di divisione, ritorni ad ascoltare la sua voce che lo incalza irresistibile anche nel momento in cui sta per pregare: "Va' prima a riconciliarti con il tuo fratello" ( Mt 5,24 ).
Tutti in pari tempo, in misure e forme diverse secondo la posizione e lo stato di ciascuno, riconsiderando l'opera salvatrice di Dio nei nostri riguardi, siano impegnati a creare il clima adatto perché la riconciliazione diventi effettiva.
Poiché noi siamo stati riconciliati con lui per esclusiva iniziativa del suo amore, sia il nostro comportamento improntato alla benevolenza e alla misericordia, perdonandoci a vicenda come Dio in Cristo ha perdonato noi ( Ef 4,31-32 ).
E poiché la nostra riconciliazione deriva dal sacrificio di Cristo volontariamente morto per noi, sia la croce, posta come albero maestro nella chiesa per guidarla nella sua navigazione nel mondo, l'ispiratrice delle nostre reciproche relazioni, perché tutte siano veramente cristiane.
Da nessuna di esse sia assente qualche rinuncia personale.
Ne conseguirà una fraterna apertura agli altri, tale da far riconoscere volentieri le capacità di ciascuno, e da consentire a tutti di dare il proprio apporto all'arricchimento dell'unica comunione ecclesiale " così che tutto e le singole parti sono rafforzate, comunicando ognuna con le altre e concordemente operando per la pienezza ".
In questo senso, si può consentire sul fatto che l'unità ben compresa permette a ciascuno di sviluppare la propria personalità.
Questa apertura agli altri, sorretta da volontà di comprensione e da capacità di rinuncia, renderà stabilmente e ordinatamente operante quell'atto di carità comandatoci dal Signore, che è la correzione fraterna ( Mt 18,15 ).
Dato che questa può essere fatta da qualunque fedele ad ogni fratello nella fede, può essere il mezzo normale per risanare non pochi dissensi o per impedire che ne sorgano.
A sua volta, essa spinge chi la compie a toglier la trave dal suo occhio ( Mt 7,5 ), perché non sia pervertito l'ordine della correzione.
E quindi la pratica della medesima si risolve in principio di animazione verso la santità, che sola può dare alla riconciliazione la sua pienezza; la quale consiste non in una pacificazione opportunistica che maschererebbe la peggiore delle inimicizie, ma nella conversione interiore e nell'amore unificante in Cristo che ne deriva, quale si effettua principalmente nel sacramento della riconciliazione, che è la penitenza, mediante la quale i fedeli " ricevono dalla misericordia di Dio il perdono delle offese fatte a lui e insieme si riconciliano con la chiesa, alla quale hanno inflitto una ferita col peccato ", purché " questo,.. sacramento di salvezza… prenda radice in tutta la loro vita e li spinga ad un più fervente servizio di Dio e dei fratelli ".
Rimane tuttavia che " nella struttura del corpo di Cristo vige una diversità di membri e offici ", e che questa diversità provoca inevitabili tensioni.
Esse sono riscontrabili anche nei santi, ma non tali da uccidere la concordia, non tali da distruggere la carità.
Come impedire che esse degenerino in divisione?
È da quella stessa diversità di persone e di funzioni che deriva il sicuro principio di coesione ecclesiale.
Di quella diversità, infatti, sono componente primaria e insostituibile i pastori della chiesa, costituiti da Cristo suoi ambasciatori presso gli altri fedeli e dotati, per questo, di un'autorità che, trascendendo le posizioni ed opzioni dei singoli, tutte le unifica nell'integrità del vangelo, che è appunto la " parola della riconciliazione " ( 2 Cor 5,18-20 ).
L'autorità con la quale essi lo propongono è vincolante non per accettazione da parte degli uomini, ma per conferimento da parte di Cristo ( Mt 28,18; Mc 16,15-16; At 26,17s ).
Poiché, dunque, chi ascolta o disprezza loro ascolta o disprezza Cristo e colui che lo ha mandato ( Lc 10,16 ), il dovere d'obbedienza dei fedeli all'autorità dei pastori è esigenza ontologica dello stesso essere cristiano.
I pastori della chiesa, d'altra parte, formano costituzionalmente un unico corpo indiviso col successore di Pietro e in dipendenza da lui; perciò dal concorde adempimento e dalla fedele accettazione del loro ministero dipende l'unità di fede e di comunione di tutti i credenti, manifestazione al mondo della riconciliazione attuata da Dio nella sua chiesa.
Che trovi, dunque, esaudimento la comune invocazione al Salvatore: " Assisti sempre il collegio dei vescovi col nostro Papa; e concedi ad essi i doni dell'unità, della carità e della pace ".
Che i sacri pastori, come in modo eminente e visibile rappresentano Cristo stesso e ne fanno le veci, così imitino e trasfondano nel popolo di Dio l'amore con cui egli si è immolato: "ha amato la chiesa e ha dato se stesso per lei" ( Ef 5,25 ).
E sia questo loro rinnovato amore, esempio efficace per i fedeli, in primo luogo per i sacerdoti e i religiosi, che fossero venuti meno alle esigenze del proprio ministero e vocazione, di modo che tutti nella chiesa, " con un cuore solo e un'anima sola " ( At 4,32 ), tornino ad essere impegnati " a propagare il vangelo della pace " ( Ef 6,15 ).
La madre chiesa guarda con amarezza all'abbandono di alcuni suoi figli insigniti del sacerdozio ministeriale o, con altro speciale titolo, consacrati al servizio di Dio e dei fratelli.
Tuttavia trova sollievo e gioia nella generosa perseveranza di tutti quelli rimasti fedeli ai loro impegni con Cristo e con la chiesa; e, sorretta e confortata dai meriti di questa moltitudine, essa vuole convertire anche il dolore che le è stato arrecato in amore che tutto può comprendere e che tutto può in Cristo perdonare.
Noi, che in quanto successori di Pietro, non certo per nostro merito personale, ma in virtù del mandato apostolico a noi trasmesso, siamo, nella chiesa, visibile principio e fondamento di unità dei sacri pastori come pure della moltitudine dei fedeli, rivolgiamo il nostro appello al pieno ristabilimento del bene supremo della riconciliazione con Dio, dentro di noi e tra di noi, affinché la chiesa sia nel mondo segno efficace di unione con Dio e di unità tra tutte le sue creature.
È questa un'esigenza della nostra fede nella chiesa stessa, " che nel Simbolo professiamo una, santa, cattolica e apostolica ".
Ad amarla, a seguirla, ad edificarla noi tutti pressantemente scongiuriamo, facendo nostre le parole di s. Agostino: " Amate questa chiesa, siate in tale chiesa, siate tale chiesa ".
È l'invito che rivolgiamo a tutti i nostri figli, specialmente a quanti hanno la responsabilità di guidare i fratelli, con questa esortazione.
L'abbiamo voluta pastorale e piena di fiducia, dettata da uno spirito di pace.
Forse, a qualcuno potrà sembrare severa.
Ma essa è nata da uno sguardo gettato in profondità sulla situazione della chiesa, da una parte, e sulle esigenze irrinunciabili del vangelo, dall'altra.
Ma è scaturita specialmente dal nostro cuore: Noi abbiamo il dovere di amare la chiesa con lo stesso spirito della allegoria del tralcio che dev'essere potato per portare maggiore frutto ( Gv 15,2 ).
Questa esortazione, infine, è sorretta da una grande speranza, che il grave peso del nostro apostolico mandato non ha mai alterata.
Noi siamo grati alla fedeltà di Dio.
Noi speriamo che lo Spirito santo susciterà un'irresistibile eco alle nostre parole: egli è già presente e operante nel segreto del cuore di ciascun fedele, e tutti condurrà, nell'umiltà e nella pace, sulle vie della verità e dell'amore.
È lui la nostra forza. Sappiamo che l'immensa maggioranza dei figli della chiesa attendeva un tale richiamo, ed è preparata ad accoglierlo con frutto.
Auspichiamo che l'intero popolo di Dio - è il nostro voto ardente - si metta con noi al passo, come nel biblico cammino con noi intraprenda le tappe di santificazione del giubileo, e sia con noi una cosa sola, affinché il mondo cresca; e si lasci guidare dalla grazia del signore nostro Gesù Cristo, dall'amore di Dio Padre, dalla comunione dello Spirito santo.
Affidiamo questi voti all'intercessione della Vergine immacolata "che rifulge come modello di virtù a tutta la comunità degli eletti…" e per la sua intima partecipazione alla storia della salvezza, riunisce in qualche modo e riverbera in sé i massimi dati della fede; e confortiamo la comune volontà di santificazione e di riconciliazione con l'impartire di cuore la nostra benedizione apostolica.
Roma, presso San Pietro, nella solennità dell'immacolata concezione della b. v. Maria, 8 dicembre 1974, anno dodicesimo del nostro pontificato.
Paolo VI