Sofferente
MalatoSommario
I - Contesto socio-culturale1. La riflessione sulla sofferenzaPrescindiamo in questa prima parte dalla visuale biblico-cristiana. I primitivi consideravano le disgrazie individuali e cosmiche come riflesso di potenze sovrumane, di cui l'uomo era vittima e cercavano protezione in riti magici, senza però rinunciare a difese personali. Le culture giudaica e greca hanno evidenziato la corresponsabilità personale; nei tempi moderni il marxismo ha denunciato i condizionamenti sociali e la psicanalisi ha analizzato i condizionamenti del subconscio. La vita del singolo e della convivenza è una continuata e coraggiosa lotta, che si prolunga da millenni, contro ogni forma di sofferenza, anche se questa permane e assume forme nuove provocate dallo stesso progresso. La sensibilizzazione sociale ed ecclesiale, che costituisce un indice di promozione umana, acuisce per riflesso i contrasti, esaspera le tensioni. Si rinnovano forme di emarginazione, di oppressione fino alle violenze più estreme, in nome anche di una promozione sociale. La potenzialità dei mass media e gli integralismi ideologici provocano una pesante massificazione del pensiero, quando non si arrivi alle più spregiudicate persecuzioni politiche o religiose o razziali. Il progresso sanitario ha debellato le epidemie, diminuito la mortalità infantile e reso possibile a un numero sempre maggiore di persone di raggiungere un'età avanzata [ v. Anziano ], ma si trova di fronte alle complicazioni delle malattie degenerative e non raramente provoca ulteriori sofferenze per gli stessi tentativi terapeutici: le cosiddette malattie iatrogene. Istintivamente concepiamo la vita come salute, benessere e la sofferenza come un incidente sbagliato che può intralciare il nostro cammino. La dura realtà della vita contrasta con questa nostra concezione dell'esistenza. Dobbiamo prendere atto che la prima causa di sofferenza è inserita nel nostro tessuto vitale, nelle potenzialità biologiche, nella nostra coscienza critica, che costituiscono le energie per la vitalità individuale e sociale e provocano insieme insicurezze e sofferenze. La potenzialità sessuale affettiva è causa di tensione, di piacere, di sofferenza. L'evoluzione sociale non si attua senza contrasti violenti, anche se permane condannabile la violenza omicida. Quindi tra la vita nella sua fase terrena e la sofferenza non si dà opposizione radicale, ma la sofferenza rientra come elemento costitutivo della nostra esistenza. Accettare la vita significa prendere atto anche della realtà della sofferenza e della morte. Il problema non è come non soffrire, ma come saper reagire alla sofferenza e diminuire le cause che aggravano la sofferenza. 2. La reazione dell'uomo, oggiConsideriamo l'uomo nella nostra cultura europea-occidentale. Chi soffre, particolarmente se malato, è cosciente del diritto di rivendicare dalla società rispetto, comprensione, aiuto e accusa gli altri ( l'ambiente familiare, le strutture sociali inadeguate e ingiuste, gli egoismi e gli errori altrui ) come cause primarie delle proprie sofferenze. Si fatica ad analizzare la propria parte di responsabilità, a rivedere i propri atteggiamenti di reazione, evitando di sentirsi solamente vittime del sistema e dell'incomprensione altrui. La mentalità secolarizzante che acuisce la tensione verso le realizzazioni terrene, il mito del benessere, la fiducia nella potenzialità tecnica, l'accresciuta sensibilità psicologica provocano una maggiore allergia contro ogni forma di sofferenza e un'attesa, talvolta nevrotica, di soluzioni immediate. Non si può più attendere, non si deve più soffrire: il consumismo e l'uso eccessivo dei farmaci, la ripetizione ossessiva degli esami clinici, i tentativi più spericolati, comprese le rapine e i ricatti ne sono un indice. Il ricorso alla droga, le sopraffazioni e le violenze anche omicide per motivazione politica o per delinquenza comune rientrano in questa mentalità di dover evadere al più presto dalla propria sofferenza, a qualsiasi costo. Non mancano, anche nei nostri paesi, gli sfiduciati, gli "stanchi della vita", che oscillano tra un senso di fatalismo e il desiderio di suicidio: sono i sofferenti più gravi. Nella millenaria lotta dell'uomo contro la sofferenza si è approfondita la riflessione sulle cause di sofferenza, si sono moltiplicati i mezzi tecnici; ma sembra che l'uomo di oggi sia più fragile di fronte alla sofferenza. Lo psicologo ebreo Viktor Frankl denuncia una « frustrazione esistenziale » che necessariamente consegue dal contrasto tra la concezione di vita più corrente e la realtà dell'esistenza. Finché si assorbe una mentalità di vita basata sul piacere o sull'affermazione di se stessi - magari identificati nelle proprie idee sociali o religiose - e si considerano tali valori come assoluti, si dovrà subire una continuata frustrazione nella costatazione del progressivo indebolimento fisico e delle oscillazioni e contraddizioni sociali. La "logoterapia" o cura medica dell'anima, che V. Frankl propone, consiste nell'aiutare il soggetto ad interrogarsi sul senso della sua esistenza, convincendosi che in qualsiasi situazione, anche la più assurda, è possibile trovare un "compito di vita", incominciando dalle risposte più modeste, ma attuabili in quel momento. II - La prospettiva biblico-cristiana1. L'offerta salvifica dell'ATAll'Uomo condizionato da colpe e sofferenze, Jahve offre un'alleanza salvifica che lo aiuta a redimersi e a dare un significato alla propria esistenza, qualunque sia la sua situazione. Questa è la risposta fondamentale della bibbia alla realtà dell'esistenza e della sofferenza umana. Appena accennata e di non facile interpretazione è la risposta biblica sull'inizio della sofferenza e della morte dell'uomo. La Genesi reagisce contro le interpretazioni degli altri popoli che rendevano gli uomini vittime di una misteriosa potenza cattiva o del capriccio del destino e riafferma l'esistenza di un unico Dio che ha dato origine alla realtà cosmica, e questo Dio è sapiente e buono. La sofferenza e la morte non possono quindi essere da lui voluti, ma sono conseguenza di una colpa, di una voluta rottura di rapporti dell'uomo con Dio. Da questa colpa si susseguono tutti gli altri squilibri, effetto della presunzione e dell'egoismo. L'apostolo Paolo riassume il pensiero biblico in questa sintesi drammatica: « A causa di un solo uomo il peccato è entrato nel mondo e con il peccato la morte » ( Rm 5,12 ). La bibbia quindi ribadisce una correlazione tra peccato, sofferenza e morte. Ma non si può dedurre dalla bibbia che il peccato costituisca l'unica causa della sofferenza e della morte, quasi che l'uomo fosse stato composto di una diversa struttura fisiologica e psichica prima della colpa. La riflessione teologica ha sempre ritenuto che il peccato ha complicato, ferito la natura umana, ma non l'ha radicalmente cambiata. La teologia attuale ha riaperto la problematica sulla frase della Genesi: « dell'albero della conoscenza del bene e del male non ne devi mangiare, perché quando tu ne mangiassi, certamente moriresti » ( Gen 2,17 ). Era forse minaccia di morte immediata, commutata poi in una vita di sofferenza? ( Gen 3,14-17 ). Anche la frase di Paolo, che contrappone al peccato e alla morte provocata da Adamo la grazia e la vita offerta da Cristo, non si limita al problema della morte biologica, perché questa permane anche dopo la redenzione. Il concilio di Trento ha ribadito che la morte è conseguenza del peccato, ma ha evitato di pronunciarsi sulla situazione precedente al peccato.1 Il rituale riformato sul sacramento dell'unzione e cura pastorale degli infermi, nelle Premesse, usa questa espressione: « Non si può negare che ci sia uno stretto rapporto tra la malattia e la condizione di peccato in cui si trova l'uomo » ( n. 2 ) e il documento della CEI su Evangelizzazione e sacramenti della penitenza e dell'unzione degli infermi precisa: « Secondo la fede cristiana la malattia ha la sua origine, oltre che nella finitezza della creatura umana, nella corruzione introdotta nel mondo dal peccato » ( n. 132 ). La catechesi deve prendere atto di queste chiarificazioni, evitando di richiamarsi solamente al peccato originale, quasi unica causa della nostra sofferenza e della morte. Tale impostazione non è conforme alla bibbia, provoca un concetto di un Dio crudele, e favorisce un senso di disimpegno come se tutto fosse colpa di Adamo. Nella scrittura Jahve rinfaccia al suo popolo le reiterate infedeltà come causa delle loro sofferenze. Dal messaggio biblico ci sembra che si possa dedurre un maggiore collegamento tra la creazione e la redenzione. Dio Padre non ci ha fatto nascere colpevoli, ma ha voluto renderci compartecipi della nostra maturazione salvifica. In questa impostazione di pedagogia attiva, applicata all'umanità intera, erano prevedibili la colpevolezza e una sofferenza resa più pesante dall'imprudenza, dall'egoismo e dall'odio umano. Dio, nella sua bontà, può permettere tutto questo non solamente per donarci la possibilità di essere parzialmente artefici della nostra promozione, ma anche perché saprà dare a ciascuno e alla convivenza una risposta di salvezza. Questa offerta redentiva diventa dono gratuito perché supera il costo della nostra fatica, perché non solamente ci ridona un'altra vita, ma ci rende « partecipi della natura divina » ( 2 Pt 1,4 ). Questa chiarificazione biblica si ricollega alla costatazione scientifica sulla naturalità dei limiti biologici e psichici dell'uomo e alla percezione di una corresponsabilità sociale. Ma permane una differenza. La mentalità moderna parla di colpevolezza sociale, la rivelazione parla di "peccato". Occorre prendere coscienza che all'origine delle nostre immaturità personali e ingiustizie sociali sussiste una situazione di peccato, un'infedeltà a Dio Padre che si riverbera nelle difficoltà e negli egoismi dei rapporti umani ( Gen 3,7-19 ). La terapia salvifica, indicata dalla bibbia, parte da una conversione a Dio e da questa comunicazione più autentica - che non si, limita alle pratiche rituali ( il ricorrente richiamo dei profeti ) - dovrà derivare una solidarietà fraterna che ricompone la convivenza umana. L'abituale augurio israelitico "shalóm" significa benedizione ( alleanza tra Dio e gli uomini ), implica sicurezza, benessere, felicità: è fiducia nella pace messianica che Jahve riserva al suo giorno, ma già ci sentiamo impegnati a collaborare con una risposta libera e operosa. 2. Gesù e la sofferenzaAgli interrogativi umani sulla sofferenza Dio ha risposto incarnandosi, cioè accettando di condividere il patire umano. Noi cerchiamo di giustificare le nostre carenze verso Dio e il prossimo per le molteplici difficoltà dell'esistenza, perché costa troppo rimanere onesti, essere sempre disponibili, parteggiare per gli emarginati, accettare la durezza di una malattia che si prolunga senza speranza. Gesù per redimerci ha percorso il nostro cammino fino in fondo, spogliandosi della sua condizione divina, « assumendo la condizione di servo e divenendo simile agli uomini » ( Fil 2,7 ), condividendo le nostre delusioni, amarezze, accettando di essere vittima dell'incomprensione e dell'odio e in questo sofferto contesto esistenziale ha dato la prova della sua fedeltà a Dio e del suo amore redentivo per gli uomini fino alla tortura della croce. In questa "kenosi" ha inserito la nuova vitalità dello Spirito; nella sofferenza ci ha dato la prova del suo amore; nella morte ha completato la sua vittoria ( 1 Cor 15,55 ): è questo il ( v. ) mistero pasquale di vita e morte in tensione di risurrezione. Cristo, riteniamo, ha dato un valore salvifico ad ogni sofferenza umana, anche inconscia, compreso il dolore dei bambini e di quanti hanno perduto conoscenza critica, purché il sofferente non voglia sottrarsi colpevolmente a questa forma di redenzione. Nella testimonianza di vita di Gesù si inseriscono i suoi rapporti di predilezione per i sofferenti, qualunque sia la forma di sofferenza: di colpevolezza ( la donna sorpresa in adulterio: Gv 8,1-11 ), di emarginazione sociale e religiosa ( la samaritana: Gv 4; la visita a Zaccheo: Lc 19,1-10; le guarigioni degli indemoniati ) e di sofferenza fisica. Le numerose guarigioni dei malati s'inseriscono come segno di quella guarigione globale o redenzione che lui ci offre, esigendo la nostra partecipazione impegnata di fede e che egli realizza gradualmente nella totalità della nostra vita, che va oltre le frontiere terrene. Nell'altra vita, glorificata da Cristo risorto, si attuerà la pienezza di vita, la vittoria completa su ogni forma di sofferenza: « non ci sarà più la morte, ne lutto, ne lamento, ne affanno » ( Ap 21,4 ). III - La spiritualità cristiana della sofferenza1. La prova della sofferenzaLa sofferenza è una dura prova della nostra maturità umana e cristiana, fa cadere le pretese sicurezze, mette in crisi le motivazioni ideali non adeguatamente approfondite e assimilate, stimola una revisione della nostra visuale di vita e sul nostro modo di capire e accettare Dio. Durante la sofferenza la persona è tentata a rinchiudersi nella propria paura, a vedere solamente la propria situazione; senza accorgersi può divenire troppo esigente, anche se rifiuta di chiedere aiuto perché non sa accettare i propri limiti; può divenire una persona insopportabile o infantilmente piagnucolosa; può cadere nella ribellione nevrotica che rifiuta di guardare in faccia alla realtà oppure atteggiarsi a vittima. La stessa religiosità può essere male interpretata e cadere in un dolorismo fatalistico. Accettare la volontà di Dio significa reagire con lui alle nostre e altrui debolezze e sofferenze e attuare una maggiore giustizia. Più frequente è l'interrogativo sulla bontà e sapienza di Dio che permette le sofferenze anche più assurde. È la tematica del libro di Giobbe. I suoi amici richiamano il pensiero comune: Dio castiga i cattivi e premia i buoni, quindi se soffri sei colpevole. Giobbe condivide la stessa mentalità, ma è cosciente di non essere così colpevole e chiama in causa la giustizia di Dio. Il Signore accetta questo processo di fede, ma invita Giobbe a provare prima la sua pretesa competenza di giudicarlo: « Dov'eri tu quand'io ponevo le fondamenta della terra? » ( Gb 38,4 ). La comprensione di fede parte da questa radicale umiltà di prendere atto della nostra piccolezza di fronte al mistero della vita e al mistero più grande di Dio. Dobbiamo abbandonare la pretesa di ridurre Dio ai nostri schemi umani. Il Signore non ci rincorre per punirci o per premiarci subito. « Quanto il cielo sovrasta la terra, tanto le mie vie sovrastano i vostri pensieri » ( Is 55,9 ). Nella sconvolgente esperienza di una sofferenza umanamente assurda, Giobbe riesce a rivedere la propria fede, a capire meglio Dio: « Io ti conoscevo per sentito dire, ma ora i miei occhi ti vedono » ( Gb 42,5 ): è la conclusione di un itinerario spirituale maturato nella sofferenza: Permane il mistero di questa esistenza umana, anzi lo accetta e si rimette nelle mani di Dio, sicuro che la sua presenza lo aiuterà nella prova della sofferenza e questa non sarà senza significato. Non raramente la crisi provocata dalla sofferenza stimola una nuova visione di vita, una maturazione umana e una spiritualità che difficilmente si avrebbe raggiunto senza questo sofferto itinerario. È quanto si costata in modo particolarmente evidente nella esperienza spirituale dei santi. Dobbiamo allenarci alla sofferenza come dobbiamo educarci a vivere, perché la vita implica sofferenza. Si tratta di un'educazione fatta di coraggio, costanza, capacità di rinviare e moderare i propri desideri, senso di realismo per accettare se stessi e gli altri con i nostri limiti, sbagli, con i nostri peccati. Un'educazione di vita che deve partire dai primi anni, reagendo ad ogni forma di esibizionismo e di egoismo. La promozione umana e cristiana oscilla nel difficile equilibrio di non arrendersi di fronte alla difficoltà, di cercare di migliorare se stessi e la convivenza senza la pretesa di soluzioni utopistiche, accettando di collaborare ai tempi lunghi di Dio. L'ascetismo medioevale che insisteva in forme di sofferenza fisica, provocate volontariamente, non va inteso come ricerca di dolorismo, ma come forma di allenamento. Oggi l'allenamento alla sofferenza preferiamo esercitarlo maturando in un equilibrio fondamentalmente sereno, pure nelle contraddizioni penose dell'esistenza, nella capacità di accettare noi stessi e gli altri e la convivenza nei reciproci limiti senza rinunciare al coraggio di un dialogo critico, di una rinnovata conversione e dimostrando la capacità di saper accogliere e apprezzare anche le piccole gioie dell'esistenza e soprattutto la disponibilità concreta all'incontro fraterno. È la "metànoia" evangelica, il « cambiamento intimo e radicale di tutto l'uomo » che costituisce il sofferente e redentivo itinerario penitenziale del cristiano.2 In questo itinerario penitenziale vanno inserite le eventuali incomprensioni ecclesiali, talvolta particolarmente amare, come furono sofferte dall'apostolo Paolo; contrasti che si sono verificati anche tra persone sante, quindi possibili nonostante le reciproche buone intenzioni. « Ho imparato, dichiara l'apostolo Paolo, ad essere povero e ho imparato ad essere ricco; sono iniziato a tutto, in ogni maniera, alla sazietà e alla fame, all'abbondanza e all'indigenza. Tutto posso in colui che mi da la forza » ( Fil 4,12-13 ). Il passo paolino non va interpretato come pretesa indifferenza del cristiano di fronte al piacere o alla sofferenza. Il cristiano ama la vita, dono di Dio, e cerca di favorire per sé e per gli altri la promozione umana; non disprezza i beni della terra ma riconosce una gerarchia di valori. Il cristiano coltiva la sensibilità umana perché il suo ideale è Cristo, che non si è presentato come un superuomo; anzi si è reso così piccolo e indifeso da fuggire di fronte ai sicari di Erode, « disprezzato e reietto dagli uomini, uomo dei dolori che ben conosce il patire » ( Is 53,3 ); non ha avuto paura di piangere di fronte al sepolcro di Lazzaro, ha conosciuto la paura e l'angoscia e si sentì « triste fino alla morte » ( Mc 14,34 ). Non ha cercato la sofferenza per se stessa, ma prostrandosi « con la faccia a terra » ( Mt 26,39 ) supplicava: « Abbà, Padre! Tutto è possibile a te, allontana da me questo calice! » ( Mc 14,36 ). Quanta umanità in questo sfogo di Gesù, che pure stava per completare lo scopo della sua incarnazione. L'ascesi cristiana non è stoicismo. « Però - ha soggiunto Cristo - non ciò che io voglio, ma ciò che vuoi tu » ( Mc 14,36 ). 2. L'ascesi dell'Esodo e del mistero pasqualeLa reazione cristiana alla sofferenza deve richiamarsi alla spiritualità dell'esodo. La vita è intesa come pellegrinaggio verso la città del Dio vivente, come un incessante esodo dallo stato di peccato e di egoismo, dalle nostre pretese sicurezze e dalla nostra ricerca di comodità per accettare le prove dell'esistenza, compresa talvolta l'amarezza, la solitudine, l'aridità del deserto. Lo spirito dell'esodo è spirito di distacco, è coraggio di rischio, è spirito di solidarietà umana, è fiducia in Dio che cammina con noi, senza pretese di risultati immediati perché lungo e misterioso è il cammino verso la terra promessa. L'esodo costituisce anche la grande speranza verso una liberazione e promozione umana, ma che si costruisce in comunione con Jahve e con il suo popolo. Questa mentalità dell'esodo si oppone ai messianismi esclusivamente terreni, si oppone al mito del facile benessere e dell'affermazione esibizionistica, all'idolatria della salute fisica e del potere, che purtroppo costituiscono i miraggi di una presunta promozione umana e si risolvono di fatto in nuove forme di sofferenza e di oppressione. Lo spirito dell'esodo si matura nel mistero pasquale di Cristo: la vita continua ad essere un passaggio dal peccato, dalla pretesa autosufficienza, dall'egoismo a una vita nuova in Cristo, dove risorgiamo alla libertà di una promozione umana che va oltre i condizionamenti terreni per aprirsi alla pienezza dell'ultra vita. Per risorgere occorre avere il coraggio di morire, cioè di accettare questa esistenza terrena che si sviluppa in un dinamismo di morte e risurrezione, perché le nostre energie vitali sono frutto di tensioni sofferte, di reazione fiduciosa e non nevrotica, di coraggioso superamento, dei nostri limiti. Questa lotta continuata acquista un senso più ampio, una fiducia più certa quando è animata dalla fede nel Cristo sofferente e glorioso. Non è facile accettare « Cristo crocifisso, scandalo per i giudei, stoltezza per i pagani » ( 1 Cor 1,23 ); ma è il suo programma: « se qualcuno vuoi venire dietro di me rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua » ( Mc 8,34 ). Non è Cristo che offre la croce, la croce è nostra nel senso che fa parte del processo vitale e condizionato di questa esistenza terrena, però Cristo dona la possibilità di trasformare questa croce in atto di oblazione a Dio e di amore redentivo per se stessi e per i fratelli, perché: « chi perderà la propria vita per causa mia e del vangelo, la salverà » ( Mc 8,35 ). In questo modo si adempie la volontà del Padre, come per Gesù nel Getsèmani, e la sofferenza diventa una manifestazione delle « opere di Dio », come per il cieco nato ( Gv 9,3 ). È il mistero del chicco di grano che sembra morire, ma così rivive ( Gv 12,24 ); è la sofferenza della donna, che sta per partorire, la quale si tramuta in una gioia che fa dimenticare l'afflizione ( Gv 16,21 ); è un richiamarsi all'Addolorata che diventa la madre dei viventi nel Cristo risorto e rinnova il suo cantico di gioiosa riconoscenza: « L'anima mia magnifica il Signore » ( Lc 1,46 ). Il cristiano non chiede né il benessere, né la sofferenza, né la tranquillità, né la lotta; ma la capacità di donarsi ogni giorno a Dio e ai fratelli in testimonianza di fedeltà e di amore, quali che siano le circostanze in cui si troverà a vivere, convinto che in ogni caso la sua vita ha significato di redenzione e di risurrezione: è passaggio pasquale. 3. La comunità cristiana e i sofferentiGesù ha precisato la propria missione applicando a se stesso la parola di Isaia: « Lo Spirito del Signore è sopra di me; per questo mi ha consacrato con l'unzione e mi ha mandato per annunziare ai poveri un lieto messaggio, per proclamare ai prigionieri la liberazione e ai ciechi la vista; per rimettere in libertà gli oppressi» ( Lc 4,18 ). La religione cristiana quindi non è un messaggio di rassegnazione o di consolazione, ma è un impegno di promozione globale attuata nella fede. Il cristiano compartecipa alla lotta dell'uomo contro ogni forma di sofferenza, ma con la mentalità e la prospettiva di Cristo. Da sempre le comunità cristiane si sono contraddistinte per un'attenzione concreta verso i sofferenti, dalle prime istituzioni di ospizi alle molteplici opere caritative attuate lungo i secoli. Vedere Cristo nell'affamato, nell'abbandonato, nel carcerato è stato il programma evangelico ( Mt 25,31-40 ), che ha animato questa singolare testimonianza cristiana; unica nella storia per la sua continuità, per la varietà di forme e la numerosità di esempi eroici. Non sono mancate carenze per acquiescenza ai centri di potere politico o economico e per difetto di prospettive sociologiche. Rientrano nei sofferti limiti e colpe della convivenza. Si accusano le religioni di aver addormentata la coscienza critica degli emarginati e dei sofferenti in genere con la rassegnazione alla volontà di Dio e con la speranza di compensazioni nell'altra vita. Sono denunce che difettano talvolta di un'analisi più serena e approfondita delle varie concause sociali, ma stimolano a una continuata revisione, conversione, per attuare con maggiore fedeltà evangelica e sensibilità sociale l'impegno di liberazione e promozione umana e cristiana. Accenniamo ad alcuni orientamenti che devono animare la testimonianza di fede-carità delle comunità cristiane. Si eviti ogni forma di paternalismo, di beneficenza: aiutare chi soffre è un dovere di giustizia sociale e di coerenza cristiana. S. Camillo rifiutava il ringraziamento dei malati che curava, perché riteneva suo dovere curare Cristo in loro e per lui sarebbe stato come pretendere che Cristo lo ringraziasse per avergli donato la possibilità di servirlo: è la diakonia evangelica. La conversione evangelica parte « dal cuore degli uomini » ( Mc 7,21 ), cioè dalla loro responsabilità individuale. « Dov'è Abele, tuo fratello? », è la domanda che il Signore continuamente ci rivolge e non dobbiamo evadere con la scusa che non siamo il suo « guardiano » ( Gen 4,9 ). Il cristiano è colui che sente il dovere di rendersi lui prossimo all'altro ( parabola del pio samaritano: Lc 10,25-37 ). È la fedeltà a Dio che ha aiutato i santi a essere fedeli all'uomo fino a giocare anche fisicamente la propria vita e soffrire di incomprensioni e di calunnie, come ricorda di sé Paolo scrivendo ai Corinzi ( 1 Cor 4,10-13 ). Talvolta persone anche impegnate in solidarietà sociale non si accorgono di chi convive con loro. È il pericolo del dinamismo che non facilita la spiritualità interiore e può renderci incapaci di dedicare un po' di tempo all'ascolto di Dio e di chi ci sta accanto. Oltre i gesti individuali, è necessario che si costituiscano comunità locali di carità che ritrovino la propria "koinonìa" nel riflettere assieme come concretizzare l'amore di Cristo nei fratelli. Ciascuno si offrirà secondo le disponibilità, le attitudini, i carismi, cercando di compartecipare agli altri le proprie esperienze per favorire una verifica comune. Questo dovrebbe attuarsi a livello dei singoli gruppi, tra le varie organizzazioni o istituti ecclesiali, evitando la ricorrente tentazione di isolamento o di concorrenza o di livellamento perché diverse sono le attitudini personali, diversi i carismi, ma tutti concorriamo all'edificazione dell'unico corpo di Cristo ( Rm 12,3-8 ). Dobbiamo corresponsabilizzare chi soffre, qualunque sia la sua menomazione morale o fisica, per la propria liberazione e promozione. È seguire il piano salvifico di Dio che richiede la nostra risposta personale. Non dobbiamo sostituirci agli interessati, ma aiutarli a ritrovare in se stessi la forza di una reazione, sia pure assicurandoli che saremo loro vicini. Talvolta alcune forme di soccorso favoriscono l'inerzia e non sono di stimolo alla riflessione critica per una reazione personale e sociale. Non accettiamo concezioni psicologiche che tutto fanno dipendere dai determinismi del subconscio come respingiamo le ipotesi sociologiche che tutto fanno ricadere sui condizionamenti delle strutture sociali. Però prendiamo atto che non si tratta di convenire prima le persone e poi cambiare le strutture, perché la persona risente dei propri limiti psichici, dell'ambiente familiare e sociale; quindi aiutare la liberazione di una persona significa analizzare i vari condizionamenti e studiare la possibilità di ridurli. Consegue che un'azione caritativa implica l'acquisizione dei dati psicologici e sociologici, analisi e intuizioni che provochino la discussione e revisione delle strutture con il coraggio di denunce tempestive contro le varie forme di oppressione e ingiustizia, di soffocamento della libertà di coscienza, reagendo a forme vessatorie e di tortura o di ricatto economico, qualunque sia la pretesa motivazione. Gesù ha paragonato il regno dei cieli al lievito che deve fermentare la massa di farina ( Mt 13,33 ). È un invito a non rinchiuderci in noi stessi e a collaborare con quanti « hanno stima dei valori umani », anche se « non riconoscono l'autore del mondo ».3 In questa collaborazione per la promozione dell'uomo i cristiani, particolarmente i laici, si sentano impegnati valorizzando la specificità del loro contributo di fede, cioè della loro visione di vita, e difendendo la libertà delle iniziative, senza cercare situazioni di privilegio o di speculazione che rendono equivoca la loro testimonianza ( documento citato ). Nell'impegno contro la sofferenza sono necessari aiuti di emergenza come le programmazioni di riforme a medio e a lungo termine, con possibilità di tentativi diversi. Non confondiamo l'ortodossia con le applicazioni sociologiche, che variano conforme alle situazioni e a un legittimo pluralismo, però la propria fede deve coinvolgere ogni forma di reazione contro la sofferenza.4 IV - Il sacramento dei malatiIl malato, per la sua debolezza psicofisica, si trova normalmente in una maggiore difficoltà di reazione alla sofferenza. Inoltre il malato presenta nella propria carne, in modo più visibile, i limiti umani, come la sua guarigione è un segno di liberazione. È in questo contesto che va considerata l'unzione sacra dei malati, ossia come il sacramento che risveglia nel malato la riflessione cristiana su ogni forma di sofferenza. « Chi è malato, chiami a sé i presbiteri della chiesa » ( Gc 5,14 ). La frase dell'apostolo evidenzia due aspetti. Anzitutto si rivolge al malato in senso generico. Questa accezione del termine biblico va inserita nel concetto moderno più estensivo di malattia, compresi i turbamenti psichici, tipiche malattie dell'uomo. Il rituale parla di « salute seriamente compromessa » ( Premesse, 8 ) nel senso che non si tratti di un malessere passeggero, ma di una situazione che preoccupa seriamente il malato. L'altro aspetto, richiamato dall'apostolo Giacomo, è l'invito al malato di chiedere lui stesso l'intervento della chiesa. Questa corresponsabilizzazione del malato lo aiuta a uscire dal proprio isolamento, ad avere il coraggio di prendere atto della realtà e cercare di reagire chiedendo l'aiuto di Dio e della comunità di fede, perché questa sua penosa situazione diventi momento di revisione di vita, di spiritualità più intima, di coraggiosa testimonianza, nonostante le comprensibili oscillazioni di fiducia e di depressione che proverà in se stesso. I presbiteri, prosegue l'apostolo, « preghino su di lui, dopo averlo unto con olio nel nome del Signore. E la preghiera fatta con fede salverà il malato. Il Signore lo rialzerà e, se ha commesso peccati, gli saranno rimessi » ( Gc 5,14-15 ). Il gesto dell'unzione, che si fa « spalmando un po' di olio sulla fronte e sulle mani dell'infermo » ( rituale, Premesse, 23 ), ha un particolare significato biblico e psicologico. Per gli ebrei l'olio, che penetra nel corpo, donava vigore, agilità, bellezza, era segno di consacrazione e serviva pure a medicare le ferite ( si ricordi il gesto del pio samaritano. Lc 10,34 ). A questi significati si aggiunga che l'unzione diventa per i cristiani segno della penetrazione dello Spirito santo. Tutti questi significati sono presenti nell'unzione del malato, dove si ripete il gesto di unzione del battesimo e della confermazione perché lo Spirito santo scenda a rinnovare la purificazione e consacrazione del malato, attenui le sue sofferenze e ridia vigore al suo spirito. Anche psicologicamente, questo chinarsi sul malato ungendolo, manifesta un gesto di vicinanza e di cura. « Questo sacramento - precisa il rituale - conferisce al malato la grazia dello Spirito santo; tutto l'uomo ne riceve aiuto per la sua salvezza, si sente rinfrancato dalla fiducia in Dio » ( Premesse, 6 ). È il sacramento della speranza cristiana. La bibbia non distingue tra effetti spirituali e corporali: ogni sacramento è una offerta globale di salvezza, secondo le diverse esigenze della persona. Il sacramento dei malati richiama in modo più espressivo questa globalità di salvezza, anche se permangono nella sovrana e misteriosa libertà di Dio le modalità di risposta. Il sacramento dell'unzione non è il sacramento della morte o della guarigione; è il sacramento che fa sentire vicino al malato Cristo e la comunità cristiana per aiutarlo nella sua « lotta contro la malattia » e nella sua « testimonianza cristiana » ( rituale, sotto titolo della Premessa n. 3 ). Non si offre al malato un invito di semplice rassegnazione o un tentativo di consolazione, ma la grazia dello Spirito santo per ravvivare quella virtù cristiana della pazienza che significa capacità di resistenza, rinnovata fede nel mistero pasquale [ v. Morte/risurrezione ]. In quanto è possibile, l'unzione sacra sia offerta presto al malato e conferita in una celebrazione dove si renda presente la comunità locale, almeno tramite i familiari, gli amici e alcuni di coloro che già lo assistono sanitariamente. Come ogni sacramento, anche l'unzione dei malati non deve costituire un momento liturgico isolato, ma sia segno di quella compartecipazione sensibile e cristiana che ci unisce con i sofferenti e con Cristo sofferente e glorioso. |
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Morte | |
… e la giustizia di Dio | Esperienza sp. Bib. I,6d |
Nella chiesa | Chiesa II |
Nella preghiera liturgica | Fraternità II |
Come partecipazione al giudizio escatologico | Discernimento II,2 |
Nella dialettica di rifiuto-accettazione | Ascesi IV,2 |
Nel lavoro | Lavoratore III |
Nel morente | Morte III,3 |
… per lutto | Morte V,2 |
… e spiritualità familiare | Famiglia IV,3 |
Famiglia VI | |
Demoni della malattia | Diavolo III,3 |
Diavolo VII,5 | |
S. G. B. de La Salle |
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Gesù Cristo desiderava soffrire e morire | MD 25,1-2 |
Passione e morte di Gesù nostro Signore | MD 27,2 |
Le false gioie del mondo e la vera gioia di cui godono i servi di Dio | MD 34,2 |
Vantaggi che procurano le sofferenze, sia interiori che esteriori | MD 35,2-3 |
La Pentecoste | MD 43,2 |
Il secondo effetto che lo Spirito Santo produce in un'anima è farla vivere e agire mossa dalla grazia | MD 45,1 |
Unione con i Confratelli | MD 65,2 |
Non dobbiamo aspettarci che Dio compia miracoli per farci contenti | MD 73,2-3 |
Chi vive in Comunità ha l'obbligo di sopportare i difetti dei Confratelli | MD 74 |
In comunità ci sono diversi che hanno lasciato il mondo ma non ne hanno abbandonato lo spirito | MD 76,2 |
San Francesco Saverio | MF 79,1 |
San Nicola, vescovo di Mira | MF 80,1 |
Santo Stefano protomartire | MF 87,3 |
I Santi innocenti | MF 89,2 |
Santa Genoveffa | MF 95,3 |
San Gregorio Magno papa | MF 109,2 |
Santa Caterina da Siena | MF 118,2-3 |
S. Giacomo e s. Filippo | MF 119,2 |
Ritrovamento della s. Croce | MF 121,2 |
Martirio di san Giovanni Evangelista | MF 124,1-3 |
Santa Maria Maddalena dei Pazzi | MF 130,3 |
San Paolo apostolo | MF 140,3 |
Santa Maria Maddalena | MF 144,2 |
San Giacomo il Maggiore | MF 145,1-3 |
San Pietro in Vincoli | MF 149,3 |
San Domenico | MF 150,2 |
San Lorenzo | MF 154,2-3 |
San Cassiano vescovo e martire | MF 155,2-3 |
Decollazione del Battista | MF 162,3 |
I Santi Angeli Custodi | MF 172,2 |
San Francesco di Assisi | MF 173,3 |
San Dionigi | MF 175,3 |
San Francesco Borgia | MF 176,1-3 |
Santa Teresa | MF 177 |
I Santi apostoli Simone e Giuda | MF 182,3 |
Ognissanti | MF 183,2 |
Santa Caterina di Alessandria | MF 192,3 |
Chi educa i giovani coopera con Gesù Cristo alla salvezza delle anime | MR 195,1 |
Chi istruisce i giovani ha l'obbligo di essere molto zelante, se vuole compiere bene la sua santa missione | MR 201,1 |
Zelo che un Fratello delle Scuole Cristiane deve manifestare nell'esercizio del suo ministero | MR 202,1 |
I Fratelli delle Scuole Cristiane hanno l'obbligo di riprendere e di correggere le colpe che commettono i loro alunni | MR 203,1 |
1 | H. Denzinger-A. Schonmetzer 1511 |
2 | Cost. apost. Paenitemini, 17.2.1966 |
3 | 3° Sinodo dei Vescovi, 1971, III |
4 | Paolo VI, Octogesima adveniens 4 |