La città di Dio |
Osservo che in seguito dovrò trattare del destino proprio dell'una e dell'altra città, la terrena cioè e la celeste.
Ma prima si devono esporre, per quanto lo richiede il criterio di rientrare nei limiti dell'opera, le dimostrazioni degli uomini che si sono affaccendati a costruire la felicità nell'infelicità di questa vita, in modo che la speranza, che Dio ci ha dato, si distingua dai loro vuoti ideali e il vero significato, cioè la felicità, che egli ci darà, sia evidenziato non soltanto con l'autorità divina ma anche con l'impiego del ragionamento che possiamo usare a favore di coloro che non credono.
Del fine del bene e del male i filosofi hanno dibattuto nei loro rapporti i vari aspetti in vario modo.
Discutendo il problema con la massima diligenza si sono sforzati di stabilire che cosa rende l'uomo felice.1
È fine del nostro bene quello per cui gli altri beni si devono desiderare ed esso per se stesso ed è fine del male quello per cui gli altri mali si devono evitare ed esso per se stesso.
In questo modo diciamo fine del bene non là dove termina, sicché cesserebbe di essere, ma là dove raggiunge la compiutezza poiché ha la pienezza; allo stesso modo diciamo fine del male non dove cessa di essere, ma là dove conduce nel danneggiare.
Questo fine è dunque il sommo bene e il sommo male.
Nell'indagine del suo significato per raggiungere il sommo bene in questa vita e per evitare il sommo male, molto, come ho detto, si sono affaticati coloro che hanno atteso alla ricerca della sapienza nella vuota realtà di questo mondo.
Tuttavia la delimitazione imposta dalla natura razionale non ha loro consentito di deviare dal cammino della verità al punto da non porre il fine del bene e del male, alcuni nell'animo, altri nel corpo, altri nell'uno e nell'altro.
Da questa tripartita distribuzione di non specificate teorie, Marco Varrone nel libro La filosofia, dopo aver esaminato con diligenza ed acume la grande varietà di dottrine, nota che usando alcune disuguaglianze potrebbe giungere a duecentottantotto teorie, che non si sono ancora verificate ma potrebbero verificarsi.
Per chiarire in breve l'argomento, è opportuno che cominci dalla dottrina che egli ha ideato ed esposto nel libro citato.
Dice che vi sono quattro obiettivi, cui gli uomini anelano quasi per istinto naturale, cioè senza precettore, senza l'apporto dell'istruzione, senza l'operosità e la norma del vivere che si chiama virtù e che certamente si apprende.
Essi sono il piacere, da cui con diletto è stimolato l'organo del senso, la serenità con cui si ottiene che non si subisca alcun fastidio del corpo, l'uno e l'altro che con un unico termine Epicuro chiama piacere2 e in genere gli impulsi primi di natura, nei quali si hanno queste esigenze e altre ancora, o nel corpo come l'integrità delle membra e la sua salute o incolumità, o nell'animo come sono le tendenze piccole e grandi che si costatano nel temperamento degli uomini.
Dunque questi quattro obiettivi, cioè il piacere, la serenità, l'uno e l'altra e i bisogni più essenziali della natura sono in noi in modo che la virtù, che in seguito l'educazione inculca, si deve desiderare per essi o essi per la virtù o gli uni e gli altri per se stessi.
Ne derivano già dodici sistemi giacché con questo metodo ogni settore è triplicato.
Se lo rileverò in una, non sarà difficile reperirlo nelle altre.
Infatti il piacere del corpo o viene subordinato alla virtù dell'animo o gli è anteposto o associato, quindi è diverso nella tripartita distribuzione dei sistemi.
Viene subordinato alla virtù quando è impiegato a favore della virtù.
Appartiene infatti a un dovere della virtù vivere per la patria e procreare figli a favore della patria, ma nessuno di questi doveri si può compiere senza il piacere sensibile, perché senza di esso non si consumano per vivere cibo e bevanda né si ha l'accoppiamento affinché si accresca la figliolanza.
Quando invece il piacere si antepone alla virtù, esso si appetisce per se stesso e si ritiene che la virtù sia da praticare per esso, nel senso che la virtù produce soltanto l'effetto di ottenere e conservare il piacere sensibile.
Tale comportamento è disonorevole perché se la virtù è subordinata al piacere che la domina, non si deve in alcun senso considerare virtù.
Tuttavia anche questo detestabile sconcio ha avuto alcuni filosofi come promotori e difensori.3
Il piacere poi si congiunge alla virtù quando non si appetiscono l'uno per l'altra ma l'uno e l'altra per se stessi.
Perciò come il piacere o subordinato o preferito o congiunto alla virtù dà origine a tre teorie, così si deduce che la serenità, l'una e l'altro e i bisogni essenziali della vita costituiscono ciascuno tre teorie.
Conseguentemente secondo la diversità delle opinioni umane, in alcune questi princìpi sono subordinati alla virtù, in altre preferiti, in altre congiunti e così si giunge a dodici teorie.
Ma anche questo numero viene raddoppiato con l'aggiunta di una differenza, cioè della vita associata, poiché chi segue qualcuna di queste dodici teorie o lo fa soltanto per sé o anche per il collega, al quale deve volere il bene che vuole per sé.
Perciò vi sono dodici teorie di coloro che ritengono di dover seguire l'una o l'altra soltanto per sé, e altre dodici di coloro, i quali stabiliscono che si deve filosofare in un modo o nell'altro, non soltanto per sé ma anche per gli altri di cui desiderano un bene come il proprio.
Queste ventiquattro teorie si duplicano ancora una volta con l'aggiunta delle differenze derivanti dai nuovi accademici e divengono quarantotto.
Uno infatti può sostenere e cercare di dimostrare evidente l'una e l'altra di quelle ventiquattro teorie, come cercarono di dimostrare gli stoici che il bene dell'uomo, con cui esser felice, consiste soltanto nei valori dello spirito.
Un altro invece può considerare non evidente la teoria, come cercarono di dimostrare i nuovi accademici, poiché ad essi, quantunque non evidente, sembrava probabile.
Dunque divengono ventiquattro teorie da parte di coloro che le considerano evidenti a causa della verità, e altre ventiquattro da parte di coloro che, quantunque non evidenti nella verità, pensano di sostenerle a causa della probabilità.
Ancora, poiché un tale può seguire l'una o l'altra di queste quarantotto teorie secondo il modo di pensare degli altri filosofi, e un altro secondo il modo di pensare dei cinici, anche da queste diversità le teorie si raddoppiano e diventano novantasei.
Inoltre gli uomini possono sostenere e seguire ognuna di esse o per potenziare la vita dedita agli studi, come coloro che hanno voluto e potuto attendere soltanto agli ideali della cultura, ovvero la vita dedita alle attività, come quelli che, sebbene studiassero filosofia, erano molto occupati nell'amministrazione dello Stato o nel regolare gli affari, ovvero organizzata nell'uno e nell'altro settore, come coloro che hanno assegnato intervalli di tempo della propria vita in parte alla libera occupazione degli studi e in parte ad un'attività vincolante.
Quindi a causa di queste diversità si può triplicare il numero delle teorie ed estenderlo fino a duecentottantotto.
Ho desunto questi concetti dal libro di Varrone esponendo con concisione e chiarezza, per quanto mi è stato possibile, i suoi pensieri con parole mie.
Sarebbe lungo dimostrare in qual senso, rifiutate le altre teorie, ne scelga una che, a suo avviso, è quella dei vecchi accademici.
Egli vuol fare apparire che essi, addottrinati da Platone, professarono dottrine evidenti fino a Polemone che, quarto dopo di lui, resse la scuola la quale fu denominata Accademia.
Per questo la distingue dai nuovi accademici per i quali tutte le conoscenze sono prive di evidenza.
È un modo di fare filosofia che la scuola ha derivato da Arcesila, successore di Polemone.4
Sarebbe lungo dimostrare esaurientemente che anche quella teoria, cioè dei vecchi accademici, come dal dubbio, così sia immune da ogni errore.
Tuttavia l'assunto non si deve tralasciare completamente.
Quindi Varrone elimina tutte quelle varianti, che hanno moltiplicato il numero delle teorie, e pensa appunto che si devono eliminare perché non v'è in esse il fine del bene.
Ritiene infatti che non si può considerare teoria filosofica se non si differenzia dalle altre nello stabilire un fine diverso del bene e del male.
Se infatti non v'è per l'uomo altra ragione del filosofare che essere felice, ciò che lo rende felice è il fine del bene; quindi sola ragione del filosofare è il fine del bene.
Perciò non è teoria della filosofia se non è teoria del fine del bene.
Si può dunque porre il problema della vita associata, se dev'essere seguita dal saggio, in modo che voglia e provveda il sommo bene, con cui si diviene felici, dell'amico come il proprio, ovvero che in ogni azione agisca soltanto per la propria felicità.
Nella fattispecie non v'è il problema del sommo bene ma dell'associare o non associare un compagno alla partecipazione di questo bene, non per la propria persona ma per il compagno, in modo da godere del suo bene come del proprio.
Così riguardo ai nuovi accademici, per i quali non vi sono verità evidenti, si pone il problema se i princìpi, in base ai quali si deve filosofare, si devono considerare così, ovvero, come è sembrato opportuno ad altri filosofi, dobbiamo considerarli evidenti.
Quindi non si pone il problema se si deve perseguire il fine del bene, ma se si deve dubitare o no sulla verità dello stesso bene che sembra si debba perseguire: cioè, per parlar più chiaramente, se si deve perseguire in maniera che chi lo persegue dica che è vero, ovvero così che chi lo persegue dica che gli sembra vero, sebbene eventualmente sia falso, tuttavia l'uno e l'altro perseguano un solo medesimo bene.
Dalla differenza, che si verifica dal contegno e dall'abituale modo di vivere dei cinici non si pone il problema di quale sia il fine del bene, ma se in quel contegno e abituale modo di vivere si deve vivere da chi persegue il bene, qualunque sia il vero da perseguire.
In seguito vi furono coloro i quali, sebbene perseguissero diversi beni finali, altri la virtù, altri il piacere, conservavano tuttavia il medesimo contegno e il medesimo abituale modo di vivere, da cui si denominavano cinici.
Dunque, qualunque sia il criterio per cui i filosofi cinici si distinguono dagli altri, non valeva assolutamente nulla per scegliere e praticare il bene con cui essere felici.
Se infatti vi fosse una differenza, certamente il medesimo contegno costringerebbe a perseguire il medesimo fine e un diverso contegno non lascerebbe raggiungere il medesimo fine.
Anche in relazione ai tre sistemi di vita: uno libero da occupazioni non per pigrizia ma nell'esame attento o nella ricerca della verità, l'altro intento all'amministrazione degli affari, il terzo combinato con l'uno e con l'altro tipo, quando si pone il problema quale dei tre si deve scegliere, non è in discussione il fine del bene ma nel problema si tiene presente quale dei tre procuri impedimento o agevolazione nel conseguire o conservare il fine del bene.
Il fine del bene, quando vi si giunge, rende immediatamente felici; invece nel libero esercizio della cultura o nella pubblica occupazione o quando si compie alternativamente l'uno e l'altra non si è senz'altro felici.
Molti individui possono vivere in uno di questi tre tipi ed errare nel ricercare il fine del bene con cui l'uomo diviene felice.
Dunque il problema del fine del bene e del male, che fonda ogni teoria filosofica, è diverso dal problema sulla vita associata, sul probabilismo degli accademici, sul modo di vestire e di mangiare dei cinici, sui tre tipi di vita, libero da impegni, attivo e combinato dell'uno e dell'altro.
Difatti in nessuno di essi si discute del fine del bene e del male.
Marco Varrone, adoperando queste quattro varianti, cioè della vita associata, dei nuovi accademici, dei cinici e della tripartizione del tipo di vita è giunto alle duecentottantotto teorie ed altre che possono ugualmente aggiungersi.
Eliminandole tutte, perché non introducono alcun problema sul raggiungimento del sommo bene e quindi non si debbono considerare teorie, ritorna a quelle dodici con le quali si pone il problema di quale sia il bene dell'uomo perché, conseguitolo, egli si rende felice, per dimostrare che una è vera, le altre false.
Infatti, eliminata la tripartizione del tipo di vita, due terzi del numero si detraggono e rimangono novantasei teorie.
Eliminata anche la variante dai cinici, le aggiunte si riducono a metà e divengono quarantotto.
Eliminiamo anche ciò che è stato rilevato dai nuovi accademici, di nuovo ne rimane una metà, cioè ventiquattro.
Si tolga ugualmente ciò che era stato aggiunto dalla vita associata, le rimanenti sono dodici che la variante suddetta aveva raddoppiato perché divenissero ventiquattro.
Di queste dodici non si può affermare affatto che non siano considerate teorie.
In esse infatti non v'è altro problema che il fine del bene e del male.
Stabilito il fine del bene, all'opposto certamente si ha il fine del male.
Affinché esse divengano dodici teorie sono triplicati i quattro princìpi: il piacere, la serenità, l'uno e l'altro e gli impulsi primi di natura che Varrone definisce originari.
Questi quattro obiettivi talvolta singolarmente vengono subordinati alla virtù, nel senso che non si perseguono per se stessi, ma a causa dell'imperativo della virtù; talora si antepongono, sicché si ritiene necessaria la virtù non per se stessa, ma per conseguire e conservare questi obiettivi; talvolta si congiungono in modo da reputare che per se stessi si perseguano la virtù ed essi.
Quindi moltiplicano per tre il numero quattro e giungono a dodici teorie.
Dei quattro obiettivi Varrone ne elimina tre: cioè il piacere, la serenità e l'uno e l'altra, non perché li disapprovi, ma perché gli impulsi originari di natura contengono anche il piacere e la serenità.
Non v'è bisogno quindi di questi due obiettivi farne tre, cioè due, quando separatamente si perseguono il piacere e la serenità, e un terzo quando si perseguono insieme, poiché gli impulsi originari di natura li includono e molti altri oltre essi.
Quindi Varrone decide di dover indagare diligentemente quale delle tre teorie si deve preferire.
Un ragionamento genuino non consente che siano più di una, sia essa in queste tre o in un'altra teoria.
Lo vedremo in seguito.
Frattanto esaminiamo, il più brevemente e chiaramente possibile, in qual senso Varrone ne scelga una sola delle tre.
Infatti queste tre teorie si delineano appunto perché gli impulsi originari di natura si devono perseguire per la virtù o la virtù per gli impulsi originari o l'una e gli altri, cioè la virtù e gli impulsi originari di natura, per se stessi.
Varrone tenta di stabilire con evidenza quale dei tre obiettivi si debba perseguire come vero con il seguente procedimento.
Prima di tutto egli ritiene che si deve esaminare che cos'è l'uomo perché in filosofia non si pone il problema del bene della pianta, dell'animale, di Dio, ma dell'uomo.
Ritiene infatti come certo che due princìpi sono nella sua natura, il corpo e l'anima, e non pone in discussione che dei due l'anima è più perfetta e di gran lunga più elevata.
Ipotizza invece se l'uomo sia soltanto l'anima in modo che il corpo sia come il cavallo per il cavaliere, poiché cavaliere non è l'uomo e il cavallo, ma soltanto l'uomo, e si chiama appunto cavaliere perché in qualche modo è in rapporto col cavallo; ipotizza inoltre se l'uomo sia soltanto corpo in quanto è in rapporto con l'anima come il bicchiere con la bevanda; infatti non si considera bicchiere unitamente la coppa e la bevanda che la coppa contiene, ma soltanto la coppa perché è commisurata a contenere la bevanda; e ancora che non l'anima o il corpo soltanto ma che l'una e l'altro insieme sono l'uomo e che una parte sono tanto l'anima che il corpo ed egli, per essere uomo come un tutto, risulti delle due parti, allo stesso modo che consideriamo biga due cavalli accoppiati, di cui sia quello di destra che quello di sinistra è parte della biga e non consideriamo biga uno solo di loro, comunque sia rapportato all'altro, ma l'uno e l'altro insieme.
Delle tre ipotesi ha scelto la terza e ritiene che l'uomo non è soltanto anima o soltanto corpo, ma unitamente anima e corpo.
Quindi afferma che il sommo bene dell'uomo, con cui diviene felice, risulta dall'una e dall'altra componente, dall'anima cioè e dal corpo.
Perciò decide che per se stessi si devono perseguire gli impulsi primi di natura e la virtù stessa che l'educazione aggiunge come arte del vivere e che fra i suoi beni spirituali è il bene più alto.
La medesima virtù, cioè l'arte del regolare la vita, quando accoglie in sé gli impulsi originari di natura, i quali preesistevano ad essa, ma esistevano anche quando mancava loro l'educazione, li persegue tutti per se stessi ma insieme se stessa e di tutti e di se stessa si vale al fine di sentire diletto e appagamento da tutti più o meno secondo che sono più o meno nobili.
Gode tuttavia di tutti e tralascia, se la circostanza lo richiede, i beni meno elevati per ottenere e conservare i più elevati.
Ma la virtù non antepone a se stessa nulla dei beni dell'anima e del corpo.
Essa usa bene di se stessa e degli altri beni che rendono l'uomo felice.
Dove essa non è, sebbene vi siano molti beni, non vi sono per il bene di colui che li ha e perciò non si possono considerare un bene per lui perché, se ne usa male, non possono essergli utili.
Dunque la vita dell'uomo, regolata in modo che provi l'appagamento dalla virtù e dagli altri beni dell'anima e del corpo, senza di cui non si può avere la virtù, è considerata felice; più felice se prova l'appagamento anche da altri beni, alcuni o più, senza dei quali si può avere la virtù, molto felice se da tutti i beni, in modo che non gli manchi alcun bene dell'anima o del corpo.
Quindi non è la medesima cosa la vita e la virtù, perché non qualsiasi vita ma la vita saggia è virtù, e tuttavia vi può essere qualsiasi vita senza la virtù, ma non vi può essere virtù senza la vita.
Direi questo anche della memoria e della ragione e di ogni facoltà simile nell'uomo.
Si hanno infatti anche prima dell'educazione, ma senza di esse non si può avere l'educazione e quindi neanche la virtù, alla quale si è educati.
Correre velocemente, esser bello di corpo, avere il sopravvento per vigorose energie e altri simili pregi sono tali che la virtù si può avere senza di essi ed essi senza la virtù.
Tuttavia sono un bene e secondo gli accademici la virtù li ama per se stessi, li utilizza e se ne appaga come conviene alla virtù.5
Affermano che nell'uomo la vita felice è anche comunitaria perché ama il bene e gli amici per se stesso come ama il proprio e lo vuole loro per loro come per sé, tanto se sono in casa come la moglie, i figli e i familiari in genere, sia nel luogo dove v'è la sua casa, come la città e quelli che sono chiamati cittadini o in tutto il globo terrestre, come sono i popoli che a lui congiunge l'umana solidarietà, o nell'universo, che è indicato col nome di cielo e terra, come, a loro avviso, sono gli dèi che, secondo loro, sono amici dell'uomo saggio e che noi abitualmente chiamiamo angeli.
Affermano che in nessun modo si deve dubitare del fine del bene e del male e che è questa la distinzione tra loro e i nuovi accademici e che non fa differenza se su questo fine, che reputano evidente, si fa filosofia col modo di vestire e di mangiare dei cinici o con un altro qualsiasi.
Affermano inoltre che dei tre tipi di vita, dedito agli studi, agli affari e che risulta dall'unione dei due, a loro va a genio il terzo.
Varrone afferma, sulla garanzia di Antioco, maestro di Cicerone e suo, che i vecchi accademici hanno ritenuto e insegnato così, sebbene Cicerone vuol fare apparire che in molti punti fu piuttosto stoico che vecchio accademico.
Ma che cosa importa a noi, che dobbiamo giudicare i contenuti, anziché conoscere come importante sugli uomini ciò che ciascuno ha opinato?
Se dunque ci si chiede che cosa risponda la città di Dio, interrogata su questi argomenti ad uno ad uno, e prima di tutto che cosa pensi sul fine del bene e del male, essa risponderà che il sommo bene è la vita eterna, il sommo male la morte eterna e che quindi per conseguire la prima ed evitare la seconda si deve vivere onestamente.
E per questo è scritto: Il giusto vive di fede. ( Ab 2,4; Gv 3,36; Rm 1,17; Gal 3,11; Eb 10,38 )
Difatti non abbiamo ancora esperienza del nostro bene, perciò è indispensabile che lo cerchiamo credendo ed anche il vivere onestamente non proviene a noi da noi se non ci aiuta nel credere e nel pregare colui che ci ha dato la fede stessa con cui credere che dobbiamo essere da lui aiutati.
Vollero invece esser felici in questo mondo e con incredibile leggerezza rendersi felici da sé coloro i quali ritennero che il fine del bene e del male è in questa vita perché stabilirono il sommo bene o nel corpo o nell'anima o in entrambi e, per esprimersi più diffusamente, o nel piacere o nella virtù o in entrambi, oppure nella serenità o nella virtù o in entrambi, oppure nel piacere assieme alla serenità o nella virtù o in entrambe, oppure negli impulsi originari di natura o nella virtù o in entrambi.
Li ha scherniti la Verità nel profeta il quale dice: Il Signore conosce i pensieri degli uomini, ( Sal 94,11 ) o, come ha interpretato l'apostolo Paolo tale attestazione: Il Signore conosce i pensieri dei sapienti perché sono vani. ( 1 Cor 3,20 )
Chi infatti è capace, sia pure con un fiume d'eloquenza, di evidenziare le sofferenze di questa vita?
Se ne lamentò, come gli fu possibile, Cicerone nel libro La consolazione per la morte della figlia; ma quanto è ciò che ha potuto?
Quando, dove, come è possibile che i così detti impulsi originari di natura si realizzino così bene in questa vita da non declassarsi nella eventualità?
Infatti quale dolore contrario al piacere, quale pena contraria alla serenità può non cadere sul corpo del saggio?
Certamente l'amputazione o l'impotenza di una parte del corpo abbatte la piena efficienza dell'uomo, l'imperfezione nega l'avvenenza, la cagionevolezza la salute, la stanchezza le forze, l'intorpidimento e la lentezza l'agilità; e quale di questi può non piombare sull'organismo del saggio?
La posizione e movimento, quando sono convenienti e appropriati, si annoverano fra gli impulsi primi di natura; ma che succede se un qualche malanno scuote le membra con un tremito?
Che cosa avviene se la spina dorsale è curvata fino a costringere le mani al suolo e in qualche modo rende quadrupede l'uomo?
Turberebbe la grazia e dignità del conferire posizione e movenza al corpo.
Che cosa dire di quelli che sono considerati beni originari dell'animo, fra i quali come primi due rassegnano per la rappresentazione e l'apprendimento della verità il senso e l'intelletto?
Ma di quale natura e in qual misura rimane il senso se, per tacere delle altre facoltà, l'uomo divenisse sordo e cieco?
E a qual punto si alieneranno ragione e intelligenza qualora si offuscassero se pur per una qualche malattia divenisse pazzo?
Quando i pazzi furiosi dicono e compiono parole e azioni assurde, spesso disdicevoli alla loro buona intenzione e comportamento, anzi contrarie alla loro buona intenzione e comportamento, sia che vi pensiamo o che li vediamo, se vi riflettiamo seriamente, a mala pena possiamo trattenere le lacrime o forse neanche lo possiamo.
Che dire di quelli che subiscono invasioni dei demoni?
Dove hanno la propria intelligenza oppressa e travolta se lo spirito maligno usa secondo la propria volontà della loro anima e corpo?
E non ci si può illudere che un simile malanno in questa vita non può colpire il sapiente.
Poi di qual tenore e ampiezza è l'apprendimento della cultura in questo corpo mortale?
Leggiamo nel veritiero libro della Sapienza: Il corpo corruttibile appesantisce l'anima e l'esperienza terrena affanna il pensiero che recepisce molte immagini. ( Sap 9,15 )
V'è inoltre la spinta o stimolo dell'agire, se in questi termini giustamente si traduce in latino quelle spinte che i Greci chiamano όρμή, poiché anche essi l'assegnano ai beni primi di natura.
Ed è proprio questa spinta con cui, quando è sconvolta la mente e offuscata la coscienza, si compiono movimenti e gesti degni di pietà che ci fanno rabbrividire.
C'è poi la virtù, che non è fra gli impulsi primi di natura, poiché si aggiunge in seguito con la mediazione della educazione quando si aggiudica la perfezione dei beni umani.
Ma che cosa consegue essa se non lotte continue con le imperfezioni non fisiche ma spirituali, non di altri ma nostre e personali, soprattutto quella virtù che in greco si chiama σωφροσύνη, in latino "temperanza", con cui si frenano le passioni della carne affinché non conducano la coscienza a consentire ad ogni azione disonesta?6
Poiché, come dice l'Apostolo, la carne ha desideri contrari allo spirito, non v'è imperfezione a cui non sia contraria una virtù poiché, come dice ancora l'Apostolo, lo spirito ha desideri contrari alla carne.
Ed essi, soggiunge, si ostacolano a vicenda sicché non fate quel che vorreste. ( Gal 5,17 )
E noi, quando vogliamo essere perfetti nel fine del sommo bene, non vogliamo altro che la carne non abbia desideri contro lo spirito e che in noi non vi sia questa imperfezione contro cui lo spirito abbia desideri.
In questa vita, sebbene lo vogliamo, poiché non siamo in grado di ottenerlo, per lo meno otteniamo con l'aiuto di Dio di non arrenderci con lo spirito fiaccato alla carne, che ha desideri contro lo spirito, e di non essere indotti a commettere il peccato col nostro consenso.
Non deve avvenire dunque che in questo dissidio interiore ci illudiamo di aver raggiunto la felicità alla quale intendiamo giungere vincendo.
E nessuno è saggio al punto di non avvertire per nulla il conflitto contro il piacere immoderato.
E che cosa ottiene la virtù che si chiama prudenza?
Essa con la sua grande accortezza distingue il bene dal male, affinché nel compiere l'uno ed evitare l'altro non s'insinui l'errore e perciò anch'essa comprova che noi siamo nel male o che il male è in noi.
Insegna appunto che il male è consentire al piacere immoderato per peccare e che il bene è non consentirgli per non peccare.
E la temperanza ottiene che non si consenta al male al quale la prudenza c'insegna a non consentire, tuttavia né la prudenza né la temperanza lo eliminano da questa vita.
Compito della giustizia è assegnare a ciascuno il suo.
Ne consegue un giusto ordine naturale in modo che l'anima sia sottomessa a Dio e il corpo all'anima e perciò l'anima e il corpo a Dio.
Fa notare perciò che ancora attende a questa funzione anziché serenarsi nel fine di tale funzione.
L'anima è tanto meno sottomessa a Dio quanto meno accoglie Dio nei suoi pensieri e tanto meno il corpo è sottomesso all'anima quanto più accoglie desideri contro lo spirito.
Finché dunque rimangono in noi questa mollezza, questo contagio, questo sfinimento, come oseremo considerarci già sani e se ancora non sani, come già felici di quella felicità che è nel fine?
La virtù che ha nome fortezza, sia pure in una grande saggezza, è testimone irrefutabile dei mali umani che essa è costretta a sopportare con la rassegnazione.
Mi stupisco della sfrontatezza con la quale i filosofi stoici sostengono che questi mali non sono mali perché ammettono che da essi, se sono tanto grandi che il saggio non li possa o non li debba sopportare, egli è costretto a infliggersi la morte e uscire da questa vita.
È grande l'insensatezza dell'orgoglio in questi individui che pongono nella vita presente il fine del bene e che pensano di rendersi felici da se stessi.
Infatti il loro saggio, come essi con sorprendente millanteria lo delineano, anche se diviene cieco, sordo e muto, sia fiaccato nell'organismo e affranto dai dolori e se un qualche altro di simili mali che dire o pensar si possa gli piombi addosso, per cui sia costretto a infliggersi la morte, non deve evitare di considerare felice questa vita sebbene afflitta da questi mali.
O vita felice che, per essere finalizzata, chiede aiuto alla morte!
Se è felice si persista in essa.
In qual senso questi non sono mali, se debellano il bene della fortezza e costringono la fortezza stessa non solo ad arrendersi a loro, ma anche a vaneggiare al punto che essa considera felice la vita e induce ad abbandonarla?
Non si può essere tanto ciechi da non avvertire che, se fosse felice, non dovrebbe essere abbandonata.
Ma con un chiaro accenno di sofferenza ammettono che si deve abbandonare.
Non v'è ragione dunque, una volta fiaccata l'alterezza della presunzione, non ammettere che è infelice.
E, per piacere, il celebre Catone si è suicidato per sopportazione o insopportazione?
Non l'avrebbe fatto se non avesse accolto con insofferenza la vittoria di Cesare.
Dov'è la fortezza? In realtà si arrese, si afflosciò, fu sconfitta al punto da abbandonare, rinunziare, fuggire una vita felice.
Ma non era già felice? Era dunque infelice.
Dunque erano mali se rendevano la vita infelice tanto da evaderne.
Perciò anche coloro i quali hanno ammesso che queste condizioni sono un male, come i peripatetici e i vecchi accademici, di cui Varrone sostiene la teoria, si esprimono in forma più accettabile, ma anche il loro errore desta sorpresa.
La vita è felice, sostengono, nonostante questi mali, sebbene siano tanto gravi e da schivare con la morte irrogata a se stesso da colui che li subisce.
I dolori strazianti del corpo, dice Varrone, sono un male e tanto più grave in quanto potrebbero aggravarsi; per liberarsene si deve uscire da questa vita.
Da quale, prego? Da questa, dice, perché è tormentata da tanti mali.7
Senz'altro dunque è felice negli stessi mali per i quali affermi che si deve fuggire?
Ovvero la consideri felice perché ti è permesso di sfuggire da quei mali con la morte?
E che diresti se per un giudizio divino fossi irretito in essi, non ti fosse permesso di morire e mai ti fosse consentito di liberartene?
In tal caso veramente considereresti infelice una tal vita.
Dunque non è infelice per il fatto che si lascia subito.
Difatti se fosse eterna, anche da te sarebbe giudicata infelice e non perché è breve deve sembrare che non sia infelicità ovvero, ed è più assurdo, poiché è un'infelicità breve, che si possa considerare felicità.
V'è un grande potere in questi mali perché inducono un uomo saggio secondo i filosofi a togliersi quel principio per cui è uomo.
Dicono infatti, e dicono il vero, che questo è il primo e più grande richiamo della natura che l'uomo sia in armonia con se stesso, perciò fugga la morte per istinto naturale, così amico di sé da volere con ardore e bramare di essere una creatura animata e di vivere nell'unione di anima e corpo.8
V'è un grande potere in questi mali perché con essi è sopraffatto codesto sentimento naturale, per cui in ogni modo con tutte le forze e tentativi si evita la morte, ed è così sopraffatto che la morte che si evitava è scelta desiderata e se non sopraggiungesse da altra parte verrebbe irrogata personalmente dall'individuo stesso.
V'è un grande potere in questi mali che rendono omicida la fortezza, se tuttavia si deve ancora considerare fortezza.
Difatti essa è talmente sopraffatta da questi mali che non solo non può con la sopportazione difendere l'uomo, che in quanto virtù ha accolto per guidarlo e proteggerlo, ma che inoltre essa stessa è costretta ad uccidere.
Certamente il saggio deve accettare pazientemente anche la morte, ma che proviene da un'altra causa.
Ma se, stando a costoro, uno è costretto a infliggersela, si deve anche ammettere che non si tratta soltanto di mali ma di mali intollerabili, perché lo costringono a compiere una simile azione.
Quindi una vita che è afflitta dal peso o soggiace all'eventualità di mali tanto grandi e tanto gravi, non sarebbe affatto considerata felice se gli individui, i quali la pensano così, allo stesso modo che, sopraffatti da mali sempre più gravi, si arrendono alla sfortuna quando si irrogano la morte, così soggiogati da determinate riflessioni degnassero di arrendersi alla verità quando cercano la vera felicità.
Non devono cioè pensare per sé che si può godere del fine del sommo bene nell'attuale soggezione alla morte perché in questa condizione le virtù stesse, di cui attualmente nell'uomo non si riscontra valore più nobile e vantaggioso, quanto sono un aiuto più valido contro la violenza del pericolo, travaglio e sofferenza, tanto sono più attendibili testimonianze dell'infelicità.
Se infatti sono vere virtù, e non possono esserlo se non in coloro in cui è un vero sentimento religioso, non pretendono di ottenere che non soggiacciano alle condizioni d'infelicità gli uomini che le hanno.
Le virtù vere non sono ingannevoli, quindi non lo pretendono.
Ma fanno sì che la vita umana, la quale è condizionata ad essere infelice per i tanti e grandi mali di questo mondo, allo stesso modo che è immune da morte, sia felice nella speranza dell'aldilà.
Non potrebbe essere felice se non fosse immune dalla morte.
Quindi l'apostolo Paolo, non degli uomini privi di prudenza, fortezza, temperanza e giustizia, ma di quelli che vivano secondo il vero sentimento religioso e abbiano quindi vere le virtù che hanno, dice: Nella speranza siamo diventati liberi dalla morte.
Ora ciò che si spera, se visto, non è più speranza; infatti ciò che uno già vede, come potrebbe ancora sperarlo?
Ma se speriamo quello che non vediamo, lo attendiamo con fortezza. ( Rm 8,24-25 )
Come dunque nella speranza siamo diventati liberi dalla morte, così nella speranza siamo diventati felici e non abbiamo in atto la liberazione dalla morte e la felicità ma le attendiamo nel futuro e questo mediante la fortezza.
Siamo appunto nei mali che dobbiamo sopportare con fortezza fino a che giungiamo a quei beni, nei quali vi sarà tutto ciò da cui siamo resi felici in maniera ineffabile e nulla che dobbiamo ancora sopportare.
E la libertà dalla morte, che vi sarà nell'aldilà, sarà anche la felicità finale.
E poiché i filosofi suddetti non vogliono credere a questa felicità perché non la sperimentano, tentano di conquistarne una assai falsa con una virtù tanto più superba quanto più illusoria.
Essi sostengono che la vita dell'uomo saggio è socievole, noi lo ammettiamo con significato più ampio.
Infatti questa città di Dio, sulla quale noi ormai rigiriamo fra mano il libro diciannovesimo dell'opera, da dove inizierebbe all'origine o continuerebbe nell'evolversi o raggiungerebbe il fine dovuto se la vita dei credenti non fosse socievole?
Ma non si può calcolare di quanti e quanto gravi mali sovrabbondi l'umana società nell'angoscia di questa soggezione alla morte.
Non si è capaci di valutarli.
Ascoltino dai loro commediografi un individuo che col modo di pensare e consenso di tutti dice: Ho preso moglie, che pena ho provato!
Sono nati i figli, altro affanno.9
Parimenti le umane condizioni hanno in ogni caso incontrato quelle manchevolezze che il citato Terenzio richiama alla memoria: Ingiustizie, diffidenze, inimicizie, lotta e di nuovo la pace.10
Tali contrasti hanno coinvolto tutti gli avvenimenti umani e si verificano spesso anche negli onesti affetti degli amici, ne sono ripieni gli avvenimenti umani in ogni fatto in cui sperimentiamo come mali indiscutibili ingiustizie, diffidenze, inimicizie, lotta; la pace invece come un bene incerto, perché non conosciamo il cuore di coloro con i quali vogliamo conservarla e se oggi possiamo conoscerlo, non sappiamo certamente come sarà domani.
E quali individui sono soliti o devono essere più amici fra di loro che quelli i quali convivono nella medesima casa?
Eppure nessuno è sicuro di questo fatto, dato che spesso dalle loro malignità nascoste possono emergere mali tanto più spiacevoli quanto più piacevole fu la pace che fu creduta vera, mentre era molto astutamente simulata.
Perciò tocca il cuore di tutti tanto da costringere al lamento ciò che dice Cicerone: Non v'è inganno più nascosto di quello che si cela nel pretesto del dovere o in un certo orpello del vincolo naturale.
Tu infatti, stando in guardia, puoi agevolmente schivare colui che ti è ostile, ma questo male nascosto di casa e di famiglia non solo avviene ma angustia prima che tu possa scorgerlo e verificarlo.11
Per questo con grande afflizione si ascolta la parola del Signore: Nemici dell'uomo sono quelli della sua casa. ( Mt 10,36 )
Difatti anche se un individuo è tanto forte da sopportare con animo sereno o tanto accorto da schivare con preveggente perspicacia i tranelli che una finta amicizia prepara contro di lui, è indispensabile che egli sia gravemente afflitto dalla perversità di quegli uomini sleali quando sperimenta, se egli è buono, che essi sono pessimi tanto se sono stati sempre cattivi e si sono atteggiati a buoni, come se sono passati dalla bontà a simile malvagità.
Se dunque la casa, asilo comune in questi mali del genere umano, non è sicura, che dire della città?
Essa infatti, quanto è più grande, tanto il suo tribunale è più gremito da cause civili e criminali, anche se mancano le agitazioni sovversive e assai spesso sanguinose e le guerre civili.
E sebbene talora le città siano libere dalle loro vicissitudini, mai lo sono dalla minaccia.
Quali pensiamo che siano i processi giudiziari degli uomini sugli uomini, giacché non possono mancare negli Stati che persistono in una pace per grande che sia, e quanto siano meschini e deplorevoli?
Difatti quelli che giudicano non possono scorgere la coscienza di coloro sui quali giudicano.
Quindi spesso sono costretti a scoprire la verità riguardante un altro processo con la tortura di testimoni innocenti.
E che dire quando un tale subisce la tortura in un proprio processo e viene straziato quando s'investiga se è colpevole e un innocente subisce pene certissime per un reato incerto, non perché si scopre che l'ha commesso, ma perché non si sa se l'ha commesso?
Perciò l'inconsapevolezza del giudice è spesso rovina dell'innocente.
E v'è un altro caso più intollerabile, deplorevole, da bagnare con un fiume di lacrime, se fosse possibile.
Quando il giudice infligge la tortura all'accusato, appunto per non uccidere un innocente nell'ignoranza, avviene, per la sventura dell'inconsapevolezza, che uccide il torturato innocente che aveva fatto torturare per non uccidere un innocente.
Se dunque secondo la teoria di costoro un tale ha scelto di uscire da questa vita anziché sopportare più a lungo quei tormenti, dichiara di aver commesso ciò che non ha commesso.
Se egli è stato condannato e giustiziato, il giudice ancora non sa se ha fatto morire un colpevole o un innocente, sebbene lo ha fatto torturare per non uccidere inconsapevolmente un innocente e perciò ha fatto torturare un innocente per sapere e poiché non sapeva lo ha fatto morire.
In questo buio della vita associata il giudice saggio sederà in tribunale o non oserà?
Certo che vi sederà. Lo vincola infatti e induce a questo incarico la convivenza umana che egli giudica illecito abbandonare.
Infatti non ritiene illecito che testimoni innocenti siano torturati in processi riguardanti altre persone.
Vi sono poi coloro che, incolpati e sopraffatti talora dalla violenza del dolore e accusando se stessi ingiustamente, sono anche puniti pur essendo innocenti quando già, sebbene innocenti, sono stati torturati.
Inoltre, sebbene non siano puniti con la morte, spesso muoiono nella tortura o in seguito ad essa.
Infine talvolta anche gli accusatori, desiderando forse di giovare all'umana convivenza nel senso che i delitti non rimangano impuniti e non riuscendo a provare ciò che contestano ai testimoni che depongono il falso, se il reo resiste disumanamente ai tormenti e non confessa, sebbene contestino il vero, sono condannati dal giudice che ignora.
E il giudice non ritiene che tanti e sì grandi mali siano peccati perché, se è assennato, non lo fa nella necessità di fare del male e tuttavia, poiché ve lo induce la convivenza umana, nella necessità di giudicare.
Questa è dunque quella che con certezza consideriamo condizione infelice dell'uomo, sebbene non è malvagità del saggio.
Forse che egli, nella necessità di giudicare pur ignorando, sottopone a tortura e punisce gli innocenti ed è poco per lui non esser colpevole se in più non è anche felice?
Tanto più ponderatamente e in modo più degno dell'uomo avverte in tale necessità una disdetta e la odia in sé e, se è educato alla pietà, grida a Dio: Liberami dalle mie necessità! ( Sal 25,17 )
Dopo lo Stato ovvero città viene il mondo intero, nel quale i filosofi riconoscono il terzo livello dell'umana convivenza, iniziando dalla casa e da essa alla città e poi giungendo fino al mondo.
Esso certamente, come l'oceano, quanto è più grande, tanto è più denso di pericoli.
Prima di tutto nel mondo la diversità delle lingue rende estraneo un uomo all'altro.
Se due s'incontrano e non possano passare oltre ma siano costretti da una qualche circostanza a rimanere insieme e nessuno dei due conosca la lingua dell'altro, i muti animali, anche se di specie diversa, s'intendono più facilmente di loro, sebbene entrambi siano uomini.
Infatti poiché soltanto per la diversità della lingua non possono manifestare l'uno all'altro i propri pensieri, non giova nulla a stabilire rapporti una grande affinità di natura al punto che un uomo sta più volentieri col proprio cane anziché con un estraneo.
Ma, si obietta, si è avuto un ordinamento in modo che lo Stato dominatore, mediante la pace della convivenza, non solo ha imposto la soggezione ai popoli sottomessi, ma anche la lingua e riguardo ad essa non mancava, anzi era a disposizione un gran numero d'insegnanti di lingua.12
È vero, ma questo risultato è stato raggiunto con molte e immani guerre, con grande scempio di uomini e grande spargimento di sangue umano.
Trascorsi questi avvenimenti, non ebbe termine la sventura di simili mali.
Difatti non sono mancati e non mancano come nemici i popoli stranieri, contro i quali sempre sono state condotte e si conducono guerre.
Però anche l'ampiezza del dominio ha suscitato guerre di una peggiore specie, cioè sociali e civili, dalle quali il genere umano è più miserevolmente sconvolto, tanto mentre si guerreggia per sospenderle una buona volta come quando si teme che scoppino di nuovo.
Se io volessi trattare, come conviene, i molti e svariati massacri, le spietate e funeste vicissitudini di tale calamità, sebbene non lo potrei mai come l'argomento richiede, non vi sarebbe un limite a una prolungata trattazione.
Ma il saggio, dicono, dovrà sostenere una guerra giusta.
Quasi che, se si ricorda di essere uomo, non dovrà affliggersi che gli viene imposta la necessità di guerre giuste perché, se non fossero giuste, non dovrebbe sostenerle e perciò per il saggio non si avrebbero guerre.
È infatti l'ingiustizia del nemico che obbliga il saggio ad accettare guerre giuste e l'uomo deve dolersi di questa ingiustizia perché appartiene agli uomini, sebbene da essa non dovrebbe sorgere la necessità di far guerra.
Chiunque pertanto considera con tristezza queste sventure così grandi, così orribili, così spietate, deve ammetterne l'infelice condizione; chiunque invece o le subisce o le giudica senza tristezza della coscienza, molto più infelicemente si ritiene felice perché ha perduto il sentimento d'umanità.
Ma supponiamo che non si verifichi un tipo d'ignoranza simile alla follia, che tuttavia nella sventurata condizione di questa vita si verifica spesso in maniera che si crede amico chi è nemico e nemico chi è amico.
Allora in questa umana convivenza assai colma di errori e di sofferenze ci confortano soltanto la fede non simulata e la solidarietà di veri e buoni amici.
E quanti più amici e in più luoghi ne abbiamo, tanto più lungamente e profondamente temiamo che non provenga loro un qualche malanno dal cumulo di malanni di questa vita.
Non solo siamo preoccupati che siano afflitti dalla fame, dalle guerre, malattie e oppressioni e che in tale schiavitù subiscano pene tali che non riusciamo neanche ad immaginare ma anche, e il timore è ancora più pungente, che non passino alla slealtà, alla malvagità e all'ingiustizia.
E talora questi fatti avvengono, e tanto più numerosi quanto più numerosi sono gli amici, e giungono alla nostra conoscenza.
E un uomo non può comprendere da quali vampe sia bruciato il nostro cuore a meno che anch'egli non le provi.
Preferiremmo apprendere che sono morti, sebbene senza dolore neppure questa notizia possiamo apprendere.
Non può avvenire che non provochi in noi melanconia la morte di coloro, la cui vita ci allietava per i conforti dell'amicizia.
Se qualcuno la condanna, condanni, se ci riesce, le conversazioni fra amici, proibisca o interrompa l'affetto amichevole, spezzi con disumana insensibilità della coscienza i legami di tutti gli umani rapporti e dimostri che se ne deve usare in maniera che da essi nessun allettamento invada l'animo.
Se questo non può assolutamente avvenire, non potrà in alcun modo accadere che non ci rechi amarezza la morte di uno la cui vita ci arreca dolcezza.
Ne deriva infatti anche il pianto come una ferita o lesione di un cuore non disumano e per guarirla si usano doverose parole di conforto.
Infatti non per questo non si guarisce, che anzi quanto l'animo è più buono, tanto in esso più prontamente e facilmente si guarisce la ferita.
Sebbene dunque la vita dei mortali venga afflitta ora in forma più tenue ora più aspra dalla morte delle persone più care, soprattutto di quelli che hanno legami di parentela all'umana convivenza, tuttavia preferiremmo udire o vedere che i nostri cari sono morti anziché decaduti dalla fede o dai buoni costumi, cioè morti nell'anima stessa.
La terra è piena di questa smisurata congerie di mali e perciò è stato scritto: Forse non è tentazione la vita dell'uomo sulla terra? ( Gb 7, 1 )
Il Signore stesso ha detto: Guai al mondo a causa degli scandali! ( Mt 18,7 ) e ancora: Poiché è sovrabbondata la malvagità, la carità di molti si raffredderà. ( Mt 24,12 )
Ne consegue che ci rallegriamo per i buoni amici morti e sebbene la loro morte ci affligga, essa stessa con maggior certezza ci conforta perché essi sono stati immuni dai mali da cui in questa vita anche gli uomini buoni sono sopraffatti o depravati o sono esposti all'uno e all'altro pericolo.
V'è poi la società dei santi angeli assegnata da quei filosofi, i quali hanno sostenuto che gli dèi sono nostri amici, al quarto grado, quasi a passare dalla terra all'universo per includere in qualche modo anche il cielo.
Non temiamo affatto che simili amici in questa società ci affliggano con la loro morte o depravazione.
Però essi non comunicano con noi, come gli uomini, in un rapporto di familiarità e anche questo fa parte delle pene di questa vita.
Satana poi, come leggiamo, si trasforma talvolta in un angelo della luce ( 2 Cor 11,14 ) per tentare coloro che è opportuno ammaestrare in tal modo o è giusto ingannare.
È quindi necessaria una grande misericordia di Dio affinché l'uomo, quantunque creda di avere come amici gli angeli, non subisca al contrario come finti amici i demoni e tanto più dannosi quanto più astuti e lusinghieri.
E la grande misericordia di Dio è indispensabile alla grande infelicità umana la quale è gravata da tanta ignoranza che facilmente è tratta in inganno dalla loro falsità.
Ed è assolutamente certo che nella città empia i filosofi, i quali hanno sostenuto di avere gli dèi per amici, sono incappati nei demoni malvagi ai quali la città stessa è sottomessa per avere con essi un tormento eterno.
Infatti dai loro riti sacri o meglio sacrilegi, con i quali hanno pensato di onorarli, e dai giuochi veramente spudorati in cui sono esaltati i loro delitti e con i quali hanno pensato di renderseli propizi, dato che gli dèi stessi operavano ed esigevano simili e sì gravi ignominie, appare evidente di qual genere erano quelli da loro onorati.
Indice |
1 | Platone, Politeia 505a, 508e, 509b; Aristotele, Et. Nic. 1097a 15-b 21; Stoici in Stobeo, Ecl. 2, 76, 3 |
2 | Epicuro, Ep. ad Men. 129 |
3 | Aristippo in Cicerone, Acad. pr. 2, 42, 131; Epicuro, Ep. ad Men. 130-131 |
4 | Sesto Empirico, Inst. Pyrr. 1, 33, 220-221 |
5 | Ad es., Platone, Protagora 357b-361b; Menone 87d-89c; Sofisti in Cicerone, Acad. pr. 2, 44, 135 |
6 | Cicerone; Tuscul. 3, 8, 16 |
7 | Varrone, Logist. fr. inc |
8 | Cicerone, De fin. 3, 5, 16; 5, 9, 24; De off. 1, 4, 11 |
9 | Terenzio, Adelph. 5, 4, 13-14 (vv. 867-868) |
10 | Terenzio, Eun. 1, 1, 14-16 (vv. 59-61) |
11 | Cicerone, In Verrem 2, 1, 15 |
12 | Ad es., Svetonio, Vespasiano 18 |