È ancora necessaria la preghiera personale?

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Dal mese di agosto u.s. Paolo VI, nelle udienze generali del mercoledì a Castelgandolfo, ha fatto ripetutamente oggetto dei suoi discorsi la preghiera, ritenendo che fosse « una delle sollecitudini maggiori del suo ministero, quella di svegliare il senso religioso negli animi degli uomini del nostro tempo » ( Oss. Rom., 28 agosto 1969 ): la preghiera è, infatti, segno che in un uomo è vivo il senso religioso e, insieme, è sorgente di vita religiosa.

Analizzando l'attuale situazione del mondo cristiano, il Papa ha avvertito « l'enorme ed accresciuta difficoltà che oggi la gente incontra nel parlare con Dio » ( ivi ).

In particolare, ha espresso l'opinione « che vorremmo - egli ha detto - smentita dai fatti ( come, per fortuna, in molti casi lo è ), che oggi anche i buoni, anche i fedeli, anche coloro che sono consacrati al Signore, pregano meno d'un tempo » ( Oss. Rom., 14 agosto 1969 ).

In realtà, siamo di fronte ad una crisi della preghiera, che del resto non è se non un aspetto della più generale crisi religiosa del nostro tempo: l'affievolirsi del senso di Dio e - diciamo pure - la eclissi di Dio dall'orizzonte spirituale dell'uomo moderno, il disgregarsi dei valori religiosi nella sua coscienza lo portano a non sentire più il dovere, la necessità ed il gusto della preghiera.

La « morte di Dio » nel cuore dell'uomo conduce necessariamente alla morte della preghiera.

Tuttavia, la crisi della preghiera ha cause particolari, perché essa è presente anche in coloro che hanno vivo il senso di Dio e conducono una vita di fede e di carità autentiche.

Intendiamo qui parlare della preghiera « personale », dell'incontro prolungato e silenzioso con Dio: preghiera che può essere « solitaria » ( che non vuol dire « individualistica », perché il cristiano, anche quando prega da solo, non è mai solo, ma è con tutto il Corpo mistico e prega per tutto il Corpo mistico di Cristo ), e può essere anche « comunitaria », fatta in gruppo, come oggi alcuni, particolarmente tra i giovani, preferiscono, a patto che si parli « con » Dio, e non soltanto « su » Dio.

La prima di tali cause ci sembra l'incapacità di molti cristiani - sacerdoti, religiosi e laici - del nostro tempo di avere una vita « interiore », cioè di far silenzio dentro se stessi, mettendo a tacere le infinite voci che sollecitano dal di fuori il cuore e la fantasia e creano il turbamento interiore; di entrare in se stessi, raccogliendosi dalla dispersione e dall'effusione nelle cose esteriori, in cui si vive abitualmente: infatti, se non c'è capacità di silenzio e di raccoglimento non può esserci preghiera personale.

Chi vive « fuori » di sé, nella dispersione, nell'agitazione, nel chiasso, non può incontrare Dio, che vive « dentro », nel silenzio: ne aveva fatto l'esperienza sant'Agostino quando, nelle Confessioni, scriveva del tempo in cui era lontano da Dio: Intus eras, et ego foras ( Confess. 10,27 ).

La difficoltà del silenzio interiore, sempre viva in ogni tempo, è aggravata ai giorni nostri dal ritmo vertiginoso, affannoso e soffocante della vita moderna, che non lascia tempo per riflettere e meditare, dai suoni e dai rumori che giorno e notte ci perseguitano e sono divenuti parte così integrante della nostra vita che il silenzio ci fa paura e ci opprime, dalle immagini di ogni genere che ci giungono dalla TV, dal cinema, dai rotocalchi e turbinano nella nostra fantasia, facendone una tumultuosa ed allegra fiera della vanità.

In queste condizioni è estremamente difficile seguire il comando di Gesù: « Tu, invece, ritirati, quando preghi, nella tua stanza, chiudi l'uscio e prega il Padre tuo che è nel segreto » ( Mt 6,6 ).

Purtroppo, anche nelle case religiose, nei seminari e perfino nelle Chiese, il silenzio diventa sempre più difficile: e ciò non è senza dannose conseguenze sulla vita di preghiera dei religiosi e dei sacerdoti che pur dovrebbero essere « uomini di Dio » e, perciò, uomini di preghiera.

La seconda causa della crisi della preghiera sta nel fatto che l'incontro personale con Dio è frutto di una lunga, paziente e dolorosa ascesi.

Dio abita in una luce inaccessibile: l'uomo non può penetrare - o meglio, non può essere introdotto dallo Spirito Santo - nel suo mistero, se, attraverso un'interiore purificazione e ricreazione che faccia di lui un « uomo nuovo », egli non acquista una certa connaturalità con Dio, non diventa non soltanto radicalmente ma effettivamente ed in pienezza capax Dei, capace di ricevere il dono che Dio nella preghiera fa di se stesso all'uomo.

Ciò significa che l'incontro con Dio comporta una dura crisi spirituale: ascesi che è purificazione dal peccato e mortificazione delle passioni e, quindi, pacificazione interiore, ma che è anche paziente attesa che Dio si riveli.

Poiché Dio non si rivela subito: bisogna, perciò, aspettarlo con pazienza e coraggio « Aspetta il Signore, sia forte e costante il tuo cuore e spera nel Signore » ( Sal 27,14 ).

Quest'attesa è talvolta angosciosa, perché Dio spesso fa pesare il suo silenzio anche su coloro che lo cercano con tutto il cuore.

Bisogna, allora, secondo una forte parola della S. Scrittura ( nella traduzione della Volgata ), sustinere Dominum, « sopportare » con pazienza e coraggio il Signore.

Ora, molti cristiani di oggi tendono a non far più posto nella propria vita all'ascesi ed alla mortificazione, ritenendo che tutta la vecchia ascetica ( che, bisogna pur dirlo, aveva nella sua struttura essenzialmente biblica e cristiana anche forti venature platoniche e indulgeva talvolta, nei riguardi del mondo e del corpo, ad un pessimismo più vicino al manicheismo ed al buddismo che al cristianesimo ) sia superata.

Ma la strada facile non porta a Dio: Giacobbe non fu benedetto dall'Angelo se non dopo aver lottato con lui tutta la notte ( Gen 32,25-31 ).

La terza causa della crisi della preghiera è l'attuale processo di secolarizzazione a cui è sottoposto il cristianesimo.

Tale processo, che - si badi bene - non è tutto e solo negativo, perché può aiutare il cristianesimo a purificarsi da talune scorie d'un passato eccessivamente « sacrale », tende a spingere Dio sempre più nello sfondo del quadro e a far emergere, invece, sempre più l'uomo, e, più esattamente, a vedere ed a cercare Dio nell'uomo, fin quasi ad identificarlo con lui e ad esaurire il « divino » nell'« umano ».

In altre parole, dimenticando il necessario e vitale rapporto che c'è tra il primo e secondo comandamento ( non c'è autentico amore del prossimo se non c'è amore di Dio, anche se l'amore di Dio si rivela autentico solo nell'amore del prossimo ) , esso tende a fare del cristianesimo la « religione del secondo comandamento », a ridurlo tutto all'amore del prossimo.

Ora, è evidente che in un cristianesimo secolarizzato non c'è posto per la preghiera - che, tra l'altro, è anche affermazione del primato di Dio -, ma solo per la carità verso il prossimo, cioè per l'azione volta alla liberazione dell'uomo dai suoi mali ed allo sviluppo della sua personalità.

Certamente, i cristiani di oggi non accettano le premesse della secolarizzazione ( che, così intesa, sarebbe più esatto chiamare « Secolarismo » ), perché è una forma velata di ateismo, sia pure « cristiano », come amano dire taluni; tuttavia, ne respirano l'atmosfera.

Cosicché, non sono pochi coloro i quali ritengono che, oggi, la vera e migliore preghiera sia il donarsi agli altri, il lavorare per gli altri, specialmente per i poveri e gli oppressi, nei quali Cristo è particolarmente presente.

Essi pensano che consacrare un certo tempo alla preghiera personale, - peggio ancora, intraprendere una forma di vita contemplativa - sia una fuga dagli impegni e dalle responsabilità che gravano oggi sui cristiani nei riguardi dei loro fratelli, sia una forma di aristocratico snobismo che disdegna di sporcarsi le mani nel vivo, spesso melmoso, della storia.

Le conseguenze di questa crisi della preghiera personale sono gravi.

Anzitutto, l'abbandono della preghiera personale incide negativamente su tutta la vita spirituale, particolarmente sulla fede: mancando, infatti, il contatto personale con Dio, le realtà spirituali perdono i loro contorni e si dissolvono in una bruma pesante ed opaca; il mistero cessa di essere vivente e vivificante per ridursi a proposizioni morte e vuote di senso; la stessa persona divina di Cristo, che non si sperimenta più nella preghiera presente e vivente, si dissolve in un personaggio storico più o meno mitico.

La fede, insomma, per mancanza di alimentazione, a poco a poco muore, dissolvendosi nel nulla.

La crisi della Chiesa di cui oggi tanto si parla è, a nostro parere, in gran parte una crisi di fede - e la sua causa, più che nell'invecchiamento e nell'inadeguatezza delle strutture ecclesiali, va cercata nel fatto che i cristiani - anche i religiosi ed i sacerdoti - oggi pregano di meno di un tempo ( e taluni non pregano affatto ).

Non a caso Gesù ha detto ai suoi discepoli in un'ora drammatica: « Vegliate e pregate per non entrare in tentazione » ( Mt 26,41 ).

E si noti: oggi è proprio la fede ad essere più esposta alla tentazione del dubbio e della negazione, poiché tutto sembra congiurare contro la fede cristiana.

Essa deve oggi sostenere non solo l'urto dei vecchi avversati, ma anche quello assai più pericoloso dei nuovi, che portano i nomi fascinosi della demitizzazione, della secolarizzazione, della teologia radicale.

Anche la crisi attuale, così sconcertante e dolorosa, del sacerdozio cattolico ha tra le sue cause profonde l'affievolimento dello spirito di preghiera in molti sacerdoti, particolarmente giovani e di recente ordinazione.

In realtà, il sacerdozio e gli obblighi che esso impone non hanno senso - e diventano un peso insopportabile - se il sacerdote non conserva un rapporto vivo e costante con Cristo nella preghiera personale.

Non gli basta la preghiera liturgica - Messa e breviario - a cui la Chiesa l'obbliga.

Questo, non perché la preghiera liturgica - in particolare la celebrazione della Messa - non basti ad unirlo a Dio ed a santificarlo, ma perché, se manca la preghiera personale che l'accompagni e l'approfondisca facendola sostanza dell'anima, la preghiera liturgica rischia di ridursi ad un fatto esteriore e la stessa celebrazione della Messa corre pericolo di essere solo un rito esterno, compiuto frettolosamente e senza interiore preparazione.

Giustamente il 13 agosto il Papa notava che la preghiera personale « è condizione indispensabile all'autentica e cosciente partecipazione liturgica », perché la liturgia non è solo rito; è mistero, e come tale esige l'adesione cosciente e fervorosa di quanti vi prendono parte; suppone la fede, la speranza, la carità, e tante altre virtù e sentimenti, atti e condizioni, come l'umiltà, il perdono delle offese, l'intenzione, l'attenzione, l'espressione interiore e vocale, che dispongono il fedele all'immersione nella realtà divina, che la celebrazione liturgica rende presente ed operante » ( Oss. Rom., 14 agosto 1969 ).

Se l'affievolimento dello spirito di preghiera rischia di colpire a morte la fede, rischia anche di privare di vigore e di significato l'apostolato, la carità, il lavoro e l'impiego per gli altri, di svuotare queste grandi e belle realtà della loro « anima » cristiana e quindi del loro senso più profondo e più autentico.

In realtà, il pericolo a cui va incontro il cristiano che vuole impegnarsi con gli altri uomini nella costruzione di un mondo più giusto è quello di dimenticare la dimensione « teologale » che gli è propria per ridarsi alla sola dimensione « sociale », di assumere la « sociologia » - e non la « teologia » e, più propriamente, la fede - a norma della sua azione.

Quanto all'apostolato, il rischio che esso diventi solo un battere l'aria è sempre presente.

Ad ovviare a questi rischi occorre la preghiera personale.

Ci sembrano decisivi a questo proposito l'insegnamento e l'esempio di Cristo e dei santi: essi non hanno pensato - come pensano, invece, alcuni cristiani oggi - che la migliore preghiera fosse il lavoro e l'impegno per gli altri, ma hanno sentito il dovere, la necessità - ed anche la gioia - dell'incontro personale con Dio.

Di Gesù gli evangelisti narrano che si ritirava spesso sulla montagna a pregare da solo ( Mt 14,23 ), passando talvolta la notte intera in preghiera ( Lc 6,12 ).

Degli Apostoli gli Atti ci dicono che « erano assidui alla preghiera » ( At 1,14 ); ci mostrano anche Pietro che prega sulla terrazza della casa di Simone il conciatore ( At 10,9 ) ed « un certo Saulo di Tarso che sta pregando » nella casa di Giuda sulla via Dritta ( At 9,11 ).

A sua volta, nelle sue lettere San Paolo non solo esorta a pregare « ininterrottamente », « in ogni tempo », ma afferma di se stesso di pregare « notte e giorno » ( 1 Ts 3,10 ).

Come Gesù e gli apostoli, tutti i Santi del cristianesimo, particolarmente quelli che più hanno lavorato per il Regno di Dio e per il bene degli uomini, hanno dato nella propria vita un posto amplissimo ( che si è facilmente tentati di qualificare di « esagerato » ) alla preghiera personale, prolungata e silenziosa, ritenendo che la preghiera fosse « l'anima di ogni apostolato »,1 come dice il titolo di un vecchio libro che forse varrebbe la pena oggi rileggere, trovando nella preghiera una fonte inesausta di slancio apostolico e caritativo e, sopratutto, la forza necessaria per superare gli ostacoli che incontravano sul loro cammino.

Non mancano, è vero, taluni per i quali la preghiera personale è una fuga dagli impegni di carità, di lavoro sociale e di apostolato; non mancano neppure coloro che ritengono d'avere fatto tutto il loro dovere cristiano quando hanno pregato.

Il fatto che alcuni abbiano affermato che la vera preghiera è l'azione per gli altri, è la carità, è precisamente una reazione a questa maniera di concepire e di praticare la preghiera personale: maniera, evidentemente, errata, perché una preghiera che non si traduca nella carità, nel lavoro per gli altri, che non porti a vivere per gli altri, non è una preghiera cristiana.

Del resto, anche la preghiera del contemplativo è un'azione di carità, anzi della più alta carità: egli, infatti, vive e prega per gli altri, per tutta la Chiesa di Dio; è spiritualmente vicino, per aiutarli e sostenerli, a tutti coloro che lavorano e lottano per il Regno di Dio.

Tuttavia, se è errato staccare la preghiera dalla vita di carità, poiché la preghiera, se è autentica, deve portare alla carità, è egualmente errato ridurre la preghiera alla carità, al dono di sé agli altri, ritenendo che il lavoro per il prossimo sia la migliore forma di preghiera e possa prendere il posto della preghiera personale.

Infatti, nel cristianesimo, il primato spetta a Dio ed al suo Regno, non all'uomo.

Quando si dice che l'amore di Dio è il primo comandamento, non si vuole affermare soltanto una priorità di fatto ( il primo comandamento è primo perché nella S. Scrittura viene prima del secondo ), ma una priorità di diritto, di valore: Dio è il primo, e va amato per se stesso e in se stesso, va lodato e glorificato « per la sua grande gloria ».

Ora, questo appunto fa la preghiera.

Essa, quindi, è un'affermazione pratica del primato di Dio, è una maniera di vivere e di praticare il primo comandamento.

Il fatto stesso che un certo tempo venga sottratto a se stesso ed al servizio del prossimo per essere impiegato nell'esclusivo servizio di Dio, è una testimonianza alla trascendenza di Dio.

Certamente si può e si deve negli altri vedere e fare della carità, del lavoro per gli altri una preghiera; si può e si deve negli altri vedere, amare e servire Dio e, quindi, degli atti di carità verso Dio, realizzando la fusione del primo e secondo comandamento.

Tuttavia, questo non è possibile se non a chi si è esercitato nella preghiera vera e propria: non si diventa « contemplativi nell'azione » se non dopo essersi esercitati nella contemplazione.

Ciò significa che non si trova Dio nella carità se non lo si è già trovato nella preghiera.

Nelle attuali discussioni sul rinnovamento della Chiesa, si parla continuamente di aggiornamento e di adeguamento delle vecchie strutture della Chiesa, e di creazione di nuove, più adeguate ai bisogni e più conformi alla mentalità del nostro tempo.

Ora, il discorso sulle strutture è importante, poiché strutture vecchie, inadeguate possono impedire lo sviluppo della Chiesa, frenare lo slancio apostolico e l'azione caritatevole e sociale, impoverire la testimonianza dei cristiani, dare ai non cristiani e ai non credenti un'immagine distorta e falsata della Chiesa, del suo mistero e della sua missione.

Ma le strutture non sono tutto; e non sono neppure la cosa più importante.

Pensarlo, significherebbe accettare la visione marxista della storia, secondo la quale la struttura, particolarmente quella economica, ha nel processo storico una funzione eminente e decisiva: essa fa la storia.

In realtà, la Chiesa non si rinnoverà solo perché si rinnoveranno alcune sue strutture e se ne creeranno di nuove.

Per il cristiano, il rinnovamento è soprattutto e principalmente un fatto interiore, dovuto all'azione della Spirito Santo che « rinnova la faccia della terra », facendo di ogni battezzato una « nuova creatura » ( 2 Cor 5,17 ).

Ora, lo Spirito Santo è dato al credente quando egli si apre a Dio nella preghiera.

Perciò saranno, soprattutto, gli uomini di preghiera che rinnoveranno la Chiesa.

C. Bosco S. J.


1 G. B. Chautard - L'Anima dell'Apostolato ( L. e. i. ).