Sermoni sul Cantico dei Cantici

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Sermone XLII

I. Per quale motivo si dice: « Quando il re era nella sue stanze … »

1. Mentre il re stava nel suo recinto, il mio nardo esalò il suo profumo ( Ct 1,11 ).

Queste sono le parole della sposa che abbiamo deciso di commentare in questo giorno, questa la risposta che essa ha dato quando è stata rimproverata dallo Sposo.

Questa risposta tuttavia non l’ha data allo Sposo stesso, ma ai suoi compagni, come facilmente si ricava dalle medesime parole.

Non dice infatti in seconda persona: « Quando tu, o Re, eri nel tuo recinto », ma quando il Re era nel suo recinto.

Così si vede che non parla direttamente a lui, ma di lui.

Si può pertanto immaginare che lo Sposo, dopo averla rimproverata e repressa come aveva creduto bene di fare, vista la sua vergogna dal rossore delle guance, sia passato altrove, affinché essa in sua assenza dicesse più liberamente quello che sentiva, e nel caso che fosse troppo pavida e abbattuta più del necessario, come è solito accadere, fosse sostenuta dalle consolazioni dei suoi compagni.

Non trascurò però di fare questo personalmente quando lo giudicò opportuno, secondo le circostanze.

Infatti, per dimostrare chiaramente quanto gli era piaciuto il comportamento della sposa in occasione di quella correzione, avendo constatato che l’aveva ricevuta in modo degno e come si doveva, prima di assentarsi aveva espresso, certamente dall’abbondanza del cuore, le sue lodi, proclamando la bellezza delle sue guance e del suo collo.

Per questo quelli che restano con lei le parlano con dolcezza e le offrono doni, ben sapendo che questa è la volontà del Signore.

A essi dunque è rivolta la sua risposta. Questa è la trama letterale del testo.

2. Ma prima di cominciare a estrarre da questa scorza il nucleo spirituale, voglio dire brevemente una cosa.

II. Le correzioni accettate meno benignamente per disprezzo o impazienza o impudenza

Felice colui che, quando viene rimproverato, si comporta secondo l’esempio che ci è proposto in questo passo.

Oh, non ci fosse mai bisogno di fare dei rimproveri! Questo sarebbe il meglio.

Ma poiché in molte cose manchiamo tutti ( Gc 3,2 ), non mi è lecito tacere, avendo per ufficio il dovere di correggere colui che manca; è più urgente la carità.

Che se avrò fatto una riprensione, come è mio dovere, ma quel rimprovero non ottiene il suo effetto, né raggiunge lo scopo per cui l’ho fatto, e torna invece a me vuoto come un dardo che ferisce e rimbalza, che cosa pensate che vi sia nel mio cuore, o fratelli?

Non sarò io in angustia? Non mi torcerò dal dolore?

E per applicarmi le parole del Maestro, poiché non ho la sua sapienza, mi trovo in ansia davanti a queste due cose, non sapendo quale scegliere: compiacermi di quello che ho detto, perché ho fatto quello che dovevo, oppure pentirmi delle mie parole, perché non ho ottenuto l’effetto che volevo.

Ho voluto sopprimere il nemico e liberare il fratello, e non ho ottenuto questo; è capitato piuttosto il contrario, perché ho ferito la sua anima e ne ho accresciuto la colpa, in quanto si è aggiunto il disprezzo.

Non vogliono ascoltare te, dice, perché non vogliono ascoltare me ( Ez 3,7 ).

Vedi che viene disprezzata la maestà.

Non credere di disprezzare me solo.

Il Signore ha parlato, e ciò che ha detto al Profeta lo ha detto anche agli Apostoli: Chi disprezza voi, disprezza me ( Lc 10,16 ).

Non sono Profeta, non sono Apostolo, e tuttavia oso dirlo, tengo il posto del Profeta e dell’Apostolo; e se non sono uguale a loro in meriti, sono implicato nelle loro sollecitudini.

Anche se a mia grande confusione, anche se con mio grande pericolo, siedo sulla cattedra di Mosè, del quale tuttavia non mi attribuisco la vita, né sperimento la grazia.

E con ciò? Cessa forse di essere la cattedra di Mose per il fatto che è occupata da un indegno?

Anche se su di essa siedono gli scribi e i farisei, dice il Signore, fate quello che dicono ( Mt 23,3 ).

3. Per lo più al disprezzo si unisce anche l’impazienza, sicché chi è rimproverato, non solo non cerca di correggersi, ma si indigna contro colui che gli ha fatto l’osservazione, come un frenetico che allontana la mano del medico.

Strana perversità! Ci si adira contro il medico, e non lo si fa contro colui che scaglia le saette.

Vi è infatti chi nell’oscurità scaglia saette contro i retti di cuore, ed è proprio costui che ti ha ora ferito a morte: e tu non ti adiri contro di lui?

E ti mostri indignato con me che voglio guaristi?

Adiratevi e non peccate ( Sal 4,5 ).

Se ti adiri contro il peccato, non solo non pecchi affatto, ma distruggi l’effetto dei peccati passati.

Ma ora, rifiutando la medicina, aggiungi peccato a peccato adirandoti senza ragione: ed è un peccato oltremodo grande.

4. Talvolta viene ad aggiungersi l’impudenza, di modo che non solo si sopporta malvolentieri la correzione, ma si arriva a difendere impudentemente la mancanza per cui si è ripresi.

Qui c’è proprio da disperare.

La tua fronte è divenuta come quella di una meretrice, non ha voluto arrossire ( Ger 3,3 ) e aggiunge: Se ne è andato il mio zelo da te, non mi adirerò più oltre con te ( Ez 16,42 ).

Tremo al solo sentire queste parole.

Senti quanto sia cosa pericolosa, orribile e da far tremare il difendere il proprio peccato?

Dice ancora: Io sgrido e castigo quelli che amo ( Qo 9,1 ).

Se dunque ti ha abbandonato lo zelo e l’amore, non sarai neppure degno di amore, essendoti stimato indegno del castigo.

Vedi come Dio è maggiormente sdegnato quando non si adira.

Si usi pure clemenza all’empio, dice, non imparerà la giustizia ( Is 26,10 ).

Io non voglio questa misericordia.

Questa clemenza è più terribile di ogni ira, perché mi preclude le vie della giustizia.

Mi basta dunque, secondo il consiglio del Profeta, imparare la disciplina perché non si adiri un giorno il Signore e smarrisca la via giusta.

Voglio che tu ti adiri con me, o Padre delle misericordie; ma con quella ira per cui correggi il traviato, non con quella per cui lo scacci fuori dalla via.

Quello produce in noi la tua benigna correzione, questo è effetto della paurosa dissimulazione.

Non quando ti ignoro, ma quando ti sento sdegnato, allora massimamente ti spero propizio.

Infatti quando ti sarai sdegnato, ti ricorderai di avere clemenza ( Ab 3,2 ).

Dio, dice, tu fosti loro propizio castigando tutti i loro peccati ( Sal 99,8 ).

Si tratta di Mosè, Aronne e Samuele, dei quali aveva parlato prima; e chiama propiziazione il fatto che Dio non ha risparmiato le loro mancanze.

Va tu adesso, e precludi a te stesso per l’eternità questa propiziazione, difendendo i tuoi errori e accusando chi ti corregge.

Non è questo un chiamare bene il male e male il bene?

Non scaturirà presto da questa odiosa impudenza l’impenitenza, madre della disperazione?

Chi infatti si pentirà di quello che crede bene?

Guai a costoro, dice. Questo « guai » è eterno.

Altra cosa è essere tentato, frastornato, allettato dalla propria concupiscenza, e altra cosa il cercare il male come se fosse bene, e andare incontro alla morte malamente sicuro come se si andasse, verso la vita.

III. Il vuoto della sua anima verso il fratello corretto e che disprezza la correzione

Per questo dico, preferirei talvolta aver taciuto e finto di non vedere quando ho scoperto qualche cosa di meno retto, invece di aver fatto una riprensione con conseguenze così deleterie.

5. Mi dirai forse che il mio bene tornerà a me, che ho liberato la mia anima e che sono mondo dal sangue dell’uomo che ho ammonito perché si ritraesse dalla via cattiva e vivesse.

Ma anche se aggiungessi tante altre simili ragioni non riusciranno a consolare me, che guardo alla morte del mio figlio come se fosse la morte mia, quasi che con quella riprensione io avessi cercato la mia liberazione e non piuttosto quella di lui.

Quale madre infatti, anche dopo aver messo in opera ogni cura e diligenza per il figlio malato, se alla fine si vede frustrata nella sua speranza e vede vani del tutto i suoi sforzi mentre lui muore, potrà trovare un freno alle sue lacrime?

E per lei si tratta della morte temporale del figlio; quanto più per me non resta che piangere e gemere per la morte eterna del figlio; anche se ho coscienza di aver fatto di tutto per ammonirlo?

Vedi anche tu da quanti mali, al contrario, libera se stesso e noi colui che, corretto, risponde con mansuetudine, accetta con verecondia, e con modestia si arrende, confessando umilmente il suo torto.

A una tale anima io mi proclamerei in tutto debitore, a lei mi professerei ministro e servitore come alla degnissima sposa del mio Signore, che in verità potrebbe dire: Mentre il Re era nel suo riposo, il mio nardo ha esalato il suo profumo.

6. È buono il profumo dell’umiltà che, salendo da questa valle di pianto dopo essersi sparso ovunque nelle vicine regioni, arriva anche a spandere il suo grato e soave odore nel luogo dove il Re riposa.

IV. La duplice umiltà dell’affetto o della conoscenza, e con quale umiltà Cristo si sia umiliato

Il nardo è un’umile erbetta che, al dire dei ricercatori delle virtù delle erbe, è di natura calda.

Perciò non senza ragione mi sembra di vedervi significata la virtù dell’umiltà, che sia però ardente per i vapori del santo amore.

E dico questo perché c’è un’umiltà che è informata e infiammata dalla carità, e vi è un’umiltà che è prodotta in noi dalla verità e non ha calore.

Questa consiste nella cognizione, quella nell’affetto.

Difatti se tu ti guardi interiormente alla luce della verità e senza far finta di non vedere, e giudicherai te stesso spassionatamente, certamente anche tu ti umilierai ai tuoi occhi, e in questa vera cognizione di te apparirai vile a te stesso, anche se forse non saprai ancora sopportare di apparire tale agli occhi altrui.

Sarai dunque umile frattanto per opera della verità, ma non ancora per infusione di amore.

Poiché se tu, come sei venuto a conoscere veracemente e salutarmente te stesso perché illuminato dallo splendore della verità, fossi anche stato preso da amore, avresti certamente anche voluto, per quanto dipendeva da te, che tutti avessero la medesima opinione di te che la verità ha prodotto in te.

Ho detto: « Per quanto dipende da te », perché il più delle volte non conviene che a tutti siano note tutte le cose che sappiamo di noi stessi, e in forza della stessa carità della verità e della verità della carità ci è vietato esporre al pubblico quello che può nuocere a chi lo viene a sapere.

Del resto, se trattenuto dal privato amore di te stesso, ritieni chiuso dentro di te il giudizio della verità, ognuno può pensare che tu non ami molto la verità, alla quale preferisci il tuo proprio comodo o il tuo proprio onore.

7. Vedi dunque come non sia la stessa cosa che un uomo non abbia un alto concetto di sé, costretto a ciò dalla luce della verità, o che invece spontaneamente nutra umili sentimenti con l’aiuto del dono della carità.

La prima cosa è imposta dalla necessità, l’altra è accettata dalla volontà.

Annientò se stesso, si dice di Cristo, prendendo la forma di schiavo ( Fil 2,7 ) e dando esempio di umiltà.

Egli stesso si è annientato, egli stesso si è umiliato, non per l’inevitabilità del giudizio, ma per amore verso di noi.

Poteva in realtà mostrarsi vile e spregevole, ma in verità non ritenersi tale, perché conosceva se stesso.

Fu pertanto umile per volontà e non per giudizio, mostrandosi tale quale sapeva di non essere, ma preferì essere stimato l’ultimo, lui che non ignorava di essere il più grande.

E poi disse: Imparate da me che sono mite e umile di cuore ( Mt 11,29 ).

« Di cuore », disse, con l’affetto del cuore, cioè con la volontà.

Infatti non come io e tu ci troviamo in verità degni di vergogna e di disprezzo, degni di ogni peggiore e vile trattamento, degni dei supplizi, degni delle percosse; non così, dico, per lui: sperimentò, è vero, tutte queste cose, ma perché volle, come uomo umile di cuore, umile cioè di quella umiltà suggerita dall’affetto del cuore, non estorta dal giudizio della verità.

V. Come dall’umiltà della conoscenza saliamo all’umiltà dell’affetto

8. Ho detto che questa specie di umiltà viene prodotta in noi non dalla luce della verità, ma dall’infusione della carità, perché è del cuore, dell’affetto, della volontà.

Se questo sia giusto, giudicalo tu.

E lascio anche al tuo giudizio se sia giusto che io l’attribuisca al Signore, che sappiamo essersi annichilito, fatto inferiore agli Angeli per la carità; per essa si fece obbediente ai genitori, per la carità si chinò sotto le mani del Battista, per amore patì le infermità della carne, e infine per la carità si assoggettò alla morte, subendo l’obbrobrio della croce.

Ma lascio ancora a te giudicare se sia giusto vedere significata questa umiltà, così riscaldata dalla carità, nell’umile e calda erba che è il nardo.

E se sarai d’accordo su tutte queste cose, e lo farai cedendo all’evidenza della ragione, allora, se ti capiterà di sentirti umiliato in te stesso da quella umiltà necessaria che la verità, che scruta i reni e i cuori, insinua nei sensi di chi è vigilante, metti mano alla volontà, e fa di necessità virtù, perché non c’è virtù senza il concorso della volontà.

Questo avverrà se non vorrai apparire fuori diverso da come ti trovi dentro.

Diversamente temi che si applichi a te quello che leggi: Poiché ha agito con inganno al suo cospetto, la sua iniquità diventerà odiosa ( Sal 36,3 ).

Doppio peso e doppia misura, dice ancora, sono due cose in abominio al Signore ( Pr 20,10 ).

E che? Tu disprezzi te stesso nel tuo intimo, pesato sulla bilancia della verità, e all’esterno ti vendi a noi a un altro prezzo, fingendo un maggior peso di quello che la verità ti ha indicato?

Temi Dio, e non voler fare tale pessima cosa, cioè che la volontà innalzi colui che la verità umilia; questo infatti è resistere alla verità, questo è combattere contro Dio.

Rimettiti piuttosto a lui, e sia la volontà soggetta alla verità; né soggetta soltanto, ma anche devota.

Non sarà forse soggetta a Dio, dice, l’anima mia? ( Sal 62,1 ).

9. Ma è poca cosa essere soggetto a Dio, se non lo si è anche a ogni umana creatura per Dio, sia all’abate, quale capo, sia ai priori da lui costituiti.

Io dico di più: assoggettarsi agli eguali e agli inferiori: Così infatti conviene che noi adempiamo ogni giustizia ( Mt 3,15 ).

Vai anche tu da chi ti è inferiore, se vuoi essere perfetto nella giustizia.

Onora l’inferiore, inchinati davanti al più giovane.

Facendo così potrai anche tu dire con la sposa: Il mio nardo ha sparso il suo profumo ( Ct 1,11 ).

VI. Come e quale umiltà odori come il nardo

Profumo è la devozione, profumo è la buona opinione che si estende a tutti.

Non può far questo quell’umile che la verità costringe a essere tale perché costui ha l’umiltà solo per sé e non la lascia uscire in modo che, sparsa, mandi profumo al di fuori.

Piuttosto non ha odore, perché non ha devozione, in quanto non si umilia spontaneamente e volentieri.

L’umiltà invece della sposa spande come nardo il suo profumo caldo di amore, ricco di devozione, olezzante per il buon nome.

L’umiltà della sposa è volontaria, è perpetua, è fruttuosa.

Il suo profumo non viene eliminato per effetto di un rimprovero, né per una lode.

Aveva udito: belle sono le tue guance come di tortora, e il tuo collo come monili.

Aveva ricevuto la promessa di ornamenti d’oro, e tuttavia risponde con umiltà; e quanto più si sente grande, tanto più si umilia in tutto.

Non si gloria per i suoi meriti, né tra le lodi si dimentica dell’umiltà che semplicemente confessa sotto il nome di nardo, come se dicesse con le parole della Vergine Maria: Non ho coscienza di nessun mio merito rispetto a una così grande dignità, se non che Dio ha guardato l’umiltà della sua serva.

Che altro infatti significa l’espressione: Il mio nardo ha dato il suo profumo, se non: la mia umiltà è stata gradita?

Non dice: la mia sapienza, la mia nobiltà, la mia bellezza, tutte cose che non avevo, ma la sola umiltà che possedevo ha effuso il suo profumo, cioè il solito.

Di solito piace a Dio l’umiltà, di solito veramente, e di consueto il grande Dio guarda cose umili; e perciò mentre il Re era nel luogo del suo riposo, cioè nell’eccelsa sua abitazione, fin là è salito l’odore dell’umiltà.

Siede nell’alto, è detto, e si china a guardare le cose umili in cielo e sulla terra ( Sal 113,5 ).

10. Dunque, mentre il Re era nel luogo del suo riposo, il mio nardo emanò il suo profumo.

VII. Quale sia il luogo di riposo del re e in che senso questo luogo si addica alla Chiesa primitiva

Il luogo del riposo del Re è il seno del Padre, perché il Figlio è sempre nel Padre.

Non potrai dubitare che questo Re sia clemente, dal momento che la sua perenne dimora è nella stanza della paterna benignità.

A ragione il grido degli umili sale fino a lui, la cui dimora è fonte di pietà, a cui è familiare la soavità, al quale è consustanziale la bontà.

A lui dunque, che tutto quello che ha lo ha dal Padre, di modo che nulla vi è nella regia maestà che non sia paterno, si rivolga la trepidazione degli umili.

Infine: Per l’oppressione dei miseri e il gemito dei poveri, ora mi alzerò dice il Signore ( Sal 12,6 ).

La sposa, dunque, consapevole di queste cose, perché è familiare e carissima, non pensa di essere esclusa dalla grazia dello Sposo a causa della scarsità dei suoi meriti, fidandosi solo della sua umiltà.

Poi lo chiama Re; per ora atterrita dal suo rimprovero non osa chiamarlo Sposo, e dice che abita in alto; tuttavia neppure l’umiltà è cosi diffidente.

11. Si può adattare molto bene questo discorso alla Chiesa primitiva, se ti ricordi di quei giorni quando, salito il Signore al cielo, dove era prima, e sedutosi alla destra del Padre, suo antico e glorioso luogo di riposo, i discepoli erano riuniti in un solo luogo, perseverando unanimi nell’adorazione con le donne e Maria, madre di Gesù e i suoi fratelli.

Non ti sembra davvero che in quel tempo il nardo della piccola trepidante sposa esalasse il suo profumo?

Alla fine, quando venne all’improvviso dal cielo un rombo come di un vento che si abbatte gagliardo, e riempì tutta la casa dove si trovavano ( At 2,2 ) non poté giustamente dire la poveretta: mentre il Re era nel luogo del suo riposo il mio nardo esalò il suo profumo?

Fu certamente chiaro a tutti quelli che erano in quel luogo quanto fosse stato gradito e bene accetto quell’odore di umiltà che era salito in alto, dalla abbondante e gloriosa ricompensa con cui fu subito risposto a esso.

E, del resto, la Chiesa non fu ingrata per tanto beneficio.

Senti come subito, piena di devozione, si dispone ad affrontare ogni sorta di mali per il nome dello Sposo; dice infatti più innanzi: Il mio diletto è per me un fascetto di mirra, riposerà sul mio seno ( Ct 1,12 ).

Il mio malessere non mi permette di andare più avanti.

Dico solo questo, che la sposa si dice pronta, per amore del diletto; a subire l’amarezza delle tribolazioni.

Vedremo il seguito un’altra volta, se tuttavia lo Spirito Santo da voi pregato ci assisterà …

Egli ci fa comprendere le parole della sposa che ha dettato egli stesso con la sua ispirazione, come sa che convengono alla lode di colui del quale è lo Spirito, lo Sposo della Chiesa Gesù Cristo nostro Signore, che è benedetto nei secoli.

Amen.

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