Opera incompiuta contro Giuliano

Indice

Libro VI

22 - Adamo peccò tanto piú gravemente quanto piú era in alto

Giuliano. Il tempo ammonisce che passiamo ad altro, ma l'indignazione mi costringe a restare ancora un poco nel medesimo punto.

Forse tu oserai dire che Adamo peccò per volontà? Donde ti è venuto questo sogno?

Perché, dici, sarebbe stato iniquo che Dio imputasse a peccato ciò da cui sapeva non libero astenersi.

Che dunque? Tale giustizia aveva concesso a Dio per un momento quel principe delle tenebre, che voi adorate, e poi, richiedendola indietro poco dopo, lasciò nudo di ogni equità questo Dio, e così costui, che all'inizio aveva capito non doversi imputare a peccato se non l'agire da cui fosse stato libero astenersi, sa che a tutti i nascenti in ogni tempo successivo non sarebbe stato libero astenersi?

Infine, donde sai tu che sia stato giusto che soltanto contro Adamo non possa punirsi se non un crimine volontario, se non sai che è ingiusto imputare a chiunque come crimine ciò che confessi ricevuto senza la volontà?

Dunque una delle due. O tu reputerai giusta l'opinione della traduce, perché possa convenire alla sentenza di Dio, quando imputa al bambino un peccato commesso senza nessuna volontà sua, e sei costretto a confessare giusto e conveniente ai giudizi di Dio anche l'avere imputato come peccato ad Adamo ciò che sapeva prodotto da lui non per volontà, bensì per la malvagità della sua sostanza; e per questo stesso non ci sarà nessuna traduce, né si troverà una natura depravata dall'arbitrio di chi operò, ma una natura malamente istituita fin dal suo esordio, e confesserai di essere manicheo.

O se, ravvedendoti, dirai ingiusto ritenere Adamo reo per le colpe della sua natura, ne seguirà irrefutabilmente che è scelleratissimo giudicare Abele, Enoch, Noè e tutto il genere umano assoggettati ad un crimine originale.

Il quale misfatto di giudizio, se lo addossi al tuo Dio, egli rimarrà reo da solo per tutti, e apparirà, come sempre, che non è lui il Dio, che noi cattolici adoriamo pieno di equità nella Trinità.

Che, se desisterai dall'accusare Dio, condannerai almeno da redivivo il dogma manicheo della traduce, dalla quale sei stato trafitto finora.

Agostino. È questo dove voi errate fortemente, è questo dove voi siete eretici, è questo dove voi ardite costruire macchine novelle con argomentazioni umane e vane contro la fede cattolica, che evitando gli eretici segue gli oracoli divini e se ne fa scudo: il fatto che ignorate e, non potendolo comprendere, il fatto che ricusate di credere che cosa valgano per il processo generativo i nessi dei semi, e nelle creature che Dio ha voluto far nascere le une dalle altre secondo la loro specie quanto siano grandi, quanto siano ineffabili, quanto siano anche impenetrabili ad ogni modo di sentire e incomprensibili ad ogni modo di pensare i diritti naturali della propaggine; donde sia stato innestato nel genere umano l'istituto che tutti, per quanto li riguarda, vogliano avere figli certi.

Al che concorre nelle donne caste la fede del patto coniugale, e per questo giustamente dispiacque il filosofo Platone, perché credette che, nella città da lui ipotizzata come ottima nei suoi Dialoghi, si dovesse usare promiscuamente delle donne, volendo anch'egli che i maggiori avessero per tutti i minori la carità che vedeva dovuta ai figli dalla natura stessa: pensasse ciascuno che poteva essere suo figlio ogni ragazzo che vedeva di tale età da crederlo non senza ragione nato dal seme suo con il concorso di una qualsiasi femmina ignota della quale avesse indifferentemente usato.

Che? Non emise forse dalle viscere di tutti i padri Cicerone la voce rivolta al figlio a cui scriveva: Di tutti sei il solo da cui vorrei essere vinto in tutto?

Non è forse vero che gli stessi diritti naturali della propaggine, che abbiamo detti occultissimi e che tuttavia conosciamo valere più di quanto è credibile, fecero sì che i due gemelli, non solo non ancora in grado di generare, ma nemmeno ancora in atto di nascere, ancora nell'utero materno fossero detti due popoli? ( Gen 25,23 )

I medesimi diritti naturali della propaggine hanno fatto dire che Israele fu schiavo in Egitto, ( Dt 14,22 ) che Israele uscì dall'Egitto, ( Es 14,30 ) che Israele entrò nella terra della promessa, che Israele conseguì i beni o soffrì i mali, o concessi o inflitti da Dio a quel popolo.

Del quale Israele è anche scritto: Verrà da Sion uno che toglierà l'empietà e l'allontanerà da Giacobbe, e questa è la mia alleanza con essi, quando avrò tolto i loro peccati, ( Is 59,20-21 ) mentre quel tale che primo e solo ricevé quei due nomi propri, defunto molto tempo prima, non vide cotesti beni o cotesti mali.

Questi diritti naturali della propaggine fecero sì che il medesimo popolo pagasse le decime in Abramo, non per altra ragione se non perché quel popolo era nei lombi di Abramo, quando questi pagò le decime: Abramo stesso per propria volontà, ( Eb 7,9-10 ) quel popolo invece non per propria volontà, ma per diritto naturale di propaggine.

In che modo però il medesimo popolo sia stato nei lombi di Abramo, non soltanto da quel tempo fino al tempo in cui ciò fu scritto nella Lettera agli Ebrei, ma anche da allora fino ad oggi e da oggi fino alla fine dei tempi, finché i figli di Israele saranno generati gli uni dagli altri; in che modo dunque abbia potuto essere nei lombi di un solo uomo una moltitudine così innumerevole di uomini chi lo spiegherà parlando, chi almeno lo indovinerà pensando?

Né infatti gli stessi semi, che hanno una quantità corporale, sebbene siano esigui i singoli semi dai quali nascono i singoli individui, se fossero stati accumulati quelli da cui tanti uomini sono nati e nascono e nasceranno fino alla fine, avrebbero potuto essere contenuti nei lombi di un solo uomo.

Una forza dunque che non so, una forza invisibile e impalpabile, è insita nei segreti naturali, dove si nascondono i diritti naturali della propaggine, una forza per la quale tuttavia si dice certamente senza menzogna che furono nei lombi di quel patriarca tutti coloro che poterono propagarsi da quell'unico con il succedersi e con il moltiplicarsi delle generazioni.

Ma non solo vi furono, bensì, pagando Abramo le decime sciente e volente, pagarono anch'essi le decime né scienti né volenti, poiché non esistevano ancora così da poter conoscere e volere.

Questo però lo ha detto l'autore sacro di quella Lettera, per anteporre il sacerdozio del Cristo, raffigurato dal sacerdote Melchisedech, a cui Abramo pagò le decime, al sacerdozio levitico; insegnando che anche lo stesso Levi, il quale decimava i suoi fratelli, cioè riceveva da essi le decime, fu decimato da Melchisedech in Abramo, perché egli pure era nei lombi di Abramo, quando Melchisedech lo decimò, cioè ricevé da lui le decime.

E con questo vuol far capire che non fu decimato il Cristo, al quale si dice: Tu sei sacerdote per sempre al modo di Melchisedech, ( Sal 110,4 ) perché egli sia giustamente preferito al sacerdozio levitico. ( Eb 7 )

Melchisedech infatti decimò Abramo, non fu decimato come Levi in Abramo.

Se poi si chiede in che modo non sia stato decimato il Cristo, sebbene anch'egli, com'è manifesto, sia stato nei lombi di Abramo secondo l'origine della carne, quando questo patriarca fu decimato da Melchisedech, non viene incontro se non il fatto che Maria, sua madre, dalla quale egli prese la carne, nacque certamente dalla concupiscenza carnale dei genitori, ma essa non concepì per concupiscenza carnale il Cristo, che essa procreò non da un seme virile, bensì dallo Spirito Santo.

Il Cristo dunque non appartenne alla " ragione " del seme virile, per mezzo della quale ragione furono nei lombi di Abramo coloro che la sacra Scrittura attesta decimati in lui.

Ora, la concupiscenza della carne, dalla quale viene provocato il getto dei semi carnali, o fu nulla in Adamo prima del peccato o fu viziata in lui a causa del peccato. Infatti o senza di essa, se allora fu nulla, potevano e i genitali muoversi in modo congruo e il seme infondersi nel grembo della coniuge; o, se c'era, poteva anch'essa obbedire al comando della volontà.

Ma se tale fosse adesso, la carne non concupirebbe mai contro lo spirito.

Dunque o essa stessa è un vizio, se fu nulla prima del peccato; o essa stessa fu senza dubbio viziata dal peccato, e quindi attraverso di essa si trae il peccato originale.

Ci fu dunque nel corpo di Maria la materia carnale donde il Cristo prese la carne, ma non fu la concupiscenza carnale a seminare in Maria il Cristo.

Onde egli nacque dalla carne con la carne, tuttavia in una carne somigliante alla carne del peccato, non nella carne del peccato come gli altri uomini.

Per questo egli dissolve negli altri il peccato originale con la rigenerazione, non lo contrasse egli stesso con la generazione.

Perciò il primo Adamo quello, il secondo Adamo questo: perché senza la concupiscenza della carne il primo Adamo fu fatto, il secondo Adamo nacque; ma il primo Adamo fu uomo soltanto, il secondo Adamo invece fu e Dio e uomo; e quindi il primo Adamo poté non peccare e non fu come il secondo Adamo nella condizione di non poter peccare.

Inutilmente dunque tu tenti di mettere alla pari o anche al di sopra del peccato di Adamo i peccati dei suoi figli, per quanto grandi e orrendi.

La natura di Adamo tanto più gravemente cadde quanto più stava in alto.

La natura di Adamo fu tale da poter anche non morire, se non avesse voluto peccare; quella natura fu tale da non avere in sé la discordia tra la carne e lo spirito; quella natura fu tale da non combattere contro vizi di nessun genere, non perché cedeva ad essi, ma perché non ce n'erano in Adamo.

Devi dunque mettere i peccati dei suoi posteri alla pari del peccato di Adamo, se potrai trovare la loro natura alla pari della sua; ma li devi dire anche più grandi, se potrai trovare la loro natura migliore della sua.

Quanto più in alto è appunto per se stessa la natura ragionevole, tanto peggiore è la sua rovina, e quanto più incredibile è il suo peccato, tanto più esso è condannabile.

Per questo l'angelo cadde irreparabilmente, perché a chi fu dato di più sarà richiesto di più; ( Lc 12,48 ) tanto più quindi doveva l'angelo alla obbedienza volontaria, quanto più aveva di bontà nella sua natura; onde per il suo non fare ciò che doveva fare fu punito così da non poterlo più nemmeno volere, destinato anche ai tormenti eterni.

Adamo invece, in virtù della grazia di Dio per Gesù Cristo nostro Signore, viene liberato dal supplizio sempiterno in posteri suoi tanto numerosi, che nessuno potrebbe numerare, e in se stesso, sebbene dopo qualche migliaio di anni dalla sua morte, quando il Cristo, morto per noi, discese nei luoghi dei morti, non per necessità, ma per potestà, e sciolse i dolori dell'inferno. ( At 2,24 )

Così infatti si deve intendere che lo abbia tirato fuori dal suo delitto la Sapienza, ( Sap 10,2 ) perché non senza motivo la Chiesa crede che per la santa carne dell'unico Figlio di Dio, di cui fu il progenitore, il padre del genere umano, e il padre perciò anche del Cristo, che si fece uomo per la salvezza degli uomini, sia stato sciolto allora da quei vincoli, non per suo merito, ma per la grazia di Dio in Gesù Cristo nostro Signore.

Dio dunque imputò come peccato al primo Adamo ciò da cui gli fu libero astenersi, ma lo stesso primo Adamo fu di una natura così eccellente, perché fu senza vizio, da essere il suo peccato di gran lunga tanto più grande dei peccati di tutti gli altri, quanto egli era di gran lunga migliore di tutti gli altri; onde anche la sua punizione, seguita immediatamente al suo peccato, apparve tanto grande da essere egli subito preso anche dalla necessità di morire, mentre prima aveva il potere di non morire, e da essere subito messo fuori dal luogo di tanta felicità ed escluso sull'istante dall'albero della vita.

Ma quando avvenne ciò, c'era nei suoi lombi il genere umano.

Onde secondo quei diritti naturali della propaggine, dei quali abbiamo già parlato, troppo occulti e di molta valenza, era logico che assieme ad Adamo fossero condannati tutti quelli che erano nei suoi lombi e che erano venturi in questo mondo mediante la concupiscenza della carne, com'era logico che versassero le decime assieme ad Abramo coloro che erano nei suoi lombi per il diritto della propaggine e per la " ragione " del seme.

Pertanto tutti i figli di Adamo furono aspersi in lui dal contagio del peccato e avvinti alla condizione della morte.

E per questo, benché siano bambini e non facciano volontariamente alcunché di buono o di cattivo, tuttavia, essendo stati rivestiti di colui che peccò volontariamente, traggono da lui il reato del peccato e il castigo della morte; alla stessa maniera che i bambini che si rivestono del Cristo, sebbene non abbiano fatto nulla di buono con la loro volontà, prendono da lui la partecipazione della giustizia e il premio della vita sempiterna.

Così il Cristo si mostra forma del futuro in senso oppositivo, e per questo il medesimo Apostolo dice: Come ci siamo rivestiti dell'immagine dell'uomo che viene dalla terra, così dobbiamo rivestirci anche dell'immagine di colui che viene dal cielo. ( 1 Cor 15,49 )

Stando così le cose, dica che coloro che nascono non si rivestono del peccato e della morte del primo Adamo chiunque osa dire che coloro che rinascono non si rivestono della giustizia e della vita del secondo Adamo; sebbene né gli uni abbiano fatto un peccato da cui fosse libero astenersi, né gli altri una giustizia che fosse libero fare.

23 - Il peccato di Adamo è superiore ad ogni altro peccato

Giuliano. Quel peccato dunque che nel paradiso mutò in peggio l'uomo stesso, poiché è molto più grande di quanto possiamo giudicare noi, si contrae da ogni nascente.30

Chi ti ha detto che il peccato di Adamo fu molto più grande di quello di Caino?

Molto più grande anche di quello dei Sodomiti?

Molto più immane, per finire, del tuo o di quello di Manicheo?

Certamente nella storia non trova nessuna occasione cotesta tua falsità.

Era stato comandato ad Adamo di astenersi dal mangiare di un albero soltanto; egli, grezzo, ignorante, incauto, senza esperienza di timore, senza esempio di giustizia, suggestionato dalla sua donna, usurpò l'esca, di cui lo aveva allettato e la soavità e la vetustà.

Vedi che qui fu la trasgressione del comando.

Fu commessa una sola prevaricazione, fra tutte quelle che in tempi diversi hanno perpetrato le passioni di quanti hanno peccato; non fu una prevaricazione più ampia di quando il popolo di Israele faceva uso degli animali interdetti.

La causa del peccato non era infatti nella qualità del pomo, ma nella trasgressione del comando.

Che fece dunque Adamo di tale gravità che tu accusi il suo peccato di essere al di sopra della estimazione degli uomini?

A meno che, ed anche questo secondo i misteri di Manicheo, il quale distoglie le mani dal cogliere i pomi e tutte le cose nascenti, per non lacerare una qualche particella del suo Dio che ritiene inclusa nelle cortecce e nelle erbe, tu pure non giudichi che Adamo mancò gravemente, perché mangiando il pomo avrebbe lacerato la sostanza del tuo Dio.

O follia! Poiché quel peccato è molto più grande di quanto possiamo giudicare noi, esso si contrae, dice costui, da ognuno che nasce.

Dunque mangiare un pomo non lecito fu un crimine più grande che trafiggere quel santo uomo di Abele con livore parricida, più grande che violare in Sodoma i diritti degli ospiti e dei sessi, più grande che immolare ai demoni i propri figli già sotto la legge, più grande inoltre che sottomettere al regno del diavolo e congiungere ai meriti del diavolo i bambini innocenti, non consci di alcuna volontà e opera ancora recente di Dio; più grande che accusare Dio di iniquità; più grande che deputare al principe delle tenebre le oneste nozze, e più grande infine che reputare peggiori di tutti gli empi, peggiori di tutti i pirati, i bambini, perché nascono in forza della voluttà di coloro che li generano?

Il che io non lo invento, ma lo inventario; tu appunto hai detto quel peccato tanto più grave e tanto più grande di tutti assolutamente i crimini da non poter essere uguagliato da nessun altro reato.

Ma di questo male, così grande che prepondera su tutti i vizi, tu asseveri che arrivano pieni i bambini.

Abbiamo pertanto capito bene: quanto più grande è il peccato di cui sono partecipi, tanto più grave è la condanna dalla quale sono colpiti al di sopra di tutti gli altri scellerati.

Agostino. A causa delle mie parole che, facendo vista di confutarle, se tu lo avessi potuto, hai riferito dal mio libro dove dissi: Quel peccato dunque che nel paradiso mutò in peggio l'uomo stesso, poiché è molto più grande di quanto possiamo giudicare noi, si contrae da ognuno che nasce, mi chiedi chi mi abbia detto che il peccato di Adamo fu molto più grande di quello di Caino, molto più grande anche di quello dei Sodomiti.

Il che in verità io non l'ho espresso con le mie parole, ma tu le hai intese così: io ho detto infatti che quel peccato è più grande di quanto possiamo noi giudicare, non ho detto più grande del peccato di Caino o del peccato dei Sodomiti.

L'usurpazione infatti di un pomo proibito, poiché fu punita così che la natura, che aveva la possibilità di non morire, avesse la necessità di morire, supera senza dubbio tutti i giudizi umani.

Mangiare appunto un pomo vietato da una legge di Dio sembrerebbe un peccato leggero; ma quanto abbia stimato questo peccato colui che non può sbagliare appare bene dalla grandiosità del castigo.

Il peccato invece del fratricida Caino appare a tutti un peccato immane e risulta essere una orrenda scelleratezza; che se tu, come fai, secondo un esame umano la paragoni ad un pomo colto illecitamente, si giudicherà ridicola la comparazione, e tuttavia quel fratricida, benché morituro un giorno, non fu punito nemmeno con la morte, con la quale tali crimini sono colpiti di solito dai giudizi umani.

Dio appunto gli disse: Lavorerai il suolo ed esso non ti darà più i suoi prodotti; gemente e tremante sarai sulla terra.

E poiché Caino, nell'udire che il suolo non gli avrebbe dato frutto secondo il suo lavoro ed egli sarebbe stato misero sulla terra con pianto e con tremore, era scosso ancora di più dalla paura della morte, nella eventualità che qualcuno facesse a lui quello che egli aveva fatto al fratello, Dio gli appose un segno, perché non lo uccidesse chiunque lo avesse incontrato. ( Gen 4,12-15 )

Qui di nuovo sembra ingente la colpa e lieve la pena, ma ciò sembra ai giudizi degli uomini, i quali né conoscono questi misteri, né possono valutare le colpe umane con la limpidità e con l'integrità di Dio.

Certamente i Sodomiti, scendendo dal cielo il fuoco sopra quella terra, furono divorati da un castigo congruo ai loro misfatti. ( Gen 19,1-25 )

Ma a Sodoma c'erano anche dei bambini, puri e liberi da ogni contagio di peccato, secondo il tuo patrocinio; né tuttavia il giusto e misericordioso Dio sottrasse precedentemente dall'incendio di Sodoma tante sue immagini innocenti mediante il ministero degli angeli, come gli sarebbe stato facilissimo; né, come ai tre personaggi della fornace, ( Dn 3,49-50 ) la sua onnipotenza offrì innocue per loro le fiamme che cremavano i loro genitori.

Questo considera, a questo pensa diligentemente e piamente, e vedendo che in questo secolo i piccoli con i grandi soggiacciono ugualmente a tali miserie, quali non avrebbero potuto esistere in nessun modo nel paradiso di Dio, se nessuno avesse peccato, riconosci il peccato originale e riconosci giusto il pesante giogo gravante sopra i figli di Adamo dal giorno della loro uscita dal seno materno, ( Sir 40,1 ) e non li gravare ancora di più con la tua difesa, negando ad essi, malati o morti, il Cristo che è salvezza e risurrezione.

Perché, se domandi chi abbia detto a me quanto grande peccato abbia commesso Adamo, è colui stesso che lo ha detto anche a te, ma lo udrai se hai buoni orecchi per udire, e questi poi li avrai se non li attribuirai come tuoi al tuo arbitrio, ma li riceverai da colui che disse: Darò loro un cuore capace di conoscermi e orecchi capaci di udirmi. ( Bar 2,31 )

Chi infatti, se non chi è privo di tali orecchi, non presta udito alla Scrittura che senza nessuna oscurità o ambiguità dice al primo uomo peccatore: Tu vieni dalla terra e nella terra ritornerai? ( Gen 3,19 )

Dove si indica evidentemente che l'uomo, quanto almeno alla carne, non sarebbe morto, ossia con la morte della stessa carne non sarebbe ritornato alla terra dalla quale era stata presa la sua carne, se per il peccato non avesse meritato di sentire e di soffrire la pena per la quale l'Apostolo disse in seguito: Il corpo è morto a causa del peccato. ( Rm 7,10 )

Chi, se non chi non ha tali orecchi, non presterà udito a Dio che dice riguardo allo stesso Adamo: Non stenda più la mano e non prenda dall'albero della vita e non ne mangi e non viva per sempre.

E il Signore lo scacciò dal paradiso della voluttà? ( Gen 3,22-23 )

Dove sarebbe certamente vissuto in eterno senza nessuna fatica e nessun dolore.

Quella voluttà appunto del paradiso è da pensare, come è necessario che confessiate, se non vi siete dimenticati ancora del nome cristiano, non come la voluttà della turpitudine, ma come la voluttà della beatitudine.

Quanto è grande dunque questa pena meritata da Adamo di non vivere in eterno, e per questo fu scacciato dal luogo di così grande beatitudine, dove se fosse rimasto e non avesse peccato sarebbe vissuto senza dubbio in eterno, tanto grande dobbiamo intendere il peccato che era stato degno di esser punito con quella pena.

Che fai quindi, ti prego, quando tenti con tanta insistenza di attenuare il peccato di Adamo, se non accusare d'immane e orrenda sevizia Dio, che ha punito questo peccato, non dico con tanta severità, ma con tanta crudeltà?

Il che se è illecito sentire di Dio, per quale ragione non misuri la quantità della colpa, di cui gli uomini non possono giudicare e di cui giudica un giudice incomparabilmente giusto, dalla grandiosità della pena, e non trattieni la tua lingua da una sacrilega loquacità?

Io poi non accuso Dio di iniquità, perché dico giusto il giogo che egli ha posto sui figli di Adamo dal giorno della loro uscita dal seno materno, ma tu piuttosto fai iniquo Dio, perché reputi che essi lo soffrano senza nessun merito di un qualsiasi peccato.

Né per l'opera che Dio ha fatto, bensì per il vizio che vi ha seminato il nemico, io dico che sono sotto il medesimo nemico coloro che nascono dal primo uomo, se non rinascono nel secondo.

Nei quali tu accusi la Chiesa cattolica di un crimine di lesa maestà, se, come dici, non sono sottratti al potere delle tenebre i bambini quando si battezzano, ed essa prima che si battezzino esorcizza ed essuffla altrettante immagini di Dio.

Né io attribuisco al principe delle tenebre le onorabili nozze, che purgo da ogni macchia di libidine, se della libidine fanno buon uso per l'intenzione della propaggine.

Tu al contrario non hai orrore di collocare il male, per cui la carne concupisce contro lo spirito, nel paradiso, ossia nel luogo di tanta pace, di tanta quiete, di tanta onestà, di tanta felicità.

Né io giudico, come tu mi calunni, che siano peggiori di tutti i delinquenti e di tutti gli scellerati i bambini che non hanno se non il peccato originale.

Altro è infatti per un uomo essere gravato da un peccato commesso da lui, altro essere asperso dal contagio di un peccato altrui, per quanto grande.

Per il che i bambini accedono più facilmente alla remissione dei peccati, come dice con vostra pena il peno Cipriano, per questo stesso fatto che si rimettono ad essi non i peccati propri, ma i peccati altrui.31

Tu viceversa, quando dici non solo, come noi pure, che i bambini non hanno fatto nessun peccato di propria volontà, ma altresì che essi non hanno contratto nessun peccato dalla loro origine, fai senza dubbio ingiusto Dio, come ti è stato detto spesso e come più spesso ancora bisognerà dirti, perché egli ha imposto ad essi un giogo pesante fin dal giorno della loro uscita dal seno materno.

Certo, per capire in che modo i bambini nati da Adamo e siano obbligati alla partecipazione del peccato di quell'uomo e tuttavia non siano uguagliati al suo reato, poni attenzione al Cristo, di cui hai letto che è forma del futuro, ( Rm 5,14 ) e vedi come i bambini rinati in lui e diventino partecipi della sua giustizia e come non ardisca tu pareggiarli ai suoi meriti.

Tu pure, nel secondo libro di questa tua opera,32 hai detto che in Adamo, avendo peccato prima di lui Eva, la forma del peccato non fu la prima, bensì la massima; come nel Cristo la forma della giustizia non è la prima, ma la massima, perché ci furono giusti anche nei tempi precedenti a lui.

Il che se tu non avessi dimenticato di averlo detto, non attenueresti qui il peccato di Adamo, nel quale hai confessato l'apparizione della forma massima del peccato.

24 - Ingiuriosa loquacità

Giuliano. Ma per quale ragione indignarsi con te per le tue inimicizie contro l'innocenza, atteso che la petulanza e la rabbia della tua bocca oscena non è frenata nemmeno dall'onore della divinità?

Accusi infatti i bambini ma assieme a Dio, aggredisci l'innocenza ma assieme all'ingiuria dell'equità, sconfessi la verità ma assieme alla incriminazione di colui che confessi tuo Dio.

E per questo, anche se a noi venisse meno l'aiuto della ragione, tuttavia a fare stramazzare a terra la traduce del peccato sarebbe più che sufficiente l'infamia dei suoi assertori.

Agostino. La tua ingiuriosa loquacità mi ha rinfacciato la rabbia di una bocca oscena.

Che forse sono io il difensore e il magnificatore della libidine?

Che forse ho ardito io di arricchire anche del possesso del paradiso la concupiscenza della carne, per cui la carne concupisce contro lo spirito?

Nel quale luogo di tanta dignità e di tanta pace tu hai introdotto insieme o la guerra, con la quale si respinge lodevolmente la spinta della concupiscenza a peccare, o l'indegnità con la quale si cede turpemente alla concupiscenza.

Perché dunque insorgi tanto oltraggiosamente contro di me, né guardi a te?

Non io infatti accuso Dio; ma lo accusi tu, dicendo che non contraggono dalla loro origine nessun peccato i bambini, ai quali egli ha imposto un giogo pesante.

Né io aggredisco l'innocenza assieme alla ingiuria della equità, ma tu fai ingiuria alla equità, dicendo che hanno tanta innocenza i bambini; l'equità tuttavia non li punirebbe con un pesante giogo, se sapesse che è vero quello che sai tu con la tua sapienza.

Né io sconfesso la verità, né incrimino Dio, ma tu piuttosto.

Disse infatti il vero l'Apostolo scrivendo: Il corpo è morto a causa del peccato, ( Rm 8,10 ) e tu lo neghi.

Ma in che modo tu non incrimini Dio, al quale imputi le miserie, che non puoi negare, dei bambini, non aventi nessun peccato originale che ne sia degno?

E per questo la tua conclusione, che ci copre d'infamia, non segue la verità di nessuna ragione.

25 - Le condanne di Adamo e di Eva

Giuliano. Ma perché mai noi reputiamo di dover seguire tanto a testa bassa soltanto la ragione della verità, mentre la falange dei nostri nemici si appoggia ai rischi stessi delle realtà e insorge contro di noi munita dei suffragi delle calamità?

Vuole appunto con il pudore di chi si accoppia, con il dolore di chi partorisce, con il sudore di chi fatica, provare la trasmissione delle colpe e delle pene nei semi, perché evidentemente per questi segni dei parti difficili, degli agricoltori sudanti e dei campi spinosi si creda nel crimine naturale, per merito del quale è provato da tanti incomodi il genere umano che certuni pensano diventato mortale per il peccato di Adamo.

Intenzionalmente ho detto " certuni ", perché il principe di essi Agostino si è per la verità vergognato di affermarlo.

Scrive costui in conclusione a Marcellino che Adamo sembra sia stato creato mortale; ma con la solita eleganza soggiunge che la morte è stata il salario del peccato e nei riguardi di Adamo, che confessa costituito mortale secondo la natura, dichiara che non avrebbe potuto morire.

Contro di noi dunque si è soliti proferire quelle sentenze che si leggono nella Genesi e che colpiscono Adamo ed Eva.

Di esse è ormai tempo di discutere.

Racconta la Scrittura: Il Signore Dio disse al serpente: Poiché tu hai fatto questo, sii maledetto da tutti gli animali e da tutte le bestie che sono sopra la terra; camminerai sul petto e sul ventre e mangerai polvere per tutti i giorni della tua vita.

Io porrò inimicizia tra te e la donna, tra la tua stirpe e la sua stirpe.

La donna ti afferrerà la testa e tu le afferrerai il calcagno.

Alla donna poi disse: Moltiplicherò le tue tristezze e il tuo travaglio, partorirai con tristezza i figli e verso il tuo marito sarà il tuo istinto ed egli ti dominerà.

Ad Adamo disse invece: Poiché hai ascoltato la voce di tua moglie ed hai mangiato dell'unico albero di cui ti avevo comandato di non mangiare, maledetto sia il suolo nelle tue opere; mangerai da esso nella tristezza per tutti i giorni della tua vita; spine e cardi produrrà per te e mangerai l'erba del tuo campo.

Con il sudore del tuo volto mangerai il tuo pane, finché tornerai alla terra dalla quale sei stato tratto, poiché di terra sei e nella terra andrai. ( Gen 3,14-19 )

Queste sentenze dunque voi assumete a testimonianze di una iniquità ingenita e concionate che le donne non avrebbero sentito dolore nel partorire, se in esse assieme al peccato di Eva non fosse passata la pena della sua fecondità.

Volete dunque che lo stesso travaglio sia indizio del peccato, di modo che si creda che nessuna donna senta senza la medesima iniquità il travaglio che la prima delle donne meritò a causa del suo delitto.

Non ci sarebbe infatti, voi dichiarate, il dolore nella partoriente, se non ci fosse il peccato nel nascente.

Quanto sia dunque il mio stupore nell'imbattermi con queste vostre argomentazioni non mi è facile misurarlo!

Tanti affanni infatti ha sollevato in questo passo la vostra opinione che appena mi degno di scendere in lizza: più numerosi sono appunto in queste obiezioni i peccati dell'intelligenza che le sillabe.

Agostino. Le afflizioni del genere umano, sebbene tu le irrida o finga di irriderle, maldicente ed elegante quanto ti pare, ti hanno spinto da sé in queste strette: sei costretto ad affermare che il paradiso di Dio, anche se nessuno avesse peccato, sarebbe stato pieno di afflizioni.

Se poi per vergogna ti rifiuterai di farlo, sarai pressato a farlo dal tuo dogma.

Che se non ti correggerai e non butterai via questo dogma, non sfuggirai a queste strette che ti opprimono e che ti sospingono verso un orrendo precipizio.

Ti si domanda infatti donde tu stimi che promanino queste afflizioni che vediamo presenti e nei grandi e nei piccoli.

Tu rispondi secondo il tuo dogma: il genere umano fu costituito così da Dio fin dal suo esordio.

Alla tua risposta si replica: Dunque anche nel paradiso ci sarebbero state, se non vi fosse sorto nessun peccato.

Qui tu o cadrai a precipizio o muterai il dogma: o perduto dalla sfrontatezza o corretto dalla ragionevolezza.

Infatti o riempirai di una vita piena di afflizioni il luogo della felicità più famosa e non troverai occhi per osare di guardare i comuni cristiani, o sprofondando in abissi ancora più orribili imputerai queste afflizioni dell'uomo ad una natura aliena e cattiva mescolatasi a noi e affogherai nel baratro tartareo di Manicheo, o confesserai che questa pena delle afflizioni proviene dalla natura viziata, per un giudizio di Dio che l'ha punita, e respirerai nell'aria cattolica.

Tu anzi dici pure che certuni pensano che il genere umano sia diventato mortale per il peccato di Adamo e aggiungi che hai detto certuni per il fatto che io, principe di essi, mi sono vergognato di dirlo, ma ho scritto a Marcellino che Adamo sembra sia stato creato mortale.

Coloro che hanno letto o leggono queste tue parole e le mie, se non sono pelagiani, vedono certamente come la tua lingua abbia amplessato la calunnia.

Mai infatti io ho sentito, mai assolutamente io ho detto, come dite voi, che Adamo fu creato mortale e che, peccasse o non peccasse, sarebbe stato morituro.

Queste precise parole furono rinfacciate a Celestio nel giudizio episcopale di Cartagine.

Queste parole furono rinfacciate anche a Pelagio nel giudizio episcopale di Palestina.33

Questa è appunto la questione che su questo tema si dibatte tra noi e voi: se Adamo fosse morituro, sia che peccasse, sia che non peccasse. Chi ignora infatti che, secondo la definizione per cui si dice immortale chi non può morire e si dice viceversa mortale chi può morire, Adamo poté morire perché poté peccare e quindi poté morire per merito di una colpa, non per la necessità della sua natura?

Ma secondo quella definizione per cui si dice immortale anche chi ha la possibilità di non morire, chi negherà che Adamo sia stato creato in possesso di tale possibilità?

Perché Adamo che aveva la possibilità di non peccare mai, certamente aveva la possibilità di non morire mai.

Questo è dunque quello che si dice contro di voi: questo vostro dogma con il quale reputate che Adamo, sia che peccasse, sia che non peccasse, sarebbe stato morituro, è falsissimo su tutta la linea.

Stando così le cose, in che modo avrei io potuto dire ciò che tu mentendo mi fai dire: Adamo fu costituito mortale secondo la sua natura, quasi fosse pressato dalla necessità di morire, mentre non poteva essere pressato a morire se non a causa del peccato?

O in che modo io dichiaro che egli non poté morire, quando so che è morto, e certamente non sarebbe morto, se non avesse potuto morire?

Ma io dichiaro apertamente che Adamo poté non morire.

Altro è però non poter morire, altro è poter non morire: il primo è proprio di una immortalità maggiore, il secondo di una immortalità minore.

Se tu discerni queste due verità, discerni e ciò che dite voi di Adamo e ciò che diciamo noi contro di voi.

Voi dite infatti: Sia che peccasse, sia che non peccasse, sarebbe stato morituro.

Noi diciamo al contrario: Finché non avesse peccato, non sarebbe stato morituro; e se non avesse peccato mai, non sarebbe morto.

Poi tu commemori le testimonianze che si è soliti dire contro di voi dalla Genesi, e sul dolore della partoriente, una pena che colpì Eva per prima, dici qualcosa che vuoi far reputare o reputi detto da noi.

Noi infatti non diciamo che le donne non avrebbero sentito il dolore nel partorire se non fosse passata in esse assieme al peccato di Eva l'afflizione della sua fecondità, non essendo passata in esse l'afflizione della fecondità, ma l'afflizione della iniquità.

Sebbene infatti la fecondità sia diventata piena di afflizioni, ciò lo fece l'iniquità, non la fecondità: l'afflizione della partoriente discende appunto dalla iniquità dell'uomo, la fecondità invece discende dalla benedizione di Dio.

O se l'afflizione della fecondità non l'hai voluta far intendere come fatta dalla fecondità, ma come inflitta alla fecondità, questa è la nostra sentenza.

Noi però non diciamo che anche nel paradiso le donne partorienti avrebbero sentito il dolore, anzi deduciamo che questo dolore sia una pena del peccato proprio dal fatto che non sarebbe esistito in quel luogo dove non si sarebbero fatti rimanere coloro che avessero peccato: il che tu non tenti di confutarlo, per non essere costretto, con la faccia nascosta tra le mani e con gli occhi chiusi, a riempire il paradiso di Dio non solo delle libidini degli uomini, ma anche dei loro tormenti.

Ma che c'è di strano, quando tu vuoi riempire il luogo di quella felicità memorabile anche delle morti degli uomini, delle quali nessuna o quasi nessuna accade senza un qualche cruccio corporale?

E mentre il tuo dogma ti costringe a dire queste assurdità, osi pure irridere coloro che sono ben lontani dal dirle, perché ritengono piuttosto ciò che è stato tramandato dall'antichità alla Chiesa di Dio con le parole: Dalla donna ebbe inizio il peccato e per causa sua tutti moriamo, ( Sir 25,24 ) e di essi mi appelli il principe in modo insultante contro la tua scienza e coscienza.

In nessun modo ignori infatti quanti e quanto grandi dotti nella Chiesa e dottori della Chiesa abbiano detto prima di noi che la natura dell'uomo per volontà divina fu costituita così che l'uomo non fosse morituro se non avesse peccato.

Di costoro dunque in che modo sono chiamato il principe io che non li guido ma li seguo?

Di te invece io non dico che sei il principe di coloro che asseriscono Adamo fatto talmente mortale da essere morituro, sia che peccasse, sia che non peccasse; e che tentano così di riempire il paradiso della santa voluttà, dove c'era tanta quiete dell'anima e del corpo, dei tormenti dei morenti, dei funerali dei morti, delle tristezze dei piangenti.

Non sei tu il principe di costoro.

Pelagio e Celestio, che fecero per primi coteste affermazioni, tengono il principato di questo dogma nefando.

Magari tu, come non li guidi, nemmeno li seguissi!

26 - Non prova il peccato ciò che esiste anche senza il peccato

Giuliano. Quanto è insana infatti la vostra stessa prima affermazione che il dolore del parto sia compagno del peccato, mentre così perspicuamente spetta alla condizione dei sessi, più che alla punizione dei crimini, il fatto che tutti gli animali, non macchiati da nessun peccato, soffrano nel parto questi spasimi e questi gemiti!

Dal che appare che non è argomento del peccato ciò che si può trovare anche senza il peccato.

Poi progredendo voi portate un'altra prova ancora molto più inetta.

Non soffrirebbe, tu dici, la femmina, se non fosse partecipe di crimini.

Soggiungete però immediatamente: Ma il peccato per il quale la donna ha le doglie, non si riscontra nella partoriente, bensì nel nascente.

Per questo infatti le donne battezzate, tu dici, vivono libere dal peccato, ma per la iniquità dei figli che dànno alla luce sono afflitte dalle difficoltà della loro fecondità.

Secondo la quale opinione la traduce del peccato non decorre più dalla madre nella prole, ma rifluisce dal nascente nei suoi genitori.

Infatti se la ragione per cui la donna battezzata sente le doglie è la presenza delle iniquità nel bambino, la traduce sale dal basso verso l'alto, non scende dall'alto verso il basso.

Ma non per questo è tormentata la madre perché il figlio ha l'iniquità, bensì perché essa stessa nel nascere si è veicolata l'iniquità.

Tu però avevi detto che dalla grazia le era stato tolto questo male: se dunque il dolore della partoriente aderiva al peccato, la remissione del peccato avrebbe dovuto rimediare al tormento dei parti.

O se non può esistere senza l'iniquità questo tormento, che pur si trova nelle femmine dopo il battesimo, nemmeno l'iniquità è stata tolta ad esse mediante la grazia, ed è svanita la pompa del Battesimo.

Se viceversa nei misteri c'è stata la virtù e la verità che crediamo noi, non quella che inventate voi, ed è stato tolto ogni peccato e rimane comunque il dolore che è generato dalla difficoltà del parto, manifestamente è indice della natura e non della colpa quel gemere che, anche per tua ammissione, patiscono le donne che tu confessi liberate dal peccato dei manichei.

Ma ciò è apparso solo da esempi concreti; se però guardiamo anche alle parole della stessa sentenza di Dio, questa dissolverà le vostre nebbie con un fulgore più splendido dei raggi del sole.

Non fu detto appunto alla donna: Sorgeranno in te le doglie; oppure: Ti genererò i gemiti, perché le loro esperienze sembrassero istituite dopo la colpa; ma disse: Moltiplicherò le tue tristezze.

Indica già presente nella condizione naturale ciò che minaccia non di creare, ma di moltiplicare nella persona peccatrice.

Non si moltiplicano mai appunto se non le realtà esistenti: del resto, prima che esse siano, si dice certo in senso proprio che esse si fanno, ma si direbbe per anticipazione che esse si aumentano.

Inoltre, perché questo non sembri una nostra osservazione più che una esigenza della verità stessa, si riporta qui l'ordine delle parole osservato in tutti gli esseri animati.

Anche riguardo all'uomo, prima che fosse fatto, Dio dichiarò: Facciamo l'uomo a nostra immagine e somiglianza, ( Gen 1,26 ) e di nuovo riguardo alla donna, Dio disse: Non è bene che l'uomo sia solo; facciamogli un aiuto che gli sia simile. ( Gen 2,18 )

Invece dopo che furono fatti si legge: Dio li benedisse e disse loro: Crescete, moltiplicatevi, riempite la terra. ( Gen 1,28 )

Prima che fossero creati non fu detto: Si moltiplichino; ma fu detto: Sia fatto l'uomo; quando esisteva già chi ricevesse incrementi, aggiunse: Crescete, moltiplicatevi, riempite la terra.

Secondo pertanto questo ordine, il gemere dei parti, che era stato istituito secondo la natura nei corpi degli uomini, così come negli animali, non è creato in Eva, ma cresce in lei, perché essa fosse afflitta da una speciale grandiosità delle doglie già suscitate.

Né tuttavia dovevano esse arrivare alle donne del tempo futuro se non nella moderazione naturale e secondo la varietà dei corpi.

In quella occasione pertanto non venne dal peccato che la donna avesse le doglie del parto, ma che le avesse eccessive, come abbiamo letto che anche in tempi diversi sono accadute a taluni debilità corporali a causa di peccati; ma quella ampliazione di miserie non ha sovvertito la parsimonia della misura naturale.

Né comunque tutti i contenuti della medesima sentenza di Dio sono racchiusi nel vigore di un Dio giustiziere.

Ma qualche parte della sentenza sta ad indicare il merito, qualche parte designa l'ufficio.

Moltiplicherò le tue tristezze e il tuo travaglio, partorirai con tristezza i figli: fin qui il castigo, che non meritò la natura ma la persona.

Da qui in poi si indica subito semplicemente l'ufficio del secondo sesso: Verso il tuo marito sarà il tuo istinto ed egli ti dominerà.

Questo evidentemente non appartiene ad una pena, altrimenti apparterrebbe ad una colpa: è ordine appunto che la donna con onesto affetto sia sottomessa al marito, non è una condanna.

Infatti secondo l'Apostolo il marito è capo della moglie, ( Ef 5,23 ) perché non fu creato l'uomo per la donna, ma la donna per l'uomo. ( 1 Cor 11,9 )

Se essa dunque onora il suo capo con un congruo pudore, custodisce le istituzioni della natura, non sconta i tormenti del peccato, e se si ribella a quest'ordine è rea.

Non è dunque una miseria compiere un ufficio che sarebbe colpevole trascurare.

Agostino. Il dolore del parto noi diciamo che è una pena del peccato.

Sappiamo infatti che Dio parlò senza nessun'ambiguità, né parlò se non alla prevaricatrice del suo comando, né parlò se non perché era adirato che il suo comando fosse stato trasgredito.

Ma tu per annullare e per frustrare questa ira di Dio, hai detto che è tanto evidente che non sia questa una pena del peccato che gli animali, nei quali non ci sono peccati di nessun genere, soffrono nel parto simili gemiti e dolori.

Non ti hanno detto certamente gli animali se il loro gemere sia di canto o di pianto.

Sicuramente le galline, quando stanno per fare l'uovo, le vediamo più vicine al canto che al pianto; ma dopo aver fatto l'uovo emettono tali voci quali sono solite emettere nella paura; nel momento poi di fare l'uovo se ne stanno in assoluto silenzio, come le colombe e altri uccelli, noti a coloro che li osservano.

Quanto dunque agli animali muti, i quali non possono indicare che cosa succeda in loro stessi, chi sa se il loro movimento e il loro suono nel tempo del parto non solo non abbia nulla di dolore, ma abbia qualcosa di voluttà?

Ma che m'interessa scrutare in questo campo le oscurità della natura, se da questo non dipende la nostra causa?

In tutti i modi, se gli animali muti non soffrono nessun dolore nel parto, il tuo argomento è nullo; se poi soffrono, è una pena per l'immagine di Dio lo stesso suo essere equiparata alla condizione degli animali; ma la pena dell'immagine di Dio non potrebbe essere giusta se non fosse preceduta da una colpa. Lungi poi da me dire ciò che tu hai reputato di confutare come detto da me: cioè che la madre quando partorisce ha le doglie non per merito suo, ma per merito del nascente, e quindi anche dopo la remissione dei peccati hanno le doglie nella urgenza di partorire le donne battezzate.

Lungi da me, ripeto, il dirlo. Forse infatti perché diciamo che la morte è pena del peccato, per questo si deve dire che la morte non sarebbe più dovuta accadere dopo la remissione dei peccati?

I mali appunto, che nella natura viziata dalla prevaricazione diciamo pene del peccato, rimangono anche dopo la remissione dei peccati, perché sia messa alla prova la nostra fede nel secolo venturo, dove questi mali non ci saranno più.

Né infatti sarebbe fede, se credessimo perché è reso subito a noi il premio di non soffrire nulla e di non morire.

Resa questa ragione, che cioè per l'agone della fede si lasciano a noi i mali contratti per il peccato, sebbene il reato dei peccati sia già stato sciolto mediante il battesimo, che forza ha ciò che dicesti: Se nei misteri è stato tolto ogni peccato e rimane tuttavia il dolore che è generato dalla difficoltà del parto, allora è manifesto che quel gemito è indice della natura, non della colpa?

Questo discorso infatti, che è privo di forze contro di noi, non lo faresti certamente, se tu avessi o attendessi le forze della fede, che sono tanto più forti quanto più noi speriamo i beni che non vediamo e attraverso la pazienza delle miserie attendiamo la pienezza della beatitudine. ( Rm 8,25 )

Ma, tu osservi, le stesse parole di Dio, con le quali non disse: Sorgeranno in te le doglie, oppure: Genererò per te i gemiti, perché le esperienze dei dolori apparissero istituite dopo la colpa, ma disse: " Moltiplicherò le tue tristezze", indicano che esisteva già nell'ordine naturale ciò che non minacciava di creare, ma di moltiplicare nella persona peccatrice, e aggiungi, quasi come sentenza definitiva e generale: Non si moltiplicano mai se non le realtà che esistono già: del resto prima che siano, si dice certamente in senso proprio che si fanno, ma si direbbe per anticipazione che si accrescono.

Dove per primo ti chiedo in che modo tu dica che esistevano già le doglie di Eva che essa non aveva ancora sofferte; in che modo, ripeto, aveva già le doglie Eva che non si doleva di nulla?

Che se non esistevano i dolori in lei, perché non aveva i dolori lei che non si doleva di nulla, potevano dunque essere moltiplicati anche i dolori non ancora esistenti, e si intende detto esattamente: Moltiplicherò le tue tristezze, ossia le farò essere molte; il che è possibile, sia che qualcosa abbia già cominciato ad essere, sia che qualcosa non abbia nemmeno cominciato ad essere.

A vuoto dunque tu hai detto: Non si moltiplicano mai se non le realtà che esistono già, perché ecco in Eva dopo il peccato si moltiplicarono i dolori che non c'erano affatto prima che peccasse.

E quindi non disse Dio: Moltiplicherò le tue tristezze, perché avevano cominciato già ad esserci in lei alcune tristezze, ma perché sarebbero state molteplici in futuro da, quando avrebbero cominciato ad esserci.

Ma erano, tu dici, nell'ordine naturale.

Se dunque nell'ordine naturale ci sono già anche le realtà che non sono ancora sorte, in che ti aiuta l'avere affermato: Dio non disse: Sorgeranno in te i dolori, ma disse: "Moltiplicherò i tuoi dolori ", perché c'erano già nell'ordine naturale?

Ti si risponde infatti: Avrebbe potuto dire: Sorgeranno in te, perché avrebbe moltiplicato i dolori che erano già nell'ordine naturale, non i dolori che erano già sorti.

O forse sei pronto a dire: Erano già sorti assolutamente nello stesso ordine naturale?

Quanto è quindi più evidente e più accettabile se ti si dice: Esistevano già in Adamo i figli di Adamo per la forza naturale quando egli, come si esprime il beato vescovo Giovanni, commise quel grande peccato e fece condannare tutto in blocco il genere umano,34 o come si esprime il suo collega Ambrogio: C'era Adamo e in lui eravamo noi tutti, perì Adamo e in lui perirono tutti,35 se tu osi dire non solo: Erano già, ma anche, ciò che noi non osiamo dire dei figli di Adamo quando fu commesso il famoso peccato: Erano già sorti i dolori di Eva quando Dio minacciò di moltiplicarli!

Ma tuttavia in verità non c'erano nell'ordine naturale i dolori di Eva che le partorienti hanno la necessità di patire perché non era necessario che li patisse Eva quando cominciasse a partorire: essi vennero appunto a lei dalla punizione della colpa e non dalla condizione della natura.

Il che negando, che cosa fate voi se non collocare le sofferenze degli uomini, anche se nessuno avesse peccato, nel luogo di quella beatitudine, dove non fu permesso di rimanere agli uomini che dovevano ormai soffrirle?

E ignoro con quale faccia lo facciate voi, se non perché, contrari al paradiso, vi dilettate in qualche modo di abitare " di contro " al paradiso, essendo stato anche Adamo collocato di contro al paradiso, dopo che fu buttato fuori dal paradiso. ( Gen 3, 24 sec. LXX )

Tu pertanto ormai " contrario al paradiso ", poni attenzione con quanta vanità argomenti contro il paradiso.

Ti sembra che non si moltiplichino se non le realtà che esistono già in qualche modo, ma prima che siano non reputi si debba dire che si moltiplicano, bensì che si fanno.

Non nascono dunque realtà molteplici di nessun genere, ma si moltiplicano, cioè diventano molteplici soltanto per aggiungimenti successivi.

E perciò quello Spirito che nella Sapienza si dice spirito molteplice e che non ha cominciato ad essere, ma è così dalla eternità, non è stato correttamente chiamato molteplice, ( Sap 7,22 ) perché non lo hanno fatto molteplice aggiungimenti di nessun genere.

Che cosa sei disposto a dire anche sulla risposta di Dio ad Abramo: Moltiplicherò la tua discendenza come le stelle del cielo? ( Gen 22,17 )

Dove vediamo che Dio moltiplicò anche le stelle del cielo, come promise di moltiplicare il seme di Abramo?

Che forse le stelle del cielo per essere moltiplicate cominciarono prima con l'essere poche e non furono create molteplici nel loro numero fin da quando furono create?

Per quale ragione dunque non intendi la frase: Moltiplicherò le tue tristezze così come se avesse detto: Farò molteplici le tue tristezze, se non perché agisci così da introdurre, se ti è possibile, i dolori nel paradiso, di contro al quale sei stato collocato, e così da dire che prima del peccato furono istituite le miserie nel luogo di tanta beatitudine?

Che infatti Eva, come tu affermi, abbia ricevuto per natura prima di peccare la funzione di partorire con i dolori tu la chiami parsimonia naturale e non vuoi che apparisca sovvertita da quanto si aggiunse in più di pena alla donna per punizione da parte di Dio dopo che ebbe peccato.

Parli infatti così da dire: Ma quell'ampliazione di miserie non ha sovvertito la parsimonia della misura naturale.

Perciò, te docente, che le donne soffrano moderatamente nel parto è parsimonia naturale, quanto invece fu aggiunto ad Eva per merito del peccato è un'ampliazione delle miserie.

Né vedi, mentre lo dici, che se le miserie furono ampliate per il peccato, erano già state istituite per natura, e la donna, alla quale furono ampliate le miserie per il peccato, era già misera per natura prima del peccato.

Sebbene tu dica che prima del peccato essa era moderatamente misera per la parsimonia naturale, tuttavia, volere o no, dicendo che le fu aggiunto un ampliamento di miserie, la confessi senza dubbio già misera anche prima di quest'aggiunta.

Ecco cosa merita da te la natura dell'uomo, istituito da Dio all'inizio; ecco cosa merita da te il paradiso di Dio!

Scacciato appunto dal paradiso e collocato contrario al paradiso, gli hai reso da "contrario " tali servizi da dire che nel luogo della beatitudine le miserie furono istituite da Dio, ma per i peccati esse non cominciarono bensì crebbero.

Che cosa è tanto contrario alla beatitudine quanto la miseria e alla miseria la beatitudine?

O che significa la collocazione del peccatore, escluso dal paradiso, in posizione contraria al paradiso, se non la sua collocazione nella miseria, che senza contraddizione o dubitazione di nessuno è contraria alla beatitudine?

E che cosa rifugge la natura quanto la miseria? Che cosa appetisce tanto la natura quanto la beatitudine?

Inoltre il libero arbitrio, che abbiamo nei riguardi della beatitudine, è così insito in noi per natura da non poter nessuna miseria toglierci la volontà di non esser miseri e la volontà di esser beati.

Fino al punto che coloro che vivendo malamente sono già miseri, vogliono, sì, vivere malamente, tuttavia non vogliono essere miseri, ma beati.

Questo è il libero arbitrio che le anime nostre conservano immutabilmente fisso: non il libero arbitrio di voler agire bene, perché lo potemmo perdere per la iniquità umana e lo possiamo ricuperare per la grazia divina; ma il libero arbitrio di voler essere beati e di non voler essere miseri non lo possono perdere né i miseri né i beati. Beati appunto lo vogliamo essere tutti: il che sono stati costretti a riconoscerlo anche gli stessi filosofi di questo secolo e, teste il loro patrono Tullio, gli Accademici che dubitano di tutto e hanno detto che questa è l'unica verità che non ha bisogno di discussione, è l'unico bene di cui non c'è nessuno che non sia avido.

Questo libero arbitrio è aiutato dalla grazia di Dio, perché ciò che vogliamo per natura, ossia vivere beatamente, lo possiamo avere vivendo rettamente.

E tu dici istituite per natura nelle prime opere di Dio le miserie, mediocri quanto ti pare, tuttavia miserie, contrarie alla beatitudine, senza che nessuno lo neghi, senza che nessuno ne dubiti, senza che fosse stato commesso precedentemente da parte di chiunque nessun peccato, così da esser la pena della donna peccatrice, espressa dalle parole: Moltiplicherò le tue tristezze, non l'istituzione delle miserie, che, come dici tu, c'era già stata nella natura, ma un'ampliazione che si aggiunse per punizione.

Che cosa farò io ormai con te sulle successive parole di Dio, dove, dopo aver detto ciò che riguardava la pena: Partorirai con tristezza i figli, soggiunse subito: Verso il tuo marito sarà il tuo istinto ed egli ti dominerà? ( Gen 3,16 )

Che bisogno c'è che io combatta con te sul problema se cotesto dominio del marito sia una punizione della donna o l'ordine della natura?

Il quale ordine tuttavia Dio non lo rammentò quando creò, ma quando punì.

Ma, come ho detto, che interessa fermarci su questo problema che, comunque si risolva in uno dei due modi, non impedisce la nostra causa?

Ammettiamo senz'altro che Dio dal castigo che egli infliggeva alla donna si sia volto repentinamente a impartire un precetto e che comandando, non condannando abbia detto: Verso il tuo marito sarà il tuo istinto ed egli ti dominerà: che interessa ciò alla questione che facciamo nella discussione presente sulla punizione della peccatrice?

Con te io tratto delle miserie che, scacciato dal paradiso e collocato in posizione contraria al paradiso, tenti di collocare nel paradiso e di attribuirle, perdendo il tuo pudore e bestemmiando con la tua bocca, non ai meriti di coloro che peccarono, ma a Dio istitutore delle nature, come se egli abbia istituito per natura anche queste miserie.

Di' ormai anche cosa cerchi di persuadere circa la pena dell'uomo, dal momento che è già abbastanza chiaro in che modo questa donna, che prima del peccato era nuda e non si confondeva, abbia denudato e confuso te.

Indice

30 De nupt. et concup. 2,34,58
31 Cyprianus, Ep. 64 ad Fidum
32 Sopra 2,189.190
33 De gest. Pel. 23. 60;
De gz. Chr. et de pecc. orig. 3. 4
34 Ioannes Constantinopol., Omil. de Lazaro resuscitato
35 Ambrosius, In Luc. 7, 15