Opera incompiuta contro Giuliano

Indice

Libro VI

27 - Non rendere amaro il paradiso di Dio

Giuliano. Ma bastino queste discussioni sulla donna e passiamo alle competenze dell'uomo.

Ad Adamo disse: Maledetto sia il suolo nelle tue opere; mangerai da esso nella tristezza per tutti i giorni della tua vita; spine e cardi produrrà per te e mangerai l'erba del tuo campo.

Con il sudore del tuo volto mangerai il tuo pane, finché tornerai alla terra dalla quale sei stato preso; poiché sei terra e ritornerai nella terra. ( Gen 3,17-19 )

Qui non è stato detto: Moltiplicherò le tue spine o i tuoi sudori; ma se ne parla come se fossero stati creati allora per la prima volta.

Ma anche la maledizione dell'uomo si dissolve con una fatica non maggiore della maledizione della sua moglie.

All'inizio appunto non si maledice il seme dell'uomo, ma il suolo.

Maledetto, dice, sia il suolo nelle tue opere.

Che cosa avevano meritato i campi, i quali certamente non potevano avere nulla dalla traduce di Adamo, per ricevere l'onta della maledizione a causa di un peccato di volontà aliena?

Forse perché con l'esempio anche delle stesse zolle si insegnasse che poteva esserci la maledizione dove non ci fosse la colpa?

Infatti se il peccato è nell'uomo e la maledizione è nei campi, è manifesto che non sempre ai danni si accompagnano i crimini.

Se la terra dunque per questo si maledice perché resti punito chi aveva peccato, né tuttavia l'iniquità è contenuta dov'è contenuta la maledizione, per quale ragione in forza di tale condizione, anche se si insegnasse che un qualche danno sia stato apportato alla nostra natura dopo il peccato del primo uomo, non seguirebbe tuttavia che i nascenti non dimostrano il loro reato con la loro miseria, ma l'afflizione successiva al primo peccato, che non li aveva fatti rei, aveva lo scopo d'intimare ad essi con la commemorazione del primo peccato la precauzione di una cattiva imitazione?

Giacché si indicherebbe che anche la terra subì l'onta della maledizione perché denunziasse il male di una volontà aliena da lei, non perché generasse la partecipazione di un suo crimine: a meno che non crediamo per caso che a Dio sia più caro il terreno dell'innocenza, così da permettere che da una scelleratezza altrui sia comunque condannata l'infanzia, mentre egli non sopporta che ne sia inquinata la gleba.

La maledizione dunque è diretta contro la terra, né tuttavia questa stessa maledizione si lascia involuta.

Si spiega appunto a quale fine tendesse tale sentenza o in che senso si chiamasse maledetto il suolo.

Dice: Mangerai da esso nella tristezza per tutti i giorni della tua vita.

In che modo dunque si spieghi avvertilo: si dice maledetta la terra, non perché sia stato possibile prendere provvedimenti contro di essa, ma con il nome di terra si indica lo stato di un animo addolorato: sapendo sterile la terra per i meriti del suo coltivatore, la tristezza dell'operaio affamato imputasse alla terra ciò che egli stesso aveva meritato, e afflitto chiamasse maledetta la terra di cui s'impediva la fecondità, perché quel prevaricatore non confessasse soggetta alla maledizione né la natura, né la terra, ma la sua volontà e la sua persona.

Dice: Spine e cardi produrrà per te. Non fu contento di dire: Spine e cardi produrrà, ma aggiunse: per te.

Tra gli altri virgulti appunto la terra, per comando di Dio, aveva già prodotto anche cespugli di pruni, ma allora perché l'uomo si conpungesse, la terra gli è promessa per l'avvenire ancora più spinosa del solito.

Il che poteva essere un forte castigo per Adamo: che dopo le fonti e i prati del paradiso anche un pruno solo lo potesse offendere.

La sentenza poi: Con il sudore del tuo volto mangerai il tuo pane, non sono abbastanza convinto che appartenga ad una punizione, perché è pure un giovamento naturale che le membra dei lavoranti siano ricreate dal sudore.

Che a quell'uomo poi incombesse prima del peccato il lavoro della coltivazione lo attesta la stessa Lettura.

Dice infatti così: Il Signore prese l'uomo che aveva creato e lo pose nel paradiso a coltivarlo e custodirlo. ( Gen 2,15 )

Se dunque anche nel paradiso Dio non volle che l'uomo ricevesse assolutamente senza fatica i suoi alimenti, ma con l'ingiunzione di lavorare ne stimolò l'operosità che gli aveva infuso, che cosa di nuovo nel sentire il sudore crediamo accaduto a chi sperimentava il lavoro?

Ma prosegue: Finché tornerai alla terra dalla quale sei stato preso, poiché sei terra e andrai nella terra.

Sicuramente questa ultima parte della sentenza, come la sentenza della donna, riguarda una notificazione e non una punizione; anzi, come indica il contesto, Dio consola l'uomo con la promessa della fine.

Poiché infatti aveva prima menzionato i dolori, i lavori, i sudori, dei quali la natura aveva ricevuto l'esperienza e la persona l'eccedenza, perché non sembrasse che ciò si sarebbe esteso in eterno, l'indicazione del termine mitiga la tristezza, come se dicesse: Non sempre però patirai cotesti mali, ma finché ritornerai alla terra dalla quale sei stato preso, perché, dice, sei terra e andrai nella terra.

Per quale ragione dopo aver detto: Finché ritornerai alla terra dalla quale sei stato preso, non soggiunse: Perché hai peccato e hai trasgredito i miei precetti?

Questo infatti si doveva dire, se la dissoluzione dei corpi apparteneva ai crimini.

Che cosa disse invece? Perché sei terra, disse, e andrai nella terra.

La causa per cui sarebbe ritornato alla terra la indica con le parole: Perché sei terra.

Se dunque questa disse Dio essere la ragione di ritornare alla terra perché l'uomo era stato assunto dalla terra e se d'altra parte non poté riferirsi ad una iniquità il fatto che l'uomo fosse assunto dalla terra, senza dubbio la causa per cui l'uomo, il quale non era eterno, si dissolvesse nella sua parte corporale, non fu una sua iniquità, ma fu la sua natura mortale.

Dunque quella sterilità degli alberi, quella ubertosità delle spine, quella calamità maggiorata di un parto doloroso furono inferte alle persone umane, non al genere umano.

Inoltre, nati già Caino e Abele, ambedue della medesima natura ma di volontà diverse, né a Caino peccante spontaneamente recò giovamento il non essere stato pressato dai peccati del padre, né ad Abele recò nocumento il delitto commesso dai suoi genitori, ma l'uno e l'altro con il proprio giudizio mostrarono con diverso proposito e con diverso risultato di non aver avuto dentro se stessi nessuna prevenzione naturale né di virtù né di vizio.

Esercitando appunto l'ufficio di sacerdoti offrirono sacrifici a Dio, loro Creatore.

Ma la parità dell'ossequio fu differenziata dalla disparità della diligenza.

Lo palesò la sentenza di Dio, il quale mostrò il suo gradimento per l'offerta di Abele e indicò all'irritato Caino la causa del suo sdegno, dicendogli che aveva offerto bene, ma spartito male.

E senza indugio quell'animo indegno scoppiò di livore e, depresso dalla santità del fratello, gratifica all'invidia un parricidio.

Così alla prima occasione si rese chiaro che non è un male la morte, perché ne fece la dedicazione, primo tra tutti, un giusto.

Né tuttavia sfuggì all'ira di Dio l'arroganza di quell'animo malvagio.

È interrogato sul fratello, è incolpato di delitto, è condannato al castigo e, oltre a quel terrore che incombeva su lui come contrassegno della sua crudeltà, viene punito anche con la maledizione della terra: Sii maledetto lungi da quel suolo che per opera della tua mano bevve il sangue di tuo fratello.

Quando lavorerai la terra, essa non ti darà più i suoi prodotti. ( Gen 4,3-12 )

Ecco di nuovo la sterilità della terra si impone come pena al suo coltivatore.

Ma innumerevoli castighi di questo genere si minacciano nel Deuteronomio.

Che dunque? I prunai delle nostre terre, che il coltivatore sta attento a tagliare armato di roncola, sono germogliati per il parricidio di Caino?

E poiché ogni padrone di un campo spinoso è ritenuto da voi soggetto al peccato che fu punito con la ubertosità delle spine, si dirà ormai che tutti i bambini non hanno soltanto mangiato i pomi, sebbene nascano senza denti, ma che hanno anche versato il sangue di Abele?

Appare certamente a quale furore di follia giunga la traduce dei manichei.

E poiché questa traduce non ha null'altro che la sua stupidità, ride dei vostri argomenti la gravità dei cattolici, ma il sentimento dei medesimi piange sulle vostre rovine.

Agostino. Evidentemente non ottiene nulla la tua tanto diuturna e operosissima discussione sulla pena del primo uomo se non che, dopo aver attenuato questa punizione, sia attenuata anche la stessa colpa che fu condannata con questa punizione.

E tu lo fai a causa delle parole che ti sei proposto di confutare dal mio libro, al quale stai rispondendo.

Ivi ho detto: Quel peccato dunque che nel paradiso mutò in peggio l'uomo stesso, poiché è molto più grande di quanto possiamo giudicare noi, è contratto da ogni nascente.

Perché dunque non sembri un grande peccato da aver potuto la natura per esso mutarsi in peggio, tu sostieni che è leggero e quasi nullo il castigo che meritò.

Da qui viene che la maledizione della terra nelle opere del prevaricatore tu la distorci secondo la pravità del tuo dogma: da qui viene che delle spine e dei triboli asserisci fatta l'istituzione anche prima che l'uomo peccasse, benché Dio non li nomini tra le sue primordiali istituzioni, ma li commini nella punizione del peccatore; da qui viene che il sudore del lavoro, perché sembrasse non abbastanza pertinente alla pena, lo hai detto anche un giovamento naturale, volto cioè a ricreare con il sudore le membra di coloro che lavorano, come se dicendo quelle parole Dio non irrogasse una pena per il peccato, ma desse per giunta un premio.

Sebbene diremmo giustamente questo, se tu lodassi il sudore della fatica così da dirla istituita allora.

Ma affermi ora che, anche prima del peccato, l'uomo fu collocato nel paradiso in condizione da non essere senza fatica nel lavorare la terra, quasi che non potesse quella fermezza del corpo e quell'assensa di ogni infermità compiere, non solo senza fatica ma anche con la voluttà dell'animo, un lavoro che poteva dilettare l'uomo.

Ma per quale ragione tu lo abbia detto non lo hai potuto occultare.

Parli appunto apertissimamente quando aggiungi: Quale novità diciamo che sia accaduta, se sentiva il sudore chi sperimentava la fatica del lavoro?

Ma è proprio vero che ti è piaciuto così tanto introdurre nel luogo quietissimo dei beati non solo le tristezze del parto delle donne, ma anche il sudore della fatica degli uomini, da dire che, condannando Dio l'uomo, non successe nulla di nuovo all'uomo condannato?

Ma è proprio vero che tu schernisca e disprezzi così tanto la severità di Dio da asserire donato naturaliter ciò che egli irrogò penaliter?

Se dici che " nulla di nuovo accadde " all'uomo al quale Dio intimò: Con il sudore del tuo volto mangerai il tuo pane, nega che Dio abbia detto questo nell'atto di condannare l'uomo.

Dirai forse: Dio condannò, sì, con queste parole l'uomo, ma all'uomo non accadde per questo nulla di nuovo?

Dunque Dio condannò l'uomo, ma l'uomo non fu condannato?

Andò a vuoto l'impeto della vendetta, come se Dio abbia scagliato il dardo e non abbia potuto ferire l'uomo che volle ferire?

Anzi tu dici: E fu condannato e non gli capitò nulla di nuovo!

Qui è difficile trattenere il riso.

Se infatti fu condannato e non gli capitò nulla di nuovo, soleva dunque essere condannato e perciò soleva anche peccare: infatti non sarebbe stato condannato ingiustamente.

O, poiché nessuno dubita che sia stato quello il primo peccato di Adamo, soleva forse prima di allora essere condannato ingiustamente?

Tu infatti non hai confessato che all'uomo, come hai detto della partoriente, successe almeno questo di nuovo: gli fu accresciuto il sudore della fatica, così come alla donna il dolore del parto.

In questo modo infatti, con questa addizione che prima non ci fu, concederesti che sia accaduto all'uomo qualcosa di nuovo.

Ma quando dici: Che cosa gli successe di nuovo?, parlando di uno che tuttavia riconosci essere stato condannato, che altro affermi se non che soleva essere condannato così?

O se non diciamo solito ad accadere se non ciò che conosciamo accaduto frequentemente, è certo necessario che tu conceda che almeno una volta sia stato precedentemente condannato così l'uomo a cui asserisci che non accadde nulla di nuovo con l'esser condannato così.

Dove tu vedi in quali precipizi ti sia spinto.

Ritorna dunque indietro dal precipizio della tua laboriosa discussione e non voler introdurre le fatiche e i dolori nelle sedi dei felici gaudi e nel luogo della quiete ineffabile.

Che combini poi tentando di mettere dentro al paradiso anche la morte corporale così da dirla promessa o piuttosto indicata al prevaricatore come un beneficio nelle parole di Dio: Sei terra e andrai nella terra, quasi che l'uomo ignorasse di esser stato creato così da esser morituro, sia che peccasse, sia che non peccasse, e quasi che Dio abbia donato all'uomo questa scienza quando lo condannò per l'iniquità commessa?

Esaminando appunto queste parole di Dio dove dice: Con il sudore del tuo volto mangerai il tuo pane, finché tornerai alla terra dalla quale sei stato preso; poiché sei terra e andrai nella terra, tu commenti: Sicuramente questa ultima parte della sentenza, come la sentenza della donna, serve da notificazione, non da punizione; anzi, come indica il contesto, essa consola l'uomo.

Poiché infatti, tu prosegui, aveva menzionato prima i dolori, i lavori, i sudori, dei quali la natura aveva ricevuto l'esperienza e la persona l'eccedenza, perché non sembrasse che ciò si sarebbe esteso in eterno, l'indicazione di un termine mitiga la tristezza, come se dicesse: Non sempre però patirai cotesti mali, ma finché ritornerai alla terra dalla quale sei stato preso; perché " sei terra e andrai nella terra".

Dicendo queste parole ti sforzi di persuadere che l'uomo fu certamente creato tale che, se anche fosse rimasto nella rettitudine della vita in cui fu creato, tuttavia per la necessità della sua natura mortale, un giorno sarebbe morto; ma ciò non gli fu indicato se non nel momento della sua condanna, perché la sua punizione, non reputandosi eterna, ricevesse un sollievo dalla promessa della sua fine.

Avrebbe dunque reputato Adamo di non esser morituro, se non glielo avesse indicato Dio; ma Dio non glielo avrebbe indicato, se non ci fosse stata la necessità di condannarlo come peccatore.

Sarebbe rimasto dunque in questo errore di credersi eterno o non mai morituro, se per merito del peccato non fosse giunto alla sapienza con la quale l'uomo conosce se stesso.

Senti o non senti che cosa tu dica? Prendi un altro punto.

Senza dubbio Adamo, non sapendo di essere morituro, e certamente non lo avrebbe saputo se non avesse peccato, tuttavia, se non avesse voluto peccare, sarebbe stato beato anche non sapendo di esser morituro, e pur credendo il contrario della verità non sarebbe stato misero.

Ascolti o non ascolti che cosa tu dica? Prendi anche un terzo punto.

Se durante il periodo della sua giustizia Adamo credette di non essere morituro nemmeno corporalmente, qualora non avesse minimamente violato il precetto di Dio, ma venne a sapere di essere morituro quando lo violò, noi crediamo ciò che Adamo credeva quando era giusto, ma voi credete ciò che Adamo non meritò di conoscere se non quando divenne ingiusto.

Il nostro errore sta dunque dalla parte della giustizia di Adamo e la vostra sapienza sta dalla parte della iniquità di Adamo.

Capisci o non capisci che cosa tu dica? Prendi anche un quarto punto.

Se a quell'uomo beato e giusto Dio non indicò la morte futura del suo corpo, ma la indicò a lui quando egli diventò misero e peccatore, è più congruo credere che Dio abbia voluto affliggere Adamo anche con il timore della morte, giudicandolo evidentemente degno pure di questo castigo.

Come infatti grida la natura stessa, si teme più la morte delle fatiche: faticano appunto tutti gli uomini per non morire, se ad essi si propone tale opzione di morire subito se non faticano: ma quanto è raro chi preferisce morire piuttosto che faticare! Inoltre lo stesso Adamo preferì faticare per tanti anni, piuttosto che non faticando e morendo di fame terminare insieme la vita e la fatica.

Infatti per quale altra sensibilità naturale anche Caino ebbe più paura della morte che della fatica?

Per quale altra sensibilità attraverso giudizi non iniqui né disumani i giudici condannano i crimini minori con la fatica nelle miniere metallifere e i crimini maggiori con la morte?

Donde poi si onorano con tanta gloria i martiri che sono morti per la giustizia, se non perché disprezzare la morte è una virtù più grande che disprezzare la fatica?

Per cui il Signore non dice: Nessuno ha un amore più grande di faticare, ma dice: di dare la vita per i propri amici. ( Gv 15,13 )

Se dunque è una carità maggiore morire per gli amici che faticare per loro, chi è tanto cieco da non vedere che la pena della fatica è minore della pena della morte?

O se l'uomo deve temere la fatica più della morte, in che modo non è misera la natura stessa che teme la morte più della fatica?

E tu, non pensando a questa verità, dici che l'uomo fu consolato dalla indicazione della sua morte, che non gli faceva reputare eterna la sua fatica.

Mentre, se fosse vero il vostro dogma con il quale affermate Adamo morituro, anche se non avesse peccato, per questo, prima che Adamo cominciasse ad essere afflitto dalla pena della condanna, dite che non gli si doveva indicare la sua morte futura, perché Dio non lo tormentasse con il timore della morte prima che avesse peccato; ma giudicandolo ormai dopo che peccò degnissimo della pena, gli indicasse anche che era morituro, e gli accrescesse così pure con il timore della morte la medesima pena il giusto Dio, vindice del male commesso.

Quindi chiunque queste parole di Dio, con le quali fu punito Adamo quando fu detto: Sei terra e andrai nella terra, le intende secondo la fede cattolica, né vuole introdurre nel paradiso la morte del corpo principalmente per non introdurre anche le malattie, che vediamo affliggere i morenti con tanta miserabile varietà, ed essere costretto nei riguardi del paradiso della voluttà santa, del paradiso della felicità spirituale e corporale, al quale non vi vergognate di essere contrari, a riempirlo di dolori, di fatiche, di tristezze, come siete costretti a riempirlo voi senza sapere in che modo uscirne finché non volete mutare un dogma tanto empio; chiunque, come ho detto, queste parole di Dio le prende e le intende secondo la fede cattolica, come discerne la pena della fatica dov'è stato detto: Con il sudore del tuo volto mangerai il tuo pane, così discerne anche la pena della morte dove di seguito si dice: Finché ritornerai alla terra dalla quale sei stato preso; poiché sei terra e andrai nella terra; e lo prende detto come se fosse detto: Io certamente ti presi dalla terra e ti feci uomo e ben avrei potuto far sì che la medesima terra, fatta vivente da me, non fosse mai costretta ad essere priva della vita che io le diedi; ma poiché sei terra, cioè hai voluto vivere secondo la carne che fu presa dalla terra e non secondo me che ti presi dalla terra, faticherai sulla terra finché ritornerai ad essa, e ritornerai alla terra perché sei terra, e per una giusta pena andrai nella terra dalla quale sei stato fatto, perché non hai obbedito allo Spirito dal quale sei stato fatto.

Questo modo di intendere si riconosce sano e cattolico, principalmente dal fatto che non costringe a riempire di morti la terra dei viventi e a riempire la terra degli uomini felici di tutti i mali più laboriosi e più gravosi, che gli uomini in questo corpo corruttibile patiscono e dai quali sono spinti a morire, se non ce la fanno a sopportarli.

Non potete dire infatti che nel paradiso gli uomini sarebbero morti dolcemente, se nessuno avesse peccato, perché anche questo è contro di voi.

Se infatti morivano dolcemente allora e muoiono tanto aspramente ora, a causa del peccato dell'uomo è stata mutata la natura umana: il che negando, voi siete conseguentemente costretti ad inserire dentro il luogo di quella così grande felicità e giocondità le morti tali e quali assolutamente sono adesso, e per questo anche le innumerevoli specie di malattie, tanto gravi e tanto insopportabili da spingere gli uomini alla morte.

La quale faccia del paradiso, se soffonde e confonde le vostre facce di un qualche pudore, voi che non volete confessare che la nostra natura poté esser mutata dal peccato, mutate piuttosto la vostra sentenza e confessate con l'Apostolo che il corpo è morto a causa del peccato; ( Rm 8,10 ) dite con la Chiesa di Dio: Dalla donna ebbe inizio il peccato e per causa sua tutti moriamo. ( Sir 25,24 )

Riconoscete con la Chiesa di Dio che un corpo corruttibile appesantisce l'anima. ( Sap 9,15 )

Prima infatti del peccato nel paradiso il corpo non era tale da appesantire l'anima.

Cantate con la Chiesa di Dio: L'uomo è diventato simile ad una cosa vana, i suoi giorni passano come un'ombra. ( Sal 144,4 )

Né infatti colui che fu fatto a somiglianza di Dio, se non per il peccato sarebbe diventato simile ad una cosa vana, così che i suoi giorni passassero come un'ombra con il correre delle età e con l'incorrere nella morte.

Non vogliate diffondere sulla luce serenissima della verità le nubi del vostro errore: i cuori dei fedeli non devono rendere amaro il paradiso di Dio che essi devono amare.

Dove vi offende infatti, vi prego, dove vi offende quel memorabile luogo degli uomini beati e quieti da volerlo voi ad occhi chiusi, con fronte impudentissima, con mente ostinatissima, con lingua loquacissima riempire delle morti degli uomini e per via di esse riempirlo di tutti i mali dei quali vediamo abbondare le angustie e le necessità dei morenti, per non essere costretti a confessare che in queste miserie, delle quali vedete colmo il genere umano cominciando dai vagiti dei bambini fino agli ansimi dei decrepiti, la natura umana precipitò a causa del massimo peccato del primo uomo?

E poiché considerate ingiusto che la pena dei padri passi nei posteri senza la colpa, concedete che sia passata anche la colpa.

Che massima sia stata appunto la colpa del primo uomo, che tu hai tentato di attenuare quanto più hai potuto, perché non si credesse che a causa di essa abbia potuto essere mutata la natura umana; che dunque quella colpa sia stata massima lo provo non solo dalle stesse miserie del genere umano che cominciano con le culle degli infanti, ma anche da te stesso.

Tu pure infatti nel secondo libro di questa tua opera riponesti la massima forma del peccato nel primo uomo, perché risaltasse nel senso opposto la massima forma della giustizia nel Cristo.36

Di averlo detto mi sembra che tu ti sia dimenticato: infatti, se tu ne fossi stato memore, mai certamente tenteresti con tanta loquacità si sminuire il peccato di Adamo.

Ma io dimostro che quel peccato fu il peccato più grande dalla grandiosità della sua stessa pena: non c'è infatti per Adamo una pena maggiore dell'esser scacciato dal paradiso e dell'essere separato dall'albero della vita perché non vivesse in eterno, con l'aggiunta anche delle angosce di questa vita così che i suoi giorni e gemessero nelle fatiche e passassero come un'ombra.

Per certo la stessa calamità ereditaria del genere umano, dagli infanti ai vecchi, rende testimonianza.

Le quali miserie non avrebbero carattere punitivo se non si traessero dal contagio del peccato.

Sul quale contagio tu combatti ostinatamente contro di noi e, perché non si creda in esso, tu e attenui lo stesso peccato del primo uomo e il suo castigo, e con l'impeto più sfacciato ed empio tenti di introdurre nel paradiso i dolori, le fatiche, le morti.

Tu dici pure: Se la terra è maledetta di proposito perché resti punito chi aveva peccato, né tuttavia l'iniquità è dov'è la maledizione, per quale ragione, in forza di tale condizione, anche se si insegnasse che un qualche danno sia stato inferto alla nostra natura dopo il peccato del primo uomo, non seguirebbe tuttavia che per questo siano miseri i nascenti perché si abbia la prova che sono rei, ma perché con la commemorazione del primo peccato la punizione susseguente intimasse agli uomini, che il primo peccato non aveva resi rei, la prudenza di evitare una cattiva imitazione?

Vedo da quali angustie tu sia pressato.

Sei costretto a confessare le miserie dei nascenti, perché ti fa violenza l'evidenza della realtà che non puoi negare, posta com'è sotto gli occhi di tutti.

Ma vuoi asserire che queste miserie dei nascenti sarebbero esistite anche nel paradiso, se nessuno avesse peccato.

Ti accorgi però che non puoi convincere di ciò gli uomini che abbiano appena un po' di cuore.

Rimane quindi che tu confessi che il genere umano sia diventato misero a causa del peccato del primo uomo.

Ma, avendo paura di dirlo in modo assoluto, scrivi: Se si insegnasse che un qualche danno sia stato inferto alla nostra natura dopo il peccato del primo uomo.

Che cos'è quel tuo: Se si insegnasse? Non si insegna forse questa verità manifestissima, che anche tu ti senti già costretto a condividere?

Dobbiamo forse ritornare al punto dal quale mediti di sfuggire di soppiatto attraverso queste tue parole, comprendendo con quanto intollerabile assurdità si crederebbe che le miserie dei nascenti sarebbero state future anche nel paradiso, se nessuno avesse peccato?

Se provi orrore nel dirlo, poiché è fortemente orrendo, per quale ragione scrivi: Anche se si insegnasse, mentre si insegna senza nessuna esitazione non che un qualche danno, ma che tutti i danni dei nascenti sono stati inferti alla nostra natura dopo il peccato del primo uomo, anzi a causa del peccato del primo uomo?

Ma tu dici: Non per questo sono miseri i nascenti perché si abbia la prova che sono rei.

Nemmeno io dico: I nascenti per questo sono miseri perché si abbia la prova che sono rei; ma dico piuttosto: Da questo si ha la prova che sono rei, dal fatto che sono miseri.

Giusto è infatti Dio: una verità che tu ripeti insistentemente contro di te, e non lo sai. Giusto, dico, è Dio, e quindi, se non li sapesse rei, non lascerebbe che i nascenti né nascessero miseri né diventassero miseri.

Onde non altrimenti intende la fede cattolica ciò che dice l'Apostolo: A causa di un solo uomo il peccato è entrato nel mondo e con il peccato la morte, e così passò in tutti gli uomini, che tutti peccarono in lui. ( Rm 5,12 )

Il che non volendo tu riferire al nesso della origine, tenti di storcerlo alla imitazione dell'esempio, e conseguentemente quando ti si dice: Per quale ragione dunque le miserie del genere umano sono testimoniate fino dall'esordio stesso della loro incipiente età con i loro innumerevoli e diversi mali dai bambini che non hanno peccato con nessuna imitazione?

Tu, come se fossi travolto da un gravissimo e irrefrenabile rigetto di stomaco, ti rovesci con questi vomiti dicendo: Non perché sono rei coloro che nascono, per questo sono miseri; ma perché ammoniti da questa miseria si guardino dall'imitare il peccato del primo uomo.

Così infatti io ho creduto di dovere dire in modo più piano ed esplicito ciò che tu hai detto più oscuramente e involutamente.

Ma comunque tu lo dica, chi non vede che, per l'animosità di difendere la tua opinione, non vuoi stare minimamente attento a quali spropositi tu dica?

Per questo forse, ti chiedo, gli uomini in stato d'innocenza avrebbero dovuto esser colpiti dalla miseria, non per un qualche peccato che avessero, ma perché non l'avessero?

Avrebbe dovuto dunque anche Eva diventare misera prima che rea, perché dalla sua miseria fosse ammonita a non consentire al serpente.

Avrebbe dovuto anche Adamo essere punito prima dal male della miseria per non consentire alla moglie sedotta nel male del peccato.

Piace infatti a te che i peccati siano impediti da pene precedenti e non repressi da pene susseguenti, e così inversamente non il reato ma l'innocenza si punisca, non perché si è peccato, ma perché non si pecchi.

Correggi per favore la tua sentenza, pervertita e invertita, perché certamente ravverseresti la tua tunica, se tu indossassi per caso la parte destra della veste nella tua parte sinistra.

L'ho detto questo, perché tu vuoi che con pene preventive si impedisca ai peccati di seguire, mentre è consueto e doveroso che si puniscano con castighi susseguenti i peccati precedenti.

Di' inoltre a noi in che modo ammonire a guardare alla loro miseria, perché non imitino il peccato del primo uomo, gli infanti colpiti dalle calamità, i quali non possono ancora né imitare qualcuno, né essere ammoniti.

Infatti per quale ragione non tieni conto che la terra maledetta, donde prendi l'esempio per questo tuo deliramento: i nascenti poterono esser fatti miseri perché evitassero i peccati dei loro genitori, sebbene non traggano da essi il peccato originale, così come la terra fu maledetta a castigo dell'uomo, sebbene essa non abbia colpa, la terra dico come non ha colpa, così non ha pena da quella maledizione, ma quando è maledetta diventa essa stessa una pena dell'uomo che ha peccato?

I nascenti invece nell'essere miseri sentono essi stessi le loro miserie; essi stessi, senza contrarre secondo la vostra opinione nessun peccato, sopportano pene certamente immeritate, se questa è la verità, pur non essendo ancora capaci, come ho detto, né di alcuna ammonizione, né della imitazione del peccato del primo uomo, per la quale dovrebbero essere ammoniti.

Si deve forse aspettare che crescendo giungano al libero arbitrio, quando sentano chi li ammonisce e intuendo la loro miseria non imitino l'altrui colpa?

Ma dove mettiamo così tanti bambini che fino al giorno della loro morte ignorano chi sia stato Adamo o quale peccato abbia commesso?

Dove poniamo i così tanti bambini che muoiono prima di arrivare all'età in cui sentano uno che li ammonisca?

Dove poniamo coloro che nascono con una intelligenza tanto insipiente e tanto fatua che nemmeno da grandi possano essere ammoniti di qualcosa di simile con qualche frutto?

Evidentemente tutti questi sono colpiti da una così grande miseria senza nessun merito, senza nessuna utilità.

Dov'è la giustizia di Dio? Alla quale se tu pensassi, mai crederesti che i nascenti siano tanto miseri senza nessun merito di un peccato originale.

Ma poiché tu hai parlato al condizionale e infatti non hai detto: Poiché s'insegna, ma hai detto: Se s'insegnasse che un qualche danno sia stato inferto alla nostra natura dopo il peccato del primo uomo, sei pronto, come giudico, a dire: Non s'insegna.

E per questo resta che tu dica che i mali che vediamo sofferti dai bambini sarebbero esistiti anche nel paradiso, se nessuno avesse peccato, per non confessarli sorti a causa del peccato del primo uomo.

Così, mentre cerchi di evitare questi nodi e di sgusciare labile dalle nostre mani, starai immobile di contro al paradiso, al quale sei così contrario da metterci dentro, con faccia sfrontatissima e con fronte perversissima, a turbarne la felicità e la quiete, i dolori delle partorienti, le fatiche degli operai, le agitazioni dei malati, le malattie dei morenti.

Ma a lode della morte credi di aver trovato qualcosa di grande da dire, cioè: Alla prima occasione si rese chiaro che non è un male la morte, perché ne fece la dedicazione per primo tra tutti un giusto.

Renditi conto dunque che il giusto Abele non avrebbe avuto da dedicare la morte, se l'ingiusto Caino non avesse costruito l'edificio della morte.

Iniziatore appunto ed esecutore di quella morte fu Caino, non Abele.

Dedicò dunque la morte colui che la fabbricò.

La morte infatti di quell'uomo buono fu un'opera mala di un uomo malo.

Quanto ad Abele che sopportò il male per il bene, egli non dedicò la morte, ma il martirio, portando l'immagine di Gesù che fu ucciso dal popolo dei Giudei come da un suo cattivo fratello carnale.

Glorioso pertanto Abele, non perché prese dal fratello qualcosa di buono, ma perché morendo pazientemente per la giustizia fece un uso buono del male di Caino.

Infatti come per l'uso cattivo che fanno del bene della legge sono puniti i prevaricatori, così all'opposto per l'uso buono che fanno del male della morte sono coronati i martiri.

Perciò, se non disdegni di affermare ciò che ti vedo ignorare, la morte è mala per tutti i morenti, ma tra i morti per alcuni è mala, per alcuni è buona.

Seguirono questa dottrina anche coloro che misero in scritto lodevoli discussioni sulla bontà della morte.

La morte dunque del giusto Abele che abita nella requie non solo non è mala, ma è anche buona.

Tu invece non hai introdotto nel paradiso la requie dei buoni che sono morti, ma i tormenti dei morenti, perché nel paradiso non ci fosse la requie dei buoni.

O se dici: Qualora nessuno avesse peccato, nel paradiso gli uomini sarebbero morti senza tormento, almeno per il fatto che fuori del paradiso non muore quasi nessuno senza tormento, finalmente, sconfitto e sconvolto, confessa che la natura umana è stata mutata in peggio dal peccato del primo uomo.

28 - La maledizione del serpente

Giuliano. Che si dirà infine del serpente stesso?

La tua opinione è che con quella maledizione sia stato punito il diavolo o questo rettile comune?

Cioè giudichi che quella sentenza rivolta al serpente: Sii maledetto da tutti gli animali e da tutte le bestie che sono sopra la terra: camminerai sul petto e sul ventre e mangerai polvere per tutti i giorni della tua vita, ( Gen 3,14 ) si sia adempiuta nel castigo del diavolo o di quella bestia che i calori primaverili fanno uscire dalle cavità?

Se lo vedi nel castigo di questa serpe comune, che secondo la sua specie si allunga in un corpo snodato, e se dici che per merito di quella colpa la serpe divenne terrifaga, allora anche su tutte le bestie incombe la traduce della iniquità, che tu reputi non deducibile se non mediante la libidine di coloro che si accoppiano, e ne segue che tu asserisci impiantata dal diavolo anche la libidine dei serpenti e già per questo degli animali irragionevoli, e, riscoperta la sentenza di Manicheo, tu ci squittisci il suo carme.

Se invece confessi compiuto spiritualmente nel diavolo tutto quello che si dice al serpente, sarai senza dubbio d'accordo su questi punti: né ciò che ivi si proferisce a condanna è indizio di serpenti che adesso siano rei; né il diavolo mangia materialmente la terra; ma, sebbene il diavolo abbia ghermito a suo servizio un serpente e sebbene poi la severità del Padre abbia spezzato quella specie di giavellotto di cui si era servito per ferire l'uomo, tuttavia il peccato ebbe sede soltanto nella volontà di colui che agì.

I cibi poi e le spine e i sudori furono prima istituiti per natura e dopo in alcuni casi furono maggiorati per punizione, ma arrivarono alla nostra età senza la stranezza di quel peccato.

Queste sono verità tanto aperte da non aver bisogno affatto di una trattazione più lunga.

Agostino. Cos'è questo tuo contorcere anche sul tema del serpente le tue astuzie viperine?

Chi infatti, intendendo nel modo giusto le parole del libro divino da te ricordate, non vede che quella sentenza fu promulgata contro il diavolo, il quale si servì del serpente per quello che volle e come poté, piuttosto che contro lo stesso animale terreno, qualunque esso fosse?

Ma poiché il diavolo non operò da se stesso le sue seduzioni verbali, bensì per mezzo del serpente, per questo Dio parlò al serpente dicendo quello che convenisse a significare la malizia del diavolo, e fosse la natura del serpente la figura del diavolo.

Perciò tutte le parole dette da Dio al serpente: Sii maledetto da tutti gli animali e da tutte le bestie che sono sopra la terra; camminerai sul petto e sul ventre e mangerai polvere per tutti i giorni della tua vita, e tutte le altre parole, tanto meglio si intendono e tanto meglio si spiegano quanto più congruamente si applicano al diavolo.

Ma poiché anche secondo la retta fede sono soliti farsi tuttavia su queste parole molte discussioni, né adesso è pertinente alla causa che io manifesti quale sia l'opinione da me preferita, basta che io ti risponda che la natura del diavolo non è assolutamente pertinente alla connessione e alla successione della propaggine, dove si tratta la questione del peccato originale.

Circa le spine e il sudore di chi fatica, credo che la nostra risposta precedente riuscirà a convincere i lettori con quanta impudenza tu affermi che furono istituiti prima che si peccasse.

Volete appunto fare un paradiso di tal genere che esso non si dica per nessuna ragione il paradiso di Dio, ma il paradiso vostro.

Ma tuttavia, sebbene tu abbia detto che le spine furono istituite prima del peccato, non hai osato introdurle nel paradiso, anzi hai detto espressamente che non ci furono nel paradiso, dove hai pur voluto mettere la fatica, il cui peso, benché non punga, opprime.

Ma comunque, se anche a te piace che le spine non si addicano al paradiso, è mai possibile che alla natura umana, di esser prima là dove non ci sono le spine e di esser adesso là dove ci sono le spine, accadesse senza nessuna mutazione della beatitudine nella miseria o sia accaduto senza nessun merito di peccato?

Vi costringa dunque a riconoscere il peccato originale almeno un tale castigo quale voi non avete potuto negare, se non credete che Dio sia ingiusto.

29 - Eccoti altro sul medesimo argomento del parto

Giuliano. Tuttavia perché non sembri che abbiamo tralasciato qualcosa per negligenza, eccoti altro.

È noto che il dolore dei parti varia secondo i corpi delle partorienti e secondo le loro forze.

Certamente le femmine dei barbari e dei pastori, indurite da una vita movimentata, partoriscono con tanta facilità in mezzo alle loro peregrinazioni da prendesi cura dei loro neonati senza interrompere la fatica del cammino e da trasportarli subito con sé: non indebolite affatto dalla difficoltà del parto, trasferiscono sulle loro spalle i pesi del loro ventre, e generalmente l'indigenza delle femmine di umile condizione non cerca l'assistenza delle levatrici.

Ma all'opposto le donne facoltose sono rese fiacche dalle comodità e quanti più parti travagliati ciascuna di esse abbia avuti, tanto più impara e tende ad ammalarsi e si reputa bisognosa di tanti riguardi quanti sono quelli di cui sovrabbonda.

È sicuro che la mano dei mariti ricchi non sperimenta nei rovi la tribolazione del primo uomo.

Anzi, fiduciosi nelle loro disponibilità, reputano indegno di sé spendere qualche momento nelle cure della fertilità; mantenendosi fuori dalla paura anche della fame con la dilatazione dei loro possedimenti, a volte comandano, come dice il poeta: Stacca i bovi, mentre metti a dimora le patate.37

Dunque se anche il dolore delle partorienti appartiene alle istituzioni della natura, come è stato ben insegnato e dall'esempio degli animali bruti e dal senso proprio della sentenza divina; se la perdita dei frutti e la nascita delle spine sono state certamente create in mezzo a tutte le altre creature, ma sono diventate più frequenti e più moleste per alcune persone; se poi anche la spinosità delle terre varia secondo i corpi e secondo le regioni, come la stessa difficoltà della partoriente; se in ultimo il travaglio perdura nelle viscere delle femmine dopo la grazia del battesimo, mentre lo ignora completamente il fasto delle donne opulente; se è stato spiegato per quale ragione sarebbe seguita la dissoluzione del corpo, connessa più con le membra che con gli errori dei peccati, allora appare anche qui che tutto è in accordo con la verità dei cattolici e che non giovano a voi per nulla né le femmine né le spine.

Agostino. Nel trattare della punizione che Dio inflisse ai primi peccatori già da un pezzo eri passato oltre la donna, dicendo: Bastino queste discussioni sulla donna.

Perché dunque non hai mantenuto fede alla tua promessa?

Ecco che dopo le tante discussioni ritorni alla donna, ecco che non bastano alla tua loquacità le discussioni di cui avevi detto: Bastino le discussioni sulla donna.

Ma se tu non fossi quel verboso che sei, di che riempiresti gli otto libri che rendi ad uno solo dei miei?

Ma di' ciò che ti piace: ecco, dopo la sufficienza promessa abbiamo ascoltato pazientemente anche la tua sovrabbondanza.

Perché infatti avresti dovuto perdere le intuizioni tanto graziose che ti sono venute in mente dopo?

Per quanto, ti doveva venire in mente di togliere dal tuo libro che avevi ancora tra le mani anche le parole: Bastino queste discussioni sulla donna, perché i lettori non ti trovassero così indecentemente contrario alla tua promessa.

Ma va' avanti, tira fuori contrariamente alla sufficienza promessa le idee che hai pensate più tardi.

Di' che la fatica dei parti varia secondo i corpi delle partorienti e secondo le loro forze, e descrivi le donne barbare e rusticane nella loro facilità di partorire, così da non sembrare nemmeno che partoriscano e così da non sentire nel partorire, non poco dolore, ma nessun dolore.

Il che, se sta così, che ti giova? Non parli forse contro te stesso che tali doglie hai detto tanto naturali da non poter Eva partorire senza di esse, anche se fosse rimasta rimaneva nel paradiso per non aver commesso nessuna iniquità?

Sei forse disposto a dire che le tue donne barbare e rusticane siano in questo più fortunate di quella prima donna da partorire senza dolore su questa terra disgraziata, come non lo poteva Eva nel paradiso se vi avesse partorito?

Quasi che in coteste tue donne la natura femminea sia stata mutata in meglio da come era stata istituita e nel mutarla sia stata più efficace l'esercitazione umana che nel crearla l'operazione divina.

Se poi nelle tue parole non vuoi far intendere che le donne fiere e selvagge partoriscano senza dolori e concedi ad esse un parto così tollerabile e facile da ammettere tuttavia che esse soffrano quando partoriscono, è forse nulla la loro pena perché è minore?

Sia dunque che abbiano coteste donne quando partoriscono doglie minori, sia che sopportino in maniera ammirevole per la fortezza acquisita con l'esercizio doglie uguali a quelle delle altre donne o maggiori a quelle di alcune di esse, né da quel travaglio risentano stanchezza e languore, esse tuttavia hanno le doglie e certamente tutte le donne che le hanno, sia che soffrano di più sia che soffrano di meno, patiscono pene maggiori o minori, ma tuttavia patiscono pene senza nessun dubbio.

Ma tu, se ti pensassi, non dico un cristiano, bensì un uomo comune qualunque, troveresti più facile sostenere che non c'è nessun paradiso di Dio, che farlo penale con la tua sacrilega discussione.

Elegantemente davvero tu difendi i ricchi dalla fatica ereditaria del primo uomo, ignorando o fingendo di ignorare che i ricchi, per le loro preoccupazioni, soffrono più amaramente che i poveri per le loro occupazioni.

Con il nome appunto di sudore la sacra Scrittura ha significato la sofferenza in genere, dalla quale non è esente nessuno, perché gli uni soffrono con le operazioni dure e gli altri con le angustianti cure.

Alle medesime sofferenze appartengono pure gli studi di tutti coloro che vogliono apprendere.

E quale terra partorisce tali spine se non questa terra, che il suo formatore non aveva fatto onerosa, quando creò il primo uomo?

Adesso invece, secondo quello che è stato scritto, un corpo corruttibile appesantisce l'anima e la tenda d'argilla grava la mente dai molti pensieri.

A stento ci raffiguriamo le cose terrestri e scopriamo con fatica quelle a portata di mano. ( Sap 9,15-16 )

Siano dunque utili o siano inutili le dottrine che un uomo si studia d'imparare, è necessario che egli soffra, perché un corpo corruttibile appesantisce l'anima.

Perciò anche così questa terra gli partorisce spine.

Né si dica che i ricchi sono esenti da queste spine, soprattutto perché nel Vangelo quelle spine, da cui sono soffocati così da non raggiungere la fecondità i semi seminati, spiegò che sono le cure di questa vita e le ansie delle ricchezze il Dio maestro, ( Mt 13,22 ) che chiama certamente non solo i poveri, ma anche i ricchi, quando dice: Venite a me voi tutti che siete affaticati.

A che cosa li chiama se non a ciò che dice dopo: E troverete ristoro per le vostre anime? ( Mt 11,28-29 )

Quando sarà questo, se non quando non ci sarà più la corruzione dei corpi che adesso appesantisce le anime?

Ma ora sono affaticati i poveri, sono affaticati i ricchi, sono affaticati i giusti, sono affaticati gli iniqui, sono affaticati i grandi, sono affaticati i piccoli dal giorno che escono dal seno della loro madre fino al giorno del seppellimento nel seno della madre di tutti.

È appunto tanto maligno questo secolo che senza uscire da esso non ci potrà essere per noi la requie promessa.

Sebbene la fatica sia sopravvenuta sui discendenti del primo uomo per la sua prevaricazione, tuttavia, anche sciolto già il reato di quella prevaricazione da noi contratto, la fatica rimane a scopo di combattimento, perché abbia il suo corso l'esame della fede.

È necessario infatti che noi combattiamo contro i vizi e che fatichiamo nello stesso combattere, finché ci sia concesso di non avere più nessun avversario.

Lo scopo per cui le punizioni sono convertite in competizioni è che i buoni combattenti siano condotti alle premiazioni.

Anche le fatiche dei bambini, sciolto il reato originale, rimangono, sebbene si insegni che sono sorte dallo stesso reato, per questa ragione: anche così piacque a Dio di provare la fede dei grandi dai quali i bambini gli sono offerti perché siano rigenerati.

Quale e quanta sarebbe la fede delle realtà invisibili, se alla fede seguisse immediatamente la ricompensa invisibile e, differita la requie promessa, non ci si impegnasse piuttosto nell'avventura della fede con il cuore e non con gli occhi, e così si credesse più sinceramente e si cercasse più desiosamente il secolo futuro che non vediamo ancora e dove saranno nulle le fatiche?

Perciò Dio con ammirabile benignità ha convertito le nostre fatiche, ossia le nostre pene, in nostri beni.

Per il desiderio di confutare queste verità tu fatichi inutilmente: fatichi infatti partorendo le spine e non svellendo le spine; noi invece fatichiamo per svellere, nella misura in cui ce lo dona il Signore, le tue spine.

A meno che tu non ti vanti forse di non faticare, per questo che con grande facilità d'ingegno scrivi tanti libri, e anche tu partorisci senza difficoltà le tue spine, come quelle donne barbare e rusticane i loro feti.

Ma reputo che ti vanti invano della facilità dell'ingegno.

Certamente fatichi: in che modo potresti infatti scansare le fatiche tu che ti sforzi d'introdurre le fatiche anche nel paradiso?

È certo infatti che quanto più impossibile si dimostra questa tua impresa, tanto più ampia e più inutile si trova la tua fatica.

30 - Immortalità minore e immortalità maggiore

Giuliano. Non mi opporrò davvero a quanti pensano che Adamo, se fosse stato obbediente alla parola di Dio, avrebbe potuto essere trasferito per ricompensa alla immortalità.

Leggiamo appunto che Enoch ed Elia furono trasferiti perché non vedessero la morte.

Ma altro sono le istituzioni della natura e altro i premi della obbedienza.

Non è infatti il merito di uno solo di tanta importanza da perturbare le istituzioni universali che siano state costituite per natura.

Avrebbe quindi esercitato se stessa negli altri l'innata mortalità, anche se quel primo uomo fosse emigrato alla eternità dalla longevità.

Ciò si ritiene non in forza di una congettura contestabile, ma in forza di un esempio certo: i figli di Enoch appunto non poterono essere sottratti alla condizione di morire dalla immortalità del loro padre.

Né si reputi possibile eventualmente che se, non i peccatori, ma tutti i giusti arrivassero alla immortalità senza l'intervento del disfacimento corporale, perché Abele, il primo dei giusti, Noè, Abramo, Isacco, Giacobbe e tutte le schiere dei santi, tanto nel Nuovo quanto nel Vecchio Testamento, hanno insegnato e il loro merito con le virtù e la natura con la morte.

L'assoluta certezza di questo fatto è confermata anche dall'autorità del Cristo.

Egli infatti, avendogli proposto i Sadducei la questione con l'esempio di una donna settinuba e domandandogli da quale marito, se si credeva al risveglio dei corpi, doveva essere rivendicata maggiormente, rispose: Voi vi ingannate, non conoscendo né le Scritture né la potenza di Dio.

Alla risurrezione infatti non prenderanno né marito né moglie, perché non moriranno più. ( Mt 22,29-30; Lc 20,35-36 )

Consapevole della sua opera, dichiarò a quale scopo avesse istituito le nozze: cioè allo scopo che la prole riparasse i danni della morte; ma la munifica fecondità sarebbe subito cessata, appena fosse cessata la morte avara.

Se dunque, per testimonianza del Cristo che la istituì, la fertilità fu creata appositamente perché essa combattesse la fragilità, e se questa condizione delle nozze fu ordinata prima del peccato, appare anche che la mortalità non appartiene alla prevaricazione, bensì alla natura, alla quale si legge che appartengono pure le nozze.

Pertanto in quella legge che fu promulgata, ossia nelle parole: In qualunque giorno tu mangiassi del frutto interdetto, certamente moriresti, si intende la morte penale, non la morte corporale, la morte sospesa sui peccati e non sui semi, la morte nella quale non incorre se non la prevaricazione e alla quale non sfugge se non l'emendazione.

Che poi si dica da infliggersi nel giorno del peccato è un modo di dire della Scrittura che suol chiamare condannato il condannando.

Da qui viene che il Signore dica nel Vangelo: Ognuno che non crede in me è già stato condannato, perché non ha creduto nel nome dell'unigenito Figlio di Dio. ( Gv 3,18 )

Non che l'infedeltà che nega il Cristo fosse già stata associata prima del tempo del giudizio al castigo perpetuo, atteso che tutti coloro che vengono alla fede sono stati prima infedeli; ma si dice che i peccati sono già punizioni, perché apparisca la censura di colui che comanda.

Inoltre e quel libro che si dice Sapienza e l'opinione di molti asserisce che lo stesso Adamo fu perdonato a seguito della sua emendazione!

Agostino. Se, come dici, non ti opponi a quanti pensano che Adamo, se fosse stato obbediente alla parola di Dio, avrebbe potuto esser trasferito per ricompensa alla immortalità, nella immortalità discerni l'immortalità maggiore dalla immortalità minore.

Infatti non è assurdo dire immortalità anche questa immortalità minore, per la quale ognuno può non morire, se non fa ciò che lo porti a morire, sebbene possa anche farlo.

In questa immortalità fu Adamo, questa immortalità egli la perse a motivo della prevaricazione.

Questa immortalità gli veniva somministrata dall'albero della vita, dal quale non fu escluso quando ricevé la legge buona perché non peccasse, ma quando peccò con la sua volontà cattiva: allora infatti fu scacciato dal paradiso, perché non stendesse la mano all'albero della vita e ne mangiasse e vivesse in eterno.

Donde si deve capire che Adamo fosse solito prendere da questo albero della vita un sacramento, da tutti gli altri alberi un alimento.

Solo infatti dell'albero detto del discernimento del bene e del male gli fu comandato di non mangiare.

Perché dunque pensare che non abbia mangiato dell'albero della vita, atteso che ed era molto migliore di tutti gli altri alberi e l'uomo aveva ricevuto il potere di mangiare di tutti, eccettuato quello soltanto in cui peccò?

Queste infatti sono le parole con le quali Dio comandò: Tu potrai mangiare di tutti gli alberi che sono nel giardino; ma non devi mangiare dell'albero della conoscenza del bene e del male. ( Gen 2,16-17 )

E parimenti queste sono le parole con le quali Dio condannò: Poiché hai ascoltato la voce di tua moglie e hai mangiato dell'albero del quale soltanto ti avevo comandato di non mangiare. ( Gen 3,17 )

Quale sarebbe stata quindi la causa per cui Adamo non si sarebbe curato di mangiare principalmente dell'albero della vita, non essendo stato escluso se non da quell'albero per la cui usurpazione peccò?

Anzi, se intendiamo vigilantemente, come Adamo peccò mangiando dell'albero interdetto, così avrebbe peccato non mangiando dell'albero della vita, perché si sarebbe negato da se stesso la vita che gli era a portata di mano in quell'albero.

Ma quella immortalità nella quale vivono gli angeli santi e nella quale vivremo anche noi, è senza dubbio maggiore.

Non è infatti tale che l'uomo abbia certamente con essa in suo potere di non morire, come di non peccare, ma comunque possa anche morire perché può peccare; ma quella immortalità è tale che ognuno che vi si trova o vi si troverà non potrà morire, perché non potrà nemmeno più peccare.

Tanto grande sarà appunto in essa la volontà di vivere bene, quanto grande è anche ora la volontà di vivere beatamente, la quale vediamo che non ce l'ha potuta togliere nemmeno la miseria.

Se tu dicessi che Adamo a questa immortalità, senza dubbio maggiore, poté essere mutato per ricompensa dell'obbedienza da quella immortalità minore, senza nessuna morte intermedia, diresti qualcosa che la retta fede non deve disapprovare.

Se invece lodi così l'una da negare l'altra, sei certamente costretto a riempire la faccia del paradiso con la presenza e delle morti e delle disgrazie dei morenti che li urgono a morire, non potendo sopportarle, e a sbiancare in tal modo la tua faccia da volerla sfuggire, se tu la potessi guardare in uno specchio.

Per quale ragione infatti anche i posteri del primo uomo, nati nel paradiso, e non soltanto buoni ma pure beati, avrebbero dovuto esser costretti a morire, se nessuna colpa li forzava ad uscire dal paradiso dov'era l'albero della vita, e da esso veniva il sommo potere di vivere, e non c'era invece nessuna necessità di morire?

Alla quale necessità di morire furono sottratti Enoch ed Elia: essi erano infatti in queste terre, dove non c'era l'albero della vita, e quindi li urgeva alla fine di questa vita la necessità della morte a tutti comune.

Dove credere infatti che siano stati trasferiti se non dov'è lo stesso albero della vita, donde abbiano il potere di vivere, senza avere nessuna necessità di morire, come lo avrebbero avuto nel paradiso gli uomini nei quali non fosse sorta nessuna volontà di peccare che non li lasciasse vivere più dove nessuna equità li costringeva a morire?

Per cui gli esempi di Enoch e di Elia giovano più a noi che a voi.

Dio appunto in questi due personaggi fa vedere che cosa egli era pronto a concedere anche a coloro che dimise dal paradiso, se essi non avessero voluto peccare: dal medesimo luogo infatti furono cacciati Adamo ed Eva nel quale furono traslati Enoch ed Elia.

E crediamo che ivi per grazia di Dio sia stato concesso a loro anche questo, di non aver motivo di dire: Rimetti a noi i nostri debiti. ( Mt 6,12 )

In queste terre infatti, dove un corpo corruttibile appesantiva la loro anima, ( Sap 9,15 ) essi combattevano un grande combattimento contro i vizi, ma in tali condizioni tuttavia che, se avessero detto di esser senza peccato, avrebbero ingannato se stessi e la verità non sarebbe stata in loro. ( 1 Gv 1,8 )

Dei quali si crede assennatamente che ritorneranno per un breve periodo di tempo su queste terre perché anch'essi combattano contro la morte e paghino ciò che è dovuto alla propaggine del primo uomo.

Donde bisogna capire che coloro i quali non avessero nessun peccato e i loro figli, e rimanessero ad abitare nel paradiso con la medesima rettitudine, a maggior ragione avrebbero persistito in quella immortalità minore, finché non passassero alla immortalità più ampia senza nessuna morte intermedia, se confessiamo che tanta longevità sia stata conferita a coloro che su queste terre fuori dal paradiso erano giusti - ma in tali condizioni da non poter dire di non aver nessun peccato -, cioè ad Enoch e ad Elia.

Ma il Signore, tu dici, interrogato su quella donna settinuba, confermò con la sua risposta che le nozze furono istituite perché la prole supplisse ai danni della morte, ma la munifica fecondità sarebbe cessata appena fosse cessata la morte avara.

Sbagli completamente a pensare che le nozze siano state istituite perché la scomparsa dei morti fosse supplita dalla comparsa dei nascenti.

Le nozze infatti furono istituite perché la pudicizia delle donne facesse i figli certi per i padri e i padri certi per i figli.

Gli uomini infatti potrebbero nascere anche dall'uso disordinato e indiscriminato di donne qualsiasi; ma non ci potrebbe esser certezza di parentela tra i padri e i figli.

Se invece nessuno peccava e per questo nessuno anche moriva, arrivato alla sua pienezza il numero dei santi, quanto bastava al secolo futuro, finiva il secolo presente, dove c'era la facoltà di non peccare e di peccare, e succedeva l'altro secolo, dove a ciascuno era impossibile peccare.

Se infatti le anime spoglie dei corpi possono essere o misere o beate, e tuttavia non possono peccare, chi tra i fedeli negherà che nel regno di Dio, dove ci sarà un corpo incorruttibile che non appesantirà l'anima ma l'adornerà, né avrà più bisogno di alimenti, ci sarà un tale stato d'animo che di nessuno possa esserci alcun peccato, ottenendo ciò non una volontà nulla, ma una volontà buona?

Il Signore dunque dove disse parlando della risurrezione: Non prenderanno né marito né moglie, perché non moriranno più, non lo disse per indicare l'istituzione delle nozze a causa di quelli che muoiono, ma perché, completo il numero dei santi, non c'era più bisogno che qualcuno nascesse dove nessuno doveva più morire.

Ma, tu dici, si asserisce e dal libro della " Sapienza" e dalla opinione di molti che Adamo a seguito della sua emendazione sia stato purificato dal suo delitto, e, tuttavia, dici, morì, perché sapessimo che la morte del corpo non appartiene al castigo di quel peccato, bensì alle istituzioni della natura.

Come se viceversa Davide non abbia così bene espiato con il pentimento quelle due gravi scelleratezze, ossia l'adulterio e l'omicidio, da attestargli lo stesso profeta, che lo aveva atterrito, la concessione del perdono, e tuttavia leggiamo che susseguirono i castighi minacciati da Dio, perché intendiamo che quel perdono giovò a sottrarre l'uomo, che aveva commesso mali tanto gravi, al supplizio eterno meritato per quei peccati.

C'era dunque anche per il primo uomo un interesse al quale giovasse la penitenza: ossia che lo punisse una pena diuturna, non tuttavia una pena eterna.

Per questo avvenne, com'è giustissimo credere, che il suo figlio, ossia il Signore Gesù in quanto uomo, quando discese negli inferi, lo sciogliesse dai vincoli della morte.

Allora infatti si deve intendere che Adamo secondo il libro della Sapienza sia stato condotto fuori dal suo delitto.

Ciò quel libro non lo ha detto come fatto, ma lo ha predetto come futuro, benché per mezzo di una forma verbale di tempo passato.

Dice infatti così: Lo liberò dalla sua caduta, ( Sap 10,2 ) allo stesso modo in cui è stato detto: Hanno forato le mie mani, ( Sal 22,17 ) e tutti gli altri eventi che ivi si dicono futuri con forme verbali di tempo passato.

Così e avvenne che con la morte del corpo scontasse la pena temporale per il peccato, e si ottenne in qualche modo che con la penitenza sfuggisse alla pena sempiterna: dove la grazia di Dio che lo liberò valse più del merito di lui che si pentì.

Non c'è donde tu possa ripararti dall'impeto della verità che in pienissima luce ti rovescia a terra con le tue macchine e non ti permette per nessunissima ragione di mettere dentro al paradiso di Dio e le morti e le innumerevoli malattie, piene di sofferenze mortifere.

Credi a Dio che dice: In qualunque giorno mangerete di esso, certamente morirete. ( Gen 2,17 )

Cominciarono appunto a morire in quel giorno nel quale, allontanati dall'albero della vita che, collocato certamente in un luogo materiale, somministrava la vita materiale, contrassero la necessità della morte e la sua condizione.

Sono senza dubbio parole tue le espressioni i danni della morte e la morte avara.

Almeno coteste tue parole, tanto dure e orrende, ti ammonissero a risparmiare il paradiso di Dio!

Ma ti offende forse così tanto il celebratissimo luogo dei beati che da te sia mandata in esso anche la morte, e dannifica e avara?

O nemici della grazia di Dio, o nemici del paradiso di Dio, fin dove potrete spingervi ancora di più che riempire di amarissime pene la dolcezza delle sante delizie e volere che il paradiso non sia nient'altro che una geenna minore?

Indice

36 Sopra 2,189.190
37 Iuvenal., Sat. 5, 119