La Trinità

Indice

Libro XIII

1.1 - Scopo del presente libro

Nel libro precedente di quest'opera, il dodicesimo, ci siamo sufficientemente impegnati a distinguere la funzione dell'anima razionale che si occupa delle cose temporali, campo in cui si esercita non solo la nostra conoscenza, ma anche la nostra azione, da quella più nobile della nostra anima, che si dedica alla contemplazione delle cose eterne e si esaurisce nella sola conoscenza.

Ma tuttavia ritengo cosa più profittevole inserire un testo della Sacra Scrittura da cui si possa comprendere con più facilità la distinzione dell'una dall'altra.

1.2 - Nel prologo del Vangelo di Giovanni alcune affermazioni riguardano la scienza, altre la sapienza

Giovanni evangelista ha iniziato il suo Vangelo con queste parole: In principio il Verbo era, e il Verbo era presso Dio, e il Verbo era Dio: egli era in principio presso Dio.

Tutto è stato fatto per mezzo di lui e senza di lui nulla è stato fatto.

Ciò che è stato fatto in lui era vita e la vita era la luce degli uomini e la luce risplende nelle tenebre, e le tenebre non l'hanno compresa.

Ci fu un uomo mandato da Dio il cui nome era Giovanni.

Egli venne come testimone, per rendere testimonianza alla luce, affinché tutti credessero per mezzo di lui.

Non era lui la luce, ma venne per rendere testimonianza alla luce.

Esisteva la vera luce che illumina ogni uomo che viene in questo mondo.

Egli era nel mondo e il mondo fu fatto per mezzo di lui ma il mondo non lo conobbe.

Venne in casa propria e i suoi non lo ricevettero.

Ma a quanti lo accolsero dette il potere di divenire figli di Dio, ai credenti nel suo nome, i quali non dal sangue, né dalla volontà della carne, ma da Dio sono nati.

E il Verbo si è fatto carne ed abitò fra noi.

E noi abbiamo contemplato la sua gloria, gloria come di Unigenito dal Padre, pieno di grazia e di verità. ( Gv 1,1-14 )

In questo passo del Vangelo, che ho citato per intero, le prime righe si riferiscono all'immutabile ed all'eterno, la cui contemplazione ci rende beati; le righe seguenti invece mescolano, nel loro insegnamento, l'eterno con il temporale.

Perciò qui alcune cose riguardano la scienza, altre la sapienza, secondo la distinzione che noi abbiamo fatto precedentemente nel libro dodicesimo.

Infatti queste espressioni: In principio il Verbo era, e il Verbo era presso Dio e il Verbo era Dio; egli era in principio presso Dio.

Tutto è stato fatto per mezzo di lui e senza di lui nulla è stato fatto.

Ciò che è stato fatto in lui era vita e la vita era la luce degli uomini e la luce splende nelle tenebre e le tenebre non l'hanno compresa, ( Gv 1,1-5 ) si richiamano alla vita contemplativa e sono accessibili solo all'intelligenza spirituale.

Quanto più uno progredirà in questo campo, tanto più diverrà, senza alcun dubbio, sapiente.

Ma queste parole: La luce risplende nelle tenebre e le tenebre non l'hanno compresa, mostrano che era necessaria la fede per credere ciò che non si vedeva. ( Gv 20,29 )

Perché, con la parola "tenebre", volle significare i cuori dei mortali che si erano distolti da questa luce ed erano incapaci di vederla. Per questo continua ed afferma: Vi fu un uomo mandato da Dio, il cui nome era Giovanni.

Egli venne come testimone per rendere testimonianza alla luce, affinché tutti credessero per mezzo di lui. ( Gv 1,6-7 )

Questo è accaduto nel tempo ed appartiene alla scienza, oggetto di conoscenza storica.

Ma noi ci rappresentiamo con l'immaginazione l'uomo Giovanni grazie a quella conoscenza della natura umana che è compresa nella nostra memoria.

E questa rappresentazione è identica per tutti, sia che credano, sia che non credano a tutto ciò che il testo afferma.

Infatti sia agli uni che agli altri è noto che cosa sia l'uomo; la parte esteriore dell'uomo, cioè il corpo, l'hanno vista per mezzo degli occhi del corpo; la parte interiore invece, cioè l'anima, la conoscono in se stessi, perché anch'essi sono uomini, e per mezzo delle relazioni che intrattengono con gli altri uomini.

Dunque possono rappresentarsi ciò che significano queste parole: Vi fu un uomo il cui nome era Giovanni, perché sanno anche che cosa sono i nomi a forza di pronunciarli o udirli pronunciare.

Ma ciò che è aggiunto: mandato da Dio, è una affermazione che accolgono quelli soltanto che l'accolgono con la fede, e quelli che non l'accolgono con la fede, o il loro dubbio li impedisce di pronunciarsi, o se ne burlano con la loro incredulità.

Sia gli uni che gli altri, tuttavia, a meno che non appartengano al numero di coloro che troppo insensati dicono nel loro cuore: Non c'è Dio, ( Sal 14,1; Sal 53,1 ) udendo queste parole, pensano a ciò che è Dio, e ciò che è venire inviato da Dio; e se non pensano queste cose come sono in realtà, le pensano di certo come possono.

1.3 - Come vediamo la fede che esiste in noi

Ma conosciamo in un altro modo la fede che ciascuno vede nel suo cuore, se crede, o non vede, se non crede.

Non la conosciamo come conosciamo i corpi che vediamo con gli occhi del corpo ed ai quali pensiamo, anche quando non sono presenti, grazie alle loro immagini impresse nella memoria, né come conosciamo quelle cose che non abbiamo visto e delle quali, a partire dalle cose viste, ci formiamo un'idea approssimativa, che affidiamo alla memoria al fine di ricorrere ad essa quando vogliamo, per contemplare, ricordandocene, con maggiore o minore esattezza queste cose o, meglio, le loro immagini più o meno fedeli; non la conosciamo nemmeno come conosciamo un uomo vivente, perché, sebbene non abbiamo visto la sua anima, ce ne facciamo un'idea a partire dalla nostra e, interpretando i movimenti del corpo di questo uomo, come abbiamo appreso per mezzo degli occhi che è un uomo vivente, lo intuiamo anche con il pensiero.

Non così è vista la fede nel cuore, in cui è, da colui al quale appartiene, ma la vede con una scienza indubitabile e la coscienza proclama la sua esistenza.

Sebbene dunque ci sia comandato di credere, perché non possiamo vedere ciò che ci è comandato di credere, tuttavia la fede stessa, quando è in noi, la vediamo in noi, perché la fede è presente, anche quando concerne cose assenti; è interiore, anche quando concerne cose esteriori; si vede, anche quando concerne cose che non si vedono.

E tuttavia la fede incomincia ad esistere nel cuore degli uomini ( Gv 20,27 ) ad un certo momento del tempo; e se da credenti diventano increduli, essa scompare e li abbandona.

A volte poi la fede si applica anche a cose false; ci accade di dire infatti: "Ha creduto questo, ma la sua fede lo ha ingannato".

Una tale fede, ammesso che questa si debba chiamar fede, scompare dai cuori senza che vi sia colpa, quando la scaccia la scoperta della verità.

Invece è cosa desiderabile che la fede prestata alle cose vere passi alla realtà di queste cose, perché non si deve dire che la fede perisce quando si vedono le cose che si credevano.

Ma forse che bisogna chiamarla ancora fede, se nell'Epistola agli Ebrei la fede è stata definita ed è detto che essa è la certezza delle cose che non si vedono? ( Eb 11,1 )

1.4 - Nella narrazione di Giovanni vi sono cose che si conoscono coi sensi, altre con la ragione

Ecco ora il seguito del testo: Egli venne come testimone, per rendere testimonianza alla luce, affinché tutti credessero per mezzo di lui, ( Gv 1,7 ) riguarda, come abbiamo detto, un'azione temporale.

Infatti è nel tempo che si rende testimonianza sia pure di una realtà eterna, come è la luce intelligibile.

È per rendere testimonianza a questa luce che venne Giovanni, il quale non era la luce, ma venne per rendere testimonianza alla luce. ( Gv 1,8 )

Infatti l'Evangelista prosegue: Esisteva la vera luce che illumina ogni uomo che viene in questo mondo.

Egli era nel mondo ed il mondo è stato fatto per mezzo di lui, ma il mondo non lo conobbe.

Venne in casa propria e i suoi non lo ricevettero. ( Gv 1,9-11 )

Tutti coloro che sanno la lingua latina comprendono il senso di queste parole a partire dalle cose che sanno.

Alcune di queste cose abbiamo conosciuto per mezzo dei sensi che appartengono al corpo, per esempio l'uomo, il mondo, la cui immensità vediamo con tanta evidenza, e ancora i suoni di queste parole, perché anche l'udito è un senso del corpo.

Altre fra queste cose conosciamo per mezzo della ragione che appartiene all'anima, come l'espressione: i suoi non lo ricevettero; infatti si capisce che significa: "non credettero in lui", e ciò che questa espressione vuol dire non lo conosciamo per mezzo di alcun senso che appartiene al corpo, ma per mezzo della ragione che appartiene all'anima.

Anche per quanto riguarda le parole, non i loro suoni, ma il loro significato, lo abbiamo appreso in parte per mezzo dei sensi del corpo, in parte per mezzo della ragione che appartiene all'anima.

Né abbiamo udito queste parole ora per la prima volta, ma le avevamo già udite, e non solo di esse, ma anche del loro significato, conservavamo la conoscenza nella memoria, ed è là che li abbiamo riconosciuti.

Pronuncio, per esempio, mondo, questa parola di due sillabe: poiché è un suono, è una realtà materiale che è conosciuta per mezzo del corpo; in questo caso per mezzo dell'orecchio, ma anche il suo significato è conosciuto per mezzo del corpo, in questo caso per mezzo degli occhi della carne.

Perché il mondo, nella misura in cui è conosciuto, è conosciuto da coloro che lo vedono.

Per quanto riguarda la parola di quattro sillabe: "credettero", il suo suono, poiché è materiale, penetra attraverso il nostro orecchio di carne, ma il suo significato non è conosciuto da alcun senso che appartiene al corpo, ma dalla ragione che appartiene all'anima.

Se infatti non conoscessimo per mezzo dell'anima che cosa significhi "credettero", non comprenderemmo che cosa si siano rifiutati di fare coloro dei quali è detto: E i suoi non lo ricevettero. ( Gv 1,11 )

Dunque il suono della parola risuona dal di fuori agli orecchi del corpo, e attinge il senso che si chiama udito.

Anche la forma dell'uomo è, da una parte, conosciuta da noi in noi stessi; dall'altra, nella persona degli altri, si presenta dall'esterno ai sensi corporei: agli occhi, quando si vede, agli orecchi quando si sente, al tatto quando si tiene o si tocca; essa ha anche la sua immagine nella nostra memoria, immagine immateriale di certo, ma simile al corpo.

Infine la bellezza mirabile del mondo stesso si presenta a noi dal di fuori sia ai nostri sguardi che a quel senso che chiamiamo tatto, quando tocchiamo un oggetto di questo mondo.

Esiste, all'interno, nella nostra memoria, anche una immagine di esso, alla quale ricorriamo, quando lo pensiamo, circondati da mura o nelle tenebre.

Ma di queste immagini delle cose corporee, immagini immateriali certo, ma che hanno somiglianza con i corpi, ed appartengono alla vita dell'uomo esteriore, abbiamo parlato già a sufficienza nel libro undicesimo.

Ora trattiamo dell'uomo interiore e della sua scienza che concerne le cose temporali e mutevoli.

Quando l'uomo interiore porta la sua attenzione su qualcosa, sia pure una cosa tra quelle che appartengono all'uomo esteriore, deve farlo per trarne qualche insegnamento che possa arricchire la conoscenza razionale: e per questo l'uso razionale delle cose, cose che abbiamo in comune con gli animali privi di ragione, appartiene all'uomo interiore e si ha torto a dire che esso ci è comune con gli animali privi di ragione.

2.5 - La fede appartiene all'uomo interiore; in che senso c'è una sola fede in tutti i credenti

La fede poi, della quale siamo costretti a trattare assai lungamente in questo libro, per l'ordine logico del nostro ragionamento, la fede che fa credenti quelli che la possiedono, infedeli quelli che non la possiedono - come questi che non ricevettero il Figlio di Dio che veniva in casa propria ( Gv 1,9-11 ) -, benché si produca in noi per mezzo dell'udito, tuttavia non appartiene a quel senso del corpo che si chiama udito, perché non è un suono; né agli occhi di questa carne, perché non è né un colore, né una forma corporea; né al senso che si chiama tatto, perché è priva di corpulenza; né appartiene assolutamente ad alcun senso corporeo, perché è una cosa del cuore, non del corpo; essa non è al di fuori di noi, ma nell'intimo di noi stessi; nessun uomo la vede in un altro, ma ciascuno in se stesso.

Infine si può sia fingere di averla, sia pensare che esista in chi non l'ha.

Pertanto ciascuno vede la propria fede in se stesso, negli altri crede che esista, ma non la vede, e lo crede tanto più fermamente quanto meglio ne conosce i frutti, che la fede di solito produce per mezzo della carità. ( Gal 5,6 )

Ecco perché la fede è comune a tutti coloro di cui l'Evangelista dice dopo, continuando: ma a quanti lo accolsero, dette il potere di diventare figli di Dio, ai credenti nel suo nome i quali non dal sangue, non dalla volontà della carne, ma da Dio sono nati. ( Gv 1,12-13 )

È comune, non come una forma corporea è comune allo sguardo di tutti coloro ai quali è presente, perché in questo caso si tratta di un solo oggetto che, in qualche modo, informa lo sguardo di tutti coloro che lo vedono, ma nel senso in cui si può dire che il viso umano è comune a tutti gli uomini; infatti questa affermazione si intende nel senso che ogni uomo ha il suo proprio viso.

Certamente affermiamo con piena verità che la fede impressa nel cuore di ciascuno di coloro che credono - di coloro che credono questa identica cosa - proceda da un'unica dottrina, ma una cosa è ciò che si crede, altra cosa la fede con cui si crede.

Ciò che essi credono si trova nelle realtà presenti, passate o future, la fede invece è nel cuore di chi crede e non è visibile che a colui che crede; sebbene si trovi anche negli altri, essa non è la stessa fede, ma una fede simile.

Infatti non è una nel numero, ma nel genere; tuttavia, in ragione della somiglianza e dell'assenza totale di diversità, preferiamo dire che c'è una sola fede piuttosto che molte.

Infatti, quando vediamo due uomini estremamente somiglianti, noi diciamo: "hanno un solo viso", e ce ne meravigliamo.

Ecco perché è facile dire che erano numerose le anime - ciascuna propria ad ogni individuo - riguardo a coloro di cui leggiamo negli Atti degli Apostoli che avevano una sola anima, ma quando l'Apostolo parla di una sola fede ( At 4,32; Ef 4,5 ) è più difficile ed è cosa più audace dire che c'erano tante fedi quanti i credenti.

Ma quando Cristo dice: O donna, grande è la tua fede, ( Mt 15,28 ) ed ad un altro: Uomo di poca fede, perché hai dubitato? ( Mt 14,31 ) esprime con questo che ciascuno ha una fede che gli è propria. ( Ef 4,5 )

Ma si dice che coloro che credono le stesse cose hanno una sola fede, allo stesso modo che coloro che vogliono le stesse cose hanno una sola volontà, benché ciascuno di coloro che vogliono una stessa cosa, veda la sua propria volontà, ma non veda quella dell'altro, sebbene voglia la stessa cosa;1 e, se la volontà di quest'ultimo si riveli per mezzo di certi segni, la si crede, ma non la si vede. ( Is 7,9b; Gv 20,29 )

Invece ciascuno, con la conoscenza che ha di se stesso, non crede affatto che questa è la sua volontà, ma la vede con piena chiarezza.

3.6 - Alcune volontà comuni a tutti

Fra i viventi dotati di ragione è tale l'armonia della identica natura che, sebbene uno ignori quello che un altro vuole, vi sono tuttavia alcune volontà comuni a tutti che sono conosciute da ciascuno anche considerato individualmente.

E, benché ciascun uomo ignori ciò che voglia un altro determinato uomo, può sapere, in certe cose, che cosa vogliano tutti.

Di qui quella burla graziosa che si attribuisce ad un certo mimo; egli aveva promesso che nelle rappresentazioni successive avrebbe detto nel teatro ciò che tutti pensavano e volevano.

Nel giorno fissato la folla affluì nel teatro, più numerosa che mai, spinta da una grande curiosità, e si narra che nella silenziosa aspettativa generale il mimo abbia detto: Volete comprare a basso prezzo, vendere a caro prezzo.2

In questa espressione di un buffone, tutti gli spettatori riconobbero tuttavia ciò che stava al fondo del loro pensiero: aveva loro rivelato una verità evidente agli occhi di tutti, e tuttavia inattesa, e perciò lo applaudirono con grandissimo entusiasmo.

Ma perché una così grande attesa all'annuncio che egli avrebbe detto quale era la volontà di tutti, se non perché le volontà degli altri uomini sfuggono a ciascuno di noi?

Ma quella volontà era forse sconosciuta al mimo? È essa forse sconosciuta a qualsiasi uomo?

E quale ne è il motivo, se non che vi sono delle cose che ciascuno, senza rischio, può congetturare negli altri in base alla propria esperienza, in virtù di una comunanza di sentimenti e di aspirazioni dovuti ai vizi e alla natura?

Ma una cosa è vedere la propria volontà, altra congetturare quella di un altro, benché con una congettura ben fondata.

Così nelle cose umane sono tanto certo della fondazione di Roma come di quella di Costantinopoli, e tuttavia ho visto Roma con i miei occhi, mentre non so nulla di Costantinopoli, se non perché presto fede alla testimonianza di altri.

Quanto al mimo è la coscienza che aveva di sé o anche l'esperienza che aveva degli altri, che gli fece credere che acquistare a buon prezzo e vendere a caro prezzo era una volontà comune a tutti.

Ma, poiché di fatto è una inclinazione viziosa, ciascuno può, o acquistando su questo punto il senso della giustizia, o subendo il contagio di qualche vizio contrario a quello, resistere a questa inclinazione e vincerla.

Io stesso conosco un uomo che, essendogli stato offerto un libro in vendita, vedendo che il venditore ne ignorava il prezzo, e perciò gli chiedeva un prezzo irrisorio, gli dette il giusto prezzo, che era molto maggiore, senza che questi se l'aspettasse.

E che dire se c'è un uomo talmente pervertito da vendere a basso prezzo ciò che gli hanno lasciato i genitori per comprare a caro prezzo ciò di cui nutrire le sue passioni?

A mio avviso questo eccesso non ha nulla di incredibile; se si cercano, si trovano e forse si incontreranno anche senza cercarli, degli uomini che, per una nequizia ancora maggiore di quella di cui parlava il mimo, smentiscano persino in modo insolente la promessa e la dichiarazione da lui fatta in teatro, comprando a caro prezzo i loro stupri, vendendo a basso prezzo i loro poderi.

Conosciamo anche uomini che, per generosità, comprarono il grano a prezzo più alto per venderlo a prezzo più basso ai loro concittadini.

Lo stesso quando l'antico poeta Ennio dice: Tutti i mortali desiderano essere lodati;3 non c'è dubbio che ha supposto negli altri l'esistenza di un sentimento che aveva sperimentato in se stesso e in quelli che aveva conosciuto e così sembra aver espresso una volontà comune a tutti gli uomini.

Se anche il mimo avesse detto: "Tutti volete essere lodati, nessuno di voi vuole essere biasimato"4 sembra ugualmente che avrebbe espresso quella che è la volontà di tutti.

Ci sono tuttavia degli uomini che odiano i loro vizi, e per essi dispiacciono a se stessi, né vogliono essere lodati dagli altri e sono grati alla benevolenza di coloro che li criticano, perché il biasimo li spinge a correggersi.

Ma se il mimo avesse detto: "Tutti volete essere beati, non volete essere infelici",5 avrebbe affermato un qualcosa che nessuno non può non scoprire nel fondo della sua volontà.

Qualsiasi altra cosa voglia nel segreto del suo cuore, nessuno può esimersi da questa volontà sufficientemente conosciuta da tutti e presente in tutti gli uomini.

4.7 - Tutti aspirano alla beatitudine, ma la concepiscono in maniera differente

È strano però che, essendo presente in tutti gli uomini questa identica volontà di attingere e possedere la beatitudine, ci sia al contrario tanta varietà e diversità di voleri nei riguardi della stessa beatitudine,6 non perché ci sia qualcuno che non la vuole, ma perché non tutti la conoscono.

Se infatti tutti la conoscessero, gli uni non la riporrebbero nella virtù dell'anima, gli altri nel piacere del corpo, altri nell'una e nell'altro; altri in questo, altri in quello.7

Infatti ciascuno ha fatto consistere la vita beata in quella cosa che gli procurava maggior diletto.

Come dunque tutti amano in modo così fervente ciò che non tutti conoscono?

Chi può amare ciò che ignora? Abbiamo già discusso su tale argomento nei libri precedenti.

Perché dunque tutti amano la beatitudine, ma non tutti la conoscono?

Sarà forse che tutti sanno che cosa essa sia, ma non sanno dove si trovi, e da qui scaturirebbe la diversità di opinioni?

È come se si trattasse di un luogo di questo mondo, in cui dovrebbe voler vivere ognuno che voglia essere beato e non si cercasse dove sia la beatitudine, come si cerca che cosa essa sia.

Perché, certamente, se la beatitudine consiste nel piacere del corpo, è beato colui che fruisce del piacere del corpo, se consiste nella virtù dell'anima, è beato colui che fruisce di questa; se nell'uno e nell'altra, lo è chi fruisce dell'uno e dell'altra.

Dunque quando uno dice: "Vivere beatamente è fruire del piacere del corpo"; un altro invece: "Vivere beatamente è fruire della virtù dell'anima"; non bisogna concludere che tutti e due ignorano, o non sanno tutti e due che cosa sia la vita beata?

Ma allora come possono ambedue amarla, se nessuno può amare ciò che ignora?

O è forse falso ciò che abbiamo affermato come verità assoluta ed inconcussa, cioè che tutti gli uomini vogliono vivere felici?8

Se infatti vivere felici è, per esempio, vivere in conformità alla virtù dell'anima, come può voler vivere felice colui che non vuole vivere in conformità alla virtù?

Non sarebbe più giusto dire: "Quest'uomo non vuol vivere felice, perché non vuol vivere in conformità alla virtù, che è la sola maniera di vivere felici?".

Dunque non tutti vogliono vivere felici, anzi pochi lo vogliono, se vivere felici consiste unicamente nel vivere in conformità alla virtù dell'anima, cosa che molti non vogliono.9

Sarebbe dunque falsa l'affermazione di cui lo stesso famoso accademico Cicerone non dubitò ( mentre gli Accademici dubitano di tutto ), quando, volendo porre come punto di partenza della discussione, nel suo dialogo intitolato: "Ortensio", una certezza che nessuno potesse contestare, scrisse: È certo che tutti vogliamo essere beati?10

Lungi da noi il dire che questo è falso.

Che dobbiamo allora pensare? Bisognerà dire che vivere felici non è altro che vivere in conformità alla virtù dell'anima e che, tuttavia, anche colui che non vuole vivere virtuosamente, vuole vivere felice?

Questa sembra una affermazione troppo assurda.

È infatti come se dicessimo: "Anche colui che non vuol vivere felice, vuol vivere felice".

Chi potrebbe accettare, tollerare questa contraddizione?

E tuttavia si è ad essa costretti per forza di cose, se da una parte è vero che tutti vogliono vivere felici, e d'altra parte non tutti vogliono vivere nel modo che solo permette di vivere felici.

5.8 - È beato solo colui che ha ciò che vuole e non vuole nulla di male

Ma forse un rilievo ci farà uscire da questo vicolo cieco: poiché, come abbiamo detto, ciascuno ha riposto la vita beata in ciò che gli ha procurato il più grande diletto, come Epicuro nel piacere, Zenone nella virtù, altri in molte altre cose,11 non potremmo dire che vivere felici non è altra cosa che vivere secondo ciò che ci procura il più grande diletto e di conseguenza non è falso che tutti vogliono vivere felici,12 perché tutti vogliono vivere secondo ciò che loro procura diletto? Infatti anche in questo, se fosse stato proclamato davanti alla folla in teatro, tutti riconoscerebbero una loro aspirazione.

Ma anche Cicerone si è posto questa difficoltà e la confuta in modo da far arrossire quelli che pensano in tal modo.

Dice infatti: Ecco, non certo i filosofi, ma le persone inclini a discutere, dicono che sono beati tutti coloro che vivono come vogliono,13 che è la stessa cosa che noi dicevamo: "secondo ciò che loro procura diletto".

Ma egli aggiunge: Questo è certamente un errore.

Non c'è nulla di più misero che volere ciò che non conviene e non è cosa tanto miserevole il non conseguire ciò che si vuole, quanto il voler conseguire ciò che non bisognerebbe volere.14

Affermazione stupenda e perfettamente vera.

Chi infatti sarebbe così cieco spiritualmente, così estraneo alla luce del bene, così avviluppato nelle tenebre del male da chiamare felice, perché vive come vuole, colui che vive nella nequizia e nella vergogna e che, senza che alcuno né lo impedisca, né lo punisca, senza che ci sia nessuno che almeno osi riprenderlo, anzi per di più lodato dai più ( perché, secondo l'affermazione della divina Scrittura: Si glorifica il peccatore per i desideri della sua anima e colui che compie il male è applaudito ), ( Sal 10,3 ) compie le sue più criminali e più infami volontà, quando la sua miseria, pur rimanendo egli misero, sarebbe minore, se non avesse potuto conseguire ciò cui aspira la sua volontà perversa?

Infatti anche la volontà cattiva, da sola, rende misero l'uomo, ma il potere di compiere il desiderio di una volontà cattiva lo rende ancora più misero.

Perciò, poiché è vero che tutti gli uomini vogliono essere beati, che questo è il solo fine cui aspirano con un amore ardentissimo, e in vista di questo desiderano anche tutte le cose, e, d'altra parte, nessuno può amare ciò di cui ignora del tutto la natura e la qualità e nessuno può ignorare la natura di ciò che sa di volere, ne consegue che tutti sanno che cos'è la vita beata.

Ora tutti coloro che sono felici hanno ciò che vogliono, sebbene non tutti coloro che hanno ciò che vogliono siano necessariamente felici; ma sono necessariamente infelici coloro che o non hanno ciò che vogliono, o hanno ciò che non desiderano rettamente.

Non è dunque beato se non colui che nello stesso tempo ha tutto ciò che vuole e non vuole nulla di male.

6.9 - La prima condizione della beatitudine: vivere in conformità al bene

Se dunque la vita beata consta di questi due elementi, è da tutti conosciuta, da tutti amata, come si spiega che, quando non possono possedere queste due cose insieme, gli uomini preferiscono possedere tutto ciò che vogliono piuttosto di volere tutto con una volontà buona, anche se dovessero non possederlo?

O è così grande la depravazione del genere umano che, sebbene sappiano gli uomini che non è beato colui che non possiede ciò che vuole, né colui che possiede ciò che vuole in maniera colpevole, ma solo colui che nello stesso tempo ha tutti i beni che vuole e non vuole nulla in maniera colpevole, quando manchi uno dei due fattori che sono essenziali alla vita beata, si scelga di preferenza ciò che ci allontana di più dalla vita beata ( perché è più lontano dalla vita beata chiunque consegua ciò che desidera in maniera colpevole, di colui che non consegua ciò che desidera ), quando si sarebbe dovuto piuttosto scegliere ed anteporre a tutto la volontà buona, anche se non consegue ciò che desidera?

È prossimo alla beatitudine infatti colui che vuole con volontà buona tutto ciò che vuole e che, una volta che l'avrà conseguito, sarà beato.

È evidente che non è il male, ma il bene che causa la felicità dell'uomo felice, nel momento in cui la causa.

Possiede qualcosa di questo bene, qualcosa che non è di poco valore, cioè la stessa buona volontà, colui che desidera trovare la sua gioia nelle cose buone di cui è capace l'umana natura e non nel compiere e possedere qualcosa di male e quei beni, beni quali possano già esistere in questa misera vita, li persegue con prudenza, temperanza, forza e giustizia interiore e li attinge, nella misura che gli è concessa, in modo da essere buono anche in mezzo ai mali e da essere beato una volta che saranno cessati tutti i mali e tutti i beni avranno raggiunto la loro pienezza.

Indice

1 Sallustio, Catil. 20, 4
2 Mimo incerto, fragm. 12 (ed. Ribbeck)
3 Ennio, Ann fragm. 10 (ed Vahlen);
Agostino, Ep. 231, 3
4 Cicerone, De rep. 4, fragm. 10, 12 (Agostino, De civ. Dei 2,9 );
De fin. bon. mal. 5, 22, 61;
Agostino, Serm. D.ni in monte 2, 1, 1
5 Cicerone, Hort., exord., fragm. 36;
Tuscul. 5, 10, 28;
Agostino, C. Acad. 1, 2, 5: NBA, III/1;
De b. vita 2, 10: NBA, III/1;
De lib. arb. 2, 9, 27
6 Seneca, Vit. beat. 1, 1;
Epicuro, Ep. ad Menoec., in Diogene Laerzio, Vir. ill. 10
7 Cicerone, De fin. bon. mal., passim ;
Zenone, Epicuro
8 Seneca, Vit. beat. 1, 1
9 Cicerone, De fin. bon. mal., passim
10 Cicerone, Hort., exord., fragm. 36 (ed. Müller, p. 316)
11 Epicuro, Ep. ad Menoec., in Diogene Laerzio, Vir. ill. 10
12 Seneca, Vit. beat. 1, 1
13 Cicerone, Hort., fragm. 39 (ed. Müller, p. 317)
14 Ibid