Per un umanesimo del terzo millennio  

Indice

Un breve percorso storico: da Pio IX a Giovanni Paolo II

Una volta chiariti il fine e le intenzioni proprie del Magistero si è voluto delineare brevemente alcune delle principali tappe storiche lungo le quali esso ha assunto la propria fisionomia.

Fermarsi ad indicare i momenti storici e i passi del Magistero ad essi corrispondenti, senza avere qui la pretesa di esaurire il discorso da un punto di vista storico, risulta infatti imprescindibile se si vuole capire cosa sia la dottrina sociale della chiesa.

Solitamente nell'affrontare la questione delle origini storiche della dottrina sociale si usa partire dalla Rerum novarum di Leone XIII.

Si è in qualche modo individuato in questa celebre e fondamentale enciclica il documento fondamentale da cui prendere le mosse per considerare ed analizzare la presenza della Chiesa nella società moderno-contemporanea.

Indubbiamente la Rerum novarum costituisce la prima espressione in positivo dell'insegnamento della Chiesa riguardo alle problematiche sociali che si sono venute a sviluppare in epoca moderno-contemporanea.

Tuttavia, non si può comprendere adeguatamente l'insegnamento di Leone XIII, se non si parte da Pio IX ( 1846 - 1878 ).

Infatti, la caratteristica peculiare del Magistero di Leone XIII è quella di specificare il Magistero del suo predecessore in senso positivo e costruttivo.

Il ruolo decisivo di Pio IX

Pio IX ( 1846 - 1878 ) è stato il pontefice che ha rappresentato la presa di coscienza definitiva di quel progetto culturale proprio della mentalità laicista che teorizzava apertamente la scristianizzazione della società.

Egli ha percepito chiaramente che ciò che era in gioco era la stessa concezione di uomo.

Pio IX ha, cioè, capito che si voleva trasformare l'uomo attraverso la costruzione di una società europea non più cristiana, ma liberal-borghese.

È il pontefice che, preso atto di ciò, ha formulato in modo compiuto e organico, più completo di quanto non avessero fatto i suoi predecessori,193 un giudizio critico nei confronti della modernità.

Così facendo, egli ha voluto, innanzitutto, difendere la possibilità per la Chiesa di andare in missione, di essere presente anche in un mondo in cui si teorizzava apertamente un progetto di esclusione della Chiesa dalla società.

Pio IX ed in particolare all'interno del suo Magistero il Sillabo ( 1864 ),194 sono stati spesso erroneamente indicati, anche da parte di certa storiografia e teologia cattolica, come espressione di una Chiesa ormai superata, che, per la sua avversione alla modernità, al progresso, alla libertà, è bene condannare.

Tale lettura non solo risulta erronea perché evita di inquadrare storicamente il Magistero di Pio IX, ma anche perché non ne coglie l'attualità e profezia riguardo a molti di quegli aspetti di natura antropologica, teologica e filosofica decisivi per un'autentica esperienza cristiana, non a caso ripresi e sviluppati dal Magistero successivo.

Un'attenta lettura del Magistero di Pio IX rivela quanto sia erroneo giudicare la sua posizione come semplicemente reazionaria e come invece la si debba considerare per molti aspetti profetica, capace di esplicitare quelle ambiguità della modernità che il secolo successivo ha reso evidenti.

È mia convinzione, infatti, che nell'esercizio del primato di Pietro, in particolare del Magistero ordinario del vescovo di Roma, ogni presa di posizione possa essere letta a due livelli: il livello della immediatezza, della contingenza, della storicità, dell'attualità; ed il livello della profezia.

Esiste una capacità del Magistero di leggere quasi profeticamente le conseguenze ultime delle posizioni di cui discute; quindi mentre interviene sulle vicende del 1848 o del 1864, incredibilmente riesce in qualche modo a cogliere ciò che ne consegue e in qualche modo ne fornisce un'anticipazione: essendo tenuto presente in anticipo, viene quindi affermato o condannato in anticipo.

Il Sillabo è indubbiamente una condanna della modernità, ma tale condanna può essere compresa nel suo vero significato solo se si percepisce il positivo che vuole preservare.

Pio IX ha voluto evidenziare in un unico testo quelle minacce che incombevano sulla Chiesa e sull'umanità.

All'origine del Sillabo esiste quindi un'immagine di Chiesa e di umanità che si vuole difendere al fine di rendere possibile la sua crescita, il suo sviluppo.

Se si comprende ciò diventa più facile cogliere l'attualità del Sillabo e del Magistero di Pio IX; infatti, se il contesto storico è effettivamente mutato in modo rilevante, il nucleo che si intendeva salvaguardare, l'immagine della Chiesa e dell'umanità, è rimasto intatto.

Una comprensione effettiva del Sillabo e del Magistero di Pio IX deve sforzarsi di capire che cosa il Sillabo abbia voluto difendere.

Una lettura attenta del Sillabo e dell'intero Magistero di Pio IX risulta, pertanto, fondamentale per comprendere l'origine e le derive del pensiero moderno.

Si può, infatti, parlare di attualità e profezia perché Pio IX ha saputo cogliere, indicandoli come problematici, quegli aspetti che, pienamente sviluppatisi nel successivo secolo e mezzo, si sono rivelati disastrosi per l'uomo: una visione laicista e quindi antireligiosa dell'uomo e della società; una certa concezione totalitaria del potere; una falsa idea di libertà e di tolleranza svincolata dal problema della verità.

Condannando la visione laicista e antireligiosa dell'uomo e della società, Pio IX ha contestato l'ipotesi di fondo della modernità indicandola come negativa.

L'ipotesi cioè secondo la quale l'uomo è autosufficiente e si realizza con le sue sole forze rifiutando ogni dipendenza.

Anche in questo caso gli avvenimenti susseguitesi nei secoli sembrano confermare l'intuizione di Pio IX attraverso quello che De Lubac ha indicato come il dramma dell'umanesimo ateo, a cui si è esplicitamente fatto riferimento all'interno di questo lavoro parlando dell'esito inumano dell'umanesimo moderno.

La preoccupazione principale di Pio IX era quindi di carattere antropologico.

Si può dire che il Magistero di Pio IX risulti mosso dalla domanda: qual è il destino a cui va incontro l'uomo nella modernità?

Che fine fa l'uomo - non l'uomo liberale che sta combattendo la sua battaglia per realizzare la sua egemonia o l'uomo cattolico che si sta difendendo giustamente - dentro questo terribile processo di secolarizzazione, di scristianizzazione, per cui l'uomo viene pensato non solo senza riferimento alla tradizione cristiana, ma senza riferimento alla religiosità?

Pio IX ha compreso che l'uomo veniva sempre più concepito come una realtà che aveva valore in sé e per sé, chiusa a qualsiasi riferimento trascendente, padrone della sua ragione eminentemente analitico-scientifìca, padrone del suo sentimento-istinto.

Pio IX ha avuto il coraggio di dire che si stava procedendo verso l'annientamento dell'uomo.

Dunque chi legge con attenzione il Sillabo vede anticipatamente enucleato e denunciato l'esito fallimentare dell'antropologia irrealistica propria della modernità che oggi viene definito "nichilismo post-moderno".

Pio IX ha denunciato, in un certo senso profeticamente, questa orribile dimenticanza dell'uomo come persona, come capacità di vivere la propria identità, la propria avventura umana, perché, come si è già avuto modo di sottolineare, se si tolgono le radici religiose, l'uomo sprofonda nella biosfera o nella politica.

È per questo motivo che la posizione di Pio IX non è definibile innanzitutto come un tentativo di difesa della società tradizionale contro la rivoluzione sociale liberale; è piuttosto la difesa dell'uomo in quanto tale.

Inoltre, secondo la prospettiva che è risultata prevalente nella modernità, la ragione è stata affermata contro il Mistero.

Di fronte a ciò Pio IX ha quindi voluto, innanzitutto, difendere il fatto che il nesso tra coscienza umana e destino non può essere esaurito dalla ragione.

La ragione non può essere autonomamente padrona della propria esistenza.

La modernità e l'illuminismo si sono sviluppati anzitutto contro la Rivelazione, concepita come un affronto alla ragione; secondo una tale prospettiva la Rivelazione, infatti, « nuoce al perfezionamento dell'uomo ».195

Pio IX ha, invece, ribadito che la Rivelazione è una possibilità che non si può negare; anzi non c'è niente che la ragione umana desideri maggiormente.

La Rivelazione, ha voluto ribadire Pio IX, non solo non nuoce ma è l'unica vera possibilità attraverso la quale l'uomo possa comprendere fino in fondo se stesso e realizzarsi.

Del resto il Concilio Vaticano II lo ha riaffermato con decisione: Cristo ha rivelato l'uomo all'uomo, e la rivelazione non consiste solo in concetti astratti, ma nel dono ininterrotto e completo che Cristo fa della Sua persona, abbracciando la storia con la Sua presenza.

Pertanto, dalla condanna del Sillabo all'ipotesi sottesa alla modernità, che la stessa storia ha del resto condannato, emerge un'ipotesi positiva: ovvero l'ipotesi cristiana di lettura della storia.

Ipotesi che scaturisce da un avvenimento, il quale implicitamente ed esplicitamente pretende di svelare l'uomo all'uomo.

Se è solo lungo il corso del XX secolo che si realizzano regimi di stampo totalitario, la concezione del potere totalitario si è affermata nella modernità ed è stato indubbiamente grande merito di Pio IX denunciarla come negativa per l'uomo.

La proposizione XXXIX del Sillabo recita infatti: « Lo Stato, come origine e fonte di tutti i diritti, gode di un diritto tale che non ammette confini ».

Pio IX, condannandola, si è opposto all'idea di uno Stato, che pretenda di essere sciolto da ogni riferimento a realtà o norme trascendenti.

Il diritto di un tale Stato non conosce, infatti, confini, né quelli posti da Dio e dalla sua legge, né quelli posti dalla coscienza personale.

Ciò significa che esso acquisisce un potere assoluto; i diritti fondamentali dell'uomo, tanto proclamati dalla modernità, finiscono per derivare dall'essere cittadino dello Stato che non ha limiti nell'intervento sulla persona.

Secondo tale ipotesi il cittadino non è innanzitutto figlio di Dio e tanto meno il rapporto padre - fìglio può essere considerato primario.

I diritti derivano dallo Stato e il rapporto unico e vero è quello tra cittadino e Stato.

Lo Stato si presenta, dunque, come una forma totalizzante: non è in funzione della società, ma coincide con essa.

E l'abolizione della libertà, cioè l'abolizione dell'uomo.

Da questa concezione deriva il diritto dello Stato ad occuparsi di tutto, e ad intervenire in ogni ambito della vita sociale, soprattutto nell'educazione, cosicché la scuola diviene lo strumento fondamentale della diffusione dell'ideologia.

La vera autorità religiosa finisce per essere l'autorità statale; ecco spiegato anche il tentativo dello Stato moderno di assorbire la Chiesa.

Lo Stato, secondo questa ipotesi, dunque, diviene l'unico soggetto sociale e distribuisce diritti e doveri in base alla propria convenienza.

Per Pio IX occorreva prendere coscienza di questo progetto culturale laicista per organizzare un confronto che evitasse l'assorbimento della Chiesa nello Stato, secondo quanto il laicismo liberale si proponeva attraverso la cosiddetta separazione dei poteri.

Nell'enciclica Quanta cura evidenziava l'inconciliabilità radicale tra cattolicesimo e laicismo, denunciando il fatto che l'assolutizzazione della società politica, ovvero la costruzione della società prescindendo dalle fondamentali esigenze religiose dell'uomo e dalla presenza dell'avvenimento cristiano, avrebbe finito per ridurre la vita sociale ad un meccanismo violento di tipo materialistico.196

Per quanto riguarda la posizione di Pio IX riguardo alla libertà si è già detto in parte precedentemente, affrontando il tema della libertà religiosa.

La sua posizione è stata tutta tesa a condannare una certa accezione della libertà, contraria allora come oggi all'esperienza della libertà vissuta nel cristianesimo.

Pio IX ha condannato il liberalismo perché ha ritenuto che non fosse possibile scendere a compromessi con esso in quanto troppo profondamente segnato in senso ideologico.197

Nel liberalismo, almeno così come si impone nella tradizione occidentale ottocentesca, si assiste ad una corruzione della libertà.

La corruzione della libertà che non si rapporta alla persona e al suo cammino verso il vero, il bene, il bello e il giusto.

La libertà è stata, infatti, intesa come espressione di una soggettività assoluta: l'uomo è libero perché può fare quello che gli pare e piace; l'uomo è libero perché pensa quello che vuole e la verità è ridotta ad un aspetto della sua libera espressione.

Non bisogna dimenticare che tale tendenza culturale non è qualcosa che riguarda solo il liberalismo dell'ottocento.

Questa corruzione della libertà, che ha originato un certo modo di intendere il liberalismo,198 contende lo spazio alla libertà nel cuore di ciascuno uomo.

La prima cosa dunque da capire è che nessuno di noi è immune da questa orrenda tentazione di concepire la libertà come espressione istintiva della nostra soggettività, la quale non è chiamata ad obbedire a nessuno e a niente.

Agostino ha descritto ciò attraverso l'immagine della città di Dio e della città dell'uomo: l'uomo può organizzare la città, la dimensione sociale che è naturalmente chiamato a vivere, a partire della grande apertura al Mistero che sottende ogni cosa, oppure dalla grande tentazione dell'uomo di agire contro di Dio, di affermare se stesso e il proprio potere contro Dio.

Pio IX ha denunciato il divenire cultura, progetto sistematico di questa tentazione all'interno della modernità.

La libertà come espressione del proprio potere è ciò a cui porta tale prospettiva.

La parola potere è una delle più tremende che hanno influito sulla vita dei singoli e della realtà sociale e politica negli ultimi secoli in maniera drammatica, tragica.

Di fronte a questa corruzione della libertà, Pio IX ha cercato di difendere l'esperienza originale della libertà come adesione al vero.

Pio IX ha difeso quindi non una libertà affermata astrattamente secondo una formulazione corrotta, ma una libertà concretamente vissuta all'interno dell'esperienza ecclesiale.

Ecco perché il suo pontificato, la sua azione magisteriale ha avuto come obbiettivo fondamentale la difesa della Chiesa come popolo nella sua azione missionaria.

Non bisogna dimenticare che Papa Pio IX ha creato centinaia di missioni, centinaia di diocesi in Paesi di missione; ha recuperato all'unità della Chiesa la Chiesa Inglese, restaurando l'episcopato in Inghilterra; è stato insonne nel dare alla Chiesa del suo tempo, per il tempo futuro, la coscienza della sua identità e della sua responsabilità.

È da questo enorme impeto missionario di Pio IX, che discende dall'esperienza di vita e dalla cultura del popolo cristiano, che ha origine la dottrina sociale della Chiesa, come difesa della libertà della Chiesa, dell'uomo e dei popoli.

Con il Magistero di Pio IX non si chiude il discorso sulle esigenze vere della modernità, ma si pongono le condizioni per un dialogo serio e paritetico con la modernità.

L'insegnamento di Pio IX non ha voluto condannare la modernità in maniera assoluta, ma semplicemente dire che per essere realmente moderni, non si deve essere anti-cristiani.

Il Magistero successivo ha avuto il compito di mostrare ed indicare come si possa essere cristiani e moderni, se la modernità, con la sua autentica esigenza di partecipazione, il suo forte desiderio di sviluppo integrale della personalità, rinuncia alla prospettiva laicista condannata da Pio IX.

Non esiste quindi rottura nello sviluppo del Magistero, da Pio IX fino a Giovanni Paolo II, quanto un continuo e sistematico approfondimento.

Per Pio IX, come per Giovanni Paolo II, come per tutti i Papi che si inseriscono in questa traiettoria, l'essenziale è il ritorno a Gesù Cristo redentore dell'uomo, centro del cosmo e della storia.

Leone XIII e la « Rerum novarum »

Il Magistero che più si è impegnato di fronte alla modernità e alle sue contraddizioni, sia nella fase del confronto, sia - soprattutto - nella fase propositiva, è stato quello di Leone XIII ( 1878 - 1903 ), il cui pontificato, immediatamente a ridosso della creazione dei grandi Stati liberal - borghesi in Europa, ebbe la possibilità di valorizzare, come materiale di riflessione, tutta la grande tradizione teologica raccolta per preparare la celebrazione del Concilio Ecumenico Vaticano I, bruscamente interrotto dalla presa di Roma da parte delle truppe italiane nel 1870.

Il suo Magistero sociale risulta pertanto particolarmente ricco e articolato.

Si tratta di una approfondita disamina delle dinamiche sociali che si fonda su di una riflessione filosofica e teologica di altissimo livello.

Etiene Gilson, infatti, ha parlato di Leone XIII come del « più grande filosofo cristiano del secolo XIX, e uno dei più grandi di tutti i tempi ».199

L'eredità di Pio IX è passata integralmente nel Magistero di Leone XIII, il quale ha in qualche modo cercato di descrivere in senso compiuto l'alternativa cattolica alla modernità, inizialmente delineata da Pio IX.

L'affermazione che il progetto ateistico è inassimilabile al cristianesimo non ha chiuso la Chiesa in una posizione di nostalgia del passato, di pura reazione.

Con il Magistero di Leone XIII la Chiesa ha assunto una posizione propositiva.

Non esiste, tuttavia, discontinuità tra Pio IX e Leone XIII, come certa storiografia ha sostenuto.

Leone XIII non ha esitato « a riaffermare la sostanza dottrinale delle encicliche di Pio IX e anche, a più riprese, a fare esplicito riferimento al Sillabo ».200

Egli ha continuato «a reagire senza tregua, fin dalla sua prima enciclica, contro il liberalismo laicista e i crescenti tentativi di secolarizzare la società ».201

Tuttavia, in continuità con la linea già intrapresa da Pio IX, le istanze positive del liberalismo non solo non sono state rifiutate, ma in un certo senso sono state anche riformulate.

Parlare di continuità non significa che egli ha semplicemente riproposto il Magistero del suo predecessore; egli lo ha approfondito.

Ha, cioè, approfondito quella identità culturale propria della coscienza cristiana, antitetica al laicismo moderno, ma allo stesso tempo sempre più capace di accogliere e modulare le istanze positive implicate nella posizione moderna.

Il movimento di pensiero e di azione che si riferisce alla tradizione liberale contiene senz'altro una istanza di libertà.

Nell'orizzonte del recupero della soggettività moderna il liberalismo è senz'altro l'affermazione che il soggetto è tanto più se stesso quanto più è libero.

Libertà allora significa autonomia: una morale che scaturisce dall'interno della coscienza e non è imposta dall'esterno; una capacità di conoscenza e organizzazione della realtà e, soprattutto, una nuova creatività etica e socio-politica.

In questo senso il liberalismo ha messo in discussione l'ordine socio-politico preesistente, e in questa ridiscussione radicale ha riscoperto quei fondamentali diritti della persona e della vita sociale.

In particolare ha insistito sull'esigenza di una piena e più autentica espressione della soggettività umana che dal punto di vista sociale equivaleva ad una richiesta di maggiore partecipazione alla vita della società e alla creazione di strutture socio-politiche più adeguatamente al servizio della libertà personale e sociale.

Non solo il Magistero sociale che si è sviluppato a partire da Leone XIII non ha negato tutto ciò, ma ha contribuito a definire sempre più una concezione autentica di democrazia.

Sono state suggerite le linee fondamentali di una concezione e di una pratica culturale, sociale e politica che senza paura si può definire democratica perché ha contribuito ad evitare che la struttura statale si imponesse sulla vita sociale, e ha favorito il formarsi di uno stato a servizio della società.

Si può dire che lo sviluppo della democrazia, tra i cui nemici troppo sbrigativamente è stata spesso indicata la Chiesa, senza cercare di capire storicamente a quale idea di liberalismo e democrazia essa si opponesse, deve molto al Magistero sociale di Leone XIII.

Il liberalismo, che si è affermato in Europa negli ultimi decenni del XIX secolo, contrassegnato da un forte laicismo di fondo, è stato, infatti, caratterizzato dal predominio dello Stato sulla vita sociale.

In Italia, come del resto anche in Germania, il Risorgimento è coinciso sostanzialmente con la nascita di un predominio dello Stato sulle realtà locali e sulla vita sociale della popolazione.

Quindi si compierebbe un grosso errore dal punto di vista storico se si attribuisse al movimento liberale, segnato dal profondo spirito nazionalistico di fine 800, l'origine e lo sviluppo di tutte le istanze democratiche.

Anzi, come viene messo bene in evidenza da Danilo Veneruso, parlando della situazione italiana, nella sua Storia d'Italia nel Novecento, il liberalismo di fine XIX e inizio XX secolo si è opposto alla democrazia, in quanto « prevalse nettamente, in Italia, la tesi che tra liberalismo e la democrazia vi fosse disomogeneità, non omogeneità, discontinuità, non continuità ».202

Ovvero il sistema liberale non è stato capace di superare la fase risorgimentale e, nonostante i tentativi di Giolitti di aprire alle masse popolari, è rimasto legato ad una forma politica elitaria e soprattutto statalista: « Il liberalismo, per i liberali di questa tendenza, era perciò riconoscibile ed attuabile nella libertà di una classe dirigente in generale e politica in particolare che intendesse conservare, rafforzare e promuovere lo Stato nazionale: a questo scopo, e a questo soltanto, dovevano essere coordinate o, per meglio dire, subordinate tutte le altre libertà, individuali, religiose, culturali, sociali, economiche ».203

La stessa origine del movimento nazionalista va cercata proprio in questa intrinseca opposizione di una parte del mondo liberale al processo di democratizzazione: « In Italia l'impianto e lo sviluppo del nazionalismo rispondevano alla scelta politica di fondo della classe dirigente: la permanenza della formula politica di un liberalismo nazionale che sempre più stava rivelandosi come statalismo nazionale, in cui la libertà fosse prerogativa non della società e dei suoi singoli elementi, bensì dello Stato, della classe dirigente al potere ».204

D'altra parte « tanto le forze in vario modo governative quanto le forze di opposizione, compresi i socialisti, erano contrassegnate dal "giacobinismo", con il relativo predominio dello Stato sulla società ».205

È stato proprio il prevalere di questa impostazione statalista a decretare il fallimento, almeno momentaneo, dell'apertura di Leone XIII alla democrazia, e con esso dello sviluppo stesso dell'ordinamento democratico, travolto poi dagli eventi del dopo guerra e dal formarsi dei grandi regimi totalitari.

Fallimento a cui ha contribuito in modo determinante anche la prospettiva rivoluzionaria, antireligiosa e anticattolica assunta dai movimenti socialisti: « In questa lotta senza quartiere contro quello che essi chiamavano il "clericalismo", i socialisti europei contribuirono in modo determinante a togliere dall'agenda delle cose possibili l'affermazione di quell'ordinamento democratico nella sostanza, al di là del vocabolario politico scelto per definirlo, che era stato proposto da Leone XIII alla fine del secolo e quindi a lasciare via libera al trionfo del nazionalimperialismo, che in tante questioni era specularmene opposto al socialismo, ma non nella concezione giacobina del rapporto tra Stato e società ».206

Se l'idea di democrazia ha potuto affermarsi guadagnando come sua componente fondamentale il valore e il primato della società sullo stato, lo si deve pertanto in gran parte allo sviluppo della dottrina sociale della Chiesa, quindi alla riproposizione della priorità della persona sulla società, della società sullo Stato e alla riproposizione di un'idea di stato invalicabilmente distinto dalla dimensione religiosa, dalla struttura ecclesiastica.

Leone XIII ha dedicato alla questione sociale tre importanti encicliche: la Immortale Dei ( 1885 ) sulla costituzione cristiana degli Stati; la Libertas praestantìssimum ( 1888 ) sulla libertà umana e infine, la più famosa, la Rerum novarum ( 1891 ) sulla condizione dei lavoratori.

Nella Immortale Dei Leone XIII ha sostenuto, in modo estremamente documentato, che la dimensione religiosa debba fondare la vita di quelle strutture politiche che servono la libertà dell'uomo e sono espressione autentica delle persone e dei rapporti sociali: « Il vivere in una società civile è insito nella natura stessa dell'uomo: e poiché egli non può, nell'isolamento, procurarsi né il vitto né il vestiario necessario alla vita, né raggiungere la perfezione intellettuale e morale, per disposizione provvidenziale nasce atto a congiungersi e a riunirsi con gli altri uomini, tanto nella società domestica quanto nella società civile, la quale sola può fornirgli tutto quanto basta perfettamente alla vita.

E poiché non può reggersi alcuna società, senza qualcuno che sia a capo di tutti e che spinga ciascuno, con efficace e coerente impulso, verso un fine comune, ne consegue che alla convivenza civile è necessaria un'autorità che la governi: e questa, non diversamente dalla società, proviene dalla natura e perciò da Dio stesso ».207

In questa enciclica egli ha, inoltre, chiarito come la Chiesa fosse sostanzialmente indifferente alle varie forme di governo,208 a condizione, però, che la struttura della vita politica, cioè lo Stato, avesse come preoccupazione l'affermazione della persona e dei suoi diritti fondamentali e quindi promuovesse la massima libertà della vita sociale e il bene comune.

Secondo Leone XIII, infatti, il potere « deve essere esercitato in vista dell'utilità dei cittadini, poiché chi detiene il potere governa con quest'unico compito, di tutelare il bene dei cittadini.

Ne in alcun modo deve accadere che l'autorità civile serva l'interesse di uno o di pochi, una volta che è stata istituita per il bene comune ».209

Da quanto ha affermato da Leone XIII nella Immortale Dei risulta ugualmente evidente che la Chiesa non intendeva condannare né la libertà, né la democrazia in sé e che poste certe condizioni esse erano addirittura auspicabili.

Ecco quanto viene detto: « non s'intende condannare in sé neppure il fatto che il popolo partecipi, in maggiore o minore misura, alla vita pubblica: il che può rappresentare in certe circostanze e con precise leggi, non solo un vantaggio ma anche un dovere civile.

Ancora, non v'è neppure valido motivo per accusare la Chiesa di essere restia più del giusto ad una benevola tolleranza, o nemica di un'autentica e legittima libertà ».210

Fondamentale per Leone XIII, in piena continuità con Pio IX, nell'affrontare la questione politica, è stato il problema antropologico.

Anch'egli era convinto che la prospettiva politica si dovesse sviluppare a partire dal modo in cui si concepisce l'uomo: che tipo di uomo è quello che il progetto ateistico persegue?

Che tipo di uomo è quello che la realtà della vita ecclesiale determina?

Quali sono le conseguenze dell'uno e dell'altro modello?

Con l'enciclica Libertas praestantìssimum, egli è risalito alle radici della questione antropologica ed etica.

Ha distinto due concezioni della libertà: quella propria del liberalismo e quella "cristiana".

La cultura laicista dominante aveva un concetto di libertà intesa come mera capacità di scelta; così intesa la libertà, egli denunciava, non poteva che preparare una struttura della vita sociale e politica sostanzialmente negatrice della libertà stessa.

Denunciava una concezione della libertà come supremo valore, funzionalizzata, tuttavia, alla sua negazione.

Ribadiva che dal punto di vista cristiano invece la libertà è sottoposta alla verità.

Il supremo valore è la verità, mentre la libertà risulta la modalità umana per affermare la verità.

Leone XIII ha voluto rimarcare il fatto che l'uomo non dipende totalmente dallo Stato, perché il cristiano dipende innanzitutto da Dio e solo in parte e secondariamente dallo Stato: « dove il diritto di comandare è assente o dove si prescrive alcunché di contrario alla ragione, alla legge eterna, alla sovranità di Dio, è giusto non obbedire agli uomini per obbedire a Dio.

Precluso in tal modo l'adito alla tirannide, lo Stato non dovrà avocare tutto a sé: sono salvi i diritti dei singoli cittadini, della famiglia, di tutti i componenti la società, concedendo ampiamente a tutti la vera libertà che consiste, come dimostrammo, nel poter vivere ciascuno secondo le leggi e la retta ragione ».211

Riconoscere il fondamento ultimo dell'uomo e quindi anche della dimensione sociale in Dio non significa però che Leone XIII abbia inteso creare uno stato confessionale, cercando di imporre la visione cattolica del mondo.

Leone XIII nella Libertas praestantìssimum è arrivato ad ammettere, infatti, la possibilità di tollerare errori, pur senza approvarli, nella concezione e nella gestione del potere politico: « la Chiesa, con intelligenza materna, considera il grave peso della umana fragilità e non ignora quale sia il corso degli animi e delle vicende da cui è trascinata la nostra età.

Per queste ragioni, senza attribuire diritti se non alla verità e alla rettitudine, la Chiesa non vieta che il pubblico potere tolleri qualcosa non conforme alla verità e alla giustizia, o per evitare un male maggiore o per conseguire e preservare un bene [ … ] non potendo l'umana autorità impedire ogni male, deve "concedere e lasciare impunite molte cose che invece sono punite giustamente dalla divina Provvidenza" ».212

Questa concezione dell'uomo ha permesso che si sviluppasse un giudizio del tutto originario sui gravi problemi sociali dell'epoca, che ha trovato la sua più chiara espressione nella Rerum novarum.

Questa enciclica dimostra la positività del progetto cristiano nell'affrontare la questione sociale più spinosa del XIX e del XX secolo: la questione operaia.

Si tratta del documento con cui Papa Leone XIII ha affermato con maggior forza e compiutezza un progetto sociale vero e proprio.

Essa rappresenta la dimostrazione che a partire da una concezione religiosa dell'esistenza, il problema drammatico dello scontro capitale - lavoro può essere risolto senza ricorrere necessariamente ad una contrapposizione meccanica.

L'ideologia liberale da un lato e quella collettivistica dall'altro impostavano la questione del rapporto capitale - lavoro secondo una visione sostanzialmente ideologica e meccanicistica, che considerava la struttura della vita socio - economica come inevitabile dialettica di ruoli.

Esse proponevano soluzioni - il liberalismo selvaggio o il collettivismo - che erano false come è dimostrato anche dal fatto che i due sistemi, applicati fino in fondo, hanno creato gravissime disfunzioni, non solo dal punto di vista sociale, ma anche dal punto di vista economico.

La posizione di Leone XIII non si deve considerare una terza via tra capitalismo e collettivismo, una sorta di compromesso tra i due.

Essa rappresentava un'alternativa radicale di approccio, sia rispetto al liberalismo, sia rispetto al socialismo, perché considerava l'uomo in tutta la sua interezza e non solo come lavoratore o datore di lavoro.

Per Leone XIII l'uomo non doveva essere concepito in opposizione alla società, a differenza sia di quanto sosteneva la prospettiva propria del liberalismo, per il quale l'uomo doveva dominare la società, sia di quanto sosteneva la prospettiva socialista per la quale ne era dominato.

Il cristiano, in quanto è il soggetto che fa l'esperienza della vita ecclesiale e della sua formazione morale, vive la dimensione sociale senza avvertire come espressione di un odio incontenibile la divisione fra capitalista e lavoratore.

L'esperienza di comunità sperimentata nella vita della Chiesa contribuisce ad infrangere quel meccanismo ideologico che considera l'uomo unicamente sotto il profilo economico e politico, riducendolo a capitalista o proletario, in perenne contrasto con l'avversario di classe, dominante la società o dominato da essa.

Con questa enciclica Leone XIII ha voluto affermare il principio della priorità dell'etica sull'analisi socio-politica e la necessità di formare personalità che sapessero affrontare le problematiche del rapporto fra datore di lavoro e lavoratore non in termini di odio irriducibile e di competizione assoluta.

Leone XIII ha indicato un approccio assolutamente originale al problema della società industriale.

Un approccio non ideologico, in quanto fondato sulla responsabilità personale.

Egli ha rifiutato l'ipotesi che individuava la soluzione del problema nella lotta di classe, in un sistema, che bloccava gli uomini in categorie, in classi, in situazioni da cui non si potevano liberare.

Ha, invece, individuato nella personalità del singolo o del gruppo, chiamata in ogni situazione a leggere e ad affrontare i problemi, la via da percorrere.

Egli ha, quindi, rivalutato la persona come essere dotato di libertà e di responsabilità.

Ha inoltre ripetutamente invocato la carità, non intesa come elemosina, bensì come concezione globale della vita, come principio risolutivo delle questioni sociali.

Egli ha proposto un modello di società ordinato ed armonico, secondo un'originale alternativa fondata sulla carità e sul rispetto dei principi di diritto naturale, il quale deriva da Dio e precede le leggi puramente economiche e statali.

La proprietà privata è l'altra questione rispetto alla quale la Rerum novarum si è posta secondo una prospettiva radicalmente diversa sia da quella socialista, sia da quella liberista.

La proprietà è indicata come una dimensione espressiva dell'uomo; quindi non si lavora solo per sopravvivere, ma innanzitutto per esprimersi.

Il diritto di proprietà, affermava il Papa, doveva essere riportato alla persona ed alla sua libertà espressiva.

Leone XIII che ha indicato come necessaria la difesa sia del diritto di proprietà, sia della destinazione sociale della proprietà, aveva capito che si trattava di un problema etico.

La sua profonda convinzione era che non si poteva eliminare il possesso, ma si doveva esercitarlo bene.

Invece, il meccanicismo liberale voleva la proclamazione assoluta del diritto di proprietà e la sua esclusiva destinazione privata, cioè il puro incremento del capitale.

D'altro canto l'abolizione socialista del diritto di proprietà non solo generava una cultura del lavoro incapace di creatività e di responsabilità personali, ma risultava anche fortemente lesiva nei confronti della persona.

Egli ha chiarito come il diritto di proprietà sia un elemento fondamentale del complesso dei diritti della persona umana e la sua abolizione sia immorale perché segna l'intervento dello Stato nella dimensione personale, con la conseguenza di alienare l'uomo, intervenendo sulla sua libera espressione: « la proprietà privata è diritto di natura [ … ]

Il gran privilegio dell'uomo, ciò che lo costituisce tale o lo distingue essenzialmente dal bruto, è l'intelligenza, ossia la ragione.

E appunto perché ragionevole, si deve concedere all'uomo qualche cosa di più che il semplice uso dei beni della terra, comune anche agli altri animali: e questo non può essere altro che il diritto di proprietà stabile ».213

Per risolvere la situazione, Leone XIII non ha fornito uno schema prestabilito, ma ha indicato una tensione ideale da tenere presente, trattandosi di un problema di umanità e di coscienza morale.

La difesa del diritto di proprietà non è coincisa, pertanto, con la difesa del capitalismo, bensì con la difesa della personalità umana.

La proprietà è stata, infatti, presentata come un diritto fondamentale, in quanto espressivo della personalità singola e associata.

La soluzione del problema è stata, perciò, individuata nell'educazione: occorre educare colui che deve fruire di questo diritto, affinché il suo uso sia anche per l'incremento del bene comune e non per un benessere egoisticamente stralciato dal contesto sociale.

Rispetto al nodo della rivoluzione industriale la posizione di Leone XIII non era rivolta al passato nel rimpianto di un mondo perduto, ma intendeva piuttosto contribuire a generare un soggetto nuovo, un'esperienza originale di unità fra gli uomini, capace di socialità nuova.

Per questo motivo Leone XIII ha indicato come motore della riforma sociale non lo Stato, ma le libere associazioni.

Fondamentale nella prospettiva di Leone XIII e anche di tutto il Magistero successivo è la teoria per la quale di fronte allo Stato non esistono solo gli individui, ma corpi intermedi che vengono prima dello stesso Stato, il quale deve riconoscerli e non impedirli in alcun modo: « Ora, sebbene queste private associazioni esistano dentro lo Stato e ne siano come tante parti, tuttavia in generale, e assolutamente parlando, non può lo Stato proibirne la formazione.

Poiché il diritto di unirsi in società l'uomo l'ha dalla natura, e i diritti naturali lo Stato deve tutelarli, non distruggerli.

Vietando tali associazioni, egli contraddirebbe se stesso, perché l'origine del consorzio civile, come degli altri consorzi, sta appunto nella naturale società dell'uomo ».214

Non solo lo Stato non deve impedire le libere associazione, che non si prefiggano « un fine apertamente contrario all'onestà, alla giustizia, alla sicurezza del consorzio civile »,215 al contrario esso deve anche difenderle senza però mostrarsi eccessivamente invadente: « Lo Stato difenda queste associazioni legittime dei cittadini; non si intrometta però nell'intimo della loro organizzazione e disciplina, perché il movimento vitale nasce da un principio intrinseco, e gli impulsi esterni facilmente lo soffocano ».216

Tutto ciò vale innanzitutto nei confronti della famiglia « società piccola ma vera, e anteriore a ogni civile società ».217

Pio XI e Pio XII davanti ai totalitarismi

Si è visto come il Magistero sociale della Chiesa abbia denunciato, con una grande capacità profetica,218 il totalitarismo dell'età moderna contemporanea: cioè la dottrina secondo la quale lo Stato rappresenta la visione "scientifica" della vita sociale ed è, per questo, la realtà che detiene in atto il potere, tutto il potere etico e sociale nella storia.

Secondo questa prospettiva lo Stato è il soggetto che detiene la somma di tutti i valori etici, personali e sociali.

Lo Stato si rivela l'unico obiettivo reale della vita sociale e della storia; l'esito di quel grande processo di auto-liberazione dell'uomo da tutti i vincoli alienanti del passato; primo fra tutti l'alienazione religiosa.

La religione è stata vista in quest'ottica come un fattore di alienazione, perché l'uomo non è più dominato dal problema della verità, non è più alle prese con il mistero, con quella realtà totalmente in atto da cui dipende.

Si viene a sviluppare la tesi secondo la quale « fintantoché l'uomo era minorenne, doveva rimettere a un essere assoluto gli atti esistenziali decisivi: fondazione della verità e dei valori, ordinamento del mondo, governo del destino, ecc.

Adesso che l'uomo è diventato maggiorenne, si assume lui questa competenza e determina lui stesso la propria esistenza ».219

Lo Stato è presentato in sostanza come luogo della piena e definitiva umanizzazione dell'uomo.

Lo aveva già profeticamente formulato il grande teorico del totalitarismo Hobbes: « fuori dello Stato è il dominio delle passioni, la guerra, la paura, la povertà, la trascuratezza, l'isolamento, la barbarie, l'ignoranza, la bestialità; nello Stato è il dominio della ragione, la pace, la sicurezza, la ricchezza, la decenza, la socievolezza, la raffinatezza, la scienza, la benevolenza ».220

Ed aveva anche aggiunto: « Questa è la generazione di quel grande Leviatano, o piuttosto ( per parlare con più reverenza ) di quel Dio mortale, al quale noi dobbiamo, sotto il Dio immortale, la nostra pace e la nostra difesa; giacché per l'autorità conferitagli da ogni singolo uomo nella comunità, ha tanta forza e potere che può disciplinare con il terrore la volontà di tutti in vista della pace interna e dell'aiuto scambievole contro i nemici esterni ».221

Secondo questa prospettiva, l'uomo non è più se stesso nella verità e per la verità del suo rapporto con Dio; è se stesso in quanto vive la sua appartenenza sociale e statuale, in quanto ricopre il ruolo che gli è assegnato nella compagine statuale.

Nelle affermazioni di Hobbes è già contenuta quella manipolazione cui l'uomo moderno è stato sottoposto nella storia più recente della società, quella manipolazione per cui il Concilio Ecumenico Vaticano II, come è già stato sottolineato altre volte, ha potuto dire che l'uomo è stato ridotto a « elemento anonimo della città umana ».222

Pio XI ( 1922 - 1939 ) ha avuto sicuramente il grande merito di indicare chiaramente il legame tra il laicismo e il totalitarismo ed è stato, infatti, l'unica autorità dell'epoca che ha denunciato esplicitamente questo legame.

La cultura moderno - contemporanea non aveva più una base etico - morale, ma si fondava su un progetto puramente politico, impostato in chiave antireligiosa.

L'enciclica Ubi Arcano ( 1922 ) sottolinea come questo attacco anticristiano e antireligioso sia stato portato al cuore della società civile, cioè alle "comunità intermedie" che ne costituiscono la struttura.

Uno dei punti di forza dello statalismo è risultato essere infatti l'attribuzione allo Stato della funzione educativa.

In questo modo la famiglia e la società civile sono state attaccate non solo dal punto di vista giuridico, non venendo sostenute con iniziative concrete, ma anche e soprattutto dal punto di vista culturale.

Il totalitarismo, avendo ridotto il tessuto culturale alla pura istituzione politica e all'occupazione del potere, ha cercato di non consentire alla società di sviluppare alcuna risorsa di carattere culturale ed educativa che non fosse puramente ideologica.

La Chiesa, allora, ha capito che doveva incaricarsi di ricostruire il tessuto sociale dell'Europa.

La missione storica della Chiesa è stata presentata da Pio XI come quella di favorire la fraternizzazione tra i popoli, tramite la rivalutazione del senso religioso.

La ripresa del senso religioso è stata indicata come l'unica vera alternativa alla guerra.

Egli ha cercato di mostrare come la pace non potesse essere una pace armata, ma una ricomposizione dell'unico fondamento culturale, sociale e personale possibile.

Pio XI ha evidenziato in particolare il fatto che in una società che si trasformava in senso totalitario, il timore diventava una conseguenza inevitabile: esso caratterizzava la vita sociale a tutti i livelli.

Nel generale ottimismo, la sola voce del Papa ha saputo denunciare lo stato effettivo delle cose prima ancora che degenerassero negli spettacoli atroci dei lager e dei gulag; la sua lettura, che vedeva nell'epoca un imbarbarimento della società, si è rivelata indubbiamente profetica.

Al regno dell'uomo senza o contro Cristo, egli ha posto un'alternativa radicale: « il Regno di Dio ».

Non ha cercato un riconoscimento solo teorico del cristianesimo, ma ha cercato di promuovere il più possibile il ruolo concreto della Chiesa nella storia e nella società.

Il cristianesimo è, infatti, una presenza, il cui punto di verifica risulta appunto la verità dell'uomo, la piena affermazione della sua umanità.

Solo se si tiene presente ciò si comprende allora come il rapporto Stato-Chiesa non sia stato, innanzitutto, un problema di rapporti tra istituzioni, ma un problema di confronto culturale.223

Nel corso del XX secolo la Chiesa ha dovuto opporsi al totalitarismo non più semplicemente come a una dottrina formulata in modo teorico ed astratto.

Si è trovata di fronte a tentativi terribili di attuare il totalitarismo attraverso il dispiegamento di una potenza politica, scientifica e tecnologica di notevole portata.

Il Papa Pio XI ha dovuto misurarsi con le grandi e tragiche esperienze del totalitarismo: il Fascismo italiano, il Nazionalsocialismo tedesco e il Comunismo sovietico.

Nella enciclica Non abbiamo bisogno del 29 giugno 1931, Pio XI ha denunciato il totalitarismo fascista dal punto di vista della negazione della libertà di educazione e di associazione, combattendo una battaglia che non era innanzitutto politica, ma « morale e religiosa: squisitamente morale e religiosa ».224

Ha, cioè, denunciato il tentativo delle formazioni partitiche e statali di negare gli elementari diritti educativi della famiglia e la libertà di associazione, fattori fondamentali per una educazione autenticamente umana e cristiana.

Di fronte al tentativo di « monopolizzare interamente la gioventù, dalla fanciullezza fino all'età adulta, a tutto ed esclusivo vantaggio di un partito, di un regime, sulla base di un'ideologia che dichiaratamente si risolve in una vera e propria statolatria pagana »,225 Pio XI ha ribadito che « una concezione dello Stato che gli fa appartenere le giovani generazioni interamente e senza eccezione dalla prima età a quella adulta, non è conciliabile per un cattolico colla dottrina cattolica, e neanche conciliabile col diritto naturale della famiglia ».226

Aggiungendo subito dopo che « non è conciliabile con la cattolica dottrina pretendere che la Chiesa, il Papa, debbano limitarsi alle pratiche esterne di religione ( Messa e Sacramenti ), e che il resto della educazione appartenga totalmente allo Stato ».227

Il Papa ha, quindi, difeso il diritto della gioventù cattolica a vivere, secondo la propria confessione religiosa, il cammino personale verso la maturazione piena della propria personalità.

Pertanto, di fronte alle vicende politiche italiane che hanno visto il formarsi, in un primo momento, dell'egemonia antidemocratica e antipopolare del liberalismo borghese e, successivamente, l'affermazione del regime dittatoriale fascista, la Chiesa ha custodito la tradizione cattolica del popolo, ha difeso ed educato tale libertà, contribuendo in modo decisivo a costituire una reale alternativa, culturale e sociale, a ogni forma di regime.228

Non si può comprendere certo la nascita della democrazia in Italia, alla fine della Seconda Guerra Mondiale, se non si considera l'azione che, lungo tutti gli anni del regime fascista, la Chiesa cattolica, in forme e modi articolati, ma ultimamente convergenti, ha svolto per educare la coscienza del popolo italiano a non perdere mai il senso della propria personale libertà e della propria responsabilità storica.

Nella enciclica Mit brennender Sorge del 14 marzo 1937, Pio XI si è opposto in modo vigoroso alla dottrina teorica e alla struttura giuridica e politica del Reich tedesco, mostrando l'assoluta inconsistenza filosofica di una statolatria che avviliva l'uomo e la sua dignità e rinnegava in modo totale la tradizione cattolica della nazione tedesca.229

A questo mostruoso apparato teorico, propagandistico e politico il Papa ha opposto la difesa dell'ordine morale naturale e del diritto naturale: « Alla luce delle norme di questo diritto naturale, ogni diritto positivo, qualunque ne sia il legislatore, può essere valutato nel suo contenuto etico e conseguentemente nella legittimità del comando e nella obbligatorietà dell'adempimento.

Quelle leggi umane, che sono in contrasto insolubile col diritto naturale, sono affette da vizio originale, non sanabile né con le costrizioni né con lo spiegamento di forza esterna.

Secondo questo criterio va giudicato il principio: "diritto è ciò che è utile alla nazione".

Certo a questo principio può darsi un senso giusto, se si intende che ciò che è moralmente illecito non può essere mai veramente vantaggioso al popolo.

Persino l'antico paganesimo ha riconosciuto che, per essere giusta, questa frase dovrebbe essere capovolta e suonare: "Non vi è mai alcunché di vantaggioso, se in pari tempo non sia moralmente buono; e non perché è vantaggioso è moralmente buono, ma perché moralmente buono è anche vantaggioso" ( Cicerone, De offìciis. III, 30 ).

Quel principio, staccato dalla legge etica, significherebbe, per quanto riguarda la vita internazionale, un eterno stato di guerra tra le nazioni; nella vita nazionale poi misconosce, confondendo interesse e diritto, il fatto fondamentale che l'uomo, in quanto persona, possiede diritti dati da Dio, che devono essere tutelati da ogni attentato delle comunità, che avesse per scopo di negarli, di abolirli e di impedirne l'esercizio.

Disprezzando questa verità si perde di vista che il vero bene comune, in ultima analisi, viene determinato e conosciuto mediante la natura dell'uomo con il suo armonioso equilibrio fra diritto personale e legame sociale, come anche dal fine della società determinato dalla stessa natura umana.

La società è voluta dal Creatore come mezzo per il pieno sviluppo delle facoltà individuali e sociali di cui l'uomo ha da valersi, ora dando, ora ricevendo per il bene suo e quello degli altri.

Anche quei valori più universali e più alti che possono essere realizzati non dall'individuo, ma solo dalla società, hanno per volontà del Creatore come ultimo scopo l'uomo, il suo sviluppo e il suo perfezionamento naturale e soprannaturale.

Chi si allontana da questo ordine scuote i pilastri sui quali riposa la società, e ne pone in pericolo la tranquillità, la sicurezza e l'esistenza ».230

Secondo Pio XI è proprio la dimenticanza di questi pilastri fondamentali del diritto naturale, insieme al rinnegamento della fede cristiana, la radice del disastro culturale e sociale della Germania nazista.

Pio XI nella stessa enciclica non ha mancato di condannare esplicitamente i caratteri anticristiani dell'ideologia nazista.

Innanzitutto ad essere denunciata come incompatibile con la fede cristiana è l'idolatria pagana della razza e dello Stato: « Se la razza o il popolo, se lo Stato o una sua determinata forma, se i rappresentanti del potere statale o altri elementi fondamentali della società umana hanno nell'ordine naturale un posto essenziale e degno di rispetto; chi peraltro li distacca da questa scala di valori terreni, elevandoli a suprema norma di tutto, anche dei valori religiosi, e divinizzandoli con culto idolatrico, perverte e falsifica l'ordine da Dio creato e imposto, è lontano dalla vera fede in Dio e da una concezione della vita ad essa conforme ».231

Viene poi condannato il nazionalismo esasperato e il razzismo che ne derivano: « Solamente spiriti superficiali possono cadere nell'errore di parlare di un Dio nazionale, di una religione nazionale, e intraprendere il folle tentativo di imprigionare nei limiti di un solo popolo, nella ristrettezza etnica di una sola razza, Dio, Creatore del mondo, Re e Legislatore dei popoli, davanti alla grandezza del quale le nazioni sono piccole come gocce in un catino d'acqua ( Is 40,15 ) ».232

Non sfugge alla condanna di Pio XI nemmeno il culto della personalità del Fuhrer e la sua incompatibilità con l'unica vera e definitiva Rivelazione, quella in Gesù Cristo: « La rivelazione culminata nell'Evangelo di Gesù Cristo è definitiva e obbligatoria per sempre, non ammette appendici di origine umana e, ancora meno, succedanei o sostituzioni di "rivelazioni" arbitrarie, che alcuni banditori moderni vorrebbero far derivare dal così detto mito del sangue e della razza [ … ]

Anche se un uomo identifichi in sé ogni sapere, ogni potere e tutta la possanza materiale della terra, non può gettare fondamento diverso, da quello che Cristo ha gettato ( 1 Cor 3,11 ) ».233

Quella di Pio XI risulta perciò una condanna del nazismo non solo netta, « una delle più severe condanne di un regime nazionale che il Vaticano avesse pronunciato »,234 ma anche radicale, perché ne ha condannato l'aspetto più profondo e perverso: il carattere di religione secolare, il carattere idolatrico.

Secondo Romano Guardini proprio questo aspetto è da considerasi l'elemento fondamentale per spiegare il nazionalsocialismo.

Riportare l'analisi di Romano Guardini risulta quindi particolarmente utile per comprendere l'intelligenza mostrata dal Magistero nella comprensione del fenomeno nazismo: « lo Stato doveva abbracciare l'intera vita del popolo e avere un assoluto potere su di essa [ … ]

Per assicurarglielo, il popolo doveva essere conglobato da una grande organizzazione, che determinasse ogni sfera, ogni espressione della sua vita, ma che a sua volta fosse nelle mani dello Stato dominante.

Questo era il partito [ … ] Ma l'uomo, è per poco che lo si voglia ammettere, un essere determinato in senso spirituale; quindi sarebbe stata possibile una tale presa di potere solo se una corrispondente ideologia le avesse spianato la strada.

La si trovò nell'idea del sangue e della razza, per la quale ogni momento essenziale e importante viene dalla costituzione biologica dell'uomo [ … ]

Ma l'ideologia della razza non bastava ancora.

Nell'uomo risiede un che di più profondo, che parimenti dovette essere portato nel raggio del potere, cioè il suo nucleo religioso ».235

Non bisogna inoltre dimenticare che, a tale profonda penetrazione della visione teorica e pratica del Nazismo, Pio XI ha accompagnato una grande volontà di compassione nei confronti del popolo tedesco e il desiderio, sostanziato di preghiera, che il popolo tedesco potesse ritornare alla verità e alla grandezza della professione cattolica.

Nella Divini Redemptoris, pubblicata cinque giorni dopo la Mit brennender Sorge, il Magistero del Papa ha compiuto invece una disanima teorica e critica di eccezionale profondità dei principi teorici del Marx - leninismo e delle inevitabili conseguenze di terrore e di violenza che hanno accompagnato la sua realizzazione.

Egli ne ha, anche in questo caso, innanzitutto evidenziato il carattere idolatrico, di religione secolare: « Il comunismo [ … ] nasconde in sé un'idea di falsa redenzione ».236

Ha indicato inoltre l'origine più profonda delle tragiche conseguenze nella natura stessa del comunismo.

Violenza e oppressione « sono frutti naturali del sistema » comunista e derivano ultimamente dall'ateismo su cui si fonda: « se si strappa dal cuore degli uomini l'idea stessa di Dio, essi necessariamente sono sospinti dalle loro passioni alle più efferate barbarie ».237

Pio XI ha mostrato inoltre come la prospettiva comunista implichi una totale subordinazione della persona alla collettività: « All'uomo individuo non è riconosciuto, di fronte alla collettività, alcun diritto naturale della personalità umana, essendo essa, nel comunismo, semplice ruota e ingranaggio del sistema ».238

Conseguentemente « alla collettività il comunismo riconosce il diritto, o piuttosto l'arbitrio illimitato, di aggiogare gli individui al lavoro collettivo, senza riguardo al loro benessere personale, anche contro la loro volontà e persino con la violenza ».239

Nel condannare il comunismo Pio XI ha inteso mostrare come lo stesso comunismo sia « un sistema, pieno di errori e sofismi, contrastante sia con la ragione sia con la rivelazione divina; sovvertitore dell'ordine sociale, perché equivale alla distruzione delle sue basi fondamentali, misconoscitore della vera origine della natura e del fine dello Stato, negatore dei diritti della personalità umana, della sua dignità e libertà ».240

Anche in questo caso sono l'ideologia e i responsabili del sistema ideologico ad essere condannati, non certo il popolo russo: « Con questo però non vogliamo in nessuna maniera condannare in massa i popoli dell'Unione Sovietica, per i quali nutriamo il più vivo affetto paterno.

Sappiamo come non pochi di essi gemano sotto il duro giogo loro imposto con la forza da uomini in massima parte estranei ai veri interessi del paese, e riconosciamo che molti altri furono ingannati da fallaci speranze.

Noi colpiamo il sistema e i suoi autori e fautori, i quali hanno considerato la Russia come terreno più atto per introdurre in pratica un sistema già elaborato da decenni, e di là continuano a propagarlo in tutto il mondo ».241

Accanto alla condanna dei tre grandi totalitarismi del XX secolo, Pio XI ha fatto sentire la sua voce condannando la persecuzione della Chiesa verificatasi nelle altre drammatiche vicende, ugualmente segnate da logiche totalitarie, che hanno investito i cristiani nel secolo scorso.

La drammatica situazione di martirio, in cui si trovarono a vivere nel corso degli anni Venti e Trenta i cattolici messicani dopo l'instaurazione di un regime rivoluzionario profondamente anticristiano, fu denunciata apertamente da Pio XI nella enciclica Iniquis afflictisque: « se nei primi secoli della Chiesa e in altri tempi poi, si trattarono i cristiani in modo più atroce, non accadde forse mai e in nessun luogo che, conculcando e violando i diritti di Dio e della Chiesa, un ristretto numero di uomini, senz'alcun riguardo alle glorie avite, senza sentimento di pietà verso i loro concittadini, soffocassero in ogni guisa la libertà della maggioranza con arti così meditate, aggiungendovi una parvenza di legislazione per mascherare l'arbitrio ».242

Anche la difficile situazione in cui si trovò la Chiesa di Spagna dopo l'affermazione della Repubblica con i provvedimenti presi contro la libertà di culto,243 è stata denunciata: « non possiamo non levare nuovamente la voce contro la legge, testé approvata, "intorno alle confessioni e Congregazioni religiose", costituendo essa una nuova e più grave offesa non solo alla religione e alla Chiesa, ma anche a quegli asseriti principi di libertà civile sui quali dichiara basarsi il nuovo Regime Spagnolo ».244

È importante notare che questa enciclica è del 1933, di gran lunga antecedente allo scoppio della guerra civile spagnola.

Ciò dimostra come non sia vero che l'ostilità nei confronti della Chiesa da parte dei repubblicani derivasse dal fatto che la Chiesa si fosse schierata apertamente contro la Repubblica e avesse appoggiato Franco.

Nella stessa enciclica Pio XI aveva del resto ribadito che la Chiesa non rifiutava la forma repubblicana di governo a priori: « non si creda la Nostra parola sia ispirata da sentimenti di avversione alla nuova forma di governo o agli altri avvenimenti prettamente politici avvenuti recentemente in Spagna.

E a tutti noto, infatti, che la Chiesa Cattolica, per nulla legata ad una forma di governo piuttosto che ad un'altra, purché restino salvi i diritti di Dio e della coscienza cristiana, non trova difficoltà ad accordarsi con le varie civili istituzioni, siano esse monarchiche o repubblicane, aristocratiche o democratiche ».245

Sono al contrario i provvedimenti fortemente restrittivi della libertà dei cristiani, prima, e soprattutto la vera e propria persecuzione religiosa246 che si è sviluppata nel corso della guerra civile, che hanno portato la Chiesa spagnola a prendere ufficialmente posizione contro il fronte repubblicano con la lettera pastorale collettiva del 1° luglio 1937, quando « il clero massacrato raggiungeva già la cifra di 6500 ecclesiastici ».247

Pio XII ha raccolto la grande tradizione magisteriale del suo predecessore e fin dalla sua enciclica programmatica Summi pontìfìcatus ne ha svolto con rigore e consequenzialità tutta la forza.

Nella Summi pontìfìcatus, scritta appunto all'inizio del suo pontificato, nel 1939, oltre a mettere in guardia dalla deificazione dello Stato e dalle teorie che negavano l'unità della razza umana, sostenendo che avrebbero condotto all'« ora delle tenebre », viene chiarito come il compito dello Stato sia quello di regolare la vita sociale per il bene della persona e non debba mai essere considerato come fine, a cui subordinare e indirizzare ogni cosa: « Considerare lo Stato come fine, a cui ogni cosa dovrebbe essere subordinata e indirizzata, non potrebbe che nuocere alla vera e durevole prosperità delle nazioni.

E ciò avviene, sia che tale dominio illimitato venga attribuito allo Stato, quale mandatario della nazione, del popolo o anche di una classe sociale, sia che venga preteso dallo Stato, quale padrone assoluto, indipendente da qualsiasi mandato ».248

Bisogna inoltre ricordare i radio-messaggi natalizi degli anni della Seconda Guerra Mondiale, in cui alla presentazione della tragedia della guerra come inevitabile conseguenza della lotta tra le nazioni scatenata nel mondo dai sistemi totalitari, si aggiunge l'indicazione della possibilità di un nuovo mondo e di una nuova società, fondati sulla accoglienza della tradizione cristiana e sull'amore alla verità e alla libertà.

La Seconda Guerra Mondiale ha rappresentato la dissoluzione del progetto laicista, del progetto dell'ateismo sociale e ha dimostrato come l'avvenimento cristiano sia l'unica alternativa possibile.

L'autorità morale della Santa Sede ha dovuto reagire alla distruzione del tessuto culturale e sociale dell'Europa e del mondo; ha reagito ad una crisi antropologica di proporzioni gigantesche.

Pio XII ha vissuto emblematicamente questa situazione indicando nel cristianesimo l'unica alternativa reale al fallimento del progetto ateistico.

Egli, infatti, ha ribadito a più riprese che la dottrina sociale della Chiesa - che attinge dal diritto naturale e dalla rivelazione cristiana - contribuisce in modo determinante alla costruzione di una società solidarista, nella quale, cioè, l'apporto dei singoli, dei gruppi, dei ceti, costruisce il bene comune.

In una democrazia di questo tipo la persona è inequivocabilmente riconosciuta come fine.

Pio XII non ha mancato poi di cogliere un aspetto fondamentale per spiegare il consenso ottenuto dai regimi totalitari, differenziando il concetto di popolo da quello di massa: « Popolo e moltitudine, o, come si suol dirsi, "massa" sono due concetti diversi.

Il popolo vive e si muove per vita propria; la massa è per sé inerte, e non può essere mossa che dal di fuori.

Il popolo vive della pienezza della vita degli uomini che lo compongono, ciascuno dei quali - al proprio posto e nel proprio modo - è una persona consapevole delle proprie responsabilità e delle proprie convinzioni.

La massa, invece, aspetta l'impulso dal di fuori, facile trastullo nelle mani di chiunque ne sfrutti gli istinti e le impressioni, pronta a seguire, a volta a volta, oggi questa domani quell'altra bandiera ».249

Pio XII non ha soltanto insegnato, ha vissuto in prima persona, in modo esemplare, la tragedia di milioni di uomini, dedicando gran parte delle sue iniziative e delle sue risorse a lenire, per quanto era possibile, le conseguenze disastrose del totalitarismo.

Chiunque fossero le vittime: cattolici, protestanti, ortodossi, ebrei, non credenti.250

Pio XI e Pio XII hanno scritto, pertanto, una pagina luminosa in difesa degli irrinunciabili diritti di libertà della Chiesa ed una pagina piena di passione umana per la libertà e la dignità dell'uomo, di ogni uomo, perché come ha ricordato lo stesso Pio XII: « Le lotte che, costretta dall'abuso della forza, [ la Chiesa ] ha dovuto sostenere per la difesa della libertà ricevuta da Dio, furono al tempo stesso lotte per la vera libertà dell'uomo ».251

Le successive riprese della « Rerum novarum »

L'importanza della Rerum novarum si comprende pienamente se si considera il fatto che essa è stata ripresa lungo tutto il Magistero successivo.

Come viene dichiarato nel Compendio della dottrina sociale essa « è diventata il documento ispirativo e di riferimento dell'attività cristiana in campo sociale ».252

Secondo quanto affermato da Giovanni Paolo II con la Rerum novarum Leone XIII « stabiliva un paradigma permanente per la Chiesa ».253

Il richiamo alla Rerum novarum, la costante ripresa e il continuo aggiornamento della stessa mostrano allo stesso tempo « il permanente valore di tale insegnamento » e « il vero senso della Tradizione della Chiesa, la quale, sempre viva e vitale, costruisce sopra il fondamento posto dai nostri padri nella fede e, segnatamente, sopra quel che gli Apostoli trasmisero alla Chiesa in nome di Gesù Cristo, il fondamento "che nessuno può sostituire" ( 1 Cor 3,11 ) ».254

A conferma di ciò, senza volere qui fornire una trattazione sistematica dell'argomento si è voluto evidenziare l'esplicito richiamo alla Rerum novarum di tre documenti fondamentali del Magistero successivo: la Quadragesima anno, la Mater et magistra, la Centesimus annus. 255

Nel 1931, nel quarantesimo anniversario della Rerum novarum, Pio XI, emanando la Quadragesima anno, ha ripreso ed attualizzato l'enciclica di Leone XIII, dimostrando che era ancora valida e penetrante.

Egli ha voluto ribadire che era possibile una alternativa positiva cristiana all'ideologismo dell'individualismo e del collettivismo.

Ha presentato quindi la dottrina sociale cristiana come l'unico rimedio al capitalismo; al contrario il socialismo e le sue evoluzioni storiche come qualcosa da rifiutare.

Ha spronato i cattolici, perché si impegnassero socialmente nell'attuazione dell'alternativa indicata dal Magistero.

In modo particolare si deve a Pio XI la formulazione esplicita del principio di sussidiarietà che, come si è affermato precedentemente, rappresenta uno dei principi fondamentali della dottrina sociale: « È vero certamente e ben dimostrato dalla storia, che, per la mutazione delle circostanze, molte cose non si possono più compiere se non da grandi associazioni, laddove prima si eseguivano anche dalle piccole.

Ma deve tuttavia restare saldo il principio importantissimo nella filosofia sociale: che siccome non è lecito togliere agli individui ciò che essi possono compiere con le forze e l'industria propria per affidarlo alla comunità, così è ingiusto rimettere a una maggiore e più alta società quello che dalle minori e inferiori comunità si può fare.

Ed è questo insieme un grave danno ed uno sconvolgimento del retto ordine della società; perché l'oggetto naturale di qualsiasi intervento della società stessa è quello di aiutare in maniera suppletiva le membra del corpo sociale, non già distruggerle e assorbirle [ … ]

Si persuadano dunque fermamente gli uomini di governo che quanto più perfettamente sarà mantenuto l'ordine gerarchico tra le diverse associazioni, conforme al principio della funzione suppletiva della attività sociale, tanto più forte riuscirà l'autorità e la potenza sociale e perciò anche più felice e più prospera la condizione dello Stato stesso ».256

Quello promosso da Pio XI, non dimentichiamoci in epoca di totalitarismi, quindi è uno Stato al servizio della società, sussidiario alle iniziative che sorgono e si sviluppano nella società stessa.

Si tratta comunque di un approfondimento di quanto già dichiarato nella Rerum novarum a proposito del rapporto tra stato e corpi intermedi.

Un secondo documento del Magistero di grande rilievo che si rifà alla Rerum novarum è la Mater et magistra.

Scritta da Giovanni XXIII nel 1961, in occasione del settantesimo anniversario della Rerum novarum, ne ha ribadito la validità: « pur essendo passato un lungo periodo di tempo, è ancora operante l'efficacia di quel messaggio non solo nei documenti dei pontefici succeduti a Leone XIII, che nel loro insegnamento sociale continuamente si richiamano all'enciclica leoniana, ora per trarne ispirazione, ora per chiarirne la portata, sempre per fornire incitamento all'azione dei cattolici; ma anche negli ordinamenti stessi dei popoli.

Segno è che i principi accuratamente approfonditi, le direttive storiche e i paterni richiami contenuti nella magistrale enciclica del nostro predecessore conservano tuttora il loro valore ed anzi suggeriscono nuovi e vitali criteri perché gli uomini siano in grado di giudicare il contenuto e le proporzioni della questione sociale, quale si presenta oggi, e si decidano ad assumere le relative responsabilità ».257

Come i suoi predecessori anche Giovanni XXIII non ha mancato di evidenziare come l'errore più grave dell'epoca moderna sia stato quello di ritenere l'esigenza religiosa un'« espressione del sentimento o della fantasia, oppure un prodotto di una contingenza storica da eliminare quale elemento anacronistico e quale ostacolo al progresso umano ».258

O ancora come il tragico esito della guerra sia stato provocato innanzitutto dalle ideologie che hanno negato la dimensione religiosa e vi hanno sostituito una dimensione di potere.

La stessa questione sociale è stata affrontata in maniera ideologica e quindi con conseguenze negative per l'uomo: « La ragione è che sono ideologie che dell'uomo considerano soltanto alcuni aspetti e, spesso, i meno profondi.

Giacché non tengono conto delle inevitabili imperfezioni umane, come la malattia e la sofferenza; imperfezioni che i sistemi economico-sociali anche più progrediti non possono eliminare ».259

Giovanni XXIII ha allora voluto fortemente sottolineare come anche l'affronto dei problemi sociali risulti equivoco, se non parte dal senso religioso dell'uomo: « Qualunque sia il progresso tecnico o economico nel mondo, non vi sarà né giustizia né pace, finché l'uomo non ritornerà alla dignità di figlio di Dio.

L'uomo staccato da Dio diventa disumano, con se stesso e con i suoi simili, perché l'ordinato rapporto di convivenza presuppone l'ordinato rapporto della coscienza personale dell'uomo con Dio, fonte di giustizia e di amore ».260

Egli ha chiaramente invitato a partire da un fondamento realmente alternativo, cioè dall'avvenimento di Cristo e dalla presenza della Chiesa nel sociale, che è in grado di coinvolgere anche chi non è credente.

È questo il messaggio del suo pontificato: occorre mettere decisamente al centro il fondamento antropologico, cioè l'immagine vera dell'uomo che è rivelata solo da Gesù Cristo.

Su questo fondamento, che implica un rapporto giusto e vero con Dio, si può progettare un discorso di giustizia e amore.

Anch'egli come i suoi predecessori ha cercato di promuovere e a contribuito a sviluppare una concezione di Stato in cui fosse prioritaria la garanzia dei diritti fondamentali e la difesa e il sostegno delle iniziative personali e sociali: « la presenza dello Stato [ … ] non va attuata per ridurre sempre più la sfera di libertà dell'iniziativa personale dei singoli cittadini, ma anzi per garantire a quella sfera la maggiore ampiezza possibile nell'effettiva tutela, per tutti e per ciascuno, dei diritti essenziali della persona ».261

Un terzo fondamentale documento della dottrina sociale che si riferisce esplicitamente alla Rerum novarum è la Centesimus annus di Giovanni Paolo II, pubblicata a cento anni dalla Rerum novarum nel 1991.

Giovanni Paolo II non ha voluto semplicemente commemorare un documento del passato, quanto piuttosto riproporre il Magistero della Chiesa come punto di riferimento fondamentale per « un grande movimento in favore della difesa della persona umana ».262

Per comprendere il valore autentico di questa enciclica e dell'intera dottrina sociale della Chiesa rispetto alle problematiche del lavoro, come ha ricordato lo stesso papa polacco, « occorre tener presente che ciò che fa da trama e, in certo modo, da guida all'Enciclica ed a tutta la dottrina sociale della Chiesa, è la corretta concezione della persona umana e del suo valore unico [ .. .]

In effetti, al di là dei diritti che l'uomo acquista col proprio lavoro, esistono diritti che non sono il corrispettivo di nessuna opera da lui prestata, ma che derivano dall'essenziale sua dignità di persona ».263

Giovanni Paolo II ha, innanzitutto, ribadito e chiarito quanto Leone XIII e il Magistero precedente avevano affermato circa i diritti del lavoratore,264 chiarendo come il loro fondamento vada cercato nella dignità del lavoratore e quindi del lavoro.

« Il lavoro - egli ha scritto - appartiene così alla vocazione di ogni persona; l'uomo, anzi, si esprime e si realizza nella sua attività di lavoro ».265

Tuttavia, non bisogna dimenticare che « nello stesso tempo, il lavoro ha una dimensione sociale per la sua intima relazione sia con la famiglia, sia anche col bene comune ».266

Se la Rerum novarum ha rappresentato una prospettiva alternativa sia al liberalismo, sia al socialismo, la Centesimus annus ha ulteriormente definito questa posizione assolutamente originale e non assimilabile alle due prospettive ideologiche.

Rispetto ad una prospettiva di liberalismo radicale, di liberismo economico assoluto, Giovanni Paolo II ha ricordato che « gli individui, quanto più sono indifesi in una società, tanto più necessitano dell'interessamento e della cura degli altri e, in particolare, dell'intervento dell'autorità pubblica » e ha indicato nel principio di solidarietà « uno dei principi basilari della concezione cristiana dell'organizzazione sociale e politica ».267

Accanto al principio di solidarietà, per evitare che si cada nell'errore opposto dello statalismo, ha riaffermato però il valore del principio di sussidiarietà: « una società di ordine superiore non deve interferire nella vita interna di una società di ordine inferiore, privandola delle sue competenze, ma deve piuttosto sostenerla in caso di necessità ed aiutarla a coordinare la sua azione con quella delle altre componenti sociali, in vista del bene comune ».268

Più specificamente ha poi affrontato il tema del socialismo, alla luce anche degli eventi accaduti nel 1989, integrando così la critica già formulata da Leone XIII.

Innanzitutto, ha evidenziato come l'errore principale del socialismo sia di « carattere antropologico », dal momento che « considera il singolo uomo come un semplice elemento e una molecola dell'organismo sociale di modo che il bene dell'individuo viene del tutto subordinato al funzionamento del meccanismo economico-sociale, mentre ritiene, d'altro canto, che quel medesimo bene possa essere realizzato prescindendo dalla sua autonoma scelta, dalla sua unica ed esclusiva assunzione di responsabilità davanti al bene o al male ».269

La conseguenza più grave di una tale prospettiva antropologica è quella di ridurre l'uomo « a una serie di relazioni sociali » e di eliminare « il concetto di persona come soggetto autonomo di decisione morale, il quale costruisce mediante tale decisione l'ordine sociale ».270

La radice di questa prospettiva che nel corso della storia si è rivelata profondamente negativa per l'uomo è l'ateismo, in quanto, come si è già rilevato in altri punti di questo lavoro, « la negazione di Dio priva la persona del suo fondamento e, di conseguenza, induce a riorganizzare l'ordine sociale prescindendo dalla dignità e responsabilità della persona ».271

Infatti, ha ricordato Giovanni Paolo II, sempre nella Centesimus annus, « non è possibile comprendere l'uomo partendo unilateralmente dal settore dell'economia, né è possibile definirlo semplicemente in base all'appartenenza di classe ».272

Perché l'uomo sia compreso in modo più esauriente, occorre che sia « inquadrato nella sfera della cultura attraverso il linguaggio, la storia e le posizioni che egli assume davanti agli eventi fondamentali dell'esistenza, come il nascere, l'amare, il lavorare, il morire ».273

E non bisogna dimenticare che « al centro di ogni cultura sta l'atteggiamento che l'uomo assume davanti al mistero più grande: il mistero di Dio ».274

E per questo che anche oggi lo sviluppo che l'uomo deve perseguire « non deve essere inteso in un modo esclusivamente economico, ma in senso integralmente umano ».275

Di fronte alle difficili situazioni economiche e sociali di molti paesi, alle sofferenze dei loro popoli, Giovanni Paolo II ha precisato che « non si tratta solo di elevare tutti i popoli al livello di cui godono oggi i Paesi più ricchi, ma di costruire nel lavoro solidale una vita più degna, di far crescere effettivamente la dignità e la creatività di ogni singola persona, la sua capacità di rispondere alla propria vocazione e, dunque, all'appello di Dio, in essa contenuto », perché « al culmine dello sviluppo sta l'esercizio del diritto-dovere di cercare Dio, di conoscerlo e di vivere secondo tale conoscenza ».276

Di fronte ad un'organizzazione della società rivelatasi fin dalle sue origini come negatrice dei diritti dell'uomo, sia da un punto di vista teorico, sia da un punto di vista storico-pratico, la Chiesa ha svolto un ruolo fondamentale « per la difesa e la promozione dei diritti dell'uomo ».277

La Chiesa, ha chiarito Giovanni Paolo II, ha contribuito a ciò offrendo « non solo la sua dottrina sociale e, in generale, il suo insegnamento circa la persona redenta in Cristo, ma anche il concreto suo impegno ed aiuto per combattere l'emarginazione e la sofferenza ».278

In particolare Giovanni Paolo II si è soffermato sui fatti che hanno portato nel 1989 alla crisi e al crollo dei regimi comunisti dell'est Europa.

Innanzitutto, è risultato evidente, soprattutto nella sua Polonia, una piena sintonia tra l'insegnamento sociale della Chiesa e le esigenze del popolo: « Sono le folle dei lavoratori a delegittimare l'ideologia, che presume di parlare in loro nome, ed a ritrovare e quasi riscoprire, partendo dall'esperienza vissuta e difficile del lavoro e dell'oppressione, espressioni e principi della dottrina sociale della Chiesa ».279

La crisi di tali regimi oppressivi, oltre che per la lotta pacifica che il popolo, con il sostegno della Chiesa, è stato in grado di condurre e vincere, per Giovanni Paolo II, è stata determinata anche dall'inefficienza del sistema economico « che non va considerata come un problema soltanto tecnico, ma piuttosto come conseguenza della violazione dei diritti umani all'iniziativa, alla proprietà e alla libertà nel settore dell'economia ».280

Infatti, « dove la società si organizza riducendo arbitrariamente o, addirittura, sopprimendo la sfera in cui la libertà legittimamente si esercita, il risultato è che la vita sociale progressivamente si disorganizza e decade ».281

Infine, risulta estremamente interessante il giudizio circa il capitalismo.

Dato che il comunismo è risultato sconfitto dalla storia, ciò significa che sia il capitalismo il modo migliore per organizzare l'economia di una società?

La risposta di Giovanni Paolo II mostra ancora una volta l'assoluta originalità della prospettiva cristiana: « se con "capitalismo" si indica un sistema economico che riconosce il ruolo fondamentale e positivo dell'impresa, del mercato, della proprietà privata e della conseguente responsabilità per i mezzi di produzione, della libera creatività umana nel settore dell'economia, la risposta è certamente positiva, anche se forse sarebbe più appropriato parlare di "economia d'impresa", o di "economia di mercato", o semplicemente di "economia libera".

Ma se con "capitalismo" si intende un sistema in cui la libertà nel settore dell'economia non è inquadrata in un solido contesto giuridico che la metta al servizio della libertà umana integrale e la consideri come una particolare dimensione di questa libertà, il cui centro è etico e religioso, allora la risposta è decisamente negativa ».282

Il contributo di Giovanni XXIII e del Concilio Ecumenico Vaticano II

Il grande merito di Giovanni XXIII è stato quello di non avere abbandonato la radicalità della proposta alternativa rappresentata dal cattolicesimo e, allo stesso tempo, di avere mostrato come su tale proposta fosse possibile l'incontro di tutti gli uomini di buona volontà.

Anche chi conosce poco la storia della Chiesa, sa che Giovanni XXIII è stato il primo Papa ad avere aperto le sue encicliche rivolgendosi non soltanto ai Vescovi e ai sacerdoti della Chiesa, non solo ai fedeli, ma a tutti gli uomini di buona volontà.

L'Enciclica Mater et magistra, di cui si è già parlato, afferma a questo riguardo che a partire dalla proposta cristiana e in particolare dalla dottrina sociale si può e si deve intraprendere, coinvolgendo anche i non credenti, un'azione di ricostruzione della società: « Da quel principio fondamentale, che tutela la dignità sacra della persona, il Magistero della Chiesa ha enucleato [ … ] una dottrina sociale che indica con chiarezza le vie sicure per ricomporre i rapporti della convivenza secondo criteri universali rispondenti alla natura e agli ambiti diversi dell'ordine temporale e ai caratteri della società contemporanea, e perciò accettabili da tutti.

È però indispensabile, oggi più che mai, che quella dottrina sia conosciuta, assimilata, tradotta nella realtà sociale in quelle forme e in quei gradi che le varie situazioni acconsentano o reclamino: compito arduo, ma nobilissimo, alla cui attuazione invitiamo con appello ardente non solo i nostri fratelli e figli sparsi in tutto il mondo, ma anche tutti gli uomini di buona volontà ».283

Giovanni XXIII con la sua ultima enciclica ha affrontato anche la grande questione della pace legandola, come del resto aveva già fatto Pio XII, proprio alle problematiche sociali.

Per costruire la vera pace occorre innanzitutto favorire l'ordine interno.

Il tema della pace è indubbiamente un aspetto centrale del Magistero sociale.

A partire da Benedetto XV fino a Giovanni Paolo II, tutti i pontefici si sono pronunciati per la pace e si sono impegnati in prima persona a favore della pace.

In primo luogo va ricordato sicuramente Benedetto XV ( 1914 - 1922 ), che fin dal primo messaggio, l'8 settembre 1914, ha condannato la Prima Guerra Mondiale, definendola "spettacolo mostruoso", "flagello dell'ira di Dio".

Ha poi, nella prima enciclica Ad Beatissimi Apostolorum Principis del 1914, ulteriormente denunciato la Grande Guerra come "spettacolo atroce e doloroso", come "tremendo fantasma".

Nella nota del 1 agosto del 1917 ai capi dei popoli belligeranti, sempre per condannarla ha usato la formula, diventata celebre, di "inutile strage".

Questi appelli e l'intensa attività diplomatica vennero però disattesi.

Le forze laiciste lo esclusero perfino dalle trattative di pace e dalla società delle Nazioni, ma questo non ha impedito che ancora nella sua ultima enciclica, Pacem Dei munus ( 1920 ), continuasse a chiedere che « i popoli reintegrino tra loro l'unione e l'amicizia ».

Giovanni XXIII ha inteso richiamare la verità, la giustizia, la carità e la libertà quali capisaldi su cui si può e si deve costruire l'ordine della società e di conseguenza un'autentica pace: « la pace rimane solo suono di parole, se non è fondata su quell'ordine che il presente documento ha tracciato con fiduciosa speranza: ordine fondato sulla verità, costruito secondo giustizia, vivificato e integrato dalla carità e posto in atto nella libertà ».284

Il testo della Pacem in terris risulta pertanto ancora attualissimo e utilissimo perché aiuta a distinguere la posizione della Chiesa riguardo alla pace dai movimenti pacifisti.

La linea del papato, pur condannando di fatto tutte le guerre che si sono verificate nel XX secolo, non può essere definita pacifista.

La sua azione è indubbiamente pacificatrice, ma non pacifista.

Questa enciclica di Giovanni XIII, come molti degli interventi di Giovanni Paolo II nei confronti di conflitti più recenti, contribuiscono a chiarire come per la Chiesa la pace vera, « la Pace in terra, anelito profondo degli esseri umani di tutti i tempi, può venire instaurata e consolidata solo nel pieno rispetto dell'ordine stabilito da Dio ».285

Non c'è pace senza giustizia.

In piena sintonia con questa formulazione Giovanni Paolo II in tempi molto più recenti, di fronte alla minaccia del terrorismo e della violenza, ha affermato: « La vera pace [ … ] è frutto della giustizia, virtù morale e garanzia legale che vigila sul pieno rispetto di diritti e doveri e sull'equa distribuzione di benefici e oneri.

Ma poiché la giustizia umana è sempre fragile e imperfetta, esposta com'è ai limiti e agli egoismi personali e di gruppo, essa va esercitata e in certo senso completata con il perdono che risana le ferite e ristabilisce in profondità i rapporti umani turbati [ … ]

Il perdono mira piuttosto a quella pienezza di giustizia che conduce alla tranquillità dell'ordine, la quale è ben più che una fragile e temporanea cessazione delle ostilità, ma è risanamento in profondità delle ferite che sanguinano negli animi.

Per un tale risanamento la giustizia e il perdono sono ambedue essenziali ».286

Il Magistero di Giovanni XXIII ha avuto, pur essendo un breve Magistero, un altro grande merito fondamentale, quello di aver celebrato il Concilio Vaticano II.

I documenti che riguardano la dottrina sociale, Gaudium et spes e Dignitatis humanae, consentono di capire che cosa il Concilio ha rappresentato.

Il Concilio ha posto, innanzitutto, l'attenzione sul soggetto missionario che è la Chiesa.

In tutto il periodo precedente erano apparsi documenti in cui si parlava del soggetto missionario in azione, ma non si era sufficientemente riflettuto sulle caratteristiche fondamentali della Chiesa come soggetto missionario presente nel mondo.

Secondo la definizione che Giovanni Paolo II ha dato del Concilio stesso nei quattro numeri iniziali della Redemptor hominis, il Concilio ha operato un approfondimento dell'auto coscienza che la Chiesa ha di sé.

La Chiesa nel Concilio ha maturato un'adeguata coscienza di sé come Sacramento di Cristo, quindi come identità irriducibile della storia, perché caratterizzata dalla presenza di Cristo, che la costituisce come popolo nuovo.

La teologia del popolo di Dio, che è subalterna alla teologia del Corpo di Cristo, è stata riformulata dal Concilio, proprio per sottolineare la visibilità e la socialità della Chiesa e per togliere quindi dall'espressione « Corpo di Cristo », qualsiasi tentazione di leggerla in senso intimistico, spiritualistico o emozionale, che ne riduce il significato. « Corpo di Cristo » significa un avvenimento, una realtà presente, identificata da una precisa coscienza di appartenere a Cristo e di doverlo portare nel mondo a tutti gli uomini.

L'identità di appartenere a Cristo diventa responsabilità di approfondimento del soggetto ecclesiale.

Il mondo, nel quale l'uomo è diventato incomprensibile a se stesso, non può salvarsi se non in riferimento all'avvenimento di Cristo.

La lezione centrale contenuta nella Gaudium et spes è di carattere filosofico e culturale: l'uomo senza riferimento a Cristo è una realtà incomprensibile, perché Cristo, rivelando Dio all'uomo, rivela anche l'uomo all'uomo.

Non è dunque possibile uno sforzo di comprensione e di liberazione che prescinda da Cristo; se invece ci si riferisce a Lui, è possibile entrare nelle vicende della storia, rispettando le caratteristiche della realtà che si affronta.

La dipendenza da Cristo si realizza, pertanto, nel pieno riconoscimento dell'autonomia, perché Cristo non violenta la realtà naturale: l'ha creata e la redime nel rispetto della libertà della persona e della natura propria della realtà.

Nella Dignitatis humanae viene tracciato invece il tema della dignità e dei diritti umani, mettendo alla base il diritto alla libertà religiosa.

Si respinge inoltre l'accusa mossa alla Chiesa di aver sempre negato tale libertà poiché l'esigenza religiosa appartiene alla struttura naturale dell'uomo, sempre riconosciuta dall'antropologia di riferimento del Magistero.

Il documento individua nell'uomo l'interlocutore della missione.

Il Concilio non si rivolge all'ideologia; la Chiesa parla all'uomo che cerca Dio, parla al suo cuore.

Ciò che esiste oltre l'ideologia è un'istanza religiosa che deve essere rispettata.

La Dignitatis humanae è una richiesta esplicita che la Chiesa rivolge agli Stati: la persona deve essere rispettata per quello che è il cuore e il fulcro della persona, la tensione a Dio.287

Ciò che ostacola la Chiesa in questa sua azione è la permanenza di una impostazione ideologica che è tesa ad assorbire la dimensione religiosa come parte dello Stato.

Individuato l'uomo con la sua dignità di interlocutore, segue la lotta per la sua difesa.

Giovanni Paolo II ha svolto le conseguenze di questa nuova interpretazione del Concilio, sostenendo che il criterio con il quale giudicare il livello di democrazia di uno Stato è la libertà religiosa.

Il coraggio di Paolo VI

Il suo pontificato può essere letto come un'intensa testimonianza al fatto che la fedeltà all'identità della fede conduce al massimo di coraggio e di capacità di dialogo, soprattutto nella percezione e nella indicazione delle soluzioni ai problemi dell'uomo e della società.

Egli ha mostrato come la fedeltà all'identità cristiana, non solo non rappresenti un ostacolo al dialogo, ma al contrario favorisca un atteggiamento di apertura verso tutti, di partecipazione alla vita sociale e di solidarietà nei confronti dei più deboli.

Paolo VI ( 1963 - 1978 ), sulla scia di Giovanni XXIII, attraverso il Concilio Ecumenico Vaticano II, ha cercato, attingendo a pieno dalla tradizione, di superare la contrapposizione Chiesa - modemità, riproponendo, di fronte a quel filone della modernità laicista ormai sconfitto, una precisa identità cristiana, capace di incidere sulla società e di generare una cultura originale.

Il Magistero di questo Papa si è svolto a partire dalla Ecclesiam suam ( 1964 ), ma dal punto di vista sociale, occorre far riferimento innanzitutto alla Populorum progressio ( 1967 ).

In questa enciclica lo sviluppo dei popoli è individuato da Paolo VI come il fondamento della pace.

La pace è intesa come una convivenza ordinata fra uomini, lasciati liberi di cercare e professare la verità.

Tale disegno di pace è però realizzabile solo grazie alla presenza dei cattolici.

Se essi, infatti, sono presenti come tali, sono capaci di autentica solidarietà.

Non bisogna dimenticare che « la pace non si riduce a un'assenza di guerra, frutto dell'equilibrio sempre precario delle forze.

Essa si costruisce giorno per giorno, nel perseguimento d'un ordine voluto da Dio, che comporta una giustizia più perfetta tra gli uomini ».288

È un dato fondamentale proprio del Magistero di Paolo VI, e successivamente di quello di Giovanni Paolo II, inquadrare la problematica inerente alla società non solo secondo la prospettiva delle singole nazioni, ma nella sua prospettiva mondiale.

Ciò è avvenuto non perché si è semplicemente preso atto dell'inarrestabile fenomeno della globalizzazione.

La Chiesa e in particolare questi due pontefici, prospettando il problema sociale in termini mondiali, hanno inteso sottolineare che per risolverlo occorre un approccio universale.

E quale categoria più universale esiste di quella pienezza di umanità che è resa possibile dal Signore Gesù ed è partecipabile da tutti?

Quale categoria più adeguata esiste di vera unità del genere umano di quella della fede, che si esprime nella carità e nella solidarietà?

La fine dell'internazionalismo proletario, di cui la seconda parte del XX secolo ha mostrato tutta la sua illogicità, smascherandolo come fondamentale strumento dell'espansione coloniale dell'URSS, ha lasciato il posto a nuovi meccanismi ideologici, politici e militari, ugualmente irrispettosi della libertà umana.

Solo una forza universale, cioè morale, che riesca ad impostare i problemi non semplicemente da un punto di vista descrittivo, ma alla luce di valori che siano universali, risulta in grado di aprire una nuova prospettiva di speranza.

Paolo VI, attraverso la dottrina sociale, ha voluto mostrare come il cattolicesimo sia in grado di fornire un punto di vista adeguato, capace di integrare le prospettive particolari in una prospettiva definitivamente universale.

Paolo VI ha, quindi, sottolineato come il cristiano non debba accettare che si affermi un'idea di progresso che pretenda di risolvere i problemi sociali riducendoli alle sole dimensioni materiali, e implichi l'eliminazione di quella pluralità della vita sociale che scaturisce dalla naturale dinamica sociale.

Paolo VI ha chiamato le comunità cristiane nella loro obiettività ad essere i soggetti della verifica della dottrina sociale.

L'insegnamento sociale della Chiesa deve essere ascoltato e deve essere continuamente approfondito e riformulato dalle comunità cristiane vive.

Il cristiano, se è presente come realtà nel mondo, non può non arrivare ad impostare i problemi sociali secondo le indicazioni del Magistero e quindi a verificarne l'attuabilità.

L'avvenimento cristiano, vissuto consapevolmente, diventa azione solidale, capace di integrare tutte le posizioni positive.

Nel Magistero di Paolo VI prende corpo così una soggettività concreta, una soggettività ecclesiale chiamata ad essere protagonista decisiva nella storia.

Il campo per le varie trasformazioni mondiali è, innanzitutto, quello della propria comunità.

L'enciclica Octogesima adveniens ( 1971 ) e l'esortazione apostolica Evangelii nuntiandi, evidenziano, ribadendo spesso quanto già osservato dai suoi predecessori, il fallimento del progetto dominante l'epoca moderna, fondato sull'antropologia dell'autoimmanenza, e insieme l'unica vera alternativa: l'uomo, cioè, non può rimanere senza fondamento, e può trovare solo nel riferimento a Dio e a Cristo la sua fondazione e la difesa di sé come soggetto creatore di storia.

Una riflessione particolare merita la Lettera apostolica sulla regolazione della natività Humanae vitae.

Rileggere l'Humanae vitae oggi, nell'esito estremo di quella mentalità laicista, consumistica ed edonistica, che era di fatto il riferimento polemico dell'intero documento, acquista, infatti, un valore significativo.

L'intervento di Paolo VI fu come un preciso grido di allarme nei confronti di un degrado della sensibilità cristiana ed umana che si è poi attuato in modo rigoroso ed è arrivato alle più devastanti conseguenze.

Conseguenze che, per altro, tendono ad assumere il carattere della "normalità" ed autorizzano, pertanto, l'utilizzo di quel termine che tante volte Giovanni Paolo II ha usato per definire la situazione etico - sociale del nostro tempo, ovvero il termine "barbarie".

Quale era l'intendimento di Paolo VI all'atto della pubblicazione della Humanae vitae?

Era quello di riproporre in termini ampi il messaggio del cristianesimo sul matrimonio come vocazione ecclesiale che nasce nel mistero di Cristo e che si attua come esperienza di autentica umanità, insieme dolorosa e lieta.

Nel matrimonio cristiano non si può considerare accidentale la procreazione, né per altro si può considerarla come un progetto o un oggetto nei confronti del quale operare con qualsiasi mezzo per ridurne l'eventualità o addirittura per negarla.

L'autentica realizzazione della vocazione matrimoniale esigeva di mettere al proprio centro la responsabilità della procreazione, nel rispetto rigoroso di quella procedura naturale in cui si è espressa la volontà del Creatore e che non può essere disponibile a nessuna manipolazione o tecnologizzazione.

Ad un mondo avviato a celebrare i fasti - o meglio - i nefasti dell'individualismo egoistico, dell'autogratificazione ad ogni costo, della sessualità che si andava praticando al di fuori di qualsiasi autentico impegno umano e cristiano per ridursi ad un meccanismo gratificatorio, il Papa richiamava la grandezza e la umanità di un "altro mondo" che, comunque, per la fede e la carità dei cristiani entrava in questo mondo e si poneva come un avvenimento di piena umanità, conseguita certamente anche a prezzo di sacrifici e di fatiche.

Paolo VI ha voluto ricordare che l'uomo e la donna attuano nella famiglia il progetto di Dio su di loro, sulla Chiesa e sul mondo e collaborano in modo attivo e responsabile alla generazione di vite nuove secondo quella procedura che Dio ha iscritto nella struttura profonda della realtà, nel momento del suo atto creatore.

Egli ha quindi voluto ribadire che la natura non è un dato che possa essere esaurientemente analizzato dalla intelligenza scientifica e manipolato dalla capacità tecnologica dell'uomo; è un dato che porta nella vita il mistero stesso di Dio e deve, perciò, essere accolto ed obbedito.

Ma anche l'obbedienza alla legge di Dio non è un meccanismo ( ed anche questo ha ricordato con estrema precisione Paolo VI ): è un'obbedienza che mette in primo piano la responsabilità del padre e della madre che assumono il compito loro affidato da Dio.

Ciò che ha difeso Paolo VI, e che la Chiesa continua a difendere, è la legge della natura; legge che si è chiamati a vivere con responsabilità, quindi anche con il senso del proprio limite e la umiliazione del proprio peccato.

Il peccato è sempre perdonato dalla Chiesa, ma l'errore non può mai avere il diritto della verità.

Questa posizione, per affermare la quale il Papa è passato attraverso un lungo periodo di travaglio e di fatica, è stata allora contestata dalla mentalità scientifica.

Ci si è accorti, in questi più di trent'anni, che si trattava in effetti di una mentalità presuntamente scientifica, agitata ideologicamente da una vera e propria tempesta mass - mediatica.

Il Papa rimase solo di fronte al mondo laicistico che lo irrideva e rimase quasi solo anche nella Chiesa.

Agli uni ed agli altri sembrò che la posizione papale negasse i diritti della persona umana e della sua libertà, ma il Papa denunciava invece i limiti di un individualismo in cui l'uomo si pone come padrone di se stesso e della libertà e che tende a considerare l'altro anziché come partner per una responsabilità oggettiva, piuttosto come oggetto di una gratificazione istintiva ed ultimamente irresponsabile.

Molti settori ecclesiali ed ecclesiastici presero le distanze dal Papa, accusandolo di non comprendere le autentiche esigenze dell'uomo e del mondo moderno, e tentarono più di un accordo sul campo della morale sessuale per tenere aperta, come si diceva, una possibilità di dialogo.

In effetti sembra assolutamente chiaro, ora, che amassero di più il mondo che la verità stessa della fede e non fossero disposti a testimoniare al mondo quella novità di vita, anche dolorosa, che comunque corrisponde al desiderio profondo dell'uomo di ogni tempo, quindi anche di questo tempo.

Dopo l'Humanae vitae sono seguite la legge sul divorzio e poi quella sull'aborto e poi la pratica delle manipolazioni biologiche e genetiche, fino alle aberranti sperimentazioni sui feti e sugli embrioni giustificate come diritto alla ricerca scientifica e funzionali all'incremento delle condizioni di vita dell'uomo.

Così è diventato definitivamente chiaro che a tutto il vasto campo della manipolazione biologica si lega ormai indissolubilmente l'estrema espressione dell'antiteismo moderno e contemporaneo che vuole cancellare la presenza stessa di Dio all'origine del mistero del nascere e del mistero del morire: si afferma la vita umana semplicemente come oggetto di una propria assoluta e autonoma capacità di progettazione e di programmazione.

D'altra parte la stessa scienza, quella seria, cioè quella che non accetta strumentalizzazioni ideologiche, è andata recuperando in questi anni una sostanziale sintonia con le posizioni anche scientifiche implicate nella dichiarazione papale.

Tuttavia, il problema trent'anni fa come oggi è uno solo: è necessario annunziare al mondo Gesù Cristo, "Redentore dell'uomo e centro del cosmo e della storia", e tale annunzio implica la testimonianza al mondo di un mondo nuovo, vivo, libero, capace di responsabilità profonda nei confronti di Dio e della realtà per un compito ampio e definitivo, in cui l'uomo e la donna si compiono integralmente nella loro umanità.

Non c'è novità senza sacrificio: come tutti gli inviti cristiani l'Humanae vitae chiedeva anche il sacrificio.

Ma l'Humanae vitae ha tenuto aperta quella strada di verità autentica verso Dio e verso gli uomini che è stata percorsa ed è percorsa da tanti cristiani e da essi offerta agli uomini come « la via, la verità e la vita ». ( Gv 14,6 )

Giovanni Paolo II e la dignità della persona umana

Come si è fin qui delineato la Chiesa ha certamente combattuto l'egemonia laicista lungo tutta la modernità.

La dottrina sociale da Pio IX a Giovanni Paolo II dimostra l'esistenza di una cultura cattolica cosciente della propria identità, tesa a proporre una propria « via » su tutti i problemi antropologici, etici, sociali e politici del mondo moderno e contemporaneo, antitetica a quella laicista dominante.

Al totalitarismo laicista, come si è già evidenziato, la dottrina sociale cattolica ha contrapposto la priorità della persona umana sulla società; la priorità della società sullo Stato.

A quest'ultimo è stata negata ogni soggettività "etica" e quindi ogni principio di assimilazione della vita personale e sociale, assegnandogli, invece, compiti di regolazione e promozione della libertà della società.

È stata inoltre coerentemente ribadita la distinzione assolutamente necessaria fra struttura religiosa e struttura politica, a garanzia congiunta della libertà della Chiesa e del rispetto assoluto della coscienza personale.

Tuttavia, è altrettanto vero che, paradossalmente, dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale, si è andata progressivamente riducendo la capacità della Chiesa, e al di là di essa dell'intero popolo cristiano, di realizzare una reale alternativa culturale all'egemonia del laicismo.

Non bisogna, infatti, dimenticare che, se la Seconda Guerra Mondiale segna l'esito fallimentare del progetto laicista, solo la caduta dei regimi comunisti dell'est Europa alla fine del secolo ha sancito in qualche modo la definitiva sconfitta storica delle ideologie.

Inoltre, dire che l'epoca storica delle ideologie si è conclusa con la caduta dei regimi comunisti non significa però affermare che il pericolo dell'ideologia in sé sia scomparso definitivamente.

Sarebbe un gravissimo errore guardare l'ideologia come il retaggio di un recente passato, un tempo ormai trascorso, irreversibile, estraneo alla vita presente.

Occorre sempre tenere presente che, al di là di una valutazione storica o puramente sociologica, l'ideologia è l'attacco più grave che possa essere inferto all'identità della persona, perché la vera natura dell'ideologia è la menzogna.

Essa non è poi così lontana dall'uomo di sempre, perché la menzogna nasce nel cuore dell'uomo: l'uomo non è solo capace di bene, ma è anche capace di male.

È la realtà, drammaticamente quotidiana, del peccato.

La menzogna investe la storia assumendo la forma dell'ideologia, ossia di una costruzione teorica e pratica, accettata come vera, che pretende di dare un senso esclusivamente intramondano alla vicenda umana.

Il presupposto dissimulato di tutte le ideologie è il sostenere che l'uomo non si comprenda in rapporto al Mistero, ma esclusivamente attraverso la ragione, o il sentimento, o l'inconscio, o l'istinto, o un progetto politico e sociale.

Non è questa la sede per individuare ed analizzare in modo esauriente i fattori che hanno determinato questa debolezza intrinseca alla stessa Chiesa.

Sicuramente l'orientamento « modernistico » della teologia post-conciliare, non previsto dal Concilio, può aiutare a spiegare il ripiegarsi di tanta teologia cattolica su una posizione subalterna alle istanze e alle visioni delle ideologie mondane.

Invece di colpire in modo definitivo le stesse ideologie, i cristiani spesso hanno finito per cedere a loro e, più o meno consapevolmente, per servirle.

La teologia è sembrata essere sempre meno utile alla fede del popolo cristiano.

Spesso si ha avuto l'impressione che il mondo cattolico vivesse nell'orizzonte di un dualismo fra una fede popolare senza capacità di proporre una autentica visione culturale, e una fede "dotta" persa in sterili e datate querelles con le posizioni ideologiche di moda.

Non bisogna dimenticare che la modernità, come secolarizzazione programmata ed attuata, ha contenuto e di fatto contiene una grandissima sfida nei confronti del cristianesimo: costringere il cristianesimo a non leggere criticamente la modernità a partire da una fede capace di essere criterio di giudizio, e al contrario costringerlo a ridimensionarsi sulla modernità, ad assumere come propri criteri non cristiani.

Con la conseguenza inevitabile della perdita della vera identità cristiana.

Non più soltanto un mentalità esterna, per quanto forte e minacciosa, comunque pur sempre esterna, quindi più facilmente identificabile, ma una mentalità interna alla vita stessa della Chiesa.

Come tale più insidiosa, più pericolosa, tanto che le categorie del pensiero moderno sono state applicate all'ambito stesso della teologia.

Ecco allora l'irrompere della tentazione di sottoporre la cultura della fede, che nasce dalla fede, che dovrebbe nascere dall'esperienza di una vita di fede, alla scienza, o meglio alle tentazioni scientiste, positiviste, socio-politiche.

L'azione di resistenza da parte della chiesa alle ideologie scaturite dalla modernità ha, quindi, conosciuto una debolezza intrinseca, il cui punto più pericoloso si è espresso all'inizio del XX secolo con il fenomeno chiamato "modernismo",289 condannato nel 1907 dall'enciclica Pascendi dominici gregis di Pio X ( 1903 - 1914 ).

Tuttavia, si tratta di una tendenza che ha continuato a indebolire l'identità del soggetto ecclesiale e risulta ancora presente, in modo abbastanza diffuso nel complesso del cattolicesimo di oggi, in quanto rappresenta una tentazione permanente dello spirito cattolico.

Sicuramente questa tentazione di autoridimensionamento della chiesa sul mondo, cioè questa sorta di neomodernismo, di fatto ha prevalso in una certa interpretazione postconciliare.

Con il Magistero di Giovanni Paolo II ( 1978 - 2005 ) ecco allora che è stata invece ribadita la proposta di un'autentica cultura sociale cristiana: una cultura ed una socialità originali che nascono dall'identità dell'esperienza popolare della fede e, quindi, dal suo dinamismo missionario.

Tale proposta è sfociata nel dialogo con le più diverse forze culturali, sociali e politiche, dialogo teso ad una costruzione comune.

Il Magistero di Giovanni Paolo II è stato senz'altro una grande provocazione per la mentalità contemporanea, per la capacità con la quale ha saputo riproporre in forme nuove l'unico evento che costituisce da duemila anni il centro della vita della Chiesa e rappresenta una concreta possibilità di vita per l'uomo che vuole prendere sul serio il problema del proprio destino.

Il Papa polacco, inaugurando il pontificato e successivamente ripetutamente nello svolgimento del suo mandato, ha affermato che solo nell'imprevisto dell'Incarnazione e nel fatto della Redenzione si trova e si troverà sempre fino alla fine dei tempi il senso della storia.

L'umanità ha percepito subito nell'evento dell'elezione e in quell'annuncio fatto al mondo un segno concreto di speranza per il proprio desiderio di libertà.

In altri termini, questo Papa è stato capace di ridestare nel cuore dell'uomo il desiderio di Dio, di Assoluto che lo costituisce nel profondo.

Ha percosso l'orgoglio occidentale, ribadendo che l'uomo è naturale mendicanza del Mistero che fa tutte le cose e che l'ontologia della creazione, fondamentale per spiegare l'essere umano, culmina in modo definitivo nell'evento di Redenzione operata da Gesù Cristo.

Giovanni Paolo II ha presentato come fulcro del suo messaggio l'evangelizzazione, cioè il cristianesimo ripresentato nella sua integralità, nella sua struttura di evento irriducibile a qualsiasi forma ideologica, capace di intervenire creativamente sulla struttura dell'uomo, dandogli una cultura nuova.

Si può dire che tutto il suo Magistero è documentato da due stupori: lo stupore dell'incarnazione e lo stupore dell'esito dell'incarnazione, ossia il cambiamento dell'uomo.

L'enciclica Redemptor hominis del 1979 appare oggi come il documento programmatico del suo pontificato, il centro del suo insegnamento da cui si snodano e vengono sviluppate le linee fondamentali del suo Magistero.

La natura e la vocazione dell'uomo del nostro tempo sono appunto rilette a partire dal Mistero della Redenzione.

Leggendo l'enciclica appare in modo chiaro che l'identità dell'uomo è come tale la grande questione irrisolta della modernità.

Giovanni Paolo II ha chiaramente indicato come segno del fallimento delle ideologie ateistiche proprie del pensiero moderno - contemporaneo la tragica situazione in cui l'uomo si trova a vivere oggi: « L'Europa è oggi attraversata da correnti, ideologie, ambizioni che si vorrebbero estranee alla fede, quand'anche non direttamente opposte al cristianesimo.

Ma è interessante rilevare come, partendo da sistemi e da scelte che intendevano assolutizzare l'uomo e le sue conquiste terrene, si è arrivati oggi a mettere in discussione precisamente l'uomo stesso, la sua dignità ed i suoi valori intrinseci, le sue certezze eterne e la sua sete di assoluto.

Dove sono oggi i solenni proclami di un certo scientismo che prometteva di dischiudere all'uomo spazi indefiniti di progresso e di benessere?

Dove sono le speranze che l'uomo, proclamata la morte di Dio, si sarebbe finalmente collocato al posto di Dio nel mondo e nella storia, avviando un'era nuova in cui avrebbe vinto da solo tutti i propri mali?

Le tragiche vicende di questo secolo, che hanno insanguinato il suolo d'Europa in spaventosi conflitti fratricidi; l'ascesa di regimi autoritari e totalitari, che hanno negato e negano la libertà e i diritti fondamentali dell'uomo; i dubbi e le riserve che pesano su un progresso che, mentre manipola i beni dell'universo per accrescere l'opulenza ed il benessere, non solo intacca l'"habitat" dell'uomo, ma costruisce anche tremendi ordigni di distruzione; l'epilogo fatale delle correnti filosofico - culturali e dei movimenti di liberazione chiusi alla trascendenza: tutto questo ha finito per disincantare l'uomo europeo, spingendolo verso lo scetticismo, il relativismo, se non anche facendolo piombare nel nichilismo, nella insignificatezza e nell'angoscia esistenziale ».290

Il Magistero di Giovanni Paolo II, fin dall'inizio, oltre a questa denuncia dei limiti e degli esisti tragici della modernità, ha voluto anche illuminare il dramma dell'uomo di questo secolo e rimetterlo di fronte alla verità del suo essere.

Il Papa della Redemptor hominis ha voluto comunicare di nuovo all'uomo la verità del Vangelo sul senso dell'esistenza: il cuore umano è desiderio di una Persona; nessuna attesa è vana perché Dio si è rivelato all'uomo in Cristo e in questo evento definitivo sta l'unica possibilità di salvezza per l'uomo.

Le ideologie hanno fallito non perché hanno cercato di costruire questo o quel sistema in quanto tale, ma perché non hanno corrisposto e hanno ingannato la domanda dell'uomo.

Essa non è rimasta semplicemente inevasa, è stata tradita sull'altare dei falsi idoli.

Invece Dio, rivelando se stesso all'uomo in Gesù Cristo, ha rivelato non solo la verità su di Sé, ma ha rivelato anche la verità sull'uomo.

Il fondo dell'essere dell'uomo è il desiderio che l'Assoluto possa manifestarsi.

Questo desiderio può essere ragionevolmente riconosciuto o, all'opposto, rifiutato nella sua portata, ma nulla cambia nell'ontologia della persona: l'uomo è questo desiderio.

Questa è la natura dell'uomo, la sua identità: l'uomo è per natura apertura al Mistero.

L'identità umana, se è per natura apertura al Mistero, cristianamente è partecipazione a quel Mistero che si è rivelato.

Cristo, Redentore dell'uomo, diventa per l'uomo il miracolo di una nuova nascita: l'identità dell'uomo redento da Cristo è un uomo che è infinitamente più dell'uomo, perché il Mistero rivelato si è offerto come compagnia, nella storia, alla sua avventura umana.

La fede è stata presentata e vissuta da Giovanni Paolo II come l'inizio di un'antropologia nuova, perché dall'esperienza della fede nasce un giudizio nuovo che investe la totalità dell'esistenza.

Non è questa una pretesa di carattere confessionale, perché la realtà mondana conserva tutta la sua pienezza di significato e non viene svuotata di senso a favore di una visione clericale della vita; Cristo non ha chiesto all'uomo di sacrificare la sua esperienza d'uomo, si è offerto invece come possibilità di una vita nuova, più umana, dentro le cose del mondo.

Lungi dall'essere un atto di presunzione, è il riconoscimento da parte del cristiano del fatto oggettivo che, avvenuto dentro l'orizzonte della sua vita, determina una mentalità nuova, un modo nuovo d'essere.

Questo è il significato profondo della Redemptor hominis che « offriva al mondo una Chiesa innamorata dell'umanità e per la più valida delle ragioni: perché Dio ha "così amato il mondo" ( Gv 3,16 ) da inviare il suo unico Figlio come Redentore dell'uomo ».291

Quindi, il Papa di fronte alla concezione predominante della modernità, per la quale il soggetto umano è tutto, senza negarne gli aspetti positivi, ha proposto come soluzione dei drammi sociali del nostro secolo, rincontro con lo sguardo profondamente umano che nasce dalla fede in Cristo.

L'Incarnazione e la Redenzione sono viste come l'avvenimento di una mens completamente nuova, irriducibile alla logica del potere che ha permeato la tarda modernità.

Questo è uno dei punti capitali di tutto il suo Magistero e costituisce un autentico punto di svolta dentro la modernità: l'identità cristiana è autenticamente vissuta se diventa cultura.

Cultura, infatti, nella nuova accezione pensata da Giovanni Paolo II è il compimento, la maturazione, lo sviluppo critico della coscienza personale che avviene nell'ambito dell'avvenimento cristiano e della vita della Chiesa: « La cultura è ciò per cui l'uomo in quanto uomo diventa più uomo, "è" di più, accede di più all'essere ».292

Il Papa, affermando la centralità del nesso fede - cultura per la vita del cristiano, ha reso il suo stesso Magistero l'applicazione consapevole di un nuovo approccio verso la realtà e la storia.

Significative a tale riguardo sono sicuramente le pagine della Redemptor hominis dedicate alla « dimensione umana del Mistero della Redenzione ».293

Lo sviluppo di questo tema non ha un'importanza esclusivamente di carattere teologico o ecclesiale, ma risulta essenziale per comprendere la situazione dell'uomo redento nel mondo contemporaneo.

L'uomo, « prima e fondamentale via della Chiesa »,294 è al centro delle preoccupazioni della Chiesa ed essa non cessa di interrogarsi sempre più a fondo, per quanto è possibile, sulle molteplici situazioni che condizionano la sua esistenza.

Secondo Giovanni Paolo II la fede è in grado di rendere il popolo capace di cultura e di creatività sociale.

Il cristianesimo si rivela allora come nuova forma culturale capace di influire sulla concezione dell'uomo e dei rapporti come fattore genetico.

La migliore apologià che la Chiesa può fare di sé è il fatto che, dove essa è stata presente nella vita degli uomini e della società, l'uomo è stato più se stesso, ha vissuto maggiormente la sua libertà, la sua responsabilità e la sua capacità di creatività.

Dove, al contrario, la Chiesa è stata emarginata o ha accettato di esserlo anche l'uomo è stato negato.

Si può infatti costruire un mondo contro Dio, ma ciò significa costruire un mondo contro l'uomo.

Pertanto Giovanni Paolo II, come risulta anche da quanto esplicitamente affermato nella prima parte della Redemptor hominis, ha assunto il compito di raccogliere l'eredità del Concilio vaticano II e di avviarne un'adeguata interpretazione, perché il Concilio potesse fermentare nella vita della Chiesa e diventare principio attivo di vita, di elaborazione culturale e di progettazione pastorale.

In questo senso proprio la Redemptor hominis, da un lato, e la Novo millennio ineunte, dall'altro, rappresentano la fase iniziale e la fase matura di questo Magistero tutto preoccupato di operare una riforma nella tradizione.

La riforma nella vita cattolica è, infatti, sempre la riproposizione della tradizione non la rottura con la tradizione.

Il Magistero di Giovanni Paolo II in questo sforzo di rinnovamento dell'originaria identità della fede cristiana, rilanciando la Chiesa nella sua missione, ha sviluppato la grande responsabilità della difesa e promozione dei diritti umani e il compito della collaborazione alla pace.

Il Magistero dei grandi Papi della prima metà del XX secolo, approfondendo la linea intrapresa da Pio IX, ha difeso la Chiesa, la libertà della Chiesa, la sua missione e di conseguenza l'uomo contro le ideologie totalitarie; Giovanni Paolo II ha sviluppato tale linea magisteriale.

Anche per questo Papa difendere la libertà della missione e più in generale della Chiesa ha significato l'intransigente difesa e promozione della libertà e dei diritti della persona e dei popoli; ha significato la ricerca di un assetto della società, a tutti i livelli da quello nazionale a quello mondiale, in cui la persona sia irriducibilmente concepita al centro, sia il fattore definitivo non intercambiabile con nessun altro valore.

A questo riguardo nella Centesimus annus, di cui si è già precedentemente detto, ha ribadito, infatti, che « difendendo la propria libertà, la Chiesa difende la persona, che deve obbedire a Dio piuttosto che agli uomini ( At 5,29), la famiglia, le diverse organizzazioni sociali e le Nazioni, realtà tutte che godono di una propria sfera di autonomia e di sovranità ».295

Oggi, più che mai, questa linea trova uno svolgimento, non tanto nel confronto con un'ideologia apertamente totalitaria, ma nella lotta contro un'ideologia apparentemente meno sanguinaria del passato, in cui però la persona umana e i diritti dei popoli e delle nazioni rischiano di essere sistematicamente sacrificati per l'attuarsi di un progetto di globalizzazione economicistica e scientifico tecnocratica.

Nella piena continuità con la precedente tradizione del Magistero sociale, Giovanni Paolo II rappresenta, dunque, una novità: con il finire delle grandiideologie, ha capito che si trattava innanzitutto di incrementare fino in fondo la cura dell'uomo nella sua istanza religiosa anche laica, cioè naturale, insieme alla cura dei suoi diritti.

Senza difficoltà, come afferma anche George Weigel,296 si può dire che questo è stato un Papa dei diritti, che ha voluto dialogare e ha cercato come suo interlocutore l'uomo concreto, non l'idea astratta di uomo sulla quale hanno costruito i propri sistemi le ideologie.

Grazie a Giovanni Paolo II la dottrina sociale della Chiesa non è più da vedersi come la difesa dell'uomo e dei suoi diritti contro qualcosa, è innanzitutto l'incremento positivo e costruttivo dell'uomo e dei suoi diritti; senza però rinunciare a snidare e ad indicare tutti i nemici che sono rimasti, in particolare l'ideologia del potere di carattere tecnocratico e scientifico, che permane e nei confronti della quale l'uomo finisce per essere oggetto di manipolazione.

Bisogna comunque non travisare, e cogliere fino in fondo l'origine di tale vigorosa e integra affermazione dei diritti dell'uomo.

Non è l'affermazione di un generico umanesimo, quello che può essere indicato come l'origine del processo storico di formazione della mentalità laicista, quanto l'affermazione di un umanesimo cristiano, fondato cioè sulla Persona di Cristo, sulla possibilità di una reale sequela a Cristo: « In realtà, quel profondo stupore riguardo al valore ed alla dignità dell'uomo si chiama Vangelo, cioè la Buona Novella.

Si chiama anche Cristianesimo.

Questo stupore giustifica la missione della Chiesa nel mondo, anche, e forse di più ancora, nel "mondo contemporaneo".

Questo stupore, ed insieme persuasione e certezza, che nella sua profonda radice è la certezza della fede, ma che in modo nascosto e misterioso vivifica ogni aspetto dell'umanesimo autentico, è strettamente collegato a Cristo.

Esso determina anche il suo posto, il suo - se così si può dire - particolare diritto di cittadinanza nella storia dell'uomo e dell'umanità.

La Chiesa, che non cessa di contemplare l'insieme del mistero di Cristo, sa con tutta la certezza della fede, che la Redenzione, avvenuta per mezzo della croce, ha ridato definitivamente all'uomo la dignità ed il senso della sua esistenza nel mondo, senso che egli aveva in misura notevole perduto a causa del peccato ».297

Una volta recuperato l'uomo come domanda religiosa, riconosciuto il fondamento della libertà proprio nella libertà religiosa, individuata la radice del vero umanesimo in Cristo, se poniamo attenzione allo sviluppo del Magistero di Giovanni Paolo II, non può non colpire lo sguardo pienamente umano e carico di speranza che rivolge all'uomo.

Soprattutto, se teniamo conto del contesto in cui ci si trova, dove il pensiero laico, anche quello meno ideologico, sembra non avere ancora superato il fallimento del proprio progetto, sembra non essere ancora capace di potere sperare in un avvenire diverso.

Non c'è aspetto particolare della vita che non sia stato incluso in questo abbraccio all'uomo concreto che è l'insegnamento sociale di Giovanni Paolo II.

Il diritto alla vita è difeso secondo un'integrità e radicalità sconosciuta a qualsiasi altra cultura sia essa laica o religiosa.

Le pagine della Evangelium vitae ( 1995 ) sono in questo senso sicuramente un'importantissima testimonianza.

La Chiesa insiste sul diritto alla vita perché è "il vangelo della vita", annunciato definitivamente e donato pienamente da Gesù, che le svela la sacralità di questa, tuttavia « nonostante i condizionamenti negativi del peccato, può essere conosciuto nei suoi tratti essenziali anche dalla ragione umana ».298

Ecco perché il tema della difesa del diritto alla vita è un primo ambito sul quale cattolici e laici, messe da parte i pregiudizi ideologici, possono trovare un terreno comune sul quale dialogare, tenendo conto che questo dialogo, visto le enormi potenzialità scientifico-tecnologiche che possono essere oggi sfruttate per manipolare l'essere umano, è sempre più urgente.

Il tema del lavoro, affrontato direttamente nella Laborem exercens ( 1981 ), è ugualmente sviluppato secondo una disamina profondamente umana che non vuole tralasciare nessuna dimensione: quella personale; quella sociale; quella teologica.

Per definire il lavoro e cercare di spiegarne le dinamiche e i rapporti sociali implicati, il Magistero di Giovanni Paolo II non si è rivolto alle posizioni ideologiche dominanti, ma è partito dall'uomo e da quella sua dimensione che abbiamo visto essere essenziale, ovvero la cultura, la ricerca del senso dell'esistenza.

Non è partito dall'individuo concepito astrattamente e neanche dalle condizioni socio-economiche.

La definizione di Giovanni Paolo II è incentrata sulla persona, la quale non può fare a meno, nella misura in cui viva coscientemente la sua esistenza, di affrontare il problema del senso della vita e quindi testimoniarlo nel lavoro stesso.

Il lavoro in questo senso è il termine della creatività personale: « Fatto a immagine e somiglianza di Dio stesso nell'universo visibile, e in esso costituito perché dominasse la terra, l'uomo è perciò sin dall'inizio chiamato al lavoro.

Il lavoro è una delle caratteristiche che distinguono l'uomo dal resto delle creature, la cui attività, connessa col mantenimento della vita, non si può chiamare lavoro; solo l'uomo ne è capace e solo l'uomo lo compie, riempiendo al tempo stesso con il lavoro la sua esistenza sulla terra.

Così il lavoro porta su di sé un particolare segno dell'uomo e dell'umanità, il segno di una persona operante in una comunità di persone; e questo segno determina la sua qualifica interiore e costituisce, in un certo senso, la stessa sua natura ».299

Il lavoro deve quindi essere ricondotto alla dimensione etica e personale, deve cioè servire all'incremento della persona e della vita sociale in cui essa è inserita: « Ciò vuoi dire solamente che il primo fondamento del valore del lavoro è l'uomo stesso, il suo soggetto [ … ] per quanto sia una verità che l'uomo è destinato ed è chiamato al lavoro, però prima di tutto il lavoro è "per l'uomo", e non l'uomo "per il lavoro".

Con questa conclusione si arriva giustamente a riconoscere la preminenza del significato soggettivo del lavoro su quello oggettivo ».300

Se le cose stanno in questi termini, allora per Giovanni Paolo II si perviene alla soluzione dei problemi economici solo affermando la priorità della persona e dei suoi diritti.

Risulta altresì chiaro come la Laborem exercens si fondi sull'intera tradizione sociale della Chiesa, la quale, come si è visto, cerca di tenere insieme il diritto di proprietà e la destinazione sociale di essa.

Anche Giovanni Paolo II ha voluto ribadire che se si cerca di risolvere i problemi sociali, ma non si guarda alla persona, si finisce inevitabilmente per inserirla in un meccanismo che, anziché liberarla, la distrugge.

La questione sociale, la divisione fra nord e sud del mondo, nonché la divisione tra est ed ovest, sono state oggetto di attenzione nella Sollicitudo rei socialis ( 1987 ).

In questa enciclica il Papa ha sottolineato fortemente la dimensione mondiale della questione sociale.

Ha messo in guardia dalla falsa idea di sviluppo, di progresso sviluppatasi nella modernità e smentita dall'accadere degli eventi del XX secolo: « Lo sguardo che l'Enciclica ci invita a rivolgere al mondo contemporaneo ci fa costatare, anzitutto, che lo sviluppo non è un processo rettilineo, quasi automatico e di per sé illimitato, come se, a certe condizioni, il genere umano debba camminare spedito verso una specie di perfezione indefinita.

Simile concezione, legata ad una nozione di "progresso" dalle connotazioni filosofiche di tipo illuministico, piuttosto che a quella di "sviluppo", adoperata in senso specificamente economico-sociale, sembra posta ora seriamente in dubbio, specie dopo la tragica esperienza delle due guerre mondiali, della distruzione pianificata e in parte attuata di intere popolazioni e dell'incombente pericolo atomico.

Ad un ingenuo ottimismo meccanicistico è subentrata una fondata inquietudine per il destino dell'umanità ».301

Si può dire pertanto che, anche per quanto riguarda la nozione di sviluppo, Giovanni Paolo II ne ha dato una definizione di carattere antropologico, in aperto contrasto con l'idea di sviluppo affermata dalle ideologie moderne.

Queste, infatti, hanno interpretato lo sviluppo come l'esito meccanico dell'applicazione di sistemi economici e tecnologici-scientifici.

Lo sviluppo deve, allora, riferirsi alla dimensione antropologica.

Esso è realmente tale solo nella misura in cui implica la verità completa della persona, conduce alla realizzazione della persona, costruisce una società al servizio della persona.

Nella prospettiva di Giovanni Paolo II sono, quindi, stati capovolti i termini: lo sviluppo non è quello dei sistemi, ottenuto secondo processi necessari e meccanici, ma solo quello che implica la maturazione compiuta della personalità umana.

Solo in quanto la persona è strettamente legata alla vita sociale, lo sviluppo dell'uomo è anche sviluppo sociale.

Non si deve cioè partire dalla società per raggiungere l'uomo, come è proprio dell'impostazione ideologica, la quale inevitabilmente finisce per ridurre l'uomo a parte del sistema o ad oggetto di manipolazione; si deve partire dall'uomo per arrivare alla società.

Ma come giudicare l'autenticità o meno dello sviluppo?

Giovanni Paolo II ha individuato in un "parametro interiore", insito nella natura umana, il criterio di giudizio.

È ponendosi la domanda « Chi è l'uomo? » che si può affrontare in termini critici il problema dello sviluppo.

L'uomo non può non partire da sé.

Occorre, pertanto, riprendere il dinamismo proprio del senso religioso, della strada che affronta il problema del senso della vita: « Uno sviluppo non soltanto economico si misura e si orienta secondo questa realtà e vocazione dell'uomo visto nella sua globalità, ossia secondo un suo parametro interiore.

Egli ha senza dubbio bisogno dei beni creati e dei prodotti dell'industria, arricchita di continuo dal progresso scientifico e tecnologico.

E la disponibilità sempre nuova dei beni materiali, mentre viene incontro alle necessità, apre nuovi orizzonti.

Il pericolo dell'abuso consumistico e l'apparizione delle necessità artificiali non debbono affatto impedire la stima e l'utilizzazione dei nuovi beni e risorse posti a nostra disposizione; in ciò dobbiamo, anzi, vedere un dono di Dio e una risposta alla vocazione dell'uomo, che si realizza pienamente in Cristo.

Ma per conseguire il vero sviluppo e necessario non perder mai di vista detto parametro, che è nella natura specifica dell'uomo, creato da Dio a sua immagine e somiglianza ( Gen 1,26 ) ».302

È solo però il rapporto tra l'uomo e Cristo che consente all'uomo di procedere verso uno sviluppo realmente autentico: « La fede in Cristo Redentore, mentre illumina dal di dentro la natura dello sviluppo, guida anche nel compito della collaborazione.

Nella Lettera di san Paolo ai Colossesi leggiamo che Cristo è "il primogenito di tutta la creazione" e che "tutte le cose sono state create per mezzo di lui ed in vista di lui" ( Col 1,15 ).

Infatti, ogni cosa "ha consistenza in lui", perché "piacque a Dio di fare abitare in lui ogni pienezza e per mezzo di lui riconciliare a sé tutte le cose" ( Col 1,20 ).

In questo piano divino, che comincia dall'eternità in Cristo, "immagine" perfetta del Padre, e che culmina in lui, "primogenito di coloro che risuscitano dai morti" ( Col 1,15 ), s'inserisce la nostra storia, segnata dal nostro sforzo personale e collettivo di elevare la condizione umana, superare gli ostacoli sempre risorgenti lungo il nostro cammino, disponendoci così a partecipare alla pienezza che "risiede nel Signore" e che egli comunica "al suo corpo, che è la Chiesa" ( Col 1,18; Ef 1,22 ), mentre il peccato, che sempre ci insidia e compromette le nostre realizzazioni umane è vinto e riscattato dalla "riconciliazione" operata da Cristo ( Col 1,20 )».303

Ciò significa che lo sviluppo integrale della persona è già presente, è un dato acquisito e ricevuto da Cristo.

Occorre che il soggetto nuovo, rinnovato dall'opera redentrice di Cristo, dia testimonianza a questo "già" nel "non ancora" della storia.

Una società, in cui la Chiesa non sia presente come soggetto vivo, è destinata ad essere meno influente sullo sviluppo, perché solo un soggetto ecclesiale cosciente della sua identità, è in grado di resistere alla nozione ideologica che vuole lo sviluppo costruibile a partire dalle sole forze dell'uomo.

Cristo, crocifisso e risorto è allora stato indicato da Giovanni Paolo II come il criterio per valutare i problemi.

L'azione a favore dello sviluppo sociale si inserisce pertanto a pieno diritto nella testimonianza ecclesiale.

Il perseguimento dello sviluppo sociale fa parte della missione della Chiesa.

Prescindere dalla valutazione della situazione in cui si vive e dal tentativo di rendere la società al servizio dell'uomo significa fermare il dinamismo della missione.

Testimoniare che Cristo è la vita dell'uomo è la testimonianza missionaria per eccellenza.

Inserire tale testimonianza nel mondo sociale, economico e politico attuale, è necessario perché la Chiesa non può rimanere inerte di fronte alla situazione tragica a cui le ideologie hanno condotto.

Da quanto detto si capisce come nella prospettiva di Giovanni Paolo II la Chiesa possa favorire l'autentico sviluppo umano evangelizzando, anche attraverso l'insegnamento e la diffusione della dottrina sociale: « L'insegnamento e la diffusione della dottrina sociale fanno parte della missione evangelizzatrice della Chiesa.

E, trattandosi di una dottrina indirizzata a guidare la condotta delle persone, ne deriva di conseguenza "l'impegno per la giustizia" secondo il ruolo, la vocazione, le condizioni di ciascuno.

All'esercizio del ministero dell'evangelizzazione in campo sociale, che è un aspetto della funzione profetica della Chiesa, appartiene pure la denuncia dei mali e delle ingiustizie.

Ma conviene chiarire che l'annuncio è sempre più importante della denuncia, e questa non può prescindere da quello, che le offre la vera solidità e la forza della motivazione più alta ».304

Infine, sebbene non sia un documento che si occupi direttamente della questione sociale, l'enciclica Fides et ratio ( 1998 ) risulta ugualmente fondamentale per comprendere come l'insegnamento di Giovanni Paolo II permetta un effettivo superamento dei limiti della modernità.

In essa infatti, oltre a sostenere un'idea di ragione strettamente legata alla fede, in armonia con la fede, descritta come modalità stessa di esercizio della ragione, se ne recupera tutto il suo valore e la sua portata contro le patologie della ragione ( relativismo, nichilismo, pensiero debole ), esito del fallimento del razionalismo moderno.305

Giovanni Paolo II ci ha insegnato che cosa è una fede forte, una fede capace di diventare giudizio, cioè cultura, capace di dilatare il cuore secondo il movimento della carità e della missione.

Il suo lungo pontificato è stato una grande esperienza ecclesiale e culturale in cui la corrispondenza fra il Papa e l'umanità si è straordinariamente imposta, in alcuni momenti in modo eclatante, come ad esempio nel corso delle giornate per la gioventù o da ultimo in occasione della sua morte.

Esperienza che certo continua, in modo singolare, nella amabilissima e certa testimonianza di Benedetto XVI.

Indice  

193 Già nella Mirari vos ( 1832 ) di Gregorio XVI ( 1831-1846 ) è presente un primo tentativo di individuare e combattere il progetto culturale ateistico dal quale la Chiesa vuole difendere se stessa e l'uomo. Nella Mirari vos in particolare viene condannato l'indifferentismo, « ossia quella perversa opinione, che per fraodolenta opera degli increduli si dilatò in ogni parte, che cioè possa in qualunque professione di fede conseguirsi l'eterna salvezza dell'anima »
194 Raccolta delle proposizioni che meglio esprimono le concezioni proprie del pensiero moderno che risultano inammissibili per una posizione culturale che nasca dalla fede e che vengono pertanto condannate. Cfr L. Negri, Pio IX. Attualità e profezia, ed. Ares, Milano 2004
195 Cfr proposizione VI del Sillabo: « La fede di Cristo si oppone alla ragione umana; e la rivelazione divina non solo non giova a nulla, ma nuoce altresì al perfezionamento dell'uomo »
196 « Ora chi non vede e pienamente capisce come una società umana, sciolta dai vincoli della religione e della vera giustizia, non possa certamente prefiggersi altro scopo che di acquistare ed aumentare ricchezze, ne seguire altra legge nelle sue azioni se non una cupidigia senza fine di servire ai propri comodi e piaceri? » ( Pio IX, Quanta cura 4 )
197 La proposizione LXXX recita: « Il Romano Pontefice può e deve col progresso, col liberalismo e con la moderna civiltà venire a patti e conciliazione »
198 Si deve tenere presente che non tutto il liberalismo si sviluppa secondo una prospettiva laicista e antireligiosa.
Esiste un liberalismo che non ha contrapposto libertà e verità, libertà e religione.
Si vedano ad esempio un pensatore come Tocqueville e un filosofo come Rosmini. Per una trattazione più completa cfr L. Negri, Ripensare la modernità, ed. Cantagalli, Siena 2003
199 Cit. in A. Del Noce, Pensiero della Chiesa e filosofia contemporanea, a cura di Leonardo Santorsola, Edizioni Studium, Roma 2005, p. 76
200 M. Greschat - E. Guerriero, Il grande libro dei Papi, ed. San Paolo, Cinisello Balsamo 1994, p. 633
201 M. Greschat - E. Guerriero, Il grande libro dei Papi, ed. San Paolo, Cinisello Balsamo 1994, p. 633
202 D. Veneruso, Storia d'Italia nel Novecento, Edizioni Studium, Roma 2002, p. 10
203 D. Veneruo, Storia d'Italia nel Novecento, Edizioni Studium, Roma 2002, p. 13. La stessa repressione violenta dei moti popolari del 1898 poteva « essere giustificata soltanto e nella misura in cui si ponesse come centrale nella vita politica italiana il problema dello Stato nazionale » ( Ibidem, p. 14 )
204 D. Veneruso, Storia d'Italia nel Novecento, Edizioni Studium, Roma 2002, p. 21
205 D. Veneruso, Storia d'Italia nel Novecento, Edizioni Studium, Roma 2002, p. 17
206 D. Veneruso, Storia d'Italia nel Novecento, Edizioni Studium, Roma 2002, p. 32
207 Leone XIII, Immortale Dei
208 Tesi ribadita in più punti dell'enciclica. Una prima volta in questi termini: «Il diritto d'imperio, poi, non è di per sé legato necessariamente ad alcuna particolare forma di governo: questo potrà a buon diritto assumere l'una o l'altra forma, purché effettivamente idonea all'utilità e al bene pubblico»; e una seconda volta in questi termini: « non s'intende condannare alcuna delle varie forme di governo, quando esse non abbiano in sé nulla che ripugni alla dottrina cattolica e possano, se applicate con saggezza ed equità, dare un ottimo e stabile assetto alla società » ( Leone XIII, Immortale Dei )
209 Leone XIII, Immortale Dei
210 Leone XIII, Immortale Dei
211 Leone XIII, Libertas praestantissimus
212 Leone XIII, Libertas praestantissimus
213 Leone XIII, Rerum novarum 5
214 Leone XIII, Rerum novarum 38
215 Leone XIII, Rerum novarum 38
216 Leone XIII, Rerum novarum 41
217 Leone XIII, Rerum novarum 9
218 Si è visto come già Pio IX aveva denunciato l'insostenibilità di questa dottrina condannando la proposizione XXXIX del Sillabo
219 R. Guardini, Etica, ed. Morcelliana, Brescia 2001, p. 953
220 T. Hobbes, De Cive. Elementi filosofici sul cittadino, a cura di N. Bobbio, Torino 1948, XI, pp. 226 ss
221 T. Hobbes, Leviatano, a cura di A. Pacchi, Roma-Bari 1974, n, XVII, p. 167
222 Gaudium et Spes 14
223 Il Concordato del 1929 è, in un certo senso, una modalità « di questo confronto » imposta dalla situazione creatasi.
Esso costituisce infatti uno strumento operativo di dialogo con l'interlocutore del momento, il regime fascista, che mirava ad ottenere il massimo di libertà possibile per la missione della Chiesa, a partire da quella educativa. Per maggiori chiarimenti circa il significato ed il contesto storico del concordato si veda L. Negri, False accuse alla Chiesa, ed. Piemme, Casale Monferrato 1999
224 Pio XI, Non abbiamo bisogno 2
225 Pio XI, Non abbiamo bisogno 4
226 Pio XI, Non abbiamo bisogno 5
227 Pio XI, Non abbiamo bisogno 5
228 Ha, cioè, contribuito a superare sia l'idea elitaria e statalista del potere propria del liberalismo di fine 800 e inizio secolo, sia la concezione totalitaria fascista, impedendo allo stesso tempo il prevalere di quella comunista
229 Chi ha accusato la Chiesa di una certa debolezza o addirittura di una certa accondiscendenza nei confronti del nazismo, facendo in particolare riferimento al Concordato del 1933 tra lo Stato nazista e la Chiesa, non ne ha compreso il suo significato storico.
Scopo del concordato non era infatti certo la legittimazione del nazismo o la resa di fronte ad esso, quanto la difesa della Chiesa e della sua autonomia: «Il concordato fu una notevole linea di difesa [ … ] il concordato ha sostanzialmente aiutato la Chiesa in Germania nell'impresa, non scontata, di conservare, nonostante il dominio hitleriano, la propria autonomia fino al punto che i vescovi ed il clero poterono predicare integralmente il patrimonio della fede e la dottrina morale nonché amministrare i sacramenti.
Il fatto che il cattolicesimo tedesco abbia superato il Terzo Reich in modo sostanzialmente più integro di quasi tutti gli altri gruppi, con cui è possibile un paragone, è anch'esso una conseguenza a lungo termine dell'accordo del 20 luglio 1933.
Esso "creò con le sue garanzie la base di diritto da cui poteva svilupparsi, e si sviluppò, la resistenza al totalitarismo" » ( H. Jedin, Storia della Chiesa. La Chiesa nel ventesimo secolo, ed. Jaca Book, Milano 1975, Voi. X, p. 7,4 )
230 Pio, XI, Mit brennender Sorge 8
231 Pio, XI, Mit brennender Sorge 1
232 Pio, XI, Mit brennender Sorge 1
233 Pio, XI, Mit brennender Sorge 3
234 A. Rhodes, Il Vaticano e le dittature 1922-1945, ed. Mursia, Milano 1973, p. 211
235 R. Guardini, Il Salvatore [ Nel mito, nella Rivelazione e nella politica. Una riflessione politico-teologica ], in Romano Guardini, Opera Omnia. Scritti politici, ed. Morcelliana, Brescia 2005, Vol. VI pp. 332 - 335
236 Pio XI, Divini Redemptoris 8
237 Pio XI, Divini Redemptoris 21
238 Pio XI, Divini Redemptoris 10
239 Pio XI, Divini Redemptoris 12
240 Pio XI, Divini Redemptoris 14
241 Pio XI, Divini Redemptoris 24
242 Pio XI, Lett. enc. Iniquis afflictisque, 1
243 I provvedimenti presi contro la Chiesa erano numerosi: chiusura delle scuole cattoliche, limitazioni nello stesso esercizio del culto, esproprio di tutte le proprietà della Chiesa, espulsione della Compagnia di Gesù. Il tentativo era quello, come denuncia lo stesso Pio XI, di « assoggettare la Chiesa e i suoi ministri a misure di eccezione, che tentano di metterla alla mercé del potere civile » ( Pio XI, Lett. enc. Dilectissima nobis )
244 Pio XI, Lett. enc. Dilectissima nobis, 1
245 Pio XI, Lett. enc. Dilectissima nobis, 3
246 È stata indubbiamente una delle pagine più tristi per la Chiesa spagnola. Nel corso di questa crudele persecuzione si devono annoverare espressioni di crudeltà inusitate contro la Chiesa, la morte di 4.000 esponenti del clero secolare, 2.500 religiosi e religiose, 300 suore di clausura, 30 vescovi, 10.000 laici
247 Vicente Carcel Orti, Buio sull'altare. 1931-1939: la persecuzione della Chiesa in Spugna, ed Città Nuova, Roma 1999, p. 83
248 Pio XII, Summi pontìfìcatus
249 Pio XII, Radiomessaggio natalizio, 24 dicembre 1944, 8
250 Pinchas Lapide, di origine ebraica, autore del libro Roma e gli ebrei.
L'azione del Vaticano a favore delle vittime del nazismo, hacalcolato che circa 700.000 ebrei sono stati salvati grazie all'aiuto apportato dalla Chiesa. Solo il controverso e spesso poco serio di battito storiografico seguito alla diffusione dell'opera teatrale di R. Hochhuth, Il Vicario, ha messo in discussione la figura di Pio XII, fino a fame quasi un complice dei nazisti.
Le più recenti e serie ricostruzioni storiche hanno però confutato senza ombra di dubbio le maggiori accuse rivoltegli, anche se, nonostante ciò, la leggenda nera intorno a Pio XII continua a essere diffusa.
Per una ricostruzione puntuale del suo operato durante la guerra e la sua posizione nei confronti degli ebrei si vedano: P. Blet, Pio XII e la seconda guerra mondiale.
San Paolo, Milano 1999; A. Tomielli, Pio XII. Il Papa degli ebrei, Piemme, Casale Monferrato 2001; M. Marchio Pio XII e gli ebrei, Pan logos, 1999
251 Pio XII, Radiomessaggio natalizio, 24 dicembre 1944, 19
252 Compendio della dottrina sociale della Chiesa 89
253 Giovanni Paolo II, Centesimus annus 5
254 Giovanni Paolo II, Centesimus annus 3
255 Esistono due altri importanti documenti del Magistero che nascono in riferimento diretto con la Rerum novarum, perché ne vogliono celebrare l'importanza: Pio XII, Messaggio radiofonico del 1° giugno 1941 ( celebrativo dei 50 anni della Rerum novarum ); Paolo VI, Octogesima adveniens, 14 maggio 1971 ( celebrativa degli 80 anni dell'enciclica leonina )
256 Pio XI, Quadragesima anno 80-81
257 Giovanni XXIII, Mater et magistra 6
258 Giovanni XXIII, Mater et magistra 199
259 Giovanni XXIII, Mater et magistra 198
260 Giovanni XXIII, Mater et magistra 200
261 Giovanni XXIII, Mater et magistra 42
262 Giovanni Paolo II, Centesimus annus 3
263 Giovanni Paolo II, Centesimus annus 11.
L'enciclica rilegge tutto lo sviluppo della dottrina sociale della Chiesa, fino alla caduta del marx - leninismo ( 1-29 ); approfondisce i temi della proprietà privata e dell'universale destinazione dei beni ( 30-43 ), dello Stato e della cultura ( 44-52 ), dell'uomo come via della Chiesa ( 53-62 )
264 Si tratta del diritto di proprietà, del diritto a formare libere associazioni, del diritto ad un orario di lavoro umano, del diritto al riposo, del diritto al giusto salario, del diritto di adempiere liberamente i doveri religiosi. Giovanni Paolo II, Centesimus annus 6-9
265 Giovanni Paolo II, Centesimus annus 6
266 Giovanni Paolo II, Centesimus annus 6
267 Giovanni Paolo II, Centesimus annus 10
268 Giovanni Paolo II, Centesimus annus 48
269 Giovanni Paolo II, Centesimus annus 13
270 Giovanni Paolo II, Centesimus annus 13
271 Giovanni Paolo II, Centesimus annus 13
272 Giovanni Paolo II, Centesimus annus 24
273 Giovanni Paolo II, Centesimus annus 24
274 Giovanni Paolo II, Centesimus annus 24
275 Giovanni Paolo II, Centesimus annus 29
276 Giovanni Paolo II, Centesimus annus 29
277 Giovanni Paolo II, Centesimus annus 22
278 Giovanni Paolo II, Centesimus annus 26
279 Giovanni Paolo II, Centesimus annus 26
280 Giovanni Paolo II, Centesimus annus 24
281 Giovanni Paolo II, Centesimus annus 25
282 Giovanni Paolo II, Centesimus annus 42
283 Giovanni XXIII, Mater et magistra 204-205
284 Giovanni XXIII, Pacem in terris 89
285 Giovanni XXIII, Pacem in terris 1
286 Giovanni Paolo II, Messaggio per la celebrazione della giornata mondiale della pace, 1 gennaio 2002, 3
287 « La Dignitatis humanae, la dichiarazione del Concilio sulla libertà religiosa, stabilì che lo Stato non era competente nelle questioni teologiche e dichiarò che la Chiesa non avrebbe mai più posto il potere coercitivo di Stato dietro i suoi diritti di verità.
Così facendo, la Dignitatis humanae conferì alla Chiesa cattolica il ruolo di imponente ed effettiva garante dei diritti umani » ( G. Weigel, E finalmente a San Pietro tornò la politica, in Liberai, « L'Occidente di Wojtyla », agosto-settembre 2001 )
288 Paolo VI, Populorum progressio 76
289 « Il modernismo è una conseguenza del liberalismo del secolo XIX e consiste nel porre su un piede di parità tutte le istanze che non risultino autocontraddittorie.
Modernismo è anche la volontà da parte dell'ordinamento politico e sociale di ridiscutere il concetto tradizionale di Chiesa; di rammodernare le strutture ecclesiastiche, lo stile pastorale e il modello di vita dei cristiani in seno al mondo moderno; di rinnovare l'esegesi, la teologia e la filosofia delle religioni secondo il nuovo paradigma scientifico » ( A. Torre sani, Storia della Chiesa, Edizioni Ares, Milano 2000, p. 669 )
290 Giovanni Paolo II, Discorso ai partecipanti al V Simposio del Consiglio delle Conferenze Episcopali d'Europa, 5 ottobre 1982, 3.
Si veda anche quanto affermato nella Fides et ratio « Come conseguenza della crisi del razionalismo ha preso corpo, infine, il nichilismo.
Quale filosofia del nulla, esso riesce ad esercitare un suo fascino sui nostri contemporanei.
I suoi seguaci teorizzano la ricerca come fine a se stessa, senza speranza ne possibilità alcuna di raggiungere la meta della verità. Nell'interpretazione nichilista, l'esistenza è solo un'opportunità per sensazioni ed esperienze in cui l'effimero ha il primato. Il nichilismo è all'origine di quella diffusa mentalità secondo cui non si deve assumere più nessun impegno definitivo, perché tutto è fugace e provvisorio » ( Giovanni Paolo II, Fides et ratio 46 )
291 G. Weigel, Testimone della speranza. La vita di Giovanni Paolo II, ed. Mondadori, Milano 2005, p. 361
292 Giovanni Paolo II, Allocuzione all'Unesco, 7.
La centralità della cultura non può non colpire chi legge attentamente i documenti del Magistero di Giovanni Paolo II fin dal suo inizio, quando a questo tema è stato dato grandissimo rilievo.
Per un ulteriore approfondimento del tema si veda L. Negri, L'uomo e la cultura nel Magistero di Giovanni Paolo II, Ed. Jaca Book
293 Giovanni Paolo II, Redentor hominis 10
294 Giovanni Paolo II, Redemptor hominis 14
295 Giovanni Paolo II, Centesimus annus 45
296 G. Weigel ha intitolato, infatti, un capitolo della sua biografia su Giovanni Paolo II "Il Papa dei diritti umani".
In particolare parlando del discorso all'ONU del 1979 egli ha scritto: « Il discorso all'ONU segnò anche il momento in cui la Chiesa cattolica si impegnò senza ambiguità a sostenere la causa della libertà e la difesa dei diritti fondamentali dell'uomo, come primo obiettivo del suo impegno nella politica mondiale. Quell'impegno era già implicito nell'enciclica di Giovanni XXIII, Pacem in terris del 1963, e nella Dichiarazione sulla libertà religiosa del Concilio Vaticano II.
Ma ora Giovanni Paolo II l'aveva reso esplicito e, con i suoi pellegrinaggi in Messico e in Polonia, rispettivamente a gennaio e a giugno del 1979, aveva fatto capire chiaramente che quell'impegno avrebbe avuto anche una dimensione politica» ( G. Weigel, Testimone della speranza. La vita di Giovanni Paolo II, ed. Mondadori, Milano 2005, p. 435 )
297 Giovanni Paolo II, Redentor hominis 10
298 Giovanni Paolo II, Evangelium vitae 10
299 Giovanni Paolo II, Laborem exercens Introduzione
300 Giovanni Paolo II, Laborem exercens 6
301 Giovanni Paolo II, Sollicitudo rei socialis 27
302 Giovanni Paolo II, Sollicitudo rei socialis 29
303 Giovanni Paolo II, Sollicitudo rei socialis 31
304 Giovanni Paolo II, Sollicitudo rei socialis 41
305 « Riaffermando la verità della fede possiamo ridare all'uomo del nostro tempo genuina fiducia nelle sue capacità conoscitive» ( Giovanni Paolo II, Fides et ratio 5 )