Gli Istituti secolari

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6. Secolarità consacrata

Il Codice ha permesso agli istituti secolari di definirsi meglio.

Esso ha voluto descrivere positivamente la secolarità consacrata e lo fa nei cc. 713-715, che formano un insieme ed esplicitano meglio ciò che era già suggerito nel c. 710: gli istituti secolari sono istituti di vita consacrata, i cui membri vivono in pieno mondo, dove tendono alla perfezione della carità e alla santificazione del mondo, più specificamente, agendo dal di dentro del mondo.

Già questa presa di posizione esprimeva la volontà del Concilio e conteneva l'affermazione essenziale per questi istituti.

In effetti gli istituti secolari non sono istituti religiosi; restando nel secolo, vivono una vera e completa pratica dei consigli evangelici, riconosciuta dalla Chiesa.

Così è stabilito chiaramente come principio fondamentale che la vita consacrata secolare non è né una vita religiosa, né una vita consacrata al ribasso, ma una vita consacrata vera e autentica, di totale consacrazione anche se vissuta in pieno mondo, senza vita comune, senza abito distintivo e anche senza obbligarsi necessariamente con voto.

Questi tre punti erano stati nella costituzione Provida mater Ecclesia i tre riferimenti importanti per stabilire una gradazione tra gli stati di perfezione, di cui il più completo è la vita religiosa, che le società di vita comune anche senza voti imitano - si è detto che esse si avvicinano alla vita religiosa - per situare gli istituti secolari, ultimi venuti, al terzo livello: senza voti, senza vita comune, senza abito distintivo.

Gli istituti secolari, per farsi approvare, hanno fatto essi stessi gli accostamenti e i raffronti necessari, per definire meglio la propria identità.

Ciò ebbe come conseguenza che essi si contrapponevano alla vita religiosa.

Il Codice ha il vantaggio di riprendere lo sforzo da essi compiuto per definirsi più positivamente, non più per contrasto, ma attraverso l'affermazione precisa di ciò che costituisce gli elementi comuni dei loro carismi.

Su questi punti, essi sono riusciti a fare chiarezza.

La codificazione si è giovata di questo lavoro di riflessione e di ricerca.

Se il Codice non paragona questi istituti recenti agli istituti religiosi, si è visto costretto, oltre alla definizione generale degli istituti di vita consacrata mediante i consigli evangelici, a situare la stessa vita religiosa definendola meglio: il che fu fatto nel c. 607.

Si sarebbe potuto auspicare una analoga sintesi per gli istituti secolari; questa è possibile se si uniscono gli elementi esposti nei cc. 710, 713, 714 e 715.

La posizione degli istituti secolari, già pregiudicata all'inizio dal riferimento alla vita religiosa, fu di nuovo compromessa in Concilio, dove si mise in luce il carattere secolare del laicato, la sua azione nel mondo a partire dal mondo, a modo di un fermento, la sua partecipazione alla consacrazione del mondo, la sua responsabilità di santificare i valori terreni e di ordinarli a Dio.

Basta leggere i nn. 31 e 34 di LG per rendersi conto che il vocabolario di questi testi, il loro contenuto e le espressioni tipiche sono dipendenti dagli scritti e dalla riflessione degli istituti secolari, al punto che si è creduto di poter dire che solo gli istituti secolari laicali sono secolari, o, a rigore, "pienamente secolari".

Il Codice non ha fatto però piena luce; ha definito meglio la secolarità dei laici di quella dei presbiteri e dei diaconi, membri di istituti secolari.

Nel leggere i cc. 713-715 si sarebbe tentati di vedere in essi solo una definizione di ciò che si potrebbe chiamare l'apostolato degli istituti secolari, il che non è esatto.

Consacrazione e missione formano un tutt'uno.

Proprio vivendo la loro consacrazione essi esercitano la loro secolarità; in quanto si consacrano, essi sono apostoli; il loro apostolato primario è la loro vita consacrata, la sua irradiazione nella e con la loro attività umana in pieno mondo, ciò che si definisce apostolato « nel mondo e a partire dal mondo », in saeculo et veluti ex saeculo.

La formula è del padre A. Gemelli OFM, ed e ripresa da Pio XII nel n. 2 del motu proprio del 1948 Primo feliciter, vera messa a punto della secolarità consacrata.

Il c. 713 riprende questi elementi e li applica a tutti gli istituti secolari e a ciascun loro membro; la loro consacrazione si esprime nell'azione apostolica e si esercita in questa azione.

Non si può esprimere meglio l'unità di questi due elementi, quando si sa che questa azione è presenza silenziosa, soprattutto nascosta, in pieno mondo.

Si comprende come questa vita consacrata sia prima di tutto consacrazione a Dio, in unione con l'eucaristia, se possibile quotidiana, « fonte e forza di tutta la loro vita consacrata » ( c. 719 § 2 ).

Di più, riprendendo i termini stessi di PC 11, il c. 713 dice che questa presenza di vita consacrata agisce « a modo di fermento », impregnando tutto di spirito evangelico, fortificando e sviluppando il Corpo di Cristo.

Si è potuto dire che l'esperienza di questa secolarità consacrata fa comprendere meglio la posizione che deve assumere il cristiano in rapporto al mondo in cui vive.

Come dicevamo, il Concilio ha ripreso alcuni aspetti della vita degli istituti secolari, applicandoli al laicato cristiano; essi aiutano anche a comprendere meglio la posizione del prete in medio mundo, « nel cuore del mondo », come la descrive il n. 17a del decreto PO.

Vediamo ora come il Codice ha definito la secolarità dei laici consacrati in un istituto secolare.

Esso ricolloca la vita consacrala secolare nella funzione di evangelizzazione della Chiesa.

I membri di istituto secolare vi partecipano, nel secolo e partendo dal secolo; la formula e ampliata questa volta a tutta la vita, e non e solo applicata a una forma particolare di apostolato.

Questa partecipazione alla funzione evangelizzatrice della Chiesa si attua in due modi, o meglio ha due aspetti: il primo è una testimonianza di vita cristiana nella fedeltà alla consacrazione di vita.

La formula merita di essere analizzata.

La testimonianza prevista è una "testimonianza di vita cristiana", a livello di coloro ai quali è destinata, credenti e increduli.

È una testimonianza di inserimento, non di provocazione.

La sua forza le viene dalla vita consacrata, per cui si vede l'importanza della fedeltà a tale consacrazione, fedeltà a Dio, alla consacrazione di vita in unione con il sacrificio di Cristo; fedeltà alla Parola di cui si vive alla luce del carisma dell'istituto.

Bisogna mettere in luce l'interiorità della vita consacrata come anima della testimonianza di vita cristiana che danno i membri degli istituti secolari.

Il Codice e così in netto progresso, anche sul decreto PC; esso approfitta degli approfondimenti dottrinali che Paolo VI ha espresso nelle sue allocuzioni agli istituti secolari.

Sono le allocuzioni del 26 settembre 1970 ( AAS 62, 1970, 619-624 ); del 2 febbraio 1972 ( AAS 64, 1972, 206-212 ); del 20 settembre 1972 ( AAS 64, 1972, 619-620 ).

Esse si trovano nel volume edito dal CMIS. 198 P, pp. 57-90.

Questa partecipazione alla funzione evangelizzatrice della Chiesa avrà come seconda finalità, conseguenza del resto della prima, quella di ordinare secondo Dio le realtà temporali e di penetrare il mondo con la forza del Vangelo: formule che devono essere concretamente tradotte nel diritto proprio di ciascun istituto.

In pieno mondo, bisogna non soltanto elevare il mondo verso Dio con la preghiera, offrirlo al Creatore, unirlo all'offerta di Cristo: bisogna anche giudicare da cristiani quali sono gli atteggiamenti da assumere in rapporto alle persone e alle cose, cioè a ogni realtà terrena.

Una tale attenzione richiede un approfondimento della dottrina della Chiesa, della quale si vuol impregnare il mondo in tutte le relazioni familiari, sociali, economiche e politiche.

Per essere testimone di Cristo in pieno mondo e favorire questa testimonianza - che non può restare sempre muta, e deve potere, in certe circostanze, esprimersi in riferimento alla tede cristiana -, il Concilio chiede con insistenza di garantire ai membri degli istituti secolari una solida formazione nelle cose divine e umane ( PC 11b ).

Ciò suppone una sintesi dottrinale forte e ben fondata, per poter essere, dice il Concilio, veramente lievito nel mondo per il vigore e l'incremento del Corpo di Cristo che e la Chiesa.

Su questo punto dovrà rivolgersi l'attenzione dei membri di istituti secolari.

Non basta loro sapere che cos'è la loro secolarità consacrata, come chierico o come laico; bisogna che ciò che essi sono o devono essere possa affermarsi in tutta la loro vita.

Rimane infine un ultimo punto, per se stesso delicato e di applicazione talvolta difficile, soprattutto per un laico consacrato.

Un laico è membro della Chiesa, partecipa alla triplice funzione di Cristo, e deve alla sua maniera esercitare le proprie responsabilità nella vita ecclesiale, e rendere servizio alla chiesa particolare, alla sua parrocchia.

Tuttavia il c. 713 § 2 dice assai giustamente che questo si compie, per i membri di un istituto secolare, « secondo lo stile di vita secolare loro proprio ».

Una dedizione che impedisse una presenza più efficace, perché più discreta, può diminuire o anche sopprimere l'effetto proprio della vita consacrata in pieno mondo.

Una azione nell'ambiente ecclesiale, a livello nazionale, diocesano o parrocchiale, può impedire un inserimento valido in un ambiente di vita.

Molte volte il clero non comprende il senso e la portata di questa discrezione propria della secolarità consacrata; per alcuni, "essere consacrato" significa "essere pronto a ogni servizio richiesto".

Anche certi cristiani ferventi non sono sufficientemente informati della portata e della finalità di questa vita consacrata; essi non comprendono certe riserve e reticenze obbligatorie per rispettare in un dato ambiente la secolarità consacrata propria non più di un istituto, ma di una persona determinata che ne è membro.

La definizione della secolarità consacrata del chierico è stata ancora più difficile da stabilire e da esprimere.

A nostro avviso, essa è fondamentalmente la stessa di quella del laico consacrato, membro di un istituto secolare.

Una presenza di vita consacrata è del resto più facile per il sacerdote secolare già votato al celibato sacro, che per uomini che hanno responsabilità soprattutto sociali e professionali, ma privati di un tipo di vita personale che non faccia contrasto.

La consacrazione secolare si vive in un ambiente sociale determinato, per irradiarvi la propria forza e vigore.

Questo ambiente per il chierico secolare è anzitutto il suo presbiterio.

La sua testimonianza è quella di una vita sacerdotale fervente, cosi come del laico consacrato si dice che la sua testimonianza è quella di una vita cristiana.

Il c. 713 § 2 non dice: di una vita consacrata; invece il c. 711 § 3 parla di una « testimonianza di vita consacrata ».

È valida la formula?

È certo che un sacerdote diocesano non deve far conoscere la sua appartenenza a un istituto secolare; si può anzi dire che questo riserbo è da osservare giudiziosamente, sia verso il vescovo diocesano che verso i confratelli.

Esso assicura la qualità stessa della sua testimonianza e del suo impatto sulla vita del gruppo di cui fa parte.

Quando si sapesse che un sacerdote è nella vita consacrata, gli si imporrebbero e si esigerebbero da lui, anche senza motivo, atteggiamenti che non corrispondono a una consacrazione secolare.

Dopo il Vaticano II, la vita secondo i consigli evangelici non è più riservata ai soli religiosi!

Anche se i redattori del decreto PO hanno voluto evitare di farne menzione, sono stati costretti, per forza di cose, a situare il prete - e questo vale anche per il vescovo - in rapporto all'atto centrale del suo ministero: l'imitamini quod tractatis.

Questo consiglio, dato durante l'ordinazione presbiterale, è una chiamata vocazionale propria del sacerdozio.

Come dice san Gregorio di Nazianzo, « nessuno può partecipare al sacrificio, se non si è offerto prima lui stesso come vittima ».

Ma questo atteggiamento di unione con Cristo, sacerdote e vittima del suo sacrificio, esige non soltanto come risposta a questo ministero il dono del celibato in vista del regno, ma invita a vivere per Dio con un cuore indiviso.

Il Concilio parla del resto di « verginità » o di « celibato per il regno dei cieli ».

Se vi è verginità nel suo senso pieno, questa sarà l'esigenza di un amore pienamente donato, che non può essere tale senza la povertà volontaria e l'obbedienza vissuta come unione all'obbedienza filiale di Cristo.

Nella misura che l'ideale sacerdotale, espresso dal Concilio Vaticano II, sarà meglio compreso e fedelmente vissuto, il presbitero membro di un istituto secolare, potrà favorire con la sua vita, il suo esempio e la sua mentalità una vita veramente consacrata mediante i consigli nel suo presbiterio, e renderne testimonianza vissuta.

Resta tuttavia vero che la consacrazione attraverso i consigli, vissuta in un istituto secolare sacerdotale, ha una portata e una dimensione carismatica nuova in rapporto alle esigenze del celibato sacerdotale; essa privilegia la ricerca di povertà volontaria e l'obbedienza del sacerdote diocesano, obbedienza spesso ristretta alla sola obbedienza canonica di cui parla il c. 274 § 2.

Bisogna notare attentamente che, se il c. 277 § 1 riprende la dottrina del decreto PO in rapporto al celibato, i cc. 281 § 1 e 282 che riguardano la povertà non fanno altrettanto.

La stessa lacuna esiste in rapporto al senso evangelico dell'obbedienza, di cui parla il c. 274 § 2.

Tale senso evangelico di vita consacrata a Dio è tuttavia affermato in maniera generale nel c. 276 § 1, e specificato nel § 2, 1°.

Una certa forma di vita comune è anzi consigliata nel c. 280 come ideale di vita fraterna alla quale incoraggia il c. 275 § 1.

Il sacerdote secolare non ha soltanto una presenza nel presbiterio: ha in più una presenza al mondo che permette di definire meglio la sua funzione e di spiegare meglio la sua secolarità consacrata come membro di istituto sacerdotale.

Il Concilio nota espressamente che il suo ministero, come quello della Chiesa, si esercita in medio mundo, nel cuore del mondo.

Nel leggere questa espressione, si vede ciò che diventa tale presenza nel cuore del mondo, se il sacerdote non condivide soltanto lo sforzo dei laici, ma lo sostiene e lo illumina, per portare infine, con il suo ministero, nel sacrificio di Cristo, quello sforzo che suppone la consacrazione del mondo: ciò che gli conferisce il suo senso e la sua pienezza.

LG è molto esplicito in proposito: « tutte infatti le loro opere, le preghiere e le iniziative apostoliche, la vita coniugale e familiare, il lavoro giornaliero, il sollievo spirituale e corporale, se sono compiute nello Spirito, e persino le molestie della vita se sono sopportate con pazienza, diventano spirituali sacrifici graditi a Dio per Gesù Cristo ( 1 Pt 2,5 ); e queste cose nella celebrazione dell'eucaristia sono piissimamente offerte al Padre insieme con l'oblazione del corpo del Signore.

Cosi anche i laici, operando santamente dappertutto come adoratori, consacrano a Dio il mondo stesso» ( LG 34b ).

Questo testo non situa solo la vita dei laici nella consacrazione del mondo, ma esige implicitamente il ministero del sacerdote; questi non potrebbe essere pienamente ministro di tale offerta, se lui stesso non compisse la stessa offerta della sua vita nel mondo.

Stabilito tutto questo, bisogna riconoscere che il § 3 del c. 713 non dà della secolarità consacrata dei sacerdoti, membri di istituto secolare, una visione completa e pienamente fondata.

Un lavoro di riflessione deve gradualmente illuminare ciò che essi vivono, permettendo agli statuti di essere più precisi e più completi.

Questa riflessione suppone un approfondimento della dottrina conciliare sul sacerdozio, riflessione appena iniziata.

Se il Concilio nel decreto PO ha posto delle prospettive importanti per una teologia del sacerdozio, bisogna rammaricarsi che, avendo parlato così ampiamente dell'episcopato, non sia giunto a fare una sintesi spirituale di ciò che suppone, come esigenze personali e comuni all'ordine sacerdotale intero, il sacerdozio ministeriale vissuto come partecipazione al sacerdozio di Cristo.

Per fare ancora più chiarezza nella ricerca attuale a proposito della secolarità consacrata, dobbiamo distinguerla il più chiaramente possibile dalla "condizione secolare" del laico, quale il Concilio l'ha espressa nella costituzione sulla Chiesa.

La "'condizione secolare" significa per il laico una vita nel mondo, nella quale la sua attività primaria consiste nell'ordinare le realtà temporali a Dio; la sua preghiera le porta e le unisce all'offerta del mondo intero nel sacrificio eucaristico; egli partecipa così alla consecratio mandi che è la missione di tutta la Chiesa.

La condizione secolare del laico è identica o analoga alla secolarità consacrata?

La condizione secolare nella costituzione LG è, è vero, l'elemento dominante della sua descrizione del laico.

Essa fu poco più tardi corretta; si mise in rilievo che il laico è anzitutto un battezzato, un confermato, membro del Corpo di Cristo, ed egli esercita le tre funzioni di Cristo.

Ma è anche nel mondo, non come sono nel mondo tutti gli uomini, ma in modo da condurre a Dio, con la sua vita e il suo lavoro, le realtà del mondo che egli usa.

Tuttavia, i preti secolari, e anche i religiosi, separati dal mondo, sono e vivono nel mondo; questi ultimi non sono stranieri o senza utilità nella città terrena, come dice LG 46b: anch'essi esercitano professioni e fanno un lavoro terreno.

Quanto ai sacerdoti, PO mette in luce il lavoro manuale dei preti al lavoro, e quello di coloro che si dedicano alla ricerca scientifica o all'insegnamento ( PO 8a ).

Come la Chiesa, i preti secolari esercitano la loro missione nel cuore del mondo.

La loro vita è la loro azione nell'uso delle cose create serve al progresso dell'umanità e permette loro di condurre gli uomini, attraverso la loro parola e il loro esempio, a usare dei beni terreni secondo la volontà di Dio ( PO 17a ).

La condizione secolare dei laici, se non è loro riservata, resta particolare per loro; essa non determina completamente la loro situazione nella Chiesa e nel mondo in un modo unico e specifico.

La secolarità consacrata, se è ben compresa, è la situazione di colui che, consacrato a Dio in pieno mondo, conserva il suo stato clericale o laicale, ed esercita in quanto tale la sua missione propria senza essere separato dagli altri, come i religiosi.

Soltanto il sacerdote è "messo a parte" per il vangelo di Dio, segregatus in evangeliurn Dei.

Il Concilio noia tuttavia che se in un certo modo egli è "'messo da parte" in seno al popolo di Dio, non è per essere separato da questo popolo né da alcun uomo, chiunque esso sia …

I sacerdoti non potrebbero essere ministri di Cristo, se non fossero testimoni e dispensatori di una vita diversa da quella terrena, ma non sarebbero neppure capaci di servire gli uomini, se restassero estranei alla loro esistenza e alla loro condizione di vita.

Il Concilio rimanda in nota all'enciclica Ecclesiam suam di papa Paolo VI.

Restando in pieno mondo, a motivo del suo stesso sacerdozio, il prete, con la sua consacrazione in un istituto secolare, si radica in esso più fortemente; egli farà ciò che fanno gli altri, con più intensità interiore, e se possibile in modo più perfetto.

Si può dunque concludere che la secolarità consacrata come esigenza di vira è la stessa sia per il laico che per il chierico, per il fatto che entrambi sono in pieno mondo, vivono in mezzo agli uomini dello stesso ambiente, non si separano da essi, ma sono a loro più strettamente uniti.

A causa della loro consacrazione, la loro situazione come laico o come chierico non è mutata, ma piuttosto rafforzata; in virtù di una vocazione divina particolare, essi sono chiamati a segnare di spirito evangelico il loro ambiente proprio, a compiere in esso al meglio i loro compiti umani e cristiani, per essere un esempio e un sostegno a tutti.

Proprio in virtù di un dono divino, il carisma proprio dell'istituto di cui sono membri, essi sono definitivamente radicati e stabilizzati nel laicato o nel loro presbiterio diocesano di cui restano parte attiva, a un nuovo titolo, per agire con gli altri con più ardore e continuità.

La condizione secolare del laico o del chierico non ha la stabilità che conferisce la secolarità consacrata degli istituti secolari i quali sono per parte loro definitivamente legati al loro proprio ambiente di vita.

La secolarità consacrata cosi concepita è una vocazione comune ai laici e ai chierici, membri di istituto secolare.

Tutto questo è stabilito, e oggi meglio espresso nel Codice.

È la prima volta che la Chiesa afferma che a causa della loro consacrazione di vita i membri degli istituti secolari non cambiano di condizione canonica nella Chiesa; questa rimane laicale o clericale.

Si deve anzi dire meglio: non solo essi non cambiano questa condizione primaria, ma la rafforzano e la stabilizzano definitivamente.

La secolarità consacrata dei sacerdoti diocesani, come si può vedere, non è stata altrettanto profondamente studiata.

Il Codice non la esprime pienamente.

Tuttavia, gli elementi che esso definisce in rapporto ai laici conducono necessariamente a una migliore intelligenza della secolarità consacrata degli istituti clericali.

Il decreto PO ha dato a questa ricerca, come abbiamo visto, un apporto importante.

Purtroppo, essendo uno degli ultimi documenti del Concilio, esso non ha potuto avere un influsso sui decreti già promulgati o elaborati prima della sua redazione definitiva.

Notiamo infine che i cc. 714 e 715 esprimono concretamente la secolarità consacrata tanto dei laici quanto dei chierici, membri di istituto secolare.

Il c. 714 pone tre norme concrete: i membri di istituto secolare vivono o nelle condizioni ordinarie del mondo; o vivono soli, o nella loro famiglia; o in un gruppo di vita fraterna.

Le condizioni ordinarie del mondo situano la loro vita nel loro ambiente proprio.

Nulla può, per questo fatto, distinguerli dalle altre persone del loro ambiente sociale o professionale.

Se questo principio è rispettato, la secolarità consacrata è preservata da possibili deviazioni, dovute soprattutto a una imitazione della vita religiosa.

Gli statuti di ciascun istituto dovranno sempre meglio determinare l'applicazione di questo principio.

Nel progetto del 1980, il c. 714 aveva ripreso un principio già espresso nello schema del 1977.

IL principio era radicale: « i membri non portano alcun segno distintivo della loro consacrazione ».

Tale testo è stato soppresso: si è fatto valere che un istituto portava almeno un abito uniforme; al vederlo, si sarebbe detto un abito religioso!

Non si comprende come l'autorità competente abbia potuto approvare un istituto che contraddice così apertamente la secolarità di questi istituti; tutti si dolgono di tale decisione.

In ogni caso, se si vuole comprendere rettamente il testo del c. 714, ogni uniforme, ogni distintivo che faccia conoscere l'appartenenza all'istituto, è da escludere.

Non si tratta soltanto di una questione di vestiario, ma di ogni altro segno di pietà che fosse prescritto come distintivo dell'istituto: croce, anello, medaglia …

La seconda norma è anch'essa una espressione di vera secolarità; i membri vivono soli, o nella loro famiglia.

La successione nella quale sono espresse queste possibilità è significativa; essa segna un ordine di preferenza.

I membri vivono soli, cosa certamente più facile per donne che per uomini.

Questi ultimi vivono spesso con un membro della loro famiglia, cosa che del resto è comune a molti sacerdoti che vivono nel loro presbiterio o anche in città, come insegnanti, o membri di curia diocesana, ecc.

La terza norma è evidentemente meno secolare: vivere in gruppo.

Questo gruppo può essere formato da membri del medesimo istituto.

Il pericolo d'una vita comune in questo caso è più che reale.

Questa forma di vita impedisce sempre la piena secolarità.

Il gruppo può anche riunire diverse altre persone; questo raggruppamento in una abitazione comune può essere una preservazione necessaria e un elemento di sicurezza in certe regioni, specialmente nelle grandi città.

Queste persone non devono necessariamente tutte essere membri di un medesimo istituto; non sarebbe affatto contrario alla secolarità vivere in un gruppo che riunisca due o tre persone al lavoro in una stessa ditta o in una stessa istituzione.

La norma sarà più importante per gli istituti di laici; i sacerdoti che vivono secondo lo statuto diocesano, potrebbero vivere insieme con altri confratelli che non siano membri di uno Stesso istituto.

Il Codice invita del resto i sacerdoti a vivere insieme.

Il c. 280 è formale: una cena pratica della vita comune è vivamente raccomandata; là dove esiste, deve essere al più possibile conservata.

Questa forma di vita, è vero, non ha solo vantaggi, soprattutto dal punto di vista pastorale; spesso la discrezione vi è minore e il contatto con i fedeli meno facile.

Il c. 715 riguarda i chierici, diaconi o sacerdoti.

Questi, come membri di istituto secolare, sono normalmente incardinati in una diocesi.

Gli istituti secolari sacerdotali del resto accettano soltanto candidati che sono già incardinati e ordinati per il servizio della diocesi; perciò, essi dipendono in tutto dal loro vescovo, « salvo - precisa il c. 715 - quanto riguarda la vita consacrata nel proprio istituto ».

La distinzione è facile e appare chiara.

Nella pratica, si devono notare alcune difficoltà: anzitutto la partecipazione alla vita dell'istituto secolare non deve essere sotto controllo diocesano; spesso ritiri e giornate di raccoglimento nell'istituto sono resi più difficili, se altri fossero obbligatori, per i sacerdoti della diocesi.

Nella redazione degli statuti diocesani si dovrà tener conto sempre più della libertà di associazione riconosciuta ai chierici dal Concilio ( PO 8c ) e riaffermata nel Codice, nei cc. 215 e 278 §§ 1-2.

Notiamo che i preti membri di istituto secolare possono benissimo vivere una più grande unione con il loro vescovo, senza tuttavia dovergli far conoscere la loro ammissione o consacrazione nell'istituto, né informarlo della loro partecipazione alla sua vita.

Più difficile e delicata può essere la designazione di un sacerdote alla direzione del suo istituto, responsabilità che esige necessariamente più tempo libero e permette una minore attività pastorale nella sua diocesi di incardinazione.

Il § 2 del c. 715 pone un principio che dimostra la necessità di una incardinazione nella diocesi come segno di vera secolarità.

L'incardinazione in un istituto secolare avvicina questo istituto a un istituto religioso o a una società di vita apostolica; è il senso che bisogna dare all'espressione ad instar religiosorum del canone.

Nel leggere quest'ultimo, appare che la dipendenza dei membri di un tale istituto può essere diversa: se essi lavorano nella diocesi, come gli altri preti diocesani, dipendono in tutto dal vescovo, salvo quanto riguarda la loro vita consacrata; se al contrario lavorano nelle opere proprie dell'istituto, questo lavoro dipenderà dall'istituto, che avrà ricevuto i permessi necessari per organizzarlo nella diocesi.

Tale lavoro non comporta necessariamente edifìci propri o case comuni.

Gli istituti per sé non devono avere case di formazione proprie; sembra però che ne abbiano, e ciò li distingue ancora di più dal clero secolare.

Per quanto riguarda case o opere proprie, si applicano i cc. 609 §1, 611 e 612, come per quanto attiene a un'opera apostolica organizzata in edificio appartenente all'istituto, i cc. 612, 678 e 680.

Li abbiamo commentati nella parte che riguarda il diritto dei religiosi.

Se è vero che una incardinazione nell'istituto è contraria a una sana secolarità consacrata, non si può tuttavia concluderne che essa sia esclusa dal diritto.

Il c. 715 § 2 si riferisce al c. 266 § 3.

Poiché esistevano istituti che incardinavano membri chierici, la codificazione doveva prenderne atto senza tuttavia favorire una situazione contraria ai canoni più fondamentali: cc. 711-713 § 3.

L'espressione ad instar religiosorum significa certamente una reticenza a proposito di tali incardinazioni.

Queste, previste in rapporto con le opere proprie o con il governo dell'istituto, pongono diversi problemi: già il fatto di avere opere proprie diminuisce o sopprime una vera secolarità.

Un istituto che abbia opere proprie, farebbe meglio a farsi riconoscere come società di vita apostolica.

Quanto al governo dell'istituto, è possibile riservarlo a chierici che siano incardinati in esso?

Non è suscitare un gruppo dirigente? Questo gruppo non diverrà forse dominante?

E certo che esso riunirà sempre i membri più validi?

Altrettante domande che suscitano perplessità e dubbi.

Certo, in un istituto assai esteso, in cui i membri pienamente incorporali sono numerosi, e in cui una elezione seria, fondata su una informazione valida, è per ciò stesso più difficile, non è possibile ipotizzare un raggruppamento di persone qualificate.

Questo raggruppamento interno, fondato su qualità precisate dagli statuti, non può, sembra, esigere come condizione di possibilità l'incardinazione dei chierici nell'istituto, anche se solo questi sono chiamati a dirigerlo.

Un membro chierico di istituto secolare chiamato a dirigerlo, potrebbe, con la mediazione del dicastero competente, ottenere dal proprio vescovo diocesano una liberazione da incarichi pastorali, temporanea o definitiva, parziale o completa.

L'incardinazione nell'istituto comporta in effetti tre conseguenze importanti: la formazione dei chierici da parte dell'istituto ( c. 1028 ), la promozione agli ordini ( c. 1029 ) e la concessione delle lettere dimissoriali ad opera del superiore maggiore dell'istituto considerato dagli statuti come competente in materia.

Il c. 1052 § 2 non considera la possibilità di lettere dimissoriali date da un responsabile maggiore di istituto secolare.

Tale possibilità sembra negata dal c. 1019 § 1, che la riconosce solo agli istituti religiosi e alle società di vita apostolica di diritto pontificio.

Il § 2 sembra escludere ogni privilegio, e anche gli istituti secolari.

Considerando il testo più da vicino, questo § 2, come già il primo, non tratta che degli istituti religiosi e delle società di vita apostolica.

Se si fosse voluto includervi gli istituti secolari, sarebbe stato necessario esplicitare la portata del termine « istituto »; cosa che non è stata fatta.

Del resto, visto il piccolo numero degli istituti interessati, si può ammettere che essi non sono stati considerati qui, come non lo sono stati nel c. 596 § 1.

A un cardinale che faceva rilevare che non si faceva menzione degli istituti secolari in questo c. 596, la commissione rispose che, visto il piccolo numero di istituti secolari, questi non erano stati menzionati; ciò che non significava dunque una esclusione.

La risposta della commissione è rivelatrice a tale proposito;1 essa può essere applicata al c. 1019 § 2; ma l'applicazione non è necessaria, visto il contesto del canone che tratta al § 1 dei soli istituti religiosi e delle società di vita apostolica.

E inoltre da segnalare che il fatto di incardinare dei chierici non suppone necessariamente il diritto di dare le lettere dimissoriali.

Anche se la formazione è garantita dall'istituto, questo rilascerà l'attestazione necessaria ( c. 1052 § 1 ), che non è l'equivalente di lettere dimissoriali ( c. 1052 § 2 ).

Tuttavia è normale che un istituto che può incardinare membri chierici possa dare le lettere dimissoriali; ciò che è ammesso, se è di diritto pontificio, ma che resta escluso per un istituto di diritto diocesano ( c. 1019 § 1 ), anche se esso ha ricevuto, in forza del c. 266 § 3, il diritto di incardinazione per concessione della Santa Sede.

Concludiamo; se per principio una vera e sana secolarità consacrata esclude l'incardinazione in un istituto secolare, una simile incardinazione è prevista dal diritto; essa deve essere concessa dalla Santa Sede; ma non comporta necessariamente la possibilità di dare le lettere dimissoriali per le ordinazioni diaconali e presbiterali, a meno di una concessione fatta a questo riguardo in occasione dell'approvazione dell'istituto, dei suoi statuti o, più tardi, in virtù di un indulto speciale ottenuto su richiesta dell'istituto.

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1 Vedasi la Relatio in Comm. 15 ( 1983 ) 64, c. 523 ( 596 nel Codice del 1983 ) sono 1, La commissione dice esplicitamente che non occorreva stabilire un principio generale, Sto il piccolo numero di istituii secolari clericali di diritto pontificio.