Giobbe |
Il libro di Giobbe, considerato uno dei capolavori della letteratura universale, è composto da un lungo dialogo poetico ( 3,1-42,6 ), preceduto e seguito da un breve racconto in prosa, tutto incentrato sulla condizione del protagonista, messo alla prova da Dio e poi da lui riabilitato ( 1,1-2,13; 42,7-17 ).
L'autore principale di questa opera probabilmente si è ispirato a un racconto sapienziale dell'epoca, che narrava le dolorose vicende di un uomo profondamente religioso, giusto e buono, il quale, dopo essere stato privato dei beni, dei figli e della salute, vedeva premiata la sua incrollabile fedeltà.
Attorno a questo racconto, un autore successivo ha sviluppato, attraverso una lunga serie di dialoghi, la riflessione religiosa sulla giustizia di Dio, che sembrava essere messa in discussione dalla sofferenza del giusto e dell'innocente.
Prologo ( 1,1-2,13 )
Dialogo tra Giobbe e i suoi tre amici: Elifaz, Bildad e Sofar ( 3,1-31,40 )
Discorsi di Eliu ( 32,1-37,24 )
La grande teofania ( 38,1-42,6 )
Epilogo ( 42,7-17 ).
Il libro di Giobbe si ispira a un'esperienza dell'uomo di ogni tempo, quella del dolore.
Più in particolare, questo libro si sofferma sulla sofferenza che colpisce l'innocente e il giusto, di fronte alla quale sembra stendersi l'ombra del silenzio di Dio.
Secondo una credenza che anche l'antica tradizione biblica accetta, la sofferenza era considerata una punizione per il peccato.
Questa concezione è condivisa dai tre amici di Giobbe, che dominano la scena dei cc. 3-31 del libro.
Essi sostengono la tesi che la sofferenza dell'uomo è sempre conseguenza di una sua colpa e che Dio premia e punisce nella vita presente gli uomini, secondo i meriti e le colpe.
Essi, però, non sanno piegarsi sull'uomo innocente che soffre e grida a Dio il suo dolore, come invece fa Giobbe.
E proprio Giobbe, con parole ardite, va al cuore della condizione umana, proiettando in Dio l'interrogativo lacerante del perché del suo dolore di uomo innocente, chiedendo arditamente conto a Dio di questo suo modo di agire, che egli ritiene ingiusto.
Nei cc. 32-37 la sofferenza viene giustificata come una correzione che Dio fa all'uomo, sia all'empio sia al giusto, e come una misura preventiva per scoraggiarne l'orgoglio e la presunzione.
I cc. 38-42 contengono la risposta di Dio a Giobbe: di fronte al mistero insondabile di Dio creatore, Giobbe comprende l'assurdità delle sue parole di accusa.
Comprende anche che Dio non può essere ingiusto e accetta con fede il mistero del suo agire nei confronti dell'uomo.
Composto forse dopo l'esilio babilonese, che durò dal 587 al 538 a.C., il libro di Giobbe era destinato ai Giudei che, in seguito alla caduta di Gerusalemme e alla loro deportazione, avevano perduto ogni cosa e si interrogavano sulla giustizia e bontà di Dio.
Probabilmente il libro si è formato nel corso del tempo e in fasi successive, ma la sua redazione finale è avvenuta in un momento in cui si rendeva necessario e urgente infondere una nuova speranza e una nuova fiducia in Dio ai deportati e a coloro che, tra mille difficoltà, andavano ricostruendo Gerusalemme.
Giobbe è il protagonista, non l'autore di questo libro.
L'autore, vissuto probabilmente nella terra di Canaan, è un Israelita profondamente religioso e colto, ma al tempo stesso anticonformista, che desidera penetrare più profondamente il mistero dell'uomo e il mistero di Dio.
Il libro di Giobbe - il nome significa Dov'è il ( mio ) padre? oppure ( Colui che è ) oppresso - può giustamente essere definito uno dei più meravigliosi poemi del mondo per i pregi letterari e per l'argomento di interesse universale.
Nel corso dei secoli, presso ogni popolo, il problema del dolore trovò sempre gli uomini in cerca di una risposta che potesse placare le loro inquietudini.
Intimamente legato a questo, venne ugualmente studiato e discusso il problema del bene e del male morale e della ricompensa terrena e ultraterrena.
Le soluzioni vanno dall'accettazione passiva di una risposta qualsiasi all'insoddisfazione e quindi ricerca di una più convincente soluzione, all'acquietarsi dell'indagine in una risposta filosoficamente più evoluta ( a volte, disperando di poterla ottenere, si cade nell'agnosticismo o nello scetticismo ).
Anche presso il popolo ebraico troviamo questi vari passaggi.
La legge mosaica aveva proposto e risolto il problema in maniera proporzionata alla capacità intellettuale e al livello morale degli Ebrei, che erano pastori dal cuore e dal cervello duri: l'abbondanza di beni materiali è il premio per i buoni, la privazione di essi è il castigo per i cattivi.
Quindi una vita lunga e felice, una discendenza numerosa, la fecondità, un numeroso bestiame, un buon nome, la potenza e la vittoria contro i nemici sono concessi a colui che avrà ascoltato i precetti del Signore, per osservarli e adempirli.
Ma due potenti fattori contribuirono a rendere il popolo ebraico più sensibile ai problemi dello spirito: la predicazione profetica e il contatto con altre genti più evolute quali i Filistei, gli Egiziani, gli Assiri e i Babilonesi.
D'altra parte, una visione più realistica della vita suscitava domande sconcertanti.
Perché mai la vita degli empi è prospera e tutti gli sleali godono la pace?
La risposta non era esauriente ( Sal 73,27 ).
Gb 21,7-18 infatti riconoscerà che spesso i malvagi non vengono puniti su questa terra ( Qo 8,10 ).
Il problema dunque non aveva una soluzione accettabile.
Finalmente, in Sap 3,5, troviamo chiaramente impostata e risolta la questione, nella visione di un premio che i giusti riceveranno nell'al di là.
Giob. è ben lontano dall'essere arrivato a questa conclusione: possiamo dire, anzi, che esso segna quasi il culmine del tormento dello spirito umano quando, insoddisfatto dell'antica, non gli è ancora balenata la bellezza della nuova soluzione.
Si sarebbe tentati perciò di pensare che Giobbe arrivi a un pessimismo o a uno scetticismo circa il valore e la necessità di operare il bene, al contrario, la visione di Giobbe non è certamente chiara, in quanto non risponde direttamente al problema; tuttavia rappresenta il miglior tentativo d'indirizzarsi sulla via giusta che finirà necessariamente con la soluzione proposta da Sap.
Le ragioni addotte dagli amici di Giobbe, secondo i quali le tribolazioni dei giusti servono solo a espiare i peccati o a perfezionare la virtù, non sono accettate da Giobbe; egli, infatti, intuisce che, al di là di questa, ci deve essere un'altra soluzione più completa.
Ma essendo incapace di raggiungerla, rimette il problema con un atto di fede all'infinita potenza e sapienza di Dio.
Non è spiegata la presenza del male sulla terra; cioè viene trovata la ragione della sua esistenza nel fatto che Dio sa perché lo permette, anche se, a giudizio dell'uomo, sembrerebbe contrario alla bontà e alla giustizia.
Oggi si discute molto se Giob. sia un libro storico o no.
Lo studio più accurato del libro, il fatto che alcuni suoi caratteri sono evidentemente fittizi ( il colloquio con Satana, il susseguirsi di messaggeri ecc. ) hanno portato qualche moderno a un'estrema conclusione, negandogli ogni storicità.
Il nome di Giobbe anzitutto è conosciuto anche in testi non biblici, come le lettere di el-Amarna: ciò che farebbe pensare a una leggenda, nota anche fuori di Israele.
Questa idea era già diffusa presso gli studiosi anche quando non era stato ancora scoperto nelle sue varie espressioni e redazioni il poema babilonese che tratta il problema del giusto sofferente, così detto perché vi si descrivono le peripezie di un uomo giusto.
Il re Subsimesri-Nergal è inspiegabilmente colpito da molte tribolazioni e malattie, tanto da venir abbandonato da tutti.
L'infelice si lamenta e domanda il perché di tante sofferenze; esaminandosi accuratamente, pensa d'essere stato forse un po' vanaglorioso e d'aver così suscitato l'ira degli dèi.
Implora perdono e misericordia e allora interviene personalmente il dio Marduch, che lo risana e lo restituisce alla felicità primitiva.
I punti di contatto con Giob. sono chiari: da qui, alcuni hanno pensato a una totale dipendenza del testo biblico da quello babilonese come una copia ampliata.
Altri propendono a credere che una stessa fonte abbia alimentato la leggenda babilonese e il libro ebraico; altri infine negano qualunque dipendenza o influenza del primo sul secondo.
Forse si può proporre una soluzione meno categorica; esaminando infatti Giob. ci troviamo di fronte ad alcuni elementi che non possono essere sottovalutati.
La scena non avviene in Palestina, ma nella terra di Uz in Arabia.
Il personaggio principale non è un Ebreo: infatti è l'uomo più facoltoso fra tutti i figli d'Oriente ( Gb 1,3 ), espressione questa che designa o gli Aramei o gli Arabi ( Gen 29,1; Gdc 6,3 ); Dio non è mai chiamato Jahve.
Gli amici di Giobbe sono un Idumeo, cioè Elifaz il Temanita ( Gen 36,1; Ger 49,7 ), un Arabo, Bildad lo Shukhita ( Gen 25,2 ); un altro Arabo, Zofar il Naamatita. Anche Elihu è di stirpe affine a quella di Giobbe, perché discende da Buz, fratello di Uz ( Gen 22,21 ).
Ciò nonostante, si può dire che forse pochi Ebrei conoscevano così bene la legge come questi stranieri; essi parlano di Dio in modo mirabile; lo vedono presente sia nei fenomeni della natura ( che egli governa a suo piacimento ) sia negli uomini che persegue anche negli intimi recessi della coscienza; ne cantano la gloria in uno stile che mostra affinità strettissime con quello dei Salmi e dei profeti.
Il libro ha la stessa dottrina di 1 Re 22,19-23 circa l'« avversario », che è un ministro e non un nemico di Dio.
Per quanto concerne l'uomo, sulla bocca di Giobbe troviamo la pura dottrina tradizionale, riguardo ai doveri verso Dio, sintetizzati nel timore di Dio che include la pratica di obblighi religiosi e morali.
In Giob. come nei Salmi la virtù principale che regola i rapporti tra Dio e gli uomini è la giustizia.
Sulla scorta di queste considerazioni, si può avanzare la seguente ipotesi: un poeta ebraico, saggio e particolarmente versato sia nella letteratura che nella legge, volle illustrare il problema del male, della retribuzione dei buoni e dei cattivi, problema che nella legge di Mosè e nell'insegnamento profetico non appariva chiaramente impostato e risolto.
Conscio però di trattare una materia molto delicata, affinché la cosa fosse meno ostica e dura ai connazionali, immaginò che la discussione avvenisse tra non Ebrei.
Gli venne a proposito l'esistenza di una tradizione presso gli Arabi o gli Aramei, nella quale un uomo giusto si lamentava di essere punito senza colpa, gli fu facile rivestirla del proprio pensiero e modificarla liberamente, senza cioè seguirla nei particolari e introducendo quegli elementi nuovi che ritenne opportuni.
Tale racconto non ebraico probabilmente era una pura invenzione letteraria con la quale si volle creare il prototipo del giusto sofferente, come per es. in Egitto si era creato il tipo del contadino angariato dai magistrati, degli amanti che descrivono i propri sentimenti, dell'avventuriero stanco di vivere ecc.
Il poeta ebraico non si è preoccupato di sapere se il suo personaggio fosse o no storico: a lui serviva ottimamente per poter trattare questo problema senza offendere nessuna idea tradizionale.
Volle perciò lasciarlo in un ambiente non ebraico per avere maggior libertà di esposizione e di critica: le idee che potevano suonare male, poste in bocca a un Arabo avrebbero recato meno fastidio a un orecchio ebreo; la discussione, cioè, avrebbe potuto svolgersi più ampia, in una disamina imparziale del problema, nella ricerca di soluzioni non ancora date ne dalla legge ne dai profeti.
Quindi se dalla bocca di Giobbe e degli amici escono espressioni non approvabili, penserà Dio stesso a mettere le cose a posto: intanto, però, questi rilievi erano fatti senza mancar di rispetto alla legge e alla tradizione.
È vero che la conclusione del libro non da un apporto concreto al problema, tuttavia resta il fatto, di capitale importanza, che la questione è impostata nella più cruda attualità.
Sarà ormai questione di tempo perché arrivi la giusta soluzione, ma non potrà mancare.
Concludendo: ciò che di sicuro si può dire, oggi, è che Giob. non ha l'indole e la forma di uno scritto storico ma didattico; la veste sotto la quale l'A. poté trattare il tema, forse gli fu prestata da un analogo racconto babilonese, diffuso e noto.
Che questo a sua volta abbia avuto origine da un fatto vero o sia una pura invenzione artistica, per noi ha poca importanza; l'A. di Giob. volle dare insegnamenti e non fare una cronaca.
Si può quindi e si deve negare ogni dipendenza dell'opera ebraica da quella babilonese, almeno per il contenuto dottrinale.
Non si possono considerare argomenti validi per la storicità di Giobbe le citazioni di Tb 1,12.15 ( nella sola versione latina ) e di Ez 14,14-20 dove è nominato Giobbe insieme con Noè e Daniele: nulla impedisce infatti che si possa proporre all'imitazione un personaggio puramente fittizio, come fece Gesù, quando disse al Fariseo di imitare il buon Samaritano ( Lc 10,37 ).
La citazione, in quei testi, di Daniele, che secondo alcuni sarebbe un sapiente noto anche nella letteratura fenicia e non il profeta Daniele, renderebbe la cosa meno improbabile.
La forma, di cui l'A. si è servito, viene dai più considerata come drammatica, benché tale affermazione si basi unicamente sul fatto che intervengono diversi personaggi, a turno: forse sarebbe meglio vedere in questa struttura una semplice riproduzione del come si svolgeva una disputa filosofica presso i Semiti.
L'accenno a un dramma sembra derivi più che altro dal desiderio di avvicinare i generi letterari ebraici ai nostri tipi classici: di questo passo si dovrebbero classificare come drammi anche i dialoghi di Platone.
Sull'autore di Giob. non abbiamo alcuna notizia certa.
Gli antichi ne dissero autore Mosè, altri Salomone; altri moderni, sia per la lingua che per lo stile, pensano ai tempi di Salomone.
Quest'ultima opinione valuta troppo poco l'indole del libro.
In esso gli animi sono travagliati da gravi questioni di ordine filosofico-religioso e angustiati da calamità pubbliche, tutto ciò appare estraneo al tempo di Salomone.
Del resto, il periodo d'oro della letteratura ebraica non può essere limitato ai tempi di Salomone.
Altri autori sono indotti a pensare a un'epoca postesilica, sia per alcuni caratteri dottrinali ( individualismo religioso, proprio della letteratura esilica e postesilica; universalismo della salvezza, presenza degli angeli e di Satana ) sia per i molti aramaismi, sparsi un po' in tutto il libro.
Al che si può osservare che anche al tempo degli ultimi profeti preesilici ( per es. Geremia ) si trovano idee uguali o equivalenti che in seguito furono ampliate.
La forma con cui tali idee vengono presentate e discusse in Giobbe fa pensare che il loro sviluppo non sia ancora completo o che non siano conosciute da tutti, come lo furono al ritorno da Babilonia.
Tutto ciò confermerebbe la teoria di coloro secondo i quali lo stile vigoroso e l'eleganza della lingua rendono improbabile un'età posteriore all'esilio.
Anzi, facendo il confronto fra Giob. e gli scritti di Geremia, qualche studioso conclude che forse il nostro libro fu scritto verso il medesimo tempo: tenuto conto delle variazioni ( fra cui le somiglianze di forma e di argomento di Giob. con Ger 12,1-4; Gb 3,3.12 con Ger 20,14-19; Gb 7,15 con Ger 9,3; Gb 13,27 con Ger 20,2 ), questa è l'opinione che, in mancanza di dati più precisi, forse si avvicina maggiormente alla verità.
In ogni caso l'A. di Giob. difficilmente può essere un non ebreo, come vorrebbe qualcuno: la profonda conoscenza della legge ( Gb 24,2-11 ), i molti termini giuridici perfettamente ebraici, le condizioni della Palestina descritte magistralmente mostrano che il paese e le sue costumanze dovevano essere familiari all'A.
Nell'antichità non si dubitò che tutto il libro fosse stato scritto da un unico autore: i critici moderni, invece, vedono in esso diverse mani, specialmente nella composizione di alcune parti.
Appaiono sospetti: il prologo e l'epilogo, scritti in prosa; i discorsi di Elihu ( Gb 32-37 ); la teofania di Jahve ( Gb 38-40 ); l'elogio della sapienza ( Gb 28 ).
Riguardo al prologo e all'epilogo, non si vede perché non possano essere dello stesso autore che compose il libro; se togliamo l'uno o l'altro o entrambi, rompiamo quell'armonia d'insieme che, allo stato attuale, è giustamente ritenuta ammirevole: sono come le basi e il coronamento di un edificio, altrimenti instabile e tronco.
Il fatto della loro stesura in prosa non è argomento sufficiente per impugnarne l'autenticità: bisognerebbe dimostrarlo contrario alle regole dell'arte in genere e di quella ebraica in specie.
Riguardo ai discorsi di Elihu, se ne impugna la genuinità perché colui che li pronuncia non è nominato nel proemio ( Gb 1,11-13 ).
Abbastanza strana è la soluzione secondo la quale Elihu non era che uno spettatore casuale.
Noi diremmo che Elihu non fu introdotto fin dall'inizio per un calcolo; se osserviamo la presentazione che egli fa di se stesso ( specialmente Gb 32,7-9 ) ci accorgiamo che questo nuovo personaggio ha il compito di rappresentare la generazione dei giovani: questi hanno saputo trovare, almeno in parte, la soluzione del problema invano agitato dai più anziani, rappresentati da Giobbe e dai tre amici.
La soluzione viene data da un giovinetto che, secondo i costumi tradizionali, non era nemmeno degno di essere presentato in un consesso di anziani.
Il fatto mette in risalto che la sapienza non è frutto della età, ma è nell'uomo ima ispirazione, ed è il soffio di Shaddai che da l'intelligenza ( Gb 32,8 ).
Il poeta ha forse voluto mostrarsi teso verso quel rinnovamento delle idee tradizionali che si andava operando nella nuova generazione: dopo aver mostrato l'incapacità degli anziani a trovare una soluzione, fa che un giovinetto la presenti e che Dio stesso immediatamente poi la completi.
L'ammonimento ai conservatori era cosi discreto, ma eloquente.
Perciò consideriamo i discorsi di Elihu come una pane importante nel piano generale dell'opera e riteniamo che l'A. volutamente non abbia introdotto Elihu fin dall'inizio, perché la sua apparizione conservasse un carattere di inatteso e con ciò sottolineasse l'apporto nuovo dato alla soluzione del problema.
Ancor meno giustificata appare la diffidenza verso l'autenticità della teofania: l'apparizione finale di Dio non solo è legata ai ripetuti inviti di Giobbe, che talora raggiungono l'angoscia della disperazione ( Gb 13,3-24; Gb 16,18-21; Gb 23,3-7; Gb 31,35-37 ), ma è connessa strettamente con tutta la questione, di cui rappresenta la miglior soluzione: senza di essa il poema resterebbe mancante di una parte essenziale, come è quella di rendere testimonianza all'innocenza di Giobbe, misconosciuta dagli amici, e dare una risposta alla questione.
L'elogio della sapienza, come si presenta al punto in cui è inserito ( tra i cc. 27 e 29 ), è certamente in poca connessione con la causa di Giobbe, tuttavia, com'è stato detto, « s'intona allo scopo di tutto il libro ( cioè che l'uomo non può conoscere l'origine delle cose e i disegni divini ), è in armonia con le parole e il senso del prologo e di altri luoghi del poema, specialmente con le parole di Dio ».
Lo paragoneremo volentieri a quelle digressioni che gli eroi di Omero, in piena battaglia, facevano con tutta tranquillità, per decine di versi; del resto, di simili digressioni avremo esempio insigne in Sir.
Anche ammettendo che il brano sia interpolato, dovremmo tuttavia dire che l'A. è riuscito a imitare in maniera sorprendente lo stile del poeta principale.
Il testo ebraico presenta molte corruzioni.
La versione greca dei Settanta spesso riassume il testo ebraico o ne omette addirittura interi stichi, cosi che quasi un buon sesto dell'originale manca.
La cura del traduttore fu rivolta più all'eleganza greca che alla fedeltà al testo ebraico.
Ottima fra tutte le versioni è la versione latina di Girolamo, che raramente si scosta dal testo ebraico, ma non ne mantiene la stupenda concisione, forse per la preoccupazione di essere chiara.
Il libro è importantissimo dal punto di vista del pensiero.
Meritano particolare segnalazione: il concetto di Dio e dei suoi attributi, la presenza di spiriti buoni e cattivi; il concetto dell'oltretomba, rimasto ancora quello ebraico dello Sheol che inghiotte i vivi senza mai restituirli, dimora tenebrosa dalla quale nessuno fa ritorno; la speranza di una futura ricompensa per i buoni e per i cattivi, rimane ancora molto oscura.
Sebbene Giobbe desideri la morte, tuttavia da essa non spera nulla di buono, tranne l'inizio di un riposo; particolarmente mirabile l'esempio di fiducia in Dio e di pazienza.
Ma sopra ogni altro elemento teologico domina un culto di Dio semplice, sincero, che penetra tutte le manifestazioni della vita; un desiderio della virtù schietto e leale, che non bada a sacrifici e che per l'uomo è fonte di consolazione sulla terra.
Se ci sono momenti in cui l'animo esacerbato prorompe in invettive sconcertanti, questi sfoghi sono temperati e corretti da tratti in cui la rassegnazione di Giobbe è davvero eroica.
L'immortalità dell'anima, più che affermata, è presupposta come verità di cui non si discute, mentre la visione si allarga e fa intravedere a tutti gli uomini la possibilità della salvezza.
Don Federico Tartaglia
Don Martino Signoretto
Card. Gianfranco Ravasi
Luca Mazzinghi
Grazia Papola
Don Luca Mazzinghi
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