Messaggio Urbi et Orbi di Natale 1957
22 dicembre 1957
« Leva, Jerusalem, oculos tuos, et vide potentiam regis: ecce Salvator venit solvere te a vinculo »,
« Solleva in alto i tuoi occhi, o Gerusalemme, e guarda la potenza del re: ecco che il Salvatore viene a liberarti dai ceppi » ( Brev. Rom., Fer. 2 infra Hebd. I Adv., Ant. ad Magnif. ).
Il materno invito della Chiesa a sollevare lo sguardo verso i cieli, per aspettare di là il Dio Salvatore, e, con Lui, l'affrancamento dai vincoli delle disarmonie che irretiscono gli animi, Noi desideriamo di ripetervi, diletti figli e figlie dell'Orbe cattolico, come paterno augurio in questo Natale, che trova gli uomini, bensì con gli sguardi rivolti in alto, ma coi cuori gravati da angosciosi incubi per la incerta sorte dell'umana famiglia e della sua stessa terrestre dimora.
Non così i Pastori di Betlemme, nè i Magi di Oriente scrutarono i cieli, quando ai primi apparvero gli Angeli e agli altri si mostrò la mistica stella, annunzianti la nascita del Figlio di Dio sulla terra.
Un profondo stupore pervase i loro animi nell'apprendere e nell'assistere ai « Magnalia Dei » ( Ap 2,11; 1 Pt 2,9 ), alle grandi e meravigliose gesta di Dio, che raggiungevano il culmine e la sintesi di ogni possibile grandezza in quel tenero Bambino, nato nella città di Davide, avvolto in poveri panni e adagiato in umile presepio ( cfr. Lc 2,12 ).
Il loro stupore però non aveva nulla in comune con lo sbigottimento e lo schianto che sogliono suscitare le terribili grandezze, bensì si tramutò in onda di soave conforto, in respiro d'ineffabile pace e di placante armonia, quali soltanto Dio sa infondere negli umani spiriti, che Lui cercano, accolgono e adorano.
Se non che, dinanzi all'evento inenarrabile della venuta del Verbo divino nel mondo, dinanzi a questo fatto eccellentissimo sopra tutti gli altri nella storia del genere umano, degno pertanto di suprema ammirazione, non tutti gli uomini s'inchinano adorando, quasi prigionieri della loro stessa piccolezza, quasi incapaci d'immaginare le possibilità dell'infinita grandezza.
Altri poi, spettatori dell'enorme sviluppo della scienza moderna, che ha esteso la cognizione ed il potere dell'uomo fin verso gli spazi astrali, quasi accecati dal fascino dei propri risultati, non sanno ammirare che le « grandezze dell'uomo », chiudendo volontariamente gli occhi alle « grandezze di Dio ».
Ignari o dimentichi che Dio sta anche più in alto dei cieli stessi e che il suo trono poggia sopra i vertici delle stelle ( cfr. Gb 22,12 ), essi non ravvisano più la verità ed il senso dell'inno, cantato dagli Angeli sopra la grotta, ove si manifestò la suprema divina grandezza: « Gloria in excelsis Deo »; ma sono, al contrario, tentati di sostituirlo con l'altro di « gloria in terra all'uomo », all'uomo che tanto idea ed effettua, quindi all'« homo faber », come viene designato da alcuni filosofi, essendosi rivelato tale in opere che sembrano sorpassare ogni umana misura.
È il momento questo di ricondurre a giuste proporzioni l'ammirazione dell'uomo moderno verso sè stesso.
Temperando con saggia moderazione il senso quasi di ebbrezza, che vanno suscitando le moderne conquiste della tecnica, gli ammiratori dell'« homo faber » dovrebbero persuadersi che il soffermarsi con incanto ed in gesto di adorazione dinanzi alla culla del Dio Bambino, non ritarderebbe la loro corsa sulle vie del progresso, ma la coronerebbe con la completezza dell'« homo sapiens ».
Quest'uomo, infatti, « artefice » e « spirituale » a un tempo, riconosce agevolmente che tutto ciò che Dio opera e manifesta nel mistero del Natale, supera incomparabilmente ogni forza, energia ed efficienza umana, alla stessa guisa che l'infinito supera il finito.
Con una sensibilità più viva e compiuta di quella che porta altri ad ammirare senza riserve un qualche prodotto materiale, egli sente la dolcezza del rapimento dinanzi al divino Fanciullo che reca sopra i suoi omeri il principato ( cfr. Is 9,6 ).
In Lui, egli vede le maraviglie del Dio eterno che si veste del tempo, del Dio immenso e onnipotente che si circoscrive nello spazio e nella debolezza, del Dio di maestà fattosi « benignità del Salvatore nostro » ( cfr. Tt 3,4 ), pieno di infinita misericordia ed amore.
Perciò l'Angelo, che annunziò ai pastori le maraviglie del Natale, esordì con un rincuorante : « Non temete, poichè vi do una novella di grande allegrezza per tutto il popolo » ( Lc 2,12 ).
Ben altri sentimenti suscitano, al contrario, gli annunzi delle nuove maraviglie della tecnica.
Cessato il primo impeto di esultanza, gli uomini oggi, dinanzi alla inaspettata moltitudine delle loro accresciute cognizioni e degli effetti che ne derivano, dinanzi a questa inaudita invasione nel microcosmo e nel macrocosmo, tormentati da una certa ansia, si vanno domandando se conserveranno il loro dominio nel mondo, o se non cadranno vittime del loro progresso.
Gl'imprevedibili mutamenti, cui portano le nuove vie, aperte dalla scienza e dalla tecnica moderne, da taluni sono guardati come qualche cosa di disarmonico, destinati a gettare il turbamento e lo scompiglio nella unità dell'ordine e dell'armonia, propria della ragione umana; da altri, invece, considerati come motivi di seria apprensione, riguardo alla sopravvivenza stessa dei loro artefici.
L'uomo comincia a temere il mondo che crede di avere ormai nelle mani; lo teme più che mai e soprattutto ove Dio non vive veramente nelle menti e nei cuori, Dio, di cui il mondo - tutto e totalmente - è opera, in cui ha impresso incancellabile la sua impronta, Dio Onnipotente, Spirito Assoluto, Ente sapientissimo e Fonte di ogni ordine, armonia, bontà e bellezza.
A questo genere umano, composto in molta parte di uomini che ammirano unicamente sè stessi, ma che cominciano a temere sè ed il loro mondo, Noi additiamo ancora una volta i sentieri di Betlemme.
Là troveranno Colui che cercano.
Colui di cui dice l'Apostolo: « Tutto per lui e a riflesso di lui fu creato; ed egli è avanti a tutte le cose, e tutte le cose per lui sussistono » ( Col 1,16-17 ).
Questa è la salutare verità che sfavilla nell'umile grotta, e che desideriamo risplenda nelle vostre menti.
In particolare, Cristo neonato apparisce e si offre al mondo di oggi:
1° come conforto di coloro, che lamentano le disarmonie e disperano dell'armonia del mondo;
2° come pegno di armonia nel mondo;
3° come luce e via per ogni sforzo del genere umano di stabilire l'armonia nei mondo.
L'uomo, fin dal primo incontro con l'universo, fu rapito dalla incomparabile sua bellezza ed armonia.
Il cielo sfavillante di luce o trapunto di stelle, gli oceani dalle tinte cangianti delle loro immense distese, le vette inaccessibili dei monti coronati di nevi, le verdi foreste frementi di vita, l'avvicendarsi ordinato delle stagioni, la multiforme varietà degli esseri, gli strapparono dal cuore un grido di ammirazione!
Connaturato egli stesso alla bellezza, la intravide perfino negli elementi scatenati, quali espressioni della potenza del Creatore: « Potentior aestibus maris, potens in excelsis Deus » ( Sal 93,4 ); « Tonabit Deus in voce sua mirabiliter » ( Gb 37,5 ).
Con ragione, un popolo antico di elevata civiltà non trovò nome più atto, per indicare l'universo che κóσμος ossia, ordine, armonia, decoro.
Eppure, ogni volta che l'uomo rivolse lo sguardo a sè stesso, paragonando le proprie aspirazioni con le opere, proruppe in gemiti di sconforto per le troppe contraddizioni, disarmonie e disordini, dilaceranti la sua vita.
Non altrimenti dall'uomo del passato, quello moderno si dimena tra l'ammirazione estatica verso il mondo della natura, esplorato fin nei profondi recessi, nelle remote distanze, e l'amarezza dello sconforto che gli procura la caotica sua esistenza, da lui stesso determinata.
Il contrasto tra l'armonia della natura e la disarmonia della vita, anziché attenuarsi con l'accresciuto potere di conoscenza e di azione, sembra invece seguirlo come grave ombra.
Nell'isolamento di cui si circonda, l'uomo moderno non fa che ripetere il lamento del paziente di Hus: « Ecco che grido all'oppressione e non trovo ascolto, chiedo aiuto, ma non vi è giustizia » ( Gb 19,7 ).
Ebbene, soffermiamoci ad ascoltare il suo lamento, per comprendere meglio il suo intimo sentire e per additargli Colui che davvero può dissipare le sue tenebre e restituire l'armonia alla sua contrastata esistenza.
In una parte della presente umanità, la visione delle disarmonie del mondo si risolve in un giudizio di condanna della intiera creazione, quasi la disarmonia ne debba essere il necessario contrassegno, la fatalità inevitabile, dinanzi alla quale non resta all'uomo che incrociare le braccia e rassegnarsi, tutt'al più cercando di rifarsi, con effimeri piaceri, strappati allo stesso imperante disordine.
Questo totale pessimismo, che s'impadronisce per lo più degli animi aperti al più ampio e perfino assurdo ottimismo, deriva dall'estendere a tutto il cosmo ed alle sue leggi fondamentali le innegabili incoerenze che il mondo presenta, addossandone la colpa allo stesso Creatore.
Cedono in tal modo agli assalti del totale pessimismo coloro che non sanno vedere altra cosa nel mondo se non il pelago delle crudeltà e dei dolori, strazianti individui e popoli, che direttamente o indirettamente accompagnano le attuazioni del progresso esterno.
Altri sono indotti a disperare della possibilità di ricomporre l'armonia, dal fatto, in sè grave, degli uomini che si lasciano adescare così fortemente dal fascino delle novità, da disprezzare gli altri genuini valori, particolarmente quelli che sorreggono l'umano consorzio.
Molti altri finalmente capitolano, per così dire, dinanzi al totale pessimismo, allorchè osservano il lacrimevole fatto di uomini esteriormente progressivi diventare; interiormente incivili.
Se poi si spinge l'indagine alle radici di questi e simili fatti, la speranza resta ancora più scossa, poichè le loro cause accusano più profonde disarmonie, ed anche più gravi ne promettono.
Come mai tanta indifferenza per l'altrui diritto alla vita, tanto disprezzo dei valori umani, tanto abbassamento nel tono di genuina civiltà, se non perchè il preponderante progresso materiale ha scomposto il tutto armonico e felice dell'uomo, lo ha come mutilato della sensibilità verso quei concetti e valori, perfezionandolo soltanto in una determinata direzione?
All'uomo, infatti, nato ed educato in un clima di rigoroso tecnicismo, mancherà necessariamente una parte, e non la meno importante, del suo tutto, quasi fosse atrofizzata da condizioni avverse al suo naturale sviluppo.
Come una pianta, coltivata in un terreno cui si siano sottratte sostanze vitali, sviluppa questa o quella qualità, ma non riproduce l'intiero armonico tipo; così la civilizzazione « progressista », vale a dire unicamente materialistica, ponendo al bando taluni valori ed elementi necessari nella vita delle famiglie e dei popoli, finisce col privare l'uomo della genuina forma di pensare, di giudicare e di agire.
Questa, infatti, per attingere il vero, l'onesto, per essere, in una parola, « umana », esige la massima ampiezza e la multiforme direzione.
Il progresso tecnico, al contrario, ove imprigioni l'uomo tra le sue spire, segregandolo dal resto dell'universo, specialmente dallo spirituale ed interiore, lo conforma ai suoi stessi caratteri, dei quali i più notevoli sono: la superficialità e la instabilità.
Il processo di tale deformazione non è un segreto, quando si consideri la tendenza dell'uomo ad accettare l'equivoco e l'errore, se questi rechino nelle mani la promessa di una vita più facile.
Guardate, ad esempio, l'equivoca sostituzione di valori, operata dal mirabile progresso della velocità meccanica.
Adescato dal suo fascino, trasferendo il pregio della celerità dei movimenti a cose che non aspettano la perfezione da rapide mutazioni, ma, al contrario, acquistano fecondità nella stabilità e nella fedeltà alle tradizioni, l'uomo « dalle folli velocità tende a divenire nella vita come canna agitata dal vento, sterile di opere perenni e incapace di sorreggere sè e gli altri.
Un somigliante equivoco deriva dall'accrescimento, in sè mirabile, della efficacia dei sensi, ai quali i moderni prodigiosi strumenti d'indagine danno il potere di vedere, ascoltare, misurare ciò che esiste, si muove, si trasforma, pressoché in ogni angolo dell'universo.
Compiacendosi di tanto accresciuto potere e quasi intieramente assorbito dall'esercizio dei sensi, l'uomo « onniveggente » è portato, senza avvedersene, a ridurre l'applicazione della facoltà pienamente spirituale di leggere nell'interno delle cose, cioè dell'intelletto, a divenire sempre meno atto a maturare le vere idee di cui si sostanzia la vita.
Egualmente, le multiformi applicazioni della energia esterna, mirabilmente aumentata, tendono ogni giorno più a rinchiudere la vita umana in un sistema meccanico, che fa tutto da sè e a proprie spese, riducendo così gli stimoli che prima costringevano l'uomo ad evolvere l'energia propria e personale.
Esistono dunque profonde disarmonie nell'uomo nuovo creato dal progresso; ma, per quanto queste siano piene di pericoli, non sono tali da giustificare la disperazione dei pessimisti ad oltranza, nè la rassegnazione degli inerti.
Il mondo può e dev'essere ricondotto alla primigenia armonia, che fu il tema del Creatore fin da principio, quando partecipò le sue perfezioni alla sua opera ( cfr. Sir 16,25-26 ).
La suprema saldezza di questa speranza riposa nel mistero del Natale: Cristo, Uomo-Dio, autore di ogni armonia visita l'opera sua.
Come potrebbe la creatura disperare del mondo, se Dio stesso non dispera?
se il Verbo divino, per mezzo del quale furono fatte tutte le cose, si fece carne ed abitò tra noi, affinchè risplendesse finalmente la sua gloria di Unigenito del Padre? ( cfr. Gv 1,3ss ).
E come potrebbe risplendere la gloria del Creatore e Restauratore di tutte le cose in un mondo fondato necessariamente sopra contraddizioni e disarmonie?
Il pessimismo di costoro e la loro inerte rassegnazione non potranno mai essere accettati dal cristianesimo, perchè contrastano con la idea cristiana dell'uomo.
Già fin dagli esordi, S. Paolo si levò contro il pregiudizio degli antichi, secondo cui la sorte degli uomini era fatalmente retta dalle forze e dai moti della natura.
Perciò egli avvertiva: non siamo soggetti alle potestà della natura, ma a Cristo, che ci ha fatti liberi ed eredi di Dio ( cfr. Gal 4,3-4 ).
Ogni redenzione e libertà ci viene pertanto da Cristo, non dalla natura, che sempre, e forse anche più oggi, sotto il potere della tecnica, è pronta a ribadire le sue catene.
L'uomo moderno, da parte sua, è più esposto a tornare servo della natura, poiché, a differenza dell'antico, ad essa soggetto per ignoranza e per debolezza, egli è sottoposto alla sua forte pressione, in virtù di una vasta conoscenza ed applicazione delle sue energie, e quindi a prestarle quasi il culto dell'adorazione e della gratitudine, per le meraviglie che vi scorge e i benefizi immediati che ne ritrae.
Gl'incitamenti dell'Apostolo a spezzare le catene del servaggio imposto dalla natura, scegliendo Cristo ed aderendo a Lui, sono pertanto più reali che mai.
Egli, e non altri, è il vostro Dio, Autore e Signore della natura, il vostro Liberatore e Salvatore.
Per Lui siete destinati a « divenire figli di Dio » ( Gv 1,12 ), non servi degli elementi di questo mondo, non ad una perfezione parziale di questa o quella facoltà, ma chiamati a ripristinare in tutto l'uomo la perfetta immagine di Dio, armonia Egli stesso e fonte di ogni ordine nel cosmo.
Se non, che queste fulgide verità, atte a restaurare la dignità dell'uomo e a risollevarne le speranze, sono respinte da coloro che non riescono a stabilire un rapporto di necessità tra l'eterno e il temporale, tra il Creatore e le creature, distaccando, al contrario, Dio dal mondo, come esseri troppo differenti e distanti, quindi, senza vincoli reciproci.
Eppure la venuta del Figlio di Dio sulla terra dimostra visibilmente gl'intimi rapporti che legano il contingente all'eterno.
Il mondo e l'uomo non avrebbero la ragione e la possibilità di sussistere, se non fossero partecipi dell'essere eterno di Dio creatore.
Il mondo creato e finito, navigando necessariamente sull'oceano della divina eternità, ne segue, per così dire, il corso e le leggi.
Con ragione S. Agostino, con molti altri sapienti antichi e moderni, asserisce che nel mondo, sebbene creato e contingente, vige una legge suprema ed eterna, dalla quale esso trae consistenza e dignità.
È, infatti, quella legge eterna che eleva la creazione, per sè finita, alla dignità di riflettere l'infinito e l'eterno.
Ciò fa mediante l'ordine essenziale, insito in tutte le cose, e mediante l'intima coerenza ed armonia di cui il mondo risuona.
Ma se si respinge il concetto stesso della eternità di Dio e la possibilità che Dio partecipi alle creature qualche cosa di Sé, è vano parlare di ordine e di armonia del mondo.
Con tali negazioni, però, non si estingue nell'uomo la sete di armonia, di ordine, di felicità.
L'uomo allora si trova costretto a innalzare a supremo valore ciò che resta, vale a dire, il suo concreto essere finito.
Tolto dall'ordine esterno e da ogni armonia nel mondo, egli deve scegliere una vita, che non è se non una continua preoccupazione circa la sua esistenza e come una via alla morte, pur rivestita di una certa affettata superbia della sua natura finita.
L'uomo moderno, che non si sente legato essenzialmente all'eterno, cade nella adorazione del finito, nel cui mezzo egli è procedendo ed operando quasi conscio di sè e di tutto l'essere.
Ma ciò è una falsa riproduzione della realtà, che può illudere, ma non appagare la sete di verità e le intime aspirazioni.
Se gli uomini vogliono l'appagamento di queste, vadano a Betlemme, ove il Verbo eterno fatto carne abitò tra noi, per insegnarci che ogni umano operare deve attingere dall'eterno ogni sua direzione, ogni sua produttività e sicurezza.
Se l'essenza stessa dell'uomo è immagine di Dio, anche il suo operare deve essere a Lui conforme, come insegna la sapienza, affermando che « operari sequitur esse ».
L'opera dell'uomo sulla terra non è quindi condannata alla disarmonia, bensì destinata a manifestare l'armonia eterna di Dio.
In tal modo, il Verbo eterno incarnato affranca l'uomo dalla servitù, lo salva dalla sterile involuzione in sè stesso, gli restituisce la speranza nelle vie del progresso.
Al concetto cristiano di un cosmo, modellato dalla sapienza creatrice di Dio, e pertanto unitario, ordinato e armonico, sta dinanzi, forse distante nei secoli, la previsione di un solenne compimento, allorchè, « nei nuovi cieli e nella nuova terra » ( cfr. 2 Pt 3,13 ), « tabernacolo di Dio con gli uomini per abitare con essi … egli asciugherà ogni lacrima dai loro occhi; e non vi sarà più morte, nè lutto, nè strida, nè vi sarà più dolore, poichè le prime cose sono passate » ( Ap 21,1-4 ); in altre parole, sono superate le presenti disarmonie.
Ma è forse, con questo, rimandata totalmente l'attuazione del disegno armonico della creazione?
Forse che Dio, il quale, nell'atto stesso di crearlo, « diede all'uomo il potere su tutte le cose che sono sulla terra » ( Sir 17,3 ), ha ritirato la sua parola?
No certamente.
Ben lungi dal ritogliere all'uomo il potere di dominare la terra, Dio glielo ha confermato, il giorno in cui rivestì di umana carne l'Unigenito suo Figlio, avendo « stabilito di riunire nella ordinata pienezza dei tempi, in Cristo, tutte le cose, e quelle che sono nei cieli, e quelle che sono in terra » ( Ef 1,10 ).
Di guisa che, Cristo, Verbo incarnato, Dio-Uomo, venendo al mondo, fin dal primo momento della sua visibile esistenza, attesta che il dominio del mondo è in diverso grado di Dio e dell'uomo, e che, per conseguenza, non potrà ottenersi se non nello Spirito di Dio.
In Cristo, invero, ha abitato sostanzialmente lo stesso Spirito divino ( cfr. Col 2,9 ), che, al principio del tempo, disse: Sia, la luce. E la luce fu » ( Gen 1,3 ); lo stesso Spirito divino, che, impresso come sigillo indelebile in tutte le cose create, di tutte, inanimate e viventi, è il vincolo unitario, il germe dell'ordine, l'accordo fondamentale.
Ma, prima ancora che l'uomo si formasse l'esplicita coscienza della perfetta armonia di cui è feconda la presenza di Cristo nel mondo e la sua connaturalità all'uomo, egli poteva ravvisare nel proprio spirito, immagine dello Spirito di Dio, il vincolo unitario che salda internamente le cose l'una all'altra.
A tale felice sintesi, infatti, pervennero già gli antichi filosofi di Atene e di Roma, e con maggiore chiarezza i luminari della filosofia cristiana, tra i quali S. Agostino e l'Aquinate.
Ad ogni modo, la sola tecnica è insufficiente a riconoscere e a sviluppare il germe divino della unità e dell'armonia insito nelle cose.
Vi sono oggi cultori della scienza, che credono di poter prescindere, almeno metodicamente, da questa, verità, operando, cioè, come se lo spirito non esistesse, non avesse nulla da proporre, precludendogli anzi l'adito ai laboratori e la presenza alle ricerche.
Impregnati di materialismo e di sensismo, essi attendono la soluzione delle questioni soltanto dai loro strumenti e dai loro calcoli, dalla accurata osservazione dei fatti, dalla verifica e dalla esterna coordinazione dei fenomeni.
Altri ammettono bensì una certa connessione, ma come essi dicono, logica a modo di relazioni matematiche, immaginando che l'ordine del mondo, pur sottratto all'egida dello spirito, possa risultare egualmente in virtù dell'ordinamento fisico delle singole parti, a guisa di una gigantesca macchina calcolatrice.
Ove non bastasse la filosofia a dimostrare l'inconsistenza di tale opinione, ne fornirebbe una smentita la stessa scienza.
Se, infatti, si osserva come gli ottimi investigatori hanno proceduto e come le invenzioni e le scoperte della massima importanza sono nate, si deve ammettere la presenza operante dello spirito: da lui quell'intuito di connessione interna tra fatti spesso eterogenei, da lui la penetrazione acutissima dell'osservazione e dell'analisi, da lui il vigore di sintesi che ha rappresentato alla mente la vera realtà e condotto a formare il giudizio definitivo.
Ecco dunque che la presenza dello spirito nell'umano operare è innegabile, né la sua testimonianza nel mondo può essere fatta tacere se non dai pregiudizi e dalla superstizione: è testimonianza di unità, di ordine, di armonia, divinamente derivata, senza la quale anche le formule matematiche applicate nelle scienze non rappresenterebbero la realtà.
Spirito ed armonia sono, pertanto, testimoni reciproci: come all'abbondanza dello spirito corrisponderà sempre l'abbondanza dell'armonia, così ogni dissonanza, ovunque si verifichi, nelle scienze, nelle arti, nella vita, denunzia un qualche impedimento alla piena effusione di quello.
Tale reciprocità di rapporti addita alla riprovazione coloro che nel campo letterario ed artistico propagano il culto della disarmonia e, come essi stessi affermano, dell'assurdità.
Che ne sarebbe del mondo e dell'uomo, ove si perdesse il gusto e la stima dell'armonia?
Eppure a tanto mirano coloro che tentano di rivestire col decoro della bellezza e della seduzione il turpe, il peccaminoso, il male.
Anzi la loro offesa oltrepassa i confini della estetica, per battere in breccia la dignità stessa dell'uomo, che, immagine del divino Spirito, è essenzialmente connaturato all'armonia e all'ordine.
Non si nega tuttavia che anche il male possa essere rappresentato sotto la luce della vera arte, purchè, però, la sua rappresentazione apparisca alle menti ed ai sensi come una contraddizione opposta allo spirito, come il segno della sua assenza.
L'arte tanto più risplende di dignità, quanto più rispecchia lo spirito dell'uomo, immagine di Dio, e, per conseguenza, quanto più illustra la sua fecondità creatrice, la sua piena maturità nello svolgere, con le opere e coi differenti atteggiamenti della vita, il tema divino dell'unità e dell'armonia.
Se non che, per quanto evidente sia la testimonianza dello spirito dell'uomo in favore dell'armonia del mondo, per quanto feconda possa essere la sua azione nello sviluppo dei germi dell'ordine, la storia e la vita dimostrano una sua intrinseca insufficienza e debolezza, per sanare la quale fu necessario, nei disegni dell'infinito amor del Creatore verso la sua opera, che lo stesso Spirito di Dio si facesse visibile e s'inserisse nel tempo.
Ecco Cristo, Verbo divino fatto carne, venire nel mondo come nella sua casa, nella sua proprietà, « in propria venit » ( Gv 1,11 ).
Il titolo di questo dominio è il titolo dei titoli: la creazione.
Il mondo, dunque, riflette, per estensione e universalità, extensive et diffusive, come si esprime S. Tommaso ( S. Th. 1 p. q. 93 a. 2 ad 3um ), la eterna verità e bontà del Creatore; e in tal guisa la relazione di Cristo col mondo appare penetrata di chiarissima luce.
Similmente il Creatore mise l'uomo, immagine del suo Spirito, nel mondo, affinché sia il suo signore con la cognizione, il volere, l'azione, facendo propria, in intensità e in profondità, intensive et collective ( S. Th. l. c. ), la somiglianza della eterna verità e bontà, estensivamente diffusa nel mondo.
Dunque anche qui la relazione dell'uomo col mondo gode della chiara luce dello Spirito eterno comunicato dal Creatore alla creazione.
L'incarnazione in tal modo conserva ed accresce la dignità dell'uomo e la nobiltà del mondo, sul fondamento della medesima origine nello Spirito divino, fonte di unità, di ordine e di armonia.
Se invece si toglie questo fondamento dello spirito, e quindi l'immagine ( nell'uomo ) o il vestigio ( nelle creature irragionevoli ) dell'eterno Essere divino nelle cose create, è finita anche l'armonia nella relazione dell'uomo col mondo.
L'uomo si ridurrebbe ad un mero punto e luogo di una anonima e irrazionale vitalità.
Egli non sarebbe più nel mondo come in casa sua.
Il mondo diverrebbe per lui alcunchè di estraneo, oscuro, pericoloso, sempre inclinato a svestire l'indole di strumento e a farsi suo nemico.
E quali sarebbero i rapporti regolatori della vita associata, senza la luce del divino Spirito e senza tener conto della relazione di Cristo col mondo?
Alla domanda risponde purtroppo l'amara realtà di coloro, i quali, preferendo l'oscurità del mondo, si professano adoratori delle opere esterne dell'uomo.
La loro società riesce soltanto con la ferrea disciplina del collettivismo, a sostenere l'anonima esistenza degli uni accanto a quella degli altri.
Ben diversa è la vita sociale, fondata sull'esempio delle relazioni di Cristo col mondo e con l'uom : vita di fraterna cooperazione e di mutuo rispetto dell'altrui diritto, vita degna del primo principio e dell'ultimo fine di ogni umana creatura.
Ma la profonda oscurità e disarmonia, radice di tutte le altre, che il Verbo incarnato è venuto a illuminare e ricomporre, stava nella frattura prodotta dalla colpa originale, che ha coinvolto nelle amare conseguenze l'intiera stirpe umana ed il mondo, sua dimora.
L'uomo decaduto, dallo spirito offuscato, non vide più intorno a sè un mondo soggetto, docile strumento del suo destino, ma quasi la congiura di una natura ribelle, esecutrice inconsapevole del decreto che diseredava il suo primitivo signore.
Tuttavia, nell'uomo e nel mondo, non si estinse mai l'aspettazione di un ritorno alla primigenia condizione, all'ordine divino, espressa, secondo la frase dell'Apostolo, coi gemiti di tutte le creature ( cfr. Rm 8,22 ), poiché, malgrado la servitù del peccato, l'uomo restò sempre l'immagine del divino Spirito, ed il mondo proprietà del Verbo.
Cristo venne per rianimare ciò che la colpa aveva mortificato, a risanare ciò che aveva vulnerato, a illuminare ciò che aveva offuscato, sia nell'uomo che nel mondo, restituendo al primo il dominio sulla natura, secondo lo Spirito di Dio, e sottraendo l'altro dal peccaminoso abuso dell'uomo.
Se però la frattura fu risanata alla radice, restano tuttavia in eredità della stirpe umana talune conseguenze: dubbi, difficoltà, dolori.
Ma anche di questi frutti del peccato Cristo è pegno di redenzione e di restaurazione.
La luce soprannaturale, che risplendè nella notte di Natale a Betlemme, si proietta come nuova iride di pacificazione sull'intiero futuro del mondo, « soggettato alla vanità non per suo volere, ma di colui che lo ha soggettato con speranza » ( Rm 8,20 ).
La speranza è ancora Cristo, che come liberò il mondo dalla servitù del peccato, così lo affrancherà dalla servitù della corruzione, restituendolo alla libertà dei figliuoli di Dio.
La vita dell'uomo ed il corso del mondo sono intimamente pervasi da questa aspettazione.
Se gli uomini, fino al sorgere del giorno eterno, non vedranno ricomposta totalmente l'armonia, se sudore e lacrime bagneranno ancora il loro pane, se sempre riecheggeranno sotto il sole i gemiti delle creature, la loro non sarà tristezza di morte, ma angustia di madre, la quale, secondo la vivida espressione del divin Maestro, quando è giunta l'ora, dimentica volentieri ogni dolore, poiché è nato un uomo al mondo ( cfr. Gv 16,21 ).
La nascita, sia pure dolorosa e lenta, di una nuova vita, di una umanità in costante progresso di ordine e di armonia, è il compito assegnato da Dio alla storia « post Christum natum a cui dovranno contribuire personalmente ed attivamente i figli di Dio restituiti a libertà.
È vano quindi attendere la perfezione e l'ordine del mondo da un qualche immanente processo, cui l'uomo resti estraneo spettatore, come affermano alcuni.
Tale oscuro immanentismo è un ritorno all'antica superstizione, che deificava la natura, nè può suffragarsi, come si pretende, dalla storia, se non falsando artificiosamente la spiegazione dei fatti.
La storia dell'umanità nel mondo è ben altra cosa che un processo di forze cieche; essa è un evento mirabile e vitale della storia stessa del divin Verbo, che da Lui prese il primo avvio e per Lui si compirà, nel giorno dell'universale ritorno al primo principio, quando il Verbo incarnato offrirà al Padre, come testimonianza della sua gloria, la sua proprietà, riscattata ed illuminata dallo Spirito di Dio.
Molti fatti allora, specialmente della, storia, che al presente hanno l'apparenza di disarmonie, si riveleranno come elementi di genuina armonia: tale, ad esempio, il continuo sopravvenire di nuove cose ed il dileguarsi delle antiche, perché le une e le altre parteciparono o partecipano in qualche modo la divina verità e bontà.
L'indole transeunte di una cosa o di un fatto non toglie loro, quando l'abbiano, la dignità di esprimere il divino Spirito.
Il mondo tutto, del resto, è tale, come avverte l'Apostolo: « Passa infatti la figura di questo mondo » ( 1 Cor 7,31 ), ma la sua destinazione finale alla gloria del Padre ed al trionfo del Verbo, che giace a fondamento di tutto il suo processo, conferisce e conserva al mondo la dignità di testimone e di strumento dell'eterna verità, bontà ed armonia.
L'onnipotenza di Colui che « quanto vuole tutto fa » ( Sal 115,3 ), assistito dalla infinita sua sapienza, che « si stende vigorosa da una all'altra estremità e governa con soavità tutte le cose » ( Sap 8,1 ), ha fondato la grande legge dell'armonia, che pervade il mondo e ne spiega gli eventi.
Lo Spirito di Dio, che al principio presiedè dall'alto alla creazione, si è come trasfuso in essa, mentre nella pienezza dei tempi ad opera dell'Amore misericordioso, lo stesso Verbo eterno, incarnandosi, vi si è inserito personalmente e ne ha preso visibile e definitivo possesso.
« Gesù Cristo ieri ed oggi; egli è nei secoli » ( Eb 13,8 ).
L'universo appare in tal modo una mirabile sinfonia, dettata dallo Spirito di Dio, il cui accordo fondamentale scaturisce dalla fusione delle divine perfezioni: la sapienza, l'amore, l'onnipotenza, « Domine, Dominus noster, quam admirabile est nornen tuum in universa terra! » ( Sal 8,2 ).
Tuttavia, per coloro che col Salmista hanno orecchi per intendere in godimento la divina sinfonia che risuona nel cosmo, e, primi fra tutti, per i cristiani, la creazione non è soltanto un fatto estetico offerto all'uomo per eccitare la compiacenza, per suscitare unicamente la lode verso il suo sommo Fattore.
Già da principio Dio, costituendo l'uomo in una dignità superiore a quella di tutte le opere delle sue mani, gli aveva assoggettato tutte le cose, anche i cieli, la luna e le stelle, modellati dalle sue dita ( cfr. Sal 8,4 ), in una parola, il mondo, affinché egli operasse in esso e custodisse la sua armonia ( cfr. Gen 2,15 ).
Ma Cristo stesso, che dell'armonia del mondo è testimone e pegno, ha dimostrato con l'esempio della sua vita e morte, quale contributo attivo, faticoso e doloroso l'uomo deve arrecare alla sua conservazione, al suo sviluppo e - ove l'armonia fosse manchevole - al suo ristabilimento.
L'opera di restaurazione compiuta da Cristo fu definita da lui stesso lotta contro il « principe di questo mondo », ed il suo epilogo la vittoria: « Ego vici mundum » ( Gv 12,31; Gv 16,33 ).
La divina sinfonia del cosmo, particolarmente sulla terra e tra gli uomini, è confidata dal suo sommo Autore alla stessa umanità, affinché questa, quale immensa orchestra, distanziata nel tempo e multiforme nei mezzi, ma unita sotto la guida di Cristo, la esegua fedelmente, interpretandone il più perfettamente possibile il tema unico e geniale.
Dio, cioè, ha consegnato agli uomini i suoi disegni, affinchè questi li pongano in atto, personalmente e liberamente, impegnando la loro piena responsabilità morale ed esigendo, ove sia necessario, fatiche e sacrifici, dietro l'esempio di Cristo.
In questo aspetto, il cristiano è, in primo luogo, un ammiratore dell'ordine divino nel mondo, colui che ne ama la presenza, e fa di tutto per vederlo riconosciuto ed affermato.
Sarà quindi necessariamente un suo difensore strenuo contro le forze e le tendenze che ne contrastano l'attuazione, sia che si nascondano in lui - le prave inclinazioni -, sia che provengano dall'esterno - Satana e le sue superstizioni.
Non altrimenti S. Paolo vedeva il cristiano nel mondo quando gli indicava gli avversari del fronte di Dio, e lo esortava a rivestire l'armatura di lui, affine di resistere alle insidie del demonio, cingendo i fianchi con la verità, e indossando la corazza della giustizia ( cfr. Ef 6,11.14 ).
La vocazione al cristianesimo non è, dunque, un invito di Dio alla sola compiacenza estetica nella contemplazione del suo mirabile ordine, ma la chiamata obbligatoria ad un'azione incessante, austera e verso tutte le direzioni ed aspetti della vita.
La sua azione si esplica, innanzi tutto, con la piena osservanza della legge morale, qualunque ne sia l'oggetto, piccolo o grande, segreto o pubblico, di astensione o di positivo compimento.
La vita morale non appartiene talmente alla sola sfera interiore, che non tocchi altresì coi suoi effetti l'armonia del mondo.
L'uomo non è mai tanto solo, tanto individuo e segregato in sè stesso, in qualsiasi evento anche singolarissimo, che le sue determinazioni ed atti non abbiano ripercussioni nel mondo circostante.
Esecutore della divina sinfonia, ciascun uomo non può stimare il proprio operato come affare esclusivamente suo, riguardante soltanto lui stesso.
La vita morale è bensì, in primo luogo, un fatto individuale ed interiore, ma non nel senso di un certo « Interiorismo » e « Istoricismo », con cui alcuni si sforzano d'indebolire e di posporre l'universale vigore delle norme morali.
La cooperazione all'ordine del mondo, richiesta da Dio al cristiano in generale, deve egualmente rifuggire da uno spiritualismo, che vorrebbe impedirgli ogni accesso ed intervento nelle cose esterne, e che, adottato già in campo cattolico, ha cagionato grave danno alla causa di Cristo e del divino Creatore dell'universo.
Ma come sarebbe possibile sostenere e sviluppare l'ordine del mondo, lasciando piena libertà d'azione a coloro che non lo riconoscono, oppure non vogliono che si consolidi?
L'intervento nel mondo per sostenere l'ordine divino è un diritto e un dovere appartenenti intrinsecamente alla responsabilità del cristiano, e gli permettono d'intraprendere legittimamente qualsiasi azione, privata o pubblica od organizzata, diretta ed atta allo scopo.
Non valgono a scagionare da tale responsabilità i sottili pretesti, fabbricati come scuse dalla inerzia di alcuni cristiani, o suggeriti da una ingiustificata gelosia degli avversari, specialmente se si afferma che l'azione cristiana nel mondo maschera una cupidigia di potere aliena dallo spirito di Cristo, eccita l'avversione alla fede cristiana dei già maldisposti, è frutto di diffidenza verso Dio e la sua onnipotente provvidenza e ha sapore di arroganza della creatura.
Anzi vi sono taluni che insinuano essere sapienza cristiana il tornare alla cosiddetta modestia delle aspirazioni nelle catacombe.
Sarebbe, invece, saggio tornare alla ispirata sapienza dell'Apostolo Paolo, il quale, scrivendo alla comunità di Corinto, con l'ardimento degno della sua grande anima, ma fondato sul pieno dominio di Dio, apriva tutte le strade all'azione dei cristiani: « Tutte le cose sono vostre …, sia il mondo, sia la vita, sia la morte, siano le cose presenti, siano le future: poichè tutto è vostro.
Voi poi siete di Cristo: e Cristo di Dio » ( 1 Cor 3,22 ).
Il cristiano che non osasse far propria questa pienezza di libertà, negherebbe implicitamente a Cristo stesso la prerogativa di quel « potere con cui Egli può altresì assoggettare a sè tutte le cose » ( Fil 3,21 ).
Dovrebbe anzi stimare un'onta il lasciarsi superare dai nemici di Dio per una viva laboriosità ed intraprendenza, anche con spirito di sacrificio.
Non si danno terreni recinti nè direzioni vietate all'azione del cristiano: nessun campo di vita, nessuna istituzione, nessun esercizio di potere possono essere inibiti ai cooperatori di Dio per sostenere l'ordine divino e l'armonia nel mondo.
Tale intervento non suggerisce in alcun modo l'idea di un'azione segregata e quasi gelosa dell'altrui contributo.
Già più volte abbiamo detto che i cattolici possono e debbono ammettere la collaborazione con gli altri, se l'azione di questi e l'intesa con loro siano tali da giovare veramente all'ordine e all'armonia nel mondo.
Tuttavia è necessario che i cattolici si rendano prima conto di quanto possono e di quel che vogliono; siano, cioè, preparati spiritualmente e tecnicamente a quel che si propongono.
Altrimenti non apporteranno nessun positivo aiuto, tanto meno il prezioso dono di eterna verità alla causa comune, con evidente detrimento dell'onore di Cristo e delle proprie anime.
Ciò posto, non è giusto di ascrivere a spirito di « intolleranza » e di segregazione, spesso chiamato « ghetto », se i cattolici tendono ad avere
la scuola, l'educazione e la formazione della gioventù sul fondamento cristiano;
a istituire organizzazioni cattoliche professionali;
a favorire l'organizzato influsso dei principi cristiani anche nel campo politico e sindacale, ove la tradizione e le circostanze lo consigliano.
Non fu unicamente l'« idea » cristiana, meramente astratta, a creare, nel passato, l'elevata civiltà di cui vanno giustamente orgogliose le nazioni cristiane; ma le concrete attuazioni di quella idea, vale a dire, le leggi, gli ordinamenti, le istituzioni fondate e promosse da uomini dediti alla Chiesa ed operanti sotto la sua guida, o almeno sotto la sua ispirazione.
La Gerarchia cattolica non fu soltanto sollecita affinchè la luce della fede non si spegnesse; ma, con opere concrete di governo, di disposizioni, di scelta e designazione di uomini, ha costituito quel multiforme complesso di organismi vivi, che, accanto ad altri non propriamente suoi, sono alla base della convivenza civile.
L'azione cristiana non può, neppure oggi, rinunziare al proprio titolo e carattere, solo perchè qualcuno vede nell'odierno consorzio umano una società cosiddetta pluralistica, scissa da opposte mentalità, irremovibile nelle rispettive posizioni ed insofferente di ogni collaborazione che non si svolga sul piano semplicemente « umano ».
Se questo « umano » significa, come sembra, agnosticismo circa la religione e i veri valori della vita, ogni invito alla collaborazione equivarrebbe ad una richiesta di abdicazione, cui il cristiano non può consentire.
Del resto, donde attingerebbe questo « umano » la forza di obbligare, di fondare la libertà di coscienza per tutti, se non nel vigore dell'armonia divina?
Quell'« umano » finirebbe per creare un « ghetto » di nuovo tipo, ma privo di un aspetto universale.
L'ordine e l'armonia divina nel mondo devono essere pertanto il principale caposaldo dell'azione, non solo dei cristiani, ma di tutti gli uomini di buona volontà, per il comune interesse; la loro conservazione e sviluppo, la suprema legge che deve presiedere nei grandi incontri tra gli uomini.
Se l'odierna umanità non concordasse sulla supremazia di questa legge, cioè sul rispetto assoluto dell'ordine e dell'armonia universale nel mondo, sarebbe difficile di prevedere quale sarebbe per essere il destino delle nazioni.
La necessità di questo accordo è stata praticamente sentita, quando testè alcuni specialisti nelle moderne scienze hanno manifestato dubbi ed inquietudini interiori circa lo sviluppo della energia atomica.
Checchè sia al presente delle loro deduzioni e risoluzioni, è certo che i dubbi di quegli uomini di massima importanza riguardavano il problema della esistenza, i fondamenti stessi dell'ordine e dell'armonia nel mondo.
Ora è necessario di persuadersi che dalla conservazione di questi beni, l'ordine e l'armonia, ogni risoluzione deve dipendere, quando si discute se sviluppare o semplicemente omettere ciò che l'ingegno umano ha la possibilità di attuare.
Oggigiorno una quasi cieca seduzione del progresso trascina le nazioni a trascurare evidenti pericoli e a non tenere in conto perdite non indifferenti.
Chi non vede, infatti, come l'evoluzione e l'applicazione di alcune invenzioni a scopo militare portino quasi dappertutto danni sproporzionati ai benefici, sia pure di natura politica, che ne derivano e che si potrebbero ottenere per altre vie con minore dispendio e pericolo, o addirittura rimandare a tempi più maturi?
Chi saprebbe calcolare in cifre il danno economico del progresso non ispirato a saggezza?
Tanta copia di materiali, tanti capitali dovuti alla parsimonia e frutto di restrizioni e di fatiche, tanta energia di lavoro umano sottratto ad urgenti necessità, si consumano per preparare queste novissime armi, di guisa che anche i più ricchi popoli debbono prevedere i tempi, in cui lamenteranno l'armonia pericolosamente debilitata dell'economia nazionale, o di fatto già la lamentano, sebbene cerchino di nasconderlo.
Se ben si riflette e realisticamente si giudica, l'odierna concorrenza tra le nazioni nel mostrare il proprio progresso negli armamenti ( salvo sempre il diritto alla difesa ) produce bensì nuovi « segni nei cieli », ma anche più segni di superbia, quella superbia che scava nella terra abissi tra gli animi, alimenta odi, prepara lutti.
Gli spettatori, però, della odierna concorrenza, sappiano ridurre i fatti alle loro vere proporzioni, e, pur non rifiutando tentativi di pacifici accordi, sempre desiderabili, non si lascino lusingare da primati, spesso momentanei, né dominare da timori ad arte suscitati, per cattivarsi l'altrui simpatia ed appoggio, memori di appartenere ad una generazione di uomini, nei quali l'« homo faber » spesso prevale sull'« homo sapiens ».
Predomini dunque l'uomo cristiano, che, facendo uso della libertà di spirito derivata dalla più ampia visione delle cose, ritrova nella oggettiva considerazione degli eventi quella quiete e fermezza d'animo radicata nello Spirito divino, sempre presente e provvidente nel mondo.
Ma dove, finalmente, i sostenitori della divina armonia nel mondo sono invitati ad applicare i loro migliori sforzi, è nel problema della pace.
A voi, a quanti è noto il Nostro pensiero, sarà bastevole, in questa circostanza e quasi per appagare il Nostro animo instancabilmente dedito alla causa della pace, che Noi ricordiamo gli immediati scopi che le nazioni debbono proporsi ed attuare.
Lo facciamo con animo paterno, e come interpretando i teneri vagiti del divino Fanciullo di Betlemme, autore e pegno di ogni pace sulla terra e nei cieli.
La legge divina dell'armonia nel mondo impone strettamente a tutti i governanti dei popoli l'obbligo
d'impedire la guerra con atte istituzioni internazionali,
di ridurre sotto efficace sorveglianza gli armamenti,
di atterrire chi intendesse turbare la pace con la sicurissima solidarietà tra le nazioni che sinceramente la vogliono.
Siamo certi che al primo segnale di pericolo non mancherebbe di stringersi sempre più quel vincolo, come alcune anche recenti manifestazioni hanno chiaramente confermato; ma ora si tratta non tanto di correre ai ripari, quanto di prevenire i turbamenti dell'ordine e di dare un meritato respiro al mondo che ha già troppo sofferto.
Noi, che non una sola volta, in momenti critici, Ci siamo studiati con ammonimenti e con consigli di rinforzare quella solidarietà, e stimiamo come uno speciale mandato divino del Nostro Pontificato affratellare e unire i popoli, rinnoviamo la Nostra esortazione, affinchè tra i veri amici della pace cessi ogni possibile rivalità, si elimini ogni causa di diffidenza.
La pace è un bene così prezioso, così fecondo, così desiderabile e desiderato, che ogni sforzo per la sua difesa, anche con vicendevoli sacrifici delle proprie legittime aspirazioni, è bene speso.
Siamo certi che i popoli senza esitazione convengono con Noi, e che il medesimo sentire attendono dai loro governanti.
Il « Principe della pace », dal presepio di Betlemme, ecciti, conservi, confermi questi propositi, e nella solidarietà di tutti gli uomini di buona volontà si degni di compiere ciò che oggi maggiormente manca all'attuazione dell'ordine e dell'armonia voluta nel mondo dal suo Creatore.