Donum veritatis |
21. Il Magistero vivo della Chiesa e la teologia, pur avendo doni e funzioni diverse, hanno ultimamente il medesimo fine: conservare il Popolo di Dio nella verità che libera e farne così la « luce delle nazioni ».
Questo servizio alla comunità ecclesiale mette in relazione reciproca il teologo con il Magistero.
Quest'ultimo insegna autenticamente la dottrina degli Apostoli e, traendo vantaggio dal lavoro teologico, respinge le obiezioni e le deformazioni della fede, proponendo inoltre con l'autorità ricevuta da Gesù Cristo nuovi approfondimenti, esplicitazioni e applicazioni della dottrina rivelata.
La teologia invece acquisisce, in modo riflesso, un'intelligenza sempre più profonda della Parola di Dio, contenuta nella Scrittura e trasmessa fedelmente dalla Tradizione viva della Chiesa sotto la guida del Magistero, cerca di chiarire l'insegnamento della Rivelazione di fronte alle istanze della ragione, ed infine gli dà una forma organica e sistematica.20
22. La collaborazione fra il teologo ed il Magistero si realizza in modo speciale quando il teologo riceve la missione canonica o il mandato di insegnare.
Essa diventa allora, in un certo senso, una partecipazione all'opera del Magistero al quale la collega un vincolo giuridico.
Le regole di deontologia che derivano per se stesse e con evidenza dal servizio alla Parola di Dio vengono corroborate dall'impegno assunto dal teologo accettando il suo ufficio ed emettendo la Professione di fede ed il Giuramento di fedeltà.21
Da quel momento egli è investito ufficialmente del compito di presentare ed illustrare, con tutta esattezza e nella sua integralità, la dottrina della fede.
23. Quando il Magistero della Chiesa si pronuncia infallibilmente dichiarando solennemente che una dottrina è contenuta nella Rivelazione, l'adesione richiesta è quella della fede teologale.
Questa adesione si estende all'insegnamento del Magistero ordinario ed universale quando propone una dottrina di fede come divinamente rivelata.
Quando esso propone « in modo definitivo » delle verità riguardanti la fede ed i costumi, che, anche se non divinamente rivelate, sono tuttavia strettamente e intimamente connesse con la Rivelazione, queste devono essere fermamente accettate e ritenute.22
Quando il Magistero, anche senza l'intenzione di porre un atto « definitivo », insegna una dottrina per aiutare ad un'intelligenza più profonda della Rivelazione e di ciò che ne esplicita il contenuto, ovvero per richiamare la conformità di una dottrina con le verità di fede, o infine per metter in guardia contro concezioni incompatibili con queste stesse verità, è richiesto un religioso ossequio della volontà e dell'intelligenza.23
Questo non può essere puramente esteriore e disciplinare, ma deve collocarsi nella logica e sotto la spinta dell'obbedienza della fede.
24. Infine il Magistero, allo scopo di servire nel miglior modo possibile il Popolo di Dio, e in particolare per metterlo in guardia nei confronti di opinioni pericolose che possono portare all'errore, può intervenire su questioni dibattute nelle quali sono implicati, insieme ai principi fermi, elementi congetturali e contingenti.
E spesso è solo a distanza di un certo tempo che diviene possibile operare una distinzione fra ciò che è necessario e ciò che è contingente.
La volontà di ossequio leale a questo insegnamento del Magistero in materia per sé non irreformabile deve essere la regola.
Può tuttavia accadere che il teologo si ponga degli interrogativi concernenti, a secondo dei casi, l'opportunità, la forma o anche il contenuto di un intervento.
Il che lo spingerà innanzitutto a verificare accuratamente quale è l'autorevolezza di questi interventi, così come essa risulta dalla natura dei documenti, dall'insistenza nel riproporre una dottrina e dal modo stesso di esprimersi.24
In questo ambito degli interventi di ordine prudenziale, è accaduto che dei documenti magisteriali non fossero privi di carenze.
I Pastori non hanno sempre colto subito tutti gli aspetti o tutta la complessità di una questione.
Ma sarebbe contrario alla verità se, a partire da alcuni determinati casi, si concludesse che il Magistero della Chiesa possa ingannarsi abitualmente nei suoi giudizi prudenziali, o non goda dell'assistenza divina nell'esercizio integrale della sua missione.
Di fatto il teologo, che non può esercitare bene la sua disciplina senza una certa competenza storica, è cosciente della decantazione che si opera con il tempo.
Ciò non deve essere inteso nel senso di una relativizzazione degli enunciati della fede.
Egli sa che alcuni giudizi del Magistero potevano essere giustificati al tempo in cui furono pronunciati, perché le affermazioni prese in considerazione contenevano in modo inestricabile asserzioni vere e altre che non erano sicure.
Soltanto il tempo ha permesso di compiere un discernimento e, a seguito di studi approfonditi, di giungere ad un vero progresso dottrinale.
25. Anche quando la collaborazione si svolge nelle condizioni migliori, non è escluso che nascano tra il teologo ed il Magistero delle tensioni.
Il significato che a queste si conferisce e lo spirito con il quale le si affronta non sono indifferenti: se le tensioni non nascono da un sentimento di ostilità e di opposizione, possono rappresentare un fattore di dinamismo ed uno stimolo che sospinge il Magistero ed i teologi ad adempiere le loro rispettive funzioni praticando il dialogo.
26. Nel dialogo deve dominare una duplice regola: là ove la comunione di fede è in causa vale il principio dell'« unitas veritatis »; là ove rimangono delle divergenze che non mettono in causa questa comunione, si salvaguarderà l'« unitas caritatis ».
27. Anche se la dottrina della fede non è in causa, il teologo non presenterà le sue opinioni o le sue ipotesi divergenti come se si trattasse di conclusioni indiscutibili.
Questa discrezione è esigita dal rispetto della verità così come dal rispetto per il Popolo di Dio ( cf. Rm 14,1-15; 1 Cor 8; 1 Cor 10,23-33 ).
Per gli stessi motivi egli rinuncerà ad una loro espressione pubblica intempestiva.
28. Ciò che precede ha un'applicazione particolare nel caso del teologo che trovasse serie difficoltà, per ragioni che gli paiono fondate, ad accogliere un insegnamento magisteriale non irreformabile.
Un tale disaccordo non potrebbe essere giustificato se si fondasse solamente sul fatto che la validità dell'insegnamento dato non è evidente o sull'opinione che la posizione contraria sia più probabile.
Così pure non sarebbe sufficiente il giudizio della coscienza soggettiva del teologo, perché questa non costituisce un'istanza autonoma ed esclusiva per giudicare della verità di una dottrina.
29. In ogni caso non potrà mai venir meno un atteggiamento di fondo di disponibilità ad accogliere lealmente l'insegnamento del Magistero, come si conviene ad ogni credente nel nome dell'obbedienza della fede.
Il teologo si sforzerà pertanto di comprendere questo insegnamento nel suo contenuto, nelle sue ragioni e nei suoi motivi.
A ciò egli consacrerà una riflessione approfondita e paziente, pronto a rivedere le sue proprie opinioni ed a esaminare le obiezioni che gli fossero fatte dai suoi colleghi.
30. Se, malgrado un leale sforzo, le difficoltà persistono, è dovere del teologo far conoscere alle autorità magisteriali i problemi suscitati dall'insegnamento in se stesso, nelle giustificazioni che ne sono proposte o ancora nella maniera con cui è presentato.
Egli lo farà in uno spirito evangelico, con il profondo desiderio di risolvere le difficoltà.
Le sue obiezioni potranno allora contribuire ad un reale progresso, stimolando il Magistero a proporre l'insegnamento della Chiesa in modo più approfondito e meglio argomentato.
In questi casi il teologo eviterà di ricorrere ai « mass-media » invece di rivolgersi all'autorità responsabile, perché non è esercitando in tal modo una pressione sull'opinione pubblica che si può contribuire alla chiarificazione dei problemi dottrinali e servire la verità.
31. Può anche accadere che al termine di un esame dell'insegnamento del Magistero serio e condotto con volontà di ascolto senza reticenze, la difficoltà rimanga, perché gli argomenti in senso opposto sembrano al teologo prevalere.
Davanti ad un'affermazione, alla quale non sente di poter dare la sua adesione intellettuale, il suo dovere è di restare disponibile per un esame più approfondito della questione.
Per uno spirito leale ed animato dall'amore per la Chiesa, una tale situazione può certamente rappresentare una prova difficile.
Può essere un invito a soffrire nel silenzio e nella preghiera, con la certezza che se la verità è veramente in causa, essa finirà necessariamente per imporsi.
32. A più riprese il Magistero ha attirato l'attenzione sui gravi inconvenienti arrecati alla comunione della Chiesa da quegli atteggiamenti di opposizione sistematica, che giungono perfino a costituirsi in gruppi organizzati.25
Nell'Esortazione apostolica Paterna cum benevolentia Paolo VI ha proposto una diagnosi che conserva ancora tutta la sua pertinenza.
In particolare qui si intende parlare di quell'atteggiamento pubblico di opposizione al magistero della Chiesa, chiamato anche « dissenso », e che occorre ben distinguere dalla situazione di difficoltà personale, di cui si è trattato più sopra.
Il fenomeno del dissenso può avere diverse forme, e le sue cause remote o prossime sono molteplici.
Tra i fattori che possono esercitare la loro influenza in maniera remota o indiretta, occorre ricordare l'ideologia del liberalismo filosofico che impregna anche la mentalità della nostra epoca.
Di qui proviene la tendenza a considerare che un giudizio ha tanto più valore quanto più procede dall'individuo che si appoggia sulle sue proprie forze.
Così si oppone la libertà di pensiero all'autorità della tradizione, considerata causa di schiavitù.
Una dottrina trasmessa e generalmente recepita è a priori sospetta e il suo valore veritativo contestato.
Al limite, la libertà di giudizio così intesa è più importante della verità stessa.
Si tratta quindi di tutt'altro che dell'esigenza legittima della libertà, nel senso di assenza di costrizione, come condizione richiesta per la ricerca leale della verità.
In virtù di questa esigenza la Chiesa ha sempre sostenuto che « nessuno può essere costretto ad abbracciare la fede contro la sua volontà ».26
Il peso di un'opinione pubblica artificiosamente orientata e dei suoi conformismi esercita anche la sua influenza.
Sovente i modelli sociali diffusi dai « mass-media » tendono ad assumere un valore normativo; si diffonde in particolare il convincimento che la Chiesa non dovrebbe pronunciarsi che sui problemi ritenuti importanti dall'opinione pubblica e nel senso che a questa conviene.
Il Magistero, per esempio, potrebbe intervenire nelle questioni economiche e sociali, ma dovrebbe lasciare al giudizio individuale quelle che riguardano la morale coniugale e familiare.
Infine anche la pluralità delle culture e delle lingue, che è in se stessa una ricchezza, può indirettamente portare a dei malintesi, motivo di successivi disaccordi.
In questo contesto un discernimento critico ben ponderato ed una vera padronanza dei problemi sono richiesti dal teologo, se vuole adempiere la sua missione ecclesiale e non perdere, conformandosi al mondo presente ( cf. Rm 12,2; Ef 4,23 ), l'indipendenza del giudizio che deve essere quella dei discepoli di Cristo.
33. Il dissenso può rivestire diversi aspetti.
Nella sua forma più radicale, esso ha di mira il cambiamento della Chiesa secondo un modello di contestazione ispirato da ciò che si fa nella società politica.
Più frequentemente si ritiene che il teologo sarebbe obbligato ad aderire all'insegnamento infallibile del Magistero, mentre invece, adottando la prospettiva di una specie di positivismo teologico, le dottrine proposte senza che intervenga il carisma dell'infallibilità non avrebbero nessun carattere obbligatorio, lasciando al singolo piena libertà di aderirvi o meno.
Il teologo sarebbe quindi totalmente libero di mettere in dubbio o di rifiutare l'insegnamento non infallibile del Magistero, in particolare in materia di norme morali particolari.
Anzi con questa opposizione critica egli contribuirebbe al progresso della dottrina.
34. La giustificazione del dissenso si appoggia in generale su diversi argomenti, due dei quali hanno un carattere più fondamentale.
Il primo è di ordine ermeneutico: i documenti del Magistero non sarebbero niente altro che il riflesso di una teologia opinabile.
Il secondo invoca il pluralismo teologico, spinto talora fino ad un relativismo che mette in causa l'integrità della fede: gli interventi magisteriali avrebbero la loro origine in una teologia fra molte altre, mentre nessuna teologia particolare può pretendere di imporsi universalmente.
In opposizione ed in concorrenza con il magistero autentico sorge così una specie di « magistero parallelo » dei teologi.27
Uno dei compiti del teologo è certamente quello di interpretare correttamente i testi del Magistero, e allo scopo egli dispone di regole ermeneutiche, tra le quali figura il principio secondo cui l'insegnamento del Magistero - grazie all'assistenza divina - vale al di là dell'argomentazione, talvolta desunta da una teologia particolare, di cui esso si serve.
Quanto al pluralismo teologico, esso non è legittimo se non nella misura in cui è salvaguardata l'unità della fede nel suo significato obiettivo.28
I diversi livelli che sono l'unità della fede, l'unità-pluralità delle espressioni della fede e la pluralità delle teologie sono infatti essenzialmente legati fra di loro.
La ragione ultima della pluralità è l'insondabile mistero di Cristo che trascende ogni sistematizzazione oggettiva.
Ciò non può significare che siano accettabili conclusioni che gli siano contrarie, e ciò non mette assolutamente in causa la verità di asserzioni per mezzo delle quali il Magistero si è pronunciato.29
Quanto al « magistero parallelo », esso può causare grandi mali spirituali opponendosi a quello dei Pastori.
Quando infatti il dissenso riesce ad estendere la sua influenza fino ad ispirare una opinione comune, tende a diventare regola di azione, e ciò non può non turbare gravemente il Popolo di Dio e condurre ad una disistima della vera autorità.30
35. Il dissenso fa appello anche talvolta ad una argomentazione sociologica, secondo la quale l'opinione di un gran numero di cristiani sarebbe un'espressione diretta ed adeguata del « senso soprannaturale della fede ».
In realtà le opinioni dei fedeli non possono essere puramente e semplicemente identificate con il « sensus fidei ».31
Quest'ultimo è una proprietà della fede teologale la quale, essendo un dono di Dio che fa aderire personalmente alla Verità, non può ingannarsi.
Questa fede personale è anche fede della Chiesa, poiché Dio ha affidato alla Chiesa la custodia della Parola e, di conseguenza, ciò che il fedele crede è ciò che crede la Chiesa.
Il « sensus fidei » implica pertanto, di sua natura, l'accordo profondo dello spirito e del cuore con la Chiesa, il « sentire cum Ecclesia ».
Se quindi la fede teologale in quanto tale non può ingannarsi, il credente può invece avere delle opinioni erronee, perché tutti i suoi pensieri non procedono dalla fede.32
Le idee che circolano nel Popolo di Dio non sono tutte in coerenza con la fede, tanto più che possono facilmente subire l'influenza di una opinione pubblica veicolata da moderni mezzi di comunicazione.
Non è senza motivo che il Concilio Vaticano II sottolinei il rapporto indissolubile fra il « sensus fidei » e la guida del Popolo di Dio da parte del magistero dei Pastori: le due realtà non possono essere separate l'una dall'altra.33
Gli interventi del Magistero servono a garantire l'unità della Chiesa nella verità del Signore.
Essi aiutano a « dimorare nella verità » di fronte al carattere arbitrario delle opinioni mutevoli, e sono l'espressione dell'obbedienza alla Parola di Dio.34
Anche quando può sembrare che essi limitino la libertà dei teologi, essi instaurano, per mezzo della fedeltà alla fede che è stata trasmessa, una libertà più profonda che non può venire se non dall'unità nella verità.
36. La libertà dell'atto di fede non può giustificare il diritto al dissenso.
In realtà essa non significa affatto la libertà nei confronti della verità, ma il libero auto-determinarsi della persona in conformità con il suo obbligo morale di accogliere la verità.
L'atto di fede è un atto volontario, perché l'uomo, riscattato dal Cristo Redentore e chiamato da lui all'adozione filiale ( cf. Rm 8,15; Gal 4,5; Ef 1,5; Gv 1,12 ), non può aderire a Dio se non a condizione che, « attirato dal Padre » ( Gv 6, 44 ), egli faccia a Dio l'omaggio ragionevole della sua fede ( cf. Rm 12,1 ).
Come ha ricordato la Dichiarazione Dignitatis Humanae,35 nessuna autorità umana ha il diritto di intervenire, con costrizioni o pressioni, in questa scelta che supera i limiti delle sue competenze.
Il rispetto del diritto alla libertà religiosa è il fondamento del rispetto dell'insieme dei diritti dell'uomo.
Non si può pertanto fare appello a questi diritti dell'uomo per opporsi agli interventi del Magistero.
Un tale comportamento misconosce la natura e la missione della Chiesa, che ha ricevuto dal suo Signore il compito di annunciare a tutti gli uomini la verità della salvezza, e lo realizza camminando sulle tracce del Cristo, sapendo che « la verità non si impone che in forza della stessa verità, la quale penetra nelle menti soavemente e insieme con vigore ».36
37. In forza del mandato divino che gli è stato dato nella Chiesa, il Magistero ha per missione di proporre l'insegnamento del Vangelo, di vegliare sulla sua integrità e di proteggere così la fede del Popolo di Dio.
Per realizzare questo talvolta può essere condotto a prendere delle misure onerose, come per esempio quando ritira ad un teologo che si discosta dalla dottrina della fede la missione canonica o il mandato dell'insegnamento che gli aveva affidato, ovvero dichiara che degli scritti non sono conformi a questa dottrina.
Agendo così esso intende essere fedele alla sua missione, perché difende il diritto del Popolo di Dio a ricevere il messaggio della Chiesa nella sua purezza e nella sua integralità, e quindi a non essere turbato da un'opinione particolare pericolosa.
Il giudizio espresso dal Magistero in tali circostanze, al termine di un esame approfondito, condotto in conformità con procedure stabilite, e dopo che all'interessato è stata concessa la possibilità di dissipare eventuali malintesi sul suo pensiero, non tocca la persona del teologo, ma le sue posizioni intellettuali pubblicamente espresse.
Il fatto che queste procedure possano essere perfezionate non significa che esse siano contrarie alla giustizia ed al diritto.
Parlare in questo caso di violazione dei diritti dell'uomo è fuori luogo, perché si misconoscerebbe l'esatta gerarchia di questi diritti, come anche la natura della comunità ecclesiale e del suo bene comune.
Peraltro il teologo, che non è in sintonia con il « sentire cum Ecclesia », si mette in contraddizione con l'impegno da lui assunto liberamente e consapevolmente di insegnare in nome della Chiesa.37
38. Infine l'argomentazione che si rifà al dovere di seguire la propria coscienza non può legittimare il dissenso.
Innanzitutto perché questo dovere si esercita quando la coscienza illumina il giudizio pratico in vista di una decisione da prendere, mentre qui si tratta della verità di un enunciato dottrinale.
Inoltre perché se il teologo deve, come ogni credente, seguire la sua coscienza, egli è anche tenuto a formarla.
La coscienza non è una facoltà indipendente ed infallibile, essa è un atto di giudizio morale che riguarda una scelta responsabile.
La coscienza retta è una coscienza debitamente illuminata dalla fede e dalla legge morale oggettiva, e suppone anche la rettitudine della volontà nel perseguimento del vero bene.
La coscienza retta del teologo cattolico suppone pertanto la fede nella Parola di Dio di cui deve penetrare le ricchezze, ma anche l'amore alla Chiesa da cui egli riceve la sua missione ed il rispetto del Magistero divinamente assistito.
Opporre al magistero della Chiesa un magistero supremo della coscienza è ammettere il principio del libero esame, incompatibile con l'economia della Rivelazione e della sua trasmissione nella Chiesa, così come con una concezione corretta della teologia e della funzione del teologo.
Gli enunciati della fede non risultano da una ricerca puramente individuale e da una libera critica della Parola di Dio, ma costituiscono un'eredità ecclesiale.
Se ci si separa dai Pastori che vegliano per mantenere viva la tradizione apostolica, è il legame con Cristo che si trova irreparabilmente compromesso.38
39. La Chiesa, traendo la sua origine dall'unità del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo,39 è un mistero di comunione, organizzata, secondo la volontà del suo fondatore, intorno ad una gerarchia stabilita per il servizio del Vangelo e del Popolo di Dio che ne vive.
Ad immagine dei membri della prima comunità, tutti i battezzati, con i carismi che sono loro propri, devono tendere con cuore sincero verso un'unità armoniosa di dottrina, di vita e di culto ( cf. At 2,42 ).
È questa una regola che scaturisce dall'essere stesso della Chiesa.
Non si possono pertanto applicare a quest'ultima, puramente e semplicemente, dei criteri di condotta che hanno la loro ragione d'essere nella società civile o nelle regole di funzionamento di una democrazia.
Ancor meno, nei rapporti all'interno della Chiesa, ci si può ispirare alla mentalità del mondo circostante ( cf. Rm 12,2 ).
Chiedere all'opinione maggioritaria ciò che conviene pensare e fare, ricorrere contro il Magistero a pressioni esercitate dall'opinione pubblica, addurre a pretesto un « consenso » dei teologi, sostenere che il teologo sia il portaparola profetico di una « base » o comunità autonoma che sarebbe così l'unica fonte della verità, tutto questo denota una grave perdita del senso della verità e del senso della Chiesa.
40. La Chiesa è « come il sacramento, cioè il segno e lo strumento dell'intima unione con Dio e dell'unità di tutto il genere umano ».40
Di conseguenza ricercare la concordia e la comunione è aumentare la forza della sua testimonianza e la sua credibilità; cedere invece alla tentazione del dissenso, è lasciare che si sviluppino « fermenti di infedeltà allo Spirito Santo ».41
Pur essendo la teologia ed il Magistero di natura diversa e pur avendo missioni diverse che non possono essere confuse, si tratta tuttavia di due funzioni vitali nella Chiesa, che devono compenetrarsi ed arricchirsi reciprocamente per il servizio del Popolo di Dio.
Spetta ai Pastori, in forza dell'autorità che deriva loro da Cristo stesso, vigilare su questa unità e impedire che le tensioni che nascono dalla vita degenerino in divisioni.
La loro autorità, andando al di là delle posizioni particolari e delle opposizioni, deve unificarle tutte nell'integrità del Vangelo, che è « la parola della riconciliazione » ( cf. 2 Cor 5,18-20 ).
Quanto ai teologi, in forza del loro proprio carisma, spetta anche ad essi partecipare all'edificazione del Corpo di Cristo nell'unità e nella verità, ed il loro contributo è più che mai richiesto per un'evangelizzazione a scala mondiale, che esige gli sforzi di tutto quanto il Popolo di Dio.42
Se può ad essi accadere di incontrare delle difficoltà a causa del carattere della loro ricerca, essi devono cercarne la soluzione in un dialogo fiducioso con i Pastori, nello spirito di verità e di carità che è quello della comunione della Chiesa.
41. Gli uni e gli altri avranno sempre presente che il Cristo è la Parola definitiva del Padre ( cf. Eb 1,2 ) nel quale, come osserva San Giovanni della Croce, « Dio ci ha detto tutto insieme ed in una sola volta »,43 e che, come tale, egli è la Verità che libera ( cf. Gv 8,36; Gv 14,6 ).
Gli atti di adesione e di ossequio alla Parola affidata alla Chiesa sotto la guida del Magistero si riferiscono in definitiva a Lui ed introducono nello spazio della vera libertà.
Indice |
20 | Cf. Paolo VI, Discorso ai partecipanti al Congresso internazionale sulla Teologia del Concilio Vaticano II, 1 ottobre 1966 |
21 | Cf. C.I.C.
can. 833; Professio fidei et Iusiurandum fidelitatis |
22 | Il testo della nuova Professione di fede ( cf. nota 15 ) precisa l'adesione a questi insegnamenti in questi termini: « Firmiter etiam amplector et retineo … » |
23 | Cf. Costit. dogm.
Lumen Gentium, n. 25; C.I.C. can. 752 |
24 | Cf. Costit. dogm. Lumen Gentium, n. 25 par. 1 |
25 | Cf. Paolo VI, Esort. apost.
Paterna cum benevolentia, 8 dicembre 1974 Si veda anche Congreazione per la dottrina della fede, Dichiar. Mysterium Ecclesiae |
26 | Dichiar. Dignitatis Humanae, n. 10 |
27 | L'idea di un « magistero parallelo » dei teologi in opposizione e in concorrenza con il magistero dei Pastori si appoggia talvolta su alcuni testi in cui San Tomaso d'Aquino distingue fra « magisterium cathedrae pastoralis » e « magisterium cathedrae magisterialis » ( Contra impugnantes, c.2; Quodlib. III, q.4, a.1 ( 9 ); In IV Sent. 19, 2, 2, q. 3 sol. 2 ad 4 ). In realtà questi testi non offrono alcun fondamento a questa posizione, perché San Tomaso è assolutamente certo che il diritto di giudicare in materia di dottrina spetta solo all'« officium praelationis » |
28 | Cf. Paolo VI, Esort. apost. Paterna cum benevolentia, n. 4 |
29 | Cf. Paolo VI, Discorso ai membri della Commissione Teologica Internazionale, 11 ottobre 1973 (in Latino) |
30 | Cf. Giovanni Paolo II, Encicl.
Redemptor Hominis, n. 19; Omelia ai fedeli di Managua, 4 marzo 1983, n. 7; Discorso ai religiosi a Guatemala, 7 marzo 1983, n. 3; Discorso ai Vescovi a Lima, 2 febbraio 1985, n. 5; Discorso alla Conferenza dei Vescovi belgi a Malines, 18 maggio 1985, n. 5: Insegnamenti di Giovanni Paolo II, VIII, 1 (1985) 1481; Discorso ad alcuni Vescovi americani in visita ad limina, 15 ottobre 1988, n. 6 |
31 | Cf. Giovanni Paolo II, Esort. apost. Familiaris Consortio, n. 5 |
32 | Cf. la formula del
Concilio di Trento, sess. VI, cap. 9: fides « cui non potest subesse falsum »; cf. San Tomaso d'Aquino, Summa Theologiae, II-II, q. 1, a. 3, ad 3: « Possibile est enim hominem fidelem ex coniectura humana falsum aliquid aestimare. Sed quod ex fide falsum aestimet, hoc est impossibile » |
33 | Cf. Costit. dogm. Lumen Gentium, n. 12 |
34 | Cf. Costit. dogm. Dei Verbum, n. 10 |
35 | Cf. Dichiar. Dignitatis Humanae, nn. 9-10 |
36 | Ibid., n.1 |
37 | Cf. Giovanni Paolo II, Costit. Apost.
Sapientia Christiana, n. 27,1, 15 aprile 1979; C.I.C can. 812 |
38 | Cf. Paolo VI, Esort. apost. Paterna cum benevolentia, n. 4 |
39 | Cf. Costit. dogm. Lumen Gentium, n. 4 |
40 | ibid., n. 1 |
41 | Cf. Paolo VI, Esort. apost. Paterna cum benevolentia, n. 2-3 |
42 | Cf. Giovanni Paolo II, Esort. apost. post-sinodale Christifideles laici, n. 32-35 |
43 | San Giovanni della Croce, Salita al Monte Carmelo, II 22,3 |