83 questioni diverse

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65 - La risurrezione di Lazzaro  ( Gv 11,1-45 )

Sebbene noi crediamo fermamente alla risurrezione di Lazzaro secondo il racconto storico del Vangelo, non dubito tuttavia che abbia anche un significato allegorico.

I fatti, quando sono interpretati allegoricamente, non perdono il valore dell'avvenimento.

Anche Paolo presenta i due figli di Abramo allegoricamente, come i due Testamenti; ( Gal 4,22-24 ) per questo si può forse dire che Abramo non è esistito o non ha avuto due figli?

Prendiamo dunque anche Lazzaro nel sepolcro in senso allegorico come l'anima oppressa dai peccati di questa vita, cioè tutto il genere umano.

Altrove il Signore la rappresenta nella pecora smarrita: dice infatti di essere disceso dal cielo per liberarla, lasciando sui monti le altre novantanove. ( Lc 15,4 )

Ritengo che la domanda del Signore: Dove l'avete posto? significhi la nostra vocazione, la quale avviene nel segreto.

Infatti la predestinazione della nostra vocazione è occulta; di questo segreto è segno la domanda del Signore, come se egli l'ignorasse, mentre siamo noi che non la conosciamo, come dichiara l'Apostolo: Affinché io conosca come sono conosciuto. ( 1 Cor 13,12 )

Oppure il Signore, come dice altrove, mostri d'ignorare i peccatori: Non vi conosco; ( Mt 7,23 ) questo simboleggiava Lazzaro nel sepolcro, poiché nella dottrina e nei precetti del Signore non vi sono peccati.

Questa domanda assomiglia a quella della Genesi: Adamo, dove sei? ( Gen 3,9 )

Poiché aveva peccato, si era nascosto dalla presenza di Dio.

Qui la sepoltura corrisponde al nascondimento: il morto assomiglia al peccatore e il sepolto assomiglia a chi si nasconde dalla faccia di Dio.

Togliete la pietra: ( Gv 11,39 ) queste parole indicano, a mio parere, coloro che volevano imporre il peso della circoncisione ai pagani entrati nella Chiesa - contro costoro scrive molte volte l'Apostolo -, ( Gal 2 ) oppure coloro che nella Chiesa vivono dissolutamente e sono di scandalo a quanti desiderano credere.

Marta gli dice: Signore, è già il quarto giorno e puzza. ( Gv 11,39 )

La terra è l'ultimo dei quattro elementi: simboleggia dunque il fetore dei peccati terreni, cioè delle passioni carnali.

Dopo il peccato, il Signore disse ad Adamo: Infatti, sei terra e tornerai alla terra. ( Gen 3,19 )

Tolta la pietra uscì dal sepolcro con le mani e i piedi legati e la faccia coperta da un sudario.

L'uscita dal sepolcro rappresenta l'anima che si libera dai vizi carnali.

Che poi sia avvolto dalle bende significa che, sebbene ci allontaniamo dai piaceri carnali e con il cuore osserviamo la legge divina, finché siamo nel corpo, non possiamo ancora essere liberi dalle molestie della carne, come dice l'Apostolo: Con la mente servo la legge di Dio, con la carne invece la legge del peccato. ( Rm 7,25 )

La faccia ricoperta dal sudario significa che in questa vita non possiamo avere una conoscenza perfetta, come dice l'Apostolo: Ora vediamo come in uno specchio, in enigma, ma allora a faccia a faccia. ( 1 Cor 13,12 )

Gesù disse: Scioglietelo e lasciatelo andare, ( Gv 11,44 ) per indicare che dopo questa vita saranno tolti tutti i veli per vedere a faccia a faccia.

Qui poi si comprende qual è la differenza tra l'uomo assunto dalla Sapienza di Dio, dal quale siamo stati liberati, e gli altri uomini: Lazzaro infatti non viene sciolto se non quando esce dal sepolcro; vale a dire che l'anima rigenerata non può essere libera da ogni peccato e dall'ignoranza, finché vede di riflesso e in enigma, se non dopo la separazione dal corpo.

Invece le bende e il sudario del Signore che non ha commesso peccato e non ignorava nulla sono stati ritrovati nel sepolcro. ( Gv 20,7 )

Lui solo infatti tra gli esseri di carne non solo non è stato oppresso dal sepolcro, come se in lui ci fosse qualche colpa, ( Is 53,9 ) ma neppure è stato avvinto dalle bende, come se qualcosa gli fosse nascosta o lo ritardasse nel cammino.

66 - Sul testo della scrittura: o forse ignorate, fratelli - parlo a gente esperta di legge -, che la legge ha potere sull'uomo finché vive?, sino al punto che dice: darà la vita anche ai vostri corpi mortali, per mezzo del suo Spirito che abita in voi  ( Rm 7-8,11 )

1. L'Apostolo, in questa similitudine, parla dell'uomo e della donna e, poiché la donna è soggetta alla legge dell'uomo, raccomanda di considerare tre cose: la donna, l'uomo e la legge.

La donna è soggetta all'uomo per il vincolo della legge, vincolo che viene sciolto con la morte del marito, sicché può sposare chi vuole.

Ecco infatti le sue parole: La donna sposata, infatti, è legata alla legge del marito finché egli vive; ma se il marito muore, è libera dalla legge del marito.

Essa sarà dunque chiamata adultera se, mentre vive il marito, va con un altro, ma se il marito muore, essa è libera dalla legge e non è più adultera se va con un altro uomo. ( Rm 7,2-3 )

Fin qui si tratta di un paragone, in seguito inizia a parlare di ciò che voleva esporre e spiegare mediante il paragone.

Anche qui bisogna considerare tre cose: l'uomo, il peccato, la legge.

Afferma infatti che l'uomo è soggetto alla legge fino a quando vive nel peccato; ugualmente la donna è soggetta alla legge del marito fino a quando egli vive.

Ora qui per peccato si deve intendere quello che sopravviene a causa della legge.

Questo peccato, egli osserva, oltrepassa la misura perché, pur essendo già peccato in se stesso, lo si commette ugualmente e si aggrava con l'aggiunta della trasgressione.

Dove infatti non c'è legge, non c'è nemmeno trasgressione. ( Rm 4,15 )

Questo è il senso delle parole: Perché diventi peccatore in sommo grado e il peccato sia tale per mezzo del precetto. ( Rm 7,3 )

Per questo motivo, sebbene la legge proibisca di peccare, non dice che è stata data per liberare dal peccato, ma per mostrare il peccato; l'anima, che ne è schiava, deve convertirsi alla grazia del Liberatore per essere liberata dal peccato: Perché per mezzo della legge si ha la conoscenza del peccato. ( Rm 3,21 )

Altrove dice: Ma il peccato, per rivelarsi peccato, mi ha dato la morte servendosi di ciò che è bene. ( Rm 7,13 )

Dove dunque non c'è la grazia del Liberatore, il divieto di peccare aumenta il desiderio dei peccati.

Il che ha però una sua utilità: che l'anima si senta incapace di svincolarsi dalla schiavitù del peccato e così, sbollito ed estinto ogni orgoglio, si sottometta al suo Liberatore e l'uomo dica in sincerità: A te si stringe l'anima mia; ( Sal 63,9 ) e così non è più sotto la legge del peccato ma nella legge della giustizia.

Ora si dice legge di peccato non perché la stessa legge è peccato ma perché è imposta ai peccatori.

Per questo si dice anche legge di morte, perché la morte è il salario del peccato, ( Rm 6,23 ) il pungiglione della morte è il peccato e la forza del peccato è la legge. ( 1 Cor 15,56 )

Col peccato precipitiamo infatti nella morte.

E noi pecchiamo più gravemente quando c'è la proibizione della legge, che se non ci fosse alcun divieto della legge.

Ma con l'aiuto della grazia noi adempiamo senza fatica e con grande piacere le stesse onerose prescrizioni della legge.

La legge dunque del peccato e della morte, cioè quella che è stata imposta a coloro che peccano e muoiono, comanda soltanto di non desiderare il male e tuttavia noi lo desideriamo.

Invece la legge dello spirito e della vita, che appartiene alla grazia e libera dalla legge del peccato e della morte, ci concede di non desiderare il male e di osservare i precetti della legge, non già per timore come schiavi della legge, ma per amore come amici e servi della giustizia, da cui quella legge proviene.

Bisogna infatti servire la giustizia con spirito di libertà e non di schiavitù, cioè più per amore che per timore.

Per questo è detto in tutta verità: Togliamo dunque ogni valore alla legge mediante la fede?

Niente affatto, anzi confermiamo la legge. ( Rm 3,31 )

La fede infatti opera ciò che la legge comanda.

La legge è dunque confermata dalla fede; se non c'è la fede, la legge prescrive solamente e rende colpevoli quelli che non osservano i comandi, al fine di convertire finalmente alla grazia del Liberatore coloro che gemono nell'incapacità di adempiere quanto è stato comandato.

2. Quando dunque in quel paragone scorgiamo tre cose: la donna, l'uomo e la legge, e di nuovo tre in questo caso, a cui si riferiva il paragone: l'anima, il peccato e la legge del peccato; qui c'è un'unica differenza, che in quel paragone il marito muore, sicché la donna può sposare chi vuole ed è libera dalla legge del marito; qui invece l'anima stessa muore al peccato per unirsi a Cristo.

Morendo al peccato muore anche alla legge del peccato.

Alla stessa maniera - prosegue - fratelli miei, anche voi, mediante il corpo di Cristo, siete morti alla legge, per appartenere ad un altro, a colui che è risorto dai morti, affinché noi portiamo frutti per Dio.

Quando infatti eravamo nella carne, cioè, egli dice, eravamo schiavi dei desideri carnali, le passioni peccaminose, stimolate dalla legge, agivano nelle nostre membra al fine di portare frutto per la morte. ( Rm 7,4-5 )

Dove mancava la fede, si è accresciuta la concupiscenza vietata dalla legge e al cumulo dei peccati si è aggiunto il crimine della trasgressione, perché dove non c'è legge, non c'è nemmeno trasgressione. ( Rm 4,15 )

Sono queste passioni, egli dice, stimolate dalla legge, che operavano nelle nostre membra, al fine di produrre frutto di morte.

L'anima, prima dell'avvento della grazia per mezzo della fede, si trovava sotto queste passioni, come sotto il dominio del marito.

Chi ormai serve interiormente la legge di Dio muore a queste passioni, sebbene le stesse passioni non siano ancora morte, finché per la condizione carnale è schiavo della legge del peccato.

A chi è sotto la grazia resta dunque ancora qualcosa che, pur non vincendolo né tenendolo prigioniero, finché non sia morto del tutto ciò che è stato rafforzato da una cattiva abitudine, fa conseguentemente dire che anche ora è un corpo di morte, fino a quando non è perfettamente sottomesso allo spirito.

La perfetta sottomissione avverrà, quando il corpo mortale sarà anch'esso vivificato.

3. Da ciò comprendiamo che in uno stesso uomo vi sono quattro fasi da superare gradatamente per stabilirsi nella vita eterna.

Era infatti conveniente e giusto che, avendo la nostra natura peccato e perduto la beatitudine spirituale, indicata col nome di paradiso, nascessimo animali e carnali.

La prima fase precede la legge, la seconda è sotto la legge, la terza sotto la grazia, la quarta nella pace.

Nella fase precedente la legge ignoriamo il peccato e seguiamo la concupiscenza carnale.

Nella fase sotto la legge il peccato ci è vietato e tuttavia, vinti dalla sua consuetudine, pecchiamo, perché non siamo ancora aiutati dalla fede.

Nella terza fase confidiamo totalmente nel nostro Liberatore e non riferiamo nulla ai nostri meriti, ma, amando la sua misericordia, non ci lasciamo più vincere dal piacere della cattiva consuetudine, che cerca di ricondurci al peccato; avvertiamo però che ci disturba ancora anche se non cediamo.

Nella quarta fase non c'è assolutamente più nulla nell'uomo che si oppone allo spirito, ma tutte le facoltà concordemente unite e connesse insieme, conservano l'unità in stabile pace.

Questo avverrà quando il corpo mortale sarà vivificato, e questo corpo corruttibile si sarà rivestito d'incorruttibilità e questo mortale d'immortalità. ( 1 Cor 15,54-55 )

4. Intanto, a conferma della prima fase, si presentano questi testi: A causa di un solo uomo il peccato è entrato nel mondo e con il peccato la morte, così anche la morte ha raggiunto tutti gli uomini, perché tutti hanno peccato.

Fino alla legge infatti c'era peccato nel mondo.

Ma il peccato non era imputato quando non c'era la legge. ( Rm 5,12-13 )

E ancora: Senza la legge infatti il peccato è morto, e io un tempo vivevo senza la legge. ( Rm 7,8-9 )

Quanto è detto qui: è morto, equivale a quanto detto precedentemente: non era imputato, cioè stava nascosto.

Il che appare nelle parole seguenti, quando dice: Ma il peccato, per rivelarsi peccato, mi ha dato la morte servendosi di ciò che è bene, ( Rm 7,13 ) cioè per mezzo della legge, perché la legge è buona, se uno ne usa legalmente. ( 1 Tm 1,8 )

Se dunque qui dice: per rivelarsi peccato, è chiaro che prima diceva è morto e non viene imputato, perché non si era manifestato prima di essere svelato con la proibizione della legge.

5. Alla seconda fase si applicano i seguenti testi: La legge poi sopraggiunse per moltiplicare il peccato. ( Rm 5,20 )

Si aggiunse infatti la trasgressione che prima non c'era.

E il testo già ricordato: Quando infatti eravamo nella carne, le passioni peccaminose, stimolate dalla legge, agivano nelle nostre membra al fine di portare frutti per la morte. ( Rm 7,5 )

E questo: Che diremo dunque? Che la legge è peccato? No certamente!

Però io non ho conosciuto il peccato se non per la legge, né avrei conosciuto la concupiscenza, se la legge non avesse detto: " Non desiderare ".

Prendendo occasione da questo comandamento, il peccato ha prodotto in me ogni concupiscenza. ( Rm 7,7-8 )

E poco dopo dice: Ma, sopraggiunto quel comandamento, il peccato ha preso vita e io sono morto; e il comandamento che doveva servire per la vita, è divenuto per me motivo di morte.

Il peccato infatti, prendendo occasione dal comandamento, mi ha sedotto e per mezzo di esso mi ha dato la morte. ( Rm 7,9-11 )

Quando dunque dice: sono morto, vuol fare intendere: mi sono accorto di essere morto, poiché colui, che vede mediante la legge ciò che non deve fare eppure lo fa, ora pecca anche con la trasgressione.

Quanto poi al testo: Il peccato, prendendo occasione dal comandamento, mi ha sedotto, ( Rm 7,11 ) vuol indicare o che l'attrattiva del piacere a peccare è più intensa, quando c'è la proibizione, o che l'uomo sebbene agisca secondo il precetto della legge, se manca ancora la fede corroborata dalla grazia, pretende di attribuire questo a se stesso e non a Dio, e pecca più gravemente per superbia.

Prosegue dunque dicendo: Così la legge è santa, e santo e giusto e buono è il comandamento.

Ciò che è bene è allora diventato morte per me? No davvero!

Ma il peccato, per rivelarsi peccato, mi ha dato la morte servendosi di ciò che è bene, perché apparisse peccatore oltre misura o peccato peccaminoso per mezzo del comandamento.

Sappiamo infatti che la legge è spirituale, mentre io sono di carne, ( Rm 7,12-14 ) cioè acconsento alla carne, perché non sono ancora liberato dalla grazia spirituale.

Venduto come schiavo del peccato, ( Rm 7,14 ) pecco cioè a prezzo dei piaceri temporali.

Non so infatti cosa faccio, ( Rm 7,15 ) cioè non avverto di essere nei precetti della verità, dov'è la vera scienza.

Secondo questa espressione il Signore dice ai peccatori: Non vi conosco.

A lui nulla è nascosto, ma poiché i peccati non rientrano nelle regole dei precetti derivanti dalla verità, la stessa Verità dice perciò ai peccatori: Non vi conosco.

Come infatti le tenebre si avvertono senza vedere con gli occhi, così i peccati si avvertono con la mente, ignorandoli.

Questo è, a mio parere, il senso dell'espressione nei Salmi: I delitti chi li discerne? ( Sal 19,13 )

Infatti non quello che voglio io faccio, ma quello che detesto.

Ora, se faccio quello che non voglio, io riconosco che la legge è buona; quindi non sono più io a farlo, ma il peccato che abita in me.

Io so infatti che in me, cioè nella mia carne, non abita il bene; c'è in me il desiderio del bene, ma non la capacità di attuarlo; infatti io non compio il bene che voglio, ma il male che non voglio.

Ora, se faccio quello che non voglio, non sono più io a farlo, ma il peccato che abita in me.

Io trovo dunque in me questa legge: quando voglio fare il bene, il male è accanto a me.

Infatti acconsento nel mio intimo alla legge, ma nelle mie membra vedo un'altra legge, che muove guerra alla legge della mia mente e mi rende schiavo della legge del peccato che è nelle mie membra. ( Rm 7,15-23 )

Fino a qui sono parole dell'uomo posto sotto la legge, non ancora sotto la grazia; il quale, anche se non vuole peccare, è vinto dal peccato.

Infatti la consuetudine carnale e la naturale catena della mortalità, con cui discendiamo da Adamo, si è rinvigorita.

Chi si trova in tale situazione implori dunque aiuto, e riconosca che la caduta è dipesa da lui, ma non dipende da lui risollevarsi.

Una volta liberato, riconoscendo la grazia del suo Liberatore, dice: Sono uno sventurato!

Chi mi libererà da questo corpo votato alla morte? La grazia di Dio per mezzo di Gesù Cristo nostro Signore. ( Rm 7,24-25 )

6. Ed ora iniziano le parole riguardanti l'uomo costituito sotto la grazia, in quella che abbiamo definito terza fase: in essa la mortalità della carne recalcitra senza dubbio, ma non vince né acconsente alla schiavitù del peccato.

Dice infatti così: Io dunque, con la mente, servo la legge di Dio, con la carne invece la legge del peccato.

Non c'è dunque più nessuna condanna per quelli che sono in Cristo Gesù.

Poiché la legge dello Spirito che dà vita in Cristo Gesù mi ha liberato dalla legge del peccato e della morte.

Infatti ciò che era impossibile alla legge, perché era inferma per la carne, ( Rm 7,25; Rm 8,1-3 ) cioè per i desideri carnali; infatti non si osservava la legge, perché non c'era ancora l'amore della stessa giustizia che, colmando l'animo di gioia interiore, impedisse di trascinare al peccato per il piacere delle cose temporali.

Dunque la legge era inferma a causa della carne, cioè non giustificava gli schiavi della carne.

Ma Dio mandò il suo proprio Figlio in una carne simile a quella del peccato. ( Rm 8,3 )

Non era una carne di peccato, poiché non era nata da piacere carnale, ma somigliava alla carne di peccato, perché era carne mortale e Adamo ha meritato la morte a causa del peccato.

Ma che ha fatto il Signore? In vista del peccato, egli ha condannato il peccato nella carne, ( Rm 8,3 ) assumendo cioè la carne dell'uomo peccatore e insegnando come vivere condannò il peccato nella stessa carne, affinché lo spirito, infiammato d'amore per le cose eterne, non fosse condotto schiavo consentendo alla libidine.

Perché la giustizia della legge - prosegue - si adempisse in noi, che non camminiamo secondo la carne, ma secondo lo spirito. ( Rm 8,4 )

Quindi i precetti della legge, che non potevano essere osservati mediante il timore, furono osservati per mezzo dell'amore.

Quelli infatti che vivono secondo la carne, pensano alle cose della carne - bramano cioè i beni carnali come beni supremi -; quelli invece che vivono secondo lo Spirito pensano alle cose dello Spirito.

Ma la prudenza della carne è morte; la prudenza dello Spirito invece è vita e pace, perché la prudenza della carne è nemica di Dio. ( Rm 8,5-7 )

Lo stesso Apostolo spiega cosa intenda per nemica, perché nessuno creda che si introduca in opposizione un altro principio.

Aggiunge infatti queste parole: Non è soggetta alla legge di Dio e neanche lo può. ( Rm 8,7 )

Quindi essere nemico di Dio vuol dire trasgredire la legge: non perché qualcosa possa nuocere a Dio, ma perché chiunque resiste alla volontà di Dio nuoce a se stesso.

Questo significa infatti recalcitrare contro lo stimolo, come è stato detto dal cielo all'Apostolo, quando perseguitava ancora la Chiesa. ( At 9,5 )

Per questo la frase: Non è soggetta alla legge di Dio e neanche lo può, ( Rm 8,7 ) corrisponde alla seguente: la neve non riscalda e neppure lo può.

Infatti, finché resta neve, non riscalda; ma può essere sciolta e bollire sì da riscaldare; ma quando fa questo non è più neve.

Così si parla anche di prudenza della carne, quando l'anima brama come beni supremi i beni materiali.

Finché tale brama è in lei, non può essere soggetta alla legge di Dio, cioè non può osservare i precetti della legge.

Quando invece comincia a desiderare i beni spirituali e disprezzare i materiali, viene meno la prudenza della carne e non si oppone allo spirito.

Anche dell'anima stessa si dice infatti che ha la prudenza carnale, quando desidera le cose inferiori, e la prudenza spirituale, quando desidera le superiori: non perché la prudenza della carne è una sostanza, che l'anima si mette o si toglie, ma è una disposizione dell'anima stessa, che sparisce completamente quando si converte del tutto alle cose superiori.

Quelli che vivono secondo la carne non possono piacere a Dio, ( Rm 8,8 ) quelli cioè che acconsentono ai piaceri della carne.

Perché nessuno creda che si riferisca a coloro che non sono ancora passati da questa vita, molto opportunamente aggiunge: Voi però non siete sotto il dominio della carne, ma dello spirito. ( Rm 8,9 )

Parla certamente a persone ancora in vita.

Erano infatti sotto il dominio dello Spirito, perché trovavano conforto nella fede, speranza e carità ai desideri delle cose spirituali.

Se però - continua - lo Spirito di Dio abita in voi.

Se qualcuno non ha lo Spirito di Cristo, non gli appartiene.

E se Cristo è in voi, il vostro corpo è morto a causa del peccato, ma lo Spirito è vita a causa della giustificazione. ( Rm 8,9-10 )

Dice che il corpo è morto, finché si trova nella condizione d'infastidire l'anima per il bisogno di cose materiali e di stimolarla per certi impulsi, originati dallo stesso bisogno, a desiderare le cose della terra.

L'anima tuttavia, pur esistendo questi impulsi, non acconsente a fare il male, perché osserva già la legge di Dio ed è stabilita sotto la grazia.

Qui si applica quanto è stato detto precedentemente: Con la mente servo la legge di Dio, con la carne invece la legge del peccato. ( Rm 7,25 )

Ora viene descritto l'uomo sotto la grazia, il quale non ha ancora la pace perfetta, che si avrà con la risurrezione e la trasformazione del corpo.

7. Resta dunque da parlare di questa pace della risurrezione del corpo, che è propria della quarta fase; se però conviene chiamarla azione, perché è somma quiete. Infatti prosegue in questi termini: Se dunque lo Spirito di colui che ha risuscitato Gesù Cristo dai morti abita in voi, colui che ha risuscitato Gesù dai morti darà la vita anche ai vostri corpi mortali per mezzo del suo Spirito che abita in voi. ( Rm 8,11 )

Qui c'è una chiarissima affermazione della risurrezione del corpo, e appare a sufficienza che finché siamo in questa vita non mancano le molestie a causa della carne mortale né le sollecitazioni dei piaceri carnali.

Anche se chi è costituito sotto la grazia e nell'intimo osserva la legge di Dio non cede, tuttavia nella carne serve la legge del peccato.

Nell'uomo reso perfetto attraverso queste tappe non c'è più alcun male; neppure la legge è cattiva, che mostra all'uomo in quali vincoli di peccato giaccia, affinché, dopo aver implorato per mezzo della fede l'aiuto del Liberatore, meriti di essere liberato, rialzato e stabilito in perfetto equilibrio.

Dunque nella prima fase, precedente la legge, non si lotta affatto coi piaceri di questo mondo; nella seconda, sotto la legge, lottiamo ma veniamo sconfitti; nella terza lottiamo e vinciamo; nella quarta non lottiamo ma riposiamo nella pace perfetta ed eterna.

Il nostro essere interiore è infatti a noi soggetto, mentre prima rifiutava la sottomissione, perché avevamo abbandonato Dio, nostro superiore.

67 - Sul testo: io ritengo, infatti, che le sofferenze del momento presente non sono paragonabili alla gloria futura che dovrà essere rivelata in noi, sino al punto dove si dice: poiché nella speranza noi siamo stati salvati  ( Rm 8,18-24 )

1. Questo capitolo è oscuro perché qui non appare chiaramente di quale tema discuta l'Apostolo.

Ora, secondo la dottrina cattolica, si dice creatura tutto ciò che Dio Padre ha fatto per mezzo del Figlio unigenito nell'unità dello Spirito Santo.

Dunque sotto il nome di creatura rientrano non solo i corpi, ma anche le nostre anime e gli spiriti.

Sta scritto così: La creazione stessa sarà liberata dalla schiavitù della morte alla libertà della gloria dei figli di Dio, ( Rm 8,21 ) come se noi non fossimo creatura, ma figli di Dio, alla cui libertà di gloria la creatura sarà liberata dalla schiavitù.

Dice ancora: Sappiamo infatti che tutta la creazione geme e soffre fino ad oggi; essa non è la sola ma anche noi stessi; ( Rm 8,22-23 ) come se noi fossimo una cosa e la creazione un'altra.

Bisogna quindi considerare dettagliatamente tutto il capitolo.

2. Io ritengo infatti - scrive - che le sofferenze del momento presente non sono paragonabili alla gloria futura che dovrà essere rivelata in noi; ( Rm 8,18 ) questo è chiaro.

Prima aveva detto: Se invece con lo spirito fate morire le opere della carne, vivrete. ( Rm 8,13 )

Il che non può avvenire senza sofferenza, per la quale è necessaria la pazienza.

A ciò si riferisce quanto dice più avanti: Se veramente partecipiamo alle sue sofferenze, per partecipare anche alla sua gloria. ( Rm 8,17 )

Penso che egli voglia dire proprio questo quando afferma: La creazione stessa attende infatti la rivelazione dei figli di Dio. ( Rm 8,19 )

Infatti quello che in noi prova sofferenza, quando mortifichiamo le opere della carne, cioè quando per l'astinenza sentiamo la fame e la sete, quando con la castità freniamo il piacere sessuale, quando con la pazienza sopportiamo le ingiurie laceranti e le spine degli oltraggi, quando, trascurati e respinti i nostri comodi, ci affatichiamo per il bene della madre Chiesa: tutto ciò che in noi, in questa e in altre tribolazioni, prova sofferenza, è creatura.

Soffrono infatti il corpo e l'anima, che sono certamente creature, e attendono la rivelazione dei figli di Dio; aspettano cioè il momento in cui quello che è stato chiamato appaia nella gloria a cui è stato chiamato.

Infatti il Figlio unigenito di Dio non può essere chiamato creatura, dal momento che per suo mezzo è stato fatto tutto ciò che Dio ha fatto.

Anche noi con opportuna distinzione siamo chiamati sia creatura, prima della manifestazione della gloria, che figli di Dio, sebbene questo sia merito di adozione, perché solo l'Unigenito è Figlio per natura.

Dunque l'attesa della creazione, cioè la nostra aspettativa, attende la rivelazione dei figli di Dio; ( Rm 8,19 ) aspetta cioè il momento in cui appaia quanto è stato promesso, quando si manifesterà nella realtà ciò che ora noi siamo nella speranza.

Noi siamo infatti figli di Dio, ma ciò che saremo non è stato ancora rivelato.

Sappiamo però che quando egli si sarà manifestato, noi saremo simili a lui, perché lo vedremo così come egli è. ( 1 Gv 3,2 )

Questa è la rivelazione dei figli di Dio, che ora la creazione aspetta con impazienza.

La creazione non attende la rivelazione di un'altra natura, che non sia creatura; ma essa, com'è al presente, aspetta il momento di diventare quello che sarà.

Allo stesso modo si potrebbe dire di un pittore, munito dei colori appropriati per il suo quadro, che i colori aspettano la realizzazione dell'immagine; non nel senso che ora sono una cosa, o non saranno colori, ma solo che avranno un'altra dignità.

3. La creazione infatti - dice l'Apostolo - è stata sottomessa alla vanità, ( Rm 8,20 ) secondo il detto: Vanità delle vanità e tutto è vanità.

Quale utilità ricava l'uomo da tutto l'affanno per cui fatica sotto il sole? ( Qo 1,2-3 )

A lui è stato detto: Mangerai il pane con fatica. ( Gen 3,19 )

La creazione è stata dunque sottomessa alla vanità non per suo volere. ( Rm 8,20 )

Opportunamente è stato aggiunto: non per suo volere, perché l'uomo ha volontariamente peccato, ma è stato condannato contro il suo volere.

Il peccato è stato dunque spontaneo: agire contro il precetto della verità; pena del peccato è stato invece cedere all'inganno.

Dunque la creazione non è stata sottomessa spontaneamente alla vanità, ma per volere di colui che l'ha sottomessa nella speranza; ( Rm 8,20 ) in vista cioè della giustizia e clemenza di colui che non ha lasciato impunito il peccato e non ha voluto che il peccatore non fosse guarito.

4. Perché anche la stessa creatura, ( Rm 8,21 ) cioè l'uomo stesso, che, avendo perduto a causa del peccato l'impronta dell'immagine, è rimasto semplice creatura: dunque anche la stessa creatura, quella stessa cioè che non è ancora chiamata forma perfetta dei figli, ma solo creatura, sarà liberata dalla schiavitù della morte. ( Rm 8,21 )

Perciò quando dice: anch'essa sarà liberata, fa capire anch'essa come anche noi, vale a dire: non si deve disperare di coloro i quali, perché non hanno ancora creduto, non sono ancora chiamati figli di Dio, ma solo creatura.

Anch'essi infatti crederanno e saranno liberati dalla schiavitù della morte, come noi che già siamo figli di Dio, sebbene non sia ancora apparso ciò che saremo.

Saranno alfine liberati dalla schiavitù della morte alla libertà della gloria dei figli di Dio: ( Rm 8,21 ) anch'essi, in altre parole, da schiavi diverranno liberi e da morti saranno glorificati nella vita perfetta che avranno i figli di Dio.

5. Sappiamo infatti che tutta la creazione geme e soffre fino ad oggi. ( Rm 8,22 )

Tutta la creazione si riassume nell'uomo, non perché in lui vi siano tutti gli Angeli o le altissime Virtù e Potestà, o il cielo, la terra, il mare e tutto ciò che essi racchiudono, ma perché l'intera creazione o è spirituale o animale o corporea.

Se la consideriamo partendo dagli esseri inferiori, la creatura corporea si estende nello spazio; l'animale vivifica i corpi; la spirituale governa l'animalità e la governa bene solo quando si sottomette al governo di Dio.

Quando invece ne trasgredisce i precetti, resta impigliata nelle amarezze e miserie procurate da quelle stesse creature che avrebbe dovuto governare.

Chi pertanto vive secondo il corpo viene chiamato uomo carnale o animale: carnale perché insegue i beni materiali, animale perché si lascia portare dalla licenza sfrenata della sua anima, non regolata dallo spirito e non trattenuta nei confini dell'ordine naturale, perché lo stesso spirito non si lascia guidare da Dio.

Chi invece con lo spirito regge l'anima e con l'anima il corpo - il che non può fare se non si lascia guidare da Dio, perché come l'uomo è capo della donna così Cristo è capo dell'uomo ( 1 Cor 11,3 ) - viene chiamato spirituale.

Questa vita ora trascorre con qualche disagio, ma dopo non ne avrà più.

E poiché gli Angeli superiori hanno una vita spirituale e quelli inferiori una vita animale, le bestie poi e tutti gli animali hanno una vita carnale, il corpo invece non ha vita ma è vivificato: nell'uomo c'è ogni creatura, perché con lo spirito pensa, con l'anima sente, col corpo si muove localmente.

Nell'uomo quindi geme e soffre ogni creatura.

L'Apostolo non ha detto tutta ma ogni, come se uno dicesse che tutti gli uomini che sono sani vedono il sole, ma non lo vedono con la totalità di se stessi, perché vedono solo con gli occhi: così nell'uomo si riassume ogni creatura, perché pensa, vive, ha un corpo; ma in lui non c'è tutta la creazione, perché al di fuori di lui sono anche gli Angeli, i quali intendono, vivono e sono, gli animali, che vivono e sono, i corpi che sono semplicemente: vivere è meglio di non vivere, pensare è meglio di vivere senza intelligenza.

Quando dunque il misero uomo geme e soffre, ogni creatura geme e soffre fino ad oggi.

Ha detto bene fino ad oggi, perché anche se alcuni sono già nel seno di Abramo ( Lc 16,23 ) e il buon ladrone è entrato in paradiso col Signore ( Lc 23,43 ) e ha cessato di soffrire lo stesso giorno in cui ha creduto, tutta la creazione geme e soffre tuttavia sino ad oggi, perché in coloro che non sono ancora liberati essa si ritrova tutta a motivo dello spirito, dell'anima e del corpo.

6. Non solo - prosegue - tutta la generazione geme e soffre, ma anche noi, vale a dire: nell'uomo soffrono insieme non solo il corpo, l'anima e lo spirito per le vicissitudini corporali, ma anche noi, a parte il corpo, gemiamo interiormente, noi che possediamo le primizie dello spirito.

Ha detto bene: noi che possediamo le primizie dello spirito per significare coloro i cui spiriti sono già stati offerti a Dio in sacrificio e sono stati avvolti dal fuoco divino della carità.

Queste sono le primizie dell'uomo, perché la verità dapprima afferra il nostro spirito e per suo mezzo conquista tutto il resto.

Possiede dunque già le primizie offerte a Dio chi dice: Con la mente servo la legge di Dio, con la carne invece la legge del peccato; ( Rm 7,25 ) altrettanto chi dice: Dio a cui servo nel mio spirito, ( Rm 1,9 ) come anche colui di cui si dice: Lo spirito è pronto ma la carne è debole. ( Mt 26,41 )

Ma poiché aggiunge anche: sono uno sventurato!

Chi mi libererà da questo corpo votato alla morte? ( Rm 7,24 ) e si riferisce ancora a tali persone: Darà la vita anche ai vostri corpi mortali per mezzo dello Spirito che abita in voi; ( Rm 8,11 ) non c'è ancora l'olocausto.

Ci sarà invece quando la morte sarà assorbita nella vittoria e le si dirà: Dov'è, o morte, la tua vittoria?

Dov'è, o morte, il tuo pungiglione? ( 1 Cor 15,54-55 )

Ora dunque, afferma, non solo tutta la creazione, ossia quella del corpo, ma anche noi che possediamo le primizie dello spirito, cioè anche noi anime, che abbiamo già offerto a Dio come primizie le nostre menti, gemiamo interiormente, cioè oltre il corpo, aspettando l'adozione, la redenzione del nostro corpo. ( Rm 8,23 )

Aspettiamo cioè che lo stesso corpo, ricevendo il dono dell'adozione a figli, alla quale siamo stati chiamati, manifesti che noi, totalmente liberi ed affrancati da ogni disagio, siamo completamente figli di Dio.

Nella speranza infatti noi siamo stati salvati: ma la speranza che si vede non è più speranza. ( Rm 8,24 )

Quando sarà manifestato ciò che saremo, vale a dire saremo simili a lui perché lo vedremo così come egli è, ( 1 Gv 3,2 ) allora sarà dunque realtà ciò che ora è speranza.

7. Se questo capitolo viene spiegato, come si è fatto, evitiamo quelle difficoltà per cui molti uomini sono costretti a dire che tutti gli Angeli e le Virtù celesti sono nel dolore e nei gemiti, finché noi non saremo totalmente liberati, poiché è stato detto: Tutta la creazione geme e soffre. ( Rm 8,22 )

Sebbene essi infatti ci aiutino secondo la loro dignità, mentre obbediscono a Dio, che per noi si è degnato d'inviare perfino il suo unico Figlio, bisogna credere tuttavia che lo facciano senza gemiti e dolori, per non ritenerli infelici, e che sia più felice il povero Lazzaro, uno di noi, che già riposa nel seno di Abramo.

Tanto più che ha detto che questa stessa creazione, che geme e soffre, è soggetta alla vanità; ammettere questo delle somme e perfette creature, quali le Virtù e le Potestà, è uno sproposito.

Ha detto inoltre che deve essere liberata dalla schiavitù della morte: non possiamo credere che vi siano incorsi quelli che in cielo conducono una vita pienamente felice.

Non si deve tuttavia affermare nulla superficialmente, ma anche le parole divine si devono affrontare con devota diligenza.

Forse la creazione che geme, soffre ed è soggetta alla vanità potrebbe intendersi in un altro modo e applicarsi, senza empietà, anche agli Angeli più eminenti in quanto, per ordine di nostro Signore, vengono in soccorso della nostra infermità.

Ma sia che si accetti quella che noi abbiamo proposto o un'altra spiegazione di questo capitolo, bisogna preoccuparsi soltanto di non contraddire o ferire la fede cattolica.

So infatti che eretici sconsiderati hanno sciorinato su questo capitolo molte teorie empie e dissennate.

68 - Sul testo della scrittura: O uomo, tu chi sei per disputare con Dio?

1. Poiché sembra che l'Apostolo abbia ripreso i curiosi quando dice: O uomo, tu chi sei per disputare con Dio? ( Rm 9,20 ) essi agitano la questione su questo punto e non cessano d'insistere su quella sentenza che condanna la loro curiosità.

Gli empi aggiungono anche l'ingiuria, affermando che l'Apostolo, incapace di risolvere la questione, ha rimproverato i ricercatori perché non era in grado di sciogliere la difficoltà.

Inoltre alcuni eretici, nemici della Legge e dei Profeti, che ingannano facendo mostra di una scienza che non possiedono, lanciano l'accusa che tutti i passi inseriti dall'Apostolo nel suo discorso a loro riguardo, sono falsi e interpolati da corruttori.

Tra i testi interpolati, essi dicono, hanno voluto annoverare anche questo e negare che Paolo abbia detto: O uomo, tu chi sei per disputare con Dio?

Se infatti questo è rivolto a loro, che calunniano per ingannare gli uomini, tacerebbero senza dubbio e non oserebbero promettere agli inesperti, che vogliono ingannare, alcuna conoscenza della volontà di Dio onnipotente.

Alcuni però che leggono le Scritture con animo leale e devoto, domandano che cosa si può rispondere ai maldicenti e ai calunniatori.

Noi però, attenendoci salutarmente all'autorità apostolica e ritenendo che non sono falsificati i libri custoditi dalla dottrina cattolica, pensiamo il vero: sono indegni e incapaci di comprendere i divini misteri coloro ai quali questi misteri sono celati.

A coloro che mormorano e s'indignano perché non intendono i disegni di Dio, quando cominciano a dire: Egli quindi usa misericordia con chi vuole e indurisce chi vuole.

Allora perché ancora si lamenta? Chi può infatti resistere al suo volere? ( Rm 9,18-19 ) mentre con queste parole cominciano o a calunniare le Scritture o a cercare di nascondere i propri peccati al punto da disprezzare i precetti che conducono alla vita virtuosa, rispondiamo in tutta franchezza: O uomo, chi sei tu per disputare con Dio?

Senza lasciarci impressionare da loro, noi non diamo le cose sante ai cani né gettiamo le nostre perle davanti ai porci, ( Mt 7,6 ) purché non siamo noi stessi cani e porci e, sotto l'ispirazione dello Spirito Santo, sui meriti delle anime immaginiamo qualcosa, anche se parziale e oscuro, di sublime e ben lontano da ogni volgare congettura.

2. In questo testo l'Apostolo non proibisce ai santi la ricerca ma a quelli che non sono ancora così radicati e fondati nella carità da poter comprendere con tutti i santi l'ampiezza, la lunghezza, l'altezza e la profondità e tutto il resto che si dice nello stesso brano. ( Ef 3,18-19 )

Non ne ha dunque proibito la ricerca dicendo: L'uomo spirituale giudica ogni cosa; egli però non è giudicato da nessuno; ( 1 Cor 2,15 ) e soprattutto questo: Noi non abbiamo ricevuto lo spirito di questo mondo ma lo Spirito che viene da Dio, per conoscere tutto ciò che Dio ci ha donato. ( 1 Cor 2,12 )

A chi dunque l'ha proibita se non agli uomini abietti e terreni, non ancora rigenerati e nutriti interiormente, che portano l'immagine del primo uomo fatto di terra e terreno? ( 1 Cor 15,47-49 )

E poiché non ha voluto obbedire a colui che lo aveva creato è caduto proprio là donde è stato tratto e, dopo il peccato, ha meritato di udire: Sei terra e in terra ritornerai. ( Gen 3,19 )

A persone di tal fatta si rivolge dunque l'Apostolo: O uomo, tu chi sei per disputare con Dio?

Dirà forse il vaso plasmato a colui che l'ha plasmato: "Perché mi hai fatto così? ". ( Rm 9,20 )

Finché dunque sei vaso di argilla e non ancora figlio perfetto, non avendo ancora attinto la pienezza della grazia, per cui ci è dato il potere di diventare figli di Dio, sì da poter ascoltare: Non vi chiamo più servi ma amici; ( 1 Gv 5,15 ) tu chi sei per rispondere a Dio e per voler conoscere la sua intenzione?

Se tu avessi voluto conoscere le intenzioni di un uomo pari a te, avresti agito imprudentemente se prima non fossi stato accolto nella sua amicizia.

Come dunque abbiamo portato l'immagine dell'uomo di terra, così porteremo anche l'immagine dell'uomo celeste, ( 1 Cor 15,49 ) spogliandoci dell'uomo vecchio e rivestendo il nuovo, ( Col 3,9-10 ) affinché non ci venga detto come al vaso di argilla: Dice forse il vaso al vasaio: " Perché mi hai fatto così? ". ( Rm 9,21 )

3. Perché sia chiaro che questo è detto non per uno spirito già santo, ma per il fango carnale, senti come prosegue: Non è forse in potere del vasaio che con il medesimo impasto di argilla ci faccia o un vaso degno di rispetto, oppure un vaso da contumelia? ( Rm 9,21 )

Dunque dacché la nostra natura ha peccato nel paradiso, dalla provvidenza divina stessa noi siamo formati non secondo il cielo ma secondo la terra, cioè non secondo lo spirito, ma secondo la carne con una generazione destinata alla morte; e così tutti siamo diventati una massa di fango, che è a dire una massa di peccato.

E poiché con il peccato abbiamo perduto il merito e, separati dalla misericordia di Dio, null'altro era dovuto a noi peccatori se non l'eterna condanna, come può l'uomo, da questa massa, mettersi a discutere con Dio e dirgli: Perché mi hai fatto così?

Se tu vuoi conoscere queste cose, bisogna che ti tolga da questo fango e che diventi figlio di Dio tramite quella stessa misericordia che ha dato il potere di diventare figli di Dio a coloro che credono nel suo nome, e non a coloro che vorrebbero conoscere i misteri di Dio prima di credere, come vorresti tu.

Il conoscere infatti è come una paga che si dà a chi l'ha meritata; e il merito si acquista con il credere.

Così anche la grazia, che ci viene data per mezzo della fede, non ci viene data per nessun altro merito precedente.

E quale altro merito potrebbe avere il peccatore o l'empio?

Cristo però è morto per gli empi e i peccatori ( Rm 5,6 ) affinché al credere noi fossimo chiamati, non per i meriti, ma per la grazia, e così, credendo, anche noi potessimo mettere da parte qualche merito.

È per questo che ai peccatori viene comandato di credere, perché proprio col credere si purghino dei peccati.

Essi infatti non sanno che cosa avranno davanti se vivono rettamente.

Così, non potendo saperlo se non vivono rettamente, e, d'altra parte non potendo vivere rettamente se non credono, è più che chiaro che è dalla fede che bisogna incominciare.

Ed è così che i comandamenti, con i quali coloro che credono si distaccano dalle cose di questo mondo, rendono puro il loro cuore, perché è solo con esso che si può vedere Dio.

Beati i puri di cuore, perché essi vedranno Dio. ( Mt 5,8 )

E anche con le parole della profezia si canta: Nella semplicità del cuore cercatelo. ( Sap 1,1 )

È giusto quindi quello che viene detto agli uomini che sono immersi nella vecchiezza della vita e hanno l'occhio dell'anima pieno di tenebre: O uomo, e chi sei tu da metterti a discutere con Dio?

Oserà forse il vaso plasmato dire a colui che lo plasmò: Perché mi hai fatto così?

Forse che il vasaio non è padrone dell'argilla per fare col medesimo impasto un vaso degno di rispetto oppure un vaso da contumelia?

Lìberati dal vecchio fermento per diventare un impasto nuovo ( 1 Cor 5,7 ) in cui non restare ancora un bambino in Cristo da dover nutrire sempre col latte; ( 1 Cor 3,2 ) fatti uomo una buona volta per trovarti in mezzo a coloro dei quali è detto: Noi parliamo di sapienza tra uomini maturi. ( 1 Cor 2,6 )

Solo allora potrai capire in modo retto e non disordinato quali siano i meriti così nascosti delle anime e i segreti della grazia e della giustizia di Dio.

Anche a proposito del Faraone si può facilmente rispondere che un tale indurimento del cuore, da non credere neppure ai segni più manifesti del volere divino, era la giusta conseguenza dei precedenti demeriti con i quali aveva perseguitato i forestieri nel suo regno.

Da un'unica massa, vale a dire di peccatori, ha tratto fuori vasi di misericordia a cui prestare soccorso, quando i figli d'Israele lo avrebbero invocato, e vasi d'ira, cioè il Faraone e il suo popolo: col loro castigo avrebbe istruiti quelli; perché, sebbene gli uni e gli altri fossero peccatori, e di conseguenza appartenessero all'identica massa, era necessario tuttavia trattare in un modo coloro che avevano supplicato nei gemiti l'unico Dio, perché li soccoresse, e in un altro coloro che li avevano afflitti con ingiusti gravami. Ha sopportato dunque con grande pazienza i vasi di collera, già pronti per la perdizione. ( Rm 9,22 )

Con l'espressione con grande pazienza ha indicato a sufficienza i loro precedenti peccati, per i quali li aveva sopportati: li avrebbe vendicati a tempo opportuno, quando dalla loro punizione avrebbe prestato soccorso a quelli che sarebbero stati liberati.

E questo per far comprendere la ricchezza della sua gloria verso vasi di misericordia, da lui predisposti alla gloria. ( Rm 9,23 )

A questo punto forse sei confuso e ritorni sulla questione precedente.

Egli usa misericordia con chi vuole e indurisce chi vuole.

Perché ancora rimprovera? Chi può infatti resistere al suo volere? ( Rm 9,18-19 )

Senza dubbio usa misericordia a chi vuole e indurisce chi vuole, eppure questa volontà di Dio non può essere ingiusta.

Scaturisce difatti da meriti assai occulti; anche gli stessi peccatori, sebbene a causa del comune peccato costituiscano un'unica massa, non sono tuttavia senza qualche differenza tra loro.

In alcuni peccatori precede dunque qualcosa per cui, sebbene non siano ancora giustificati, sono degni di essere giustificati; e in altri peccatori precede ugualmente qualcosa per cui sono meritevoli di ostinazione.

Altrove scopri lo stesso Apostolo che dice: Poiché hanno disprezzato la conoscenza di Dio, Dio li ha abbandonati in balìa d'una intelligenza depravata. ( Rm 1,28 )

Averli abbandonati a un'intelligenza depravata equivale ad aver indurito il cuore del Faraone. ( Es 4,21; Es 9,12 )

L'aver disprezzato la conoscenza di Dio è stato il motivo per cui hanno meritato di essere abbandonati a un'intelligenza depravata.

5. È vero però che non dipende dalla volontà né dagli sforzi, ma dalla misericordia di Dio. ( Rm 9,16 )

Sebbene, infatti, qualcuno si renda degno della misericordia di Dio con grande gemito e dolore tanto per i peccati più lievi quanto per quelli più gravi e addirittura numerosi, ciò non dipende da lui, che si perderebbe se fosse abbandonato, ma dalla misericordia di Dio che viene in aiuto alle sue preghiere addolorate.

Non basta infatti volere se Dio non usa misericordia.

Ma Dio, che chiama alla pace, non usa misericordia se non precede la volontà, perché la pace in terra è per gli uomini di buona volontà. ( Lc 2,14 )

E poiché nessuno può volere, senza essere prevenuto e chiamato sia interiormente, dove nessun uomo vede, che esteriormente per mezzo della predicazione o di altri segni manifesti, risulta che è Dio a suscitare in noi questo stesso volere. ( Fil 2,13 )

Infatti a quella cena, che nel Vangelo il Signore dice di aver preparato, non tutti gli invitati hanno voluto partecipare, e quelli che sono venuti non sarebbero potuti venire senza essere stati invitati. ( Lc 14,16-24 )

Pertanto quelli non devono attribuire a se stessi di essere venuti, perché sono venuti su invito: né devono incolpare altri, ma se stessi, coloro che non sono voluti venire, perché erano chiamati a partecipare in piena libertà.

La chiamata dunque suscita la volontà prima del merito.

Di conseguenza se qualcuno attribuisce a se stesso di aver corrisposto alla chiamata, non può attribuire a se stesso di essere stato chiamato.

Chi invece non ha risposto all'invito, come non ha avuto alcun merito per essere chiamato, così inizia a meritare il castigo per aver trascurato l'invito a venire.

Ci saranno così due cose: Canterò, Signore, la tua misericordia e la tua giustizia. ( Sal 101,1 )

La chiamata dipende dalla misericordia; dalla giustizia dipende la felicità di coloro che hanno risposto all'appello e il castigo di coloro che hanno rifiutato di venire.

Non si rendeva forse conto il Faraone dei vantaggi derivati al suo paese dalla venuta di Giuseppe? ( Gen 41 )

La conoscenza di questo fatto costituiva dunque per lui l'appello a non essere ingrato, trattando con indulgenza il popolo d'Israele.

Rifiutando di corrispondere a quest'invito e rendendosi crudele verso coloro ai quali doveva umanità e indulgenza, ha meritato come punizione l'indurimento del suo cuore e una tale cecità di spirito da non credere ai numerosi e così grandi ed evidenti prodigi di Dio.

Con questo castigo dell'ostinazione e del suo definitivo e visibile naufragio in mare, si poteva istruire il popolo che, a motivo della sua sofferenza, il Faraone aveva meritato, sia l'occulta ostinazione del cuore che la manifesta scomparsa tra i flutti. ( Es 5-14 )

6. Ora questa chiamata, rivolta secondo l'opportunità dei tempi, sia agli individui che ai popoli e all'intero genere umano, è segno di una disposizione elevata e profonda.

Ad essa si riferiscono anche queste parole: Io ti ho santificato nel seno materno; ( Ger 1,5 ) e: Ti ho visto quando eri ancora nei lombi di tuo padre ( Eb 7,10 ) e: Ho amato Giacobbe e ho odiato Esaù, ( Ml 1,2-3 ) che sono state pronunciate prima che essi nascessero.

Forse possono comprenderle soltanto coloro che amano il Signore loro Dio con tutto il cuore, con tutta l'anima e con tutta la loro mente e amano il prossimo come se stessi. ( Mt 22,37-39 )

Fondati in una così grande carità forse possono già comprendere con i santi la lunghezza, l'ampiezza, l'altezza e la profondità. ( Ef 3,18 )

Bisogna però ritenere con fermissima fede che Dio non fa nulla d'ingiusto e che non c'è alcuna natura che non debba a Dio ciò che è.

A Dio si deve infatti ogni splendore, bellezza e armonia delle parti: se tu l'analizzerai a fondo e la eliminerai dalle cose fino alle ultime parti, non rimane più nulla.

69 - Sul testo: Allora lo stesso Figlo sarà sottomesso a colui che gli ha sottomesso ogni cosa  ( 1 Cor 15,28 )

1. Coloro che ribattono che il Figlio di Dio non è uguale al Padre, di solito ricorrono con maggior dimestichezza a questo testo dell'Apostolo che afferma: E quando tutto gli sarà stato sottomesso, anche lui, il Figlio, sarà sottomesso a colui che gli ha sottomesso ogni cosa, perché Dio sia tutto in tutti.

Non potrebbe infatti sorgere in loro l'errore mascherato del nome cristiano, se non per una cattiva interpretazione della Scrittura.

Dicono infatti: Se è uguale, come mai gli sarà sottomesso?

La domanda è simile senza dubbio a quella del Vangelo: Se è uguale, come mai il Padre è più grande?

Il Signore in persona dice: Il Padre è più grande di me. ( Gv 14,28 )

Ora la regola della fede cattolica è questa: quando nelle Scritture si afferma qualcosa per cui il Figlio è inferiore al Padre, lo si intende in rapporto all'umanità [ da lui ] assunta; quando invece si afferma qualcosa che denota uguaglianza, lo si interpreta in rapporto alla divinità.

Risulta dunque chiaro in quale senso è stato detto: Il Padre è più grande di me; e: Io e il Padre siamo uno; ( Gv 10,30 ) e: Il Verbo era Dio; e: Il Verbo si è fatto carne; e: Non considerò un tesoro geloso la sua uguaglianza con Dio, ma spogliò se stesso assumendo la condizione di servo. ( Fil 2,6-7 )

Ma poiché molte espressioni, eccetto quanto concerne l'assunzione dell'umanità, si riferiscono a lui secondo la proprietà personale, in modo che per Padre non si può intendere che il Padre e per Figlio non altri che il Figlio, gli eretici ritengono che in quello che viene affermato e interpretato in questo modo non ci può essere uguaglianza.

Sta scritto infatti: Tutto è stato fatto per mezzo di lui, ( Gv 1,3 ) senza dubbio per mezzo del Figlio, cioè del Verbo di Dio.

Da chi, se non dal Padre? Non c'è mai scritto che il Figlio ha fatto qualcosa per mezzo del Padre.

È scritto ancora che il Figlio è immagine del Padre; ( Col 1,15 ) ma non è mai scritto che il Padre è immagine del Figlio.

Sta scritto inoltre che uno genera e l'altro è generato; e molte espressioni del genere che riguardano non l'ineguaglianza della sostanza ma la proprietà delle Persone.

Poiché essi negano che in questi testi l'uguaglianza sia possibile, dal momento che si addentrano in queste cose con una mentalità troppo grossolana, bisogna incalzarli sotto il peso dell'autorità.

Se infatti in quelle affermazioni fosse impossibile cogliere l'uguaglianza tra colui per mezzo del quale tutto è stato fatto e colui dal quale è stato fatto, tra l'immagine e colui del quale è immagine, tra il generato e il generante, l'Apostolo, per chiudere la bocca dei contestatori, non avrebbe in alcun modo usato lo stesso vocabolo, dicendo: Non considerò una rapina la sua uguaglianza con Dio. ( Fil 2,6 )

2. Poiché dunque alcuni testi, riguardanti la distinzione del Padre e del Figlio, sono stati scritti in riferimento alla proprietà del Figlio e altri all'assunzione dell'umanità, per salvaguardare la divinità, l'unità e l'uguaglianza del Padre e del Figlio: è giusto domandarsi se l'Apostolo in questo testo aveva di mira le proprietà delle persone o l'assunzione dell'umanità: Allora anche il Figlio sarà sottomesso a colui che gli ha sottomesso ogni cosa. ( 1 Cor 15,28 )

Di solito il contesto scritturistico chiarisce la sentenza quando le espressioni circostanti, che si riferiscono alla presente questione, vengono esaminate con un'analisi diligente.

Troviamo infatti che l'Apostolo è giunto a questo testo dopo l'affermazione precedente: Ora, invece, Cristo è risuscitato dai morti, primizia di coloro che sono morti. ( 1 Cor 15,20 )

Trattava quindi della risurrezione dei morti: essa si è verificata nel Signore secondo l'umanità che ha assunto, come afferma con tutta chiarezza in seguito: Poiché se a causa di un uomo venne la morte, a causa di un uomo verrà anche la risurrezione dai morti; e come tutti muoiono in Adamo, così tutti riceveranno la vita in Cristo.

Ciascuno però nel suo ordine: prima Cristo, che è la primizia; poi, alla sua venuta ( parusiva ), quelli che sono di Cristo; poi sarà la fine, quando egli consegnerà il regno a Dio Padre, dopo aver ridotto al nulla ogni principato e ogni potestà e potenza.

Bisogna infatti che egli regni finché non abbia posto tutti i suoi nemici sotto i suoi piedi.

L'ultimo nemico ad essere annientato sarà la morte, perché ogni cosa ha posto sotto i suoi piedi.

Però quando dice: Ogni cosa è stata sottoposta, è chiaro che si deve eccettuare colui che gli ha sottomesso ogni cosa.

E quando tutto gli sarà stato sottomesso, anche lui il Figlio, sarà sottomesso a colui che gli ha sottomesso ogni cosa, perché Dio sia tutto in tutti. ( 1 Cor 15,21-28 )

È chiaro quindi che questo è stato detto in riferimento all'incarnazione dell'uomo.

3. Ma in questo capitolo, di cui ho riportato tutto il testo, altri punti offrono di solito materia di discussione.

Innanzitutto l'affermazione: Quando egli consegnerà il regno a Dio e Padre, come se il Padre ora non possedesse il regno.

Quindi il passo: Bisogna infatti che egli regni finché non abbia posto tutti i suoi nemici sotto i suoi piedi, come se dopo non dovesse più regnare.

A questo sembra riferirsi l'affermazione precedente: Poi sarà la fine.

Con sacrilega interpretazione essi l'intendono così, come se la parola fine indicasse la distruzione del suo regno, mentre nel Vangelo è scritto: E il suo regno non avrà fine. ( Lc 1,33 )

Da ultimo il testo: E quando tutto gli sarà stato sottomesso, anche lui, il Figlio, sarà sottomesso a colui che gli ha sottomesso ogni cosa; essi lo interpretano così come se ora qualcosa non fosse sottomessa al Figlio o egli stesso non fosse sottomesso al Padre.

4. La questione si scioglie considerando il modo di esprimersi.

Spesso infatti la Scrittura, parlando di qualcosa che è da sempre, dice che comincia ad esistere in qualcuno, quando questi la conosce.

Così nella preghiera del Signore noi diciamo: Sia santificato il tuo nome, ( Mt 6,9 ) quasi che in un certo tempo non fosse santo.

Come dunque sia santificato sta per "sia riconosciuto come santo", così anche le parole: Quando egli consegnerà il regno a Dio Padre, stanno per "quando avrà mostrato che il Padre regna", sicché per mezzo della visione e della manifestazione risulti chiaro ciò che ora i fedeli credono e gli infedeli rifiutano.

Poi ridurrà al nulla ogni principato e potestà, manifestando senza dubbio il regno del Padre, affinché a tutti sia noto che nessun principato e potestà in cielo e in terra ha avuto da se stesso alcunché del suo potere e dominio, ma l'ha avuto da colui dal quale tutto procede, sia nel campo dell'esistenza che dell'ordinamento.

In quella manifestazione nessuno infatti avrà più speranza in qualche principe o in qualche uomo.

È quanto già sin d'ora viene cantato con voce profetica: È meglio rifugiarsi nel Signore che confidare nell'uomo; è meglio rifugiarsi nel Signore che confidare nei potenti. ( Sal 118,8-9 )

In questa meditazione l'anima si eleva fin d'ora al regno del Padre, senza fare affidamento sul potere di qualcuno al di fuori di lui, e tanto meno illudersi pericolosamente del proprio.

Consegnerà dunque il regno a Dio Padre quando, grazie a lui, si conoscerà il Padre visibilmente.

Suo regno sono infatti coloro nei quali ora regna per mezzo della fede.

Invero in un modo si parla del regno di Cristo in rapporto al potere della divinità: in questo senso ogni creatura gli è sottomessa; in un altro si parla del suo regno che è la Chiesa, in rapporto alla fede che possiede; in questo senso prega colui che dice: Prendi possesso di noi. ( Is 26,13 )

Nulla infatti è sottratto al suo possesso.

In questo senso si dice anche: Quando eravate schiavi del peccato, eravate liberi riguardo alla giustizia. ( Rm 6,20 )

Ridurrà dunque al nulla ogni principato e ogni potestà e potenza, sicché nessuno, che vede il Padre per mezzo del Figlio, abbia bisogno o si compiaccia di confidare nel potere personale o di qualche creatura.

5. Bisogna infatti che egli regni finché non abbia posto tutti i suoi nemici sotto i suoi piedi. ( 1 Cor 15,25 )

Bisogna, cioè, che il suo regno si manifesti così apertamente che tutti i suoi nemici ammettano che egli regna.

Questo infatti vuol dire che i suoi nemici saranno sotto i suoi piedi.

Se invece lo riferiamo ai giusti, la parola nemici è detta nel senso che da ingiusti diventano giusti e si sottomettono a lui con la fede.

Quanto poi agli ingiusti, che non apparterranno alla beatitudine futura dei giusti, bisogna intenderlo nel senso che anch'essi, nella stessa manifestazione del suo regno, pieni di confusione riconosceranno che egli regna.

Di conseguenza il testo: Bisogna che egli regni finché non abbia posto tutti i suoi nemici sotto i suoi piedi, non significa che in seguito, dopo aver posto i nemici sotto i suoi piedi, non regnerà più, ma con la frase: Bisogna che egli regni finché non abbia posto tutti i suoi nemici sotto i suoi piedi, afferma che è necessario innalzare il suo regno a così grande splendore che i suoi nemici non oseranno in alcun modo negare che egli regna.

Infatti sta scritto anche: I nostri occhi sono rivolti al Signore nostro Dio, finché abbia pietà di noi. ( Sal 123,2 )

Questo non significa però che, dopo aver avuto pietà di noi, dobbiamo distogliere il nostro sguardo da lui, perché la nostra felicità è in rapporto alla gioia della sua contemplazione.

Questo è dunque il senso del testo.

L'attenzione dei nostri occhi è rivolta al Signore per ottenere la sua misericordia, non per distogliersi in seguito ma per non chiedere più nient'altro.

Finché sta quindi al posto di nient'altro.

Che c'è infatti di più, ossia con quale maggiore manifestazione si manifesterà il regno di Cristo se non al punto che tutti i nemici riconosceranno che egli regna?

Dunque altro è non manifestarsi più, altro non essere più.

Non manifestarsi più significa non rivelarsi più apertamente; non essere più vuol dire non durare ulteriormente.

E quando mai il regno di Cristo apparirà più chiaramente di quando risplenderà davanti a tutti i nemici?

6. L'ultimo nemico ad essere annientato sarà la morte. ( 1 Cor 15,26 )

Quando questo corpo mortale sarà rivestito d'immortalità non ci sarà più nient'altro da distruggere.

Tutto ha posto sotto i suoi piedi: questo sta ad indicare anche la distruzione della morte.

Però quando dice che ogni cosa è stata sottoposta - l'ha detto effettivamente il Profeta nei Salmi ( Sal 8,8 ) -, è chiaro che si deve eccettuare colui che gli ha sottomesso ogni cosa: vuol far capire che il Padre ha sottoposto ogni cosa al Figlio, come lo stesso Signore insegna e predica in molti passi del Vangelo, non solo a motivo della forma di servo, ma anche a motivo del principio da cui procede e per il quale è uguale a colui dal quale procede.

Si compiace infatti di riferire tutto ad un unico principio, di cui è immagine ( Col 1,15 ) e in cui abita tutta la pienezza della divinità. ( Col 2,9 )

7. E quando tutto gli sarà sottomesso, anche lui, il Figlio, sarà sottomesso a colui che gli ha sottomesso ogni cosa. ( 1 Cor 15,28 )

Non perché ora non sia così, ma perché allora sarà chiaro, secondo il modo di esprimersi spiegato sopra.

Perché Dio sia tutto in tutti; egli è la fine, menzionata precedentemente, quando ha voluto inizialmente riassumere tutto sinteticamente e in seguito spiegarlo ed esporlo dettagliatamente.

Parlava infatti della risurrezione: Prima Cristo, che è la primizia; poi, alla sua venuta, quelli che sono di Cristo; poi sarà la fine.

Egli stesso è la fine, perché Dio sia tutto in tutti.

In un senso si parla della fine che esprime compimento, in un altro quando esprime consunzione.

Altro è finire un vestito tessendolo, altro finire il cibo, mangiandolo.

Si dice poi che Dio è tutto in tutti nel senso che nessuno di coloro che aderiscono a lui, ami contro di lui la propria volontà e sia chiaro a tutti ciò che lo stesso Apostolo dice in un altro passo: Che cosa mai possiedi che tu non abbia ricevuto? ( 1 Cor 4,7 )

8. Vi sono poi alcuni che intendono questo testo: Bisogna che egli regni finché ponga tutti i suoi nemici sotto i suoi piedi, dicendo che qui il termine regnare è preso in un altro significato diverso da quello di regno nella frase: Quando avrà consegnato il regno a Dio e Padre.

L'Apostolo avrebbe detto regno nel senso che Dio regge tutto il creato; e avrebbe detto regnare nel senso di condurre un esercito contro il nemico o difendere una città.

Pertanto avrebbe detto: Bisogna che egli regni finché ponga tutti i suoi nemici sotto i suoi piedi, perché un regno, simile a quello che hanno i capi di esercito, non ha più ragione di essere quando il nemico è stato così assoggettato da non potersi più ribellare.

Nel Vangelo si dice infatti: E il suo regno non avrà fine, ( Lc 1,33 ) nel senso che regnerà in eterno.

Quanto poi alla lotta da condurre sotto di lui contro il diavolo, lotta che durerà certamente finché mai porrà tutti i suoi nemici sotto i suoi piedi, dopo non ci sarà più, perché godremo una pace eterna.

9. Questo è stato detto per farci capire che bisogna riflettere con maggior diligenza anche su questo punto: qual è attualmente il regno del Signore nell'economia del suo mistero, secondo l'incarnazione e la passione.

Poiché in quanto Verbo di Dio il suo regno come non ha fine, così non ha né inizio né interruzione.

Ma in quanto Verbo fatto carne ( Gv 1,14 ) ha cominciato a regnare nei credenti per mezzo della fede nella sua incarnazione.

Come appare anche dal testo: Il Signore ha regnato dal legno. ( Sal 96,10 )

Qui ha ridotto al nulla ogni principato, ogni potere e potenza, poiché quelli che credono in lui vengono salvati non per la sua esaltazione ma per la sua umiltà.

Questo è stato nascosto ai sapienti e agli intelligenti e rivelato ai piccoli; ( Mt 11,25 ) perché a Dio è piaciuto salvare i credenti con la stoltezza della predicazione. ( 1 Cor 1,21 )

E l'Apostolo afferma, in mezzo ai piccoli, di non sapere altro, se non Gesù Cristo e questi crocifisso. ( 1 Cor 2,2 )

C'è bisogno di questa predicazione finché tutti i nemici saranno posti sotto i suoi piedi, finché tutta la superbia del mondo ceda e si sottometta alla sua umiltà, che mi sembra indicata col termine "piedi".

In gran parte questa si è già realizzata e ogni giorno la vediamo realizzarsi.

Ma perché ciò accade? Per consegnare il regno a Dio e Padre, per portare cioè alla visione della sua uguaglianza col Padre quelli che si sono nutriti, con fede, della sua incarnazione.

Egli si rivolgeva infatti a quelli che già avevano creduto, quando diceva: Se rimanete nella mia parola, sarete veramente miei discepoli; conoscerete la verità e la verità vi farà liberi. ( Gv 8,31-32 )

Consegnerà il regno al Padre, quando, mediante ciò, per cui è uguale al Padre, regnerà in quelli che contemplano la verità e in se stesso, che è l'Unigenito, farà vedere il Padre in visione.

Ora regna infatti nei credenti mediante la sua umiliazione, con la quale spogliò se stesso, assumendo la condizione di servo. ( Fil 2,7 )

Ma allora consegnerà il regno a Dio e Padre, quando avrà ridotto al nulla ogni principato, ogni potestà e potenza.

Come li annienterà se non con l'umiltà, la pazienza e la debolezza?

Quale principato non sarà annullato, quando il Figlio di Dio regna sui credenti proprio perché i principi di questo mondo lo hanno giudicato?

Quale potestà non sarà annullata quando colui, per cui tutto è stato fatto, regna sui credenti proprio perché si è talmente assoggettato alle potestà da dire a un uomo: Tu non avresti alcun potere su di me, se non ti fosse stato dato dall'alto? ( Gv 19,11 )

Quale potenza non sarà annullata quando colui, per mezzo del quale sono stati stabiliti i cieli, regna sui credenti proprio perché ha provato la debolezza sino alla croce e alla morte?

Proprio in questo modo il Figlio regna nella fede dei credenti.

Non si può infatti dire né credere che il Padre si è incarnato o è stato giudicato o crocifisso.

Ma nella visione, per cui è uguale al Padre, regna insieme a lui in coloro che contemplano la verità.

Poi consegnerà il regno a Dio e Padre, conducendo dalla fede nella sua incarnazione alla visione della divinità quanti ora credono in lui.

Egli non lo perderà, ma entrambi si offriranno alla contemplazione come unico oggetto di godimento.

È necessario che Cristo regni ancora a lungo negli uomini, ancora incapaci di vedere con mente chiara e luminosa l'uguaglianza del Padre e del Figlio, proprio perché tali uomini possano capire anche ciò che egli ha assunto in proprio, cioè l'umiltà dell'incarnazione, finché non ponga tutti i nemici sotto i suoi piedi, finché, in altre parole, tutta la superbia del mondo non venga sottomessa all'umiltà della sua incarnazione.

10. A ragione è stato detto: Allora anche il Figlio sarà sottomesso a colui che gli ha sottomesso ogni cosa, ( 1 Cor 15,28 ) sebbene si riferisca all'assunzione dell'umanità, dato che la questione è sorta discutendo della risurrezione dei morti, è tuttavia giusto chiedersi se sia stato detto di lui solo, come capo della Chiesa , ( Ef 1,22; Ef 5,23 ) oppure del Cristo totale, che comprende insieme il corpo e le membra. Infatti quando dice ai Galati: La Scrittura non dice: E ai tuoi discendenti, come se si trattasse di molti ma: " alla tua discendenza ", come a uno solo, cioè Cristo, perché in questo passo non intendessimo soltanto Cristo, nato dalla vergine Maria, aggiunge: Tutti voi infatti siete uno in Cristo Gesù.

E se appartenete a Cristo, allora siete discendenza di Abramo. ( Gal 3, 16.28-29 )

E parlando ai Corinzi della carità, ricavando il paragone dalle membra del corpo, dice: Come infatti il corpo, pur essendo uno, ha molte membra e tutte le membra del corpo, pur essendo molte, sono un corpo solo, così anche Cristo. ( 1 Cor 12,12 )

Non ha detto: così anche di Cristo, ma: così anche Cristo, mostrando che si può giustamente parlare anche del Cristo totale, cioè il capo con il suo corpo, che è la Chiesa.

In molti passi della Scrittura troviamo che si parla di Cristo in modo da intenderlo con tutte le sue membra, alle quali è stato detto: Voi siete corpo di Cristo e sue membra. ( 1 Cor 12,27 )

Non è quindi assurdo intendere nel testo: Allora anche il Figlio sarà sottomesso a colui che gli ha sottomesso ogni cosa, che si tratta non solo del Figlio, capo della Chiesa, ma anche di tutti i santi insieme a lui, che sono uno in Cristo, una sola discendenza di Abramo.

La sottomissione poi si riferisce alla contemplazione dell'eterna verità, senza che al conseguimento della beatitudine si opponga alcun movimento dell'animo o qualche membro del corpo: Perché, nella vita in cui nessuno ama il proprio potere, Dio sia tutto in tutti.

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