La città di Dio |
Dunque quale differenza esiste fra demoni buoni e cattivi?
Il platonico Apuleio, che ne ha trattato in generale e ha parlato a lungo dei loro corpi aeriformi, non ha parlato affatto delle loro virtù spirituali.
Eppure ne sarebbero forniti se fossero buoni.
Non ha parlato dunque della causa della felicità, ma non ha potuto non dare una indicazione della loro infelicità.
Ha ammesso infatti che la loro mente, con la quale a sentir lui sono esseri ragionevoli, non essendo per lo meno penetrata e fortificata dalla virtù, cede alle irragionevoli passioni dell'animo e anche essa, come avviene nella condotta delle coscienze insipienti, è agitata in certo senso da tempestose passioni.
Le sue parole sull'argomento sono queste.
Riferendosi a questa categoria di demoni, i poeti, senza discostarsi dalla verità, sogliono immaginare che gli dèi siano nemici e amici di alcuni uomini, che favoriscano ed esaltino alcuni, sdegnino e deprimano altri, che sentano dunque compassione e collera, angoscia e gioia, che subiscano ogni mutamento dell'animo umano, che nel mutare del sentimento e nel mareggiare dello spirito siano agitati attraverso tutti i flutti dei pensieri.
Tutti questi turbamenti e tempeste sono ben lontani dalla serenità degli dèi celesti.3
Con queste parole egli ha voluto indicare, non v'è alcun dubbio, che non la parte inferiore dell'animo ma la mente stessa dei demoni, per cui sono esseri animati e ragionevoli, viene sconvolta dalla tempesta delle passioni come un mare agitato.
Non si possono quindi paragonare neanche ai saggi, perché questi resistono con la mente imperturbata a simili turbamenti della psiche dai quali non è esente l'umana debolezza, anche quando li provano a causa della soggezione della vita presente.
I saggi infatti non cedono ai perturbamenti nel considerare onesta o compiere un'azione che devii dal cammino della saggezza e dalla legge della giustizia.
I demoni, al contrario, sono simili non nel corpo ma nella condotta ai mortali insipienti e ingiusti, per non dire peggiori, in quanto più inveterati e incurabili a causa della pena dovuta; sono agitati nel mareggiare della mente stessa, come ha detto Apuleio, e in nessuna parte dello spirito trovano la fermezza nell'ideale di virtù con cui si resiste ai movimenti inquieti e disordinati.
Due sono le opinioni dei filosofi sui movimenti della psiche che i Greci chiamano πάθη, dei nostri alcuni, come Cicerone,4 perturbazioni, altri affezioni o affetti,5 altri infine, come Apuleio,6 con maggiore aderenza al greco, passioni.
Alcuni filosofi dunque affermano che simili perturbazioni o affezioni o passioni si verificano anche nel saggio, ma ridotte a misura e sottomesse alla ragione, in modo che il dominio della mente imponga in una determinata misura le leggi con cui siano ricondotte alla necessaria misura.
Coloro che la pensano così sono i platonici o anche aristotelici, dato che Aristotele, fondatore della scuola peripatetica, fu discepolo di Platone.
Altri invece come gli stoici insegnano che nel saggio non si devono assolutamente avere simili passioni.
Ma Cicerone nei libri su I limiti del bene e del male dimostra a costoro, cioè agli stoici, che si battono contro platonici e aristotelici più a parole che a concetti.7
Gli stoici infatti si rifiutano di considerare le passioni come un bene, ma le considerano come un benessere fisico e deteriore perché, secondo loro, bene per l'uomo è soltanto la virtù, come regola della morale che è esclusivamente nella coscienza.
Al contrario, i platonici le considerano un bene in senso largo e secondo il comune modo di esprimersi, ma le considerano un bene insignificante e di poco conto nel confronto con la virtù mediante la quale si vive rettamente.
Ne consegue che comunque siano chiamate dagli uni e dagli altri, o bene o benessere, sono valutate con eguale criterio e che sull'argomento gli stoici si prendono la soddisfazione di una terminologia nuova.
Mi sembra dunque che anche sul problema se si hanno nel saggio le passioni o ne sia del tutto immune facciano questione più di parole che di concetti.
A mio avviso la pensano proprio come platonici e peripatetici per quanto attiene al significato dei concetti e non al suono delle parole.
Ometto altre considerazioni che valgano a dimostrarlo per non farla lunga.
Mi limito a fare una osservazione che sia veramente evidente.
Nei libri intitolati Le notti attiche, Aulo Gellio, buon letterato e uomo di vasta cultura, narra di avere una volta viaggiato per mare con un noto filosofo stoico.
Gellio racconta diffusamente e con molti particolari l'episodio che io esporrò brevemente.8
Lo stoico, poiché la nave era sbattuta con grave pericolo dal mare in orribile tempesta, divenne pallido di paura.
Il fatto fu notato dai presenti che osservavano con molta curiosità, sebbene fossero in prossimità della morte, se il filosofo fosse turbato o no.
Passata la burrasca, appena la cessazione del pericolo offrì l'opportunità di parlare o anche di chiacchierare, uno dei viaggiatori, un ricco dissoluto dell'Asia, apostrofa il filosofo schernendolo perché era impallidito dalla paura, mentre egli era rimasto intrepido nella sciagura imminente.
E quegli gli diede la risposta di Aristippo, discepolo di Socrate, il quale, avendo in una circostanza simile udite le medesime parole da un individuo della medesima risma, rispose che l'altro giustamente non si era preoccupato per la vita di un dissoluto fannullone, lui invece doveva temere per la vita di Aristippo.
Avuta questa risposta il riccone se la batté.
Allora A. Gellio chiese al filosofo, non con l'intenzione di umiliarlo ma di apprendere, quale fosse il motivo della sua paura.
Ed egli per insegnare a un individuo profondamente preso dal desiderio di sapere, tirò subito fuori da un suo fagotto il libro dello stoico Epitteto.
Vi erano esposte le dottrine che corrispondevano più a fondo agli insegnamenti di Zenone e di Crisippo che, come sappiamo, furono i capi degli stoici.
Gellio dice di aver letto in quel libro la seguente dottrina stoica.
Le rappresentazioni, che essi chiamano fantasie, quando provengono da fenomeni terrificanti e paurosi, non dipendono da noi nel modo e nel tempo in cui si hanno nella coscienza.
È necessario quindi che turbino anche la coscienza del saggio, in modo che per un po' tremi di paura o sia afflitto dalla tristezza, nel senso che queste passioni precorrono la funzione della mente e della ragione; ma non per questo nella mente si ha l'accettazione del male, né le passioni si ritengono oneste o ad esse si consente.
Questo, secondo loro, dipende da noi e a loro avviso la differenza fra la coscienza del saggio e quella dell'insipiente consiste nel fatto che la coscienza dell'insipiente cede alle passioni applicando ad esse l'assenso della mente, mentre la coscienza del saggio, sebbene le tolleri perché ineluttabili, conserva con la fermezza dello spirito una vera e coerente valutazione delle cose che si devono desiderare o evitare secondo ragione. Ho esposto queste notizie non certo più esaurientemente di A. Gellio ma, a mio avviso, più brevemente e più chiaramente.
Egli dichiara di averle lette nel libro di Epitteto che a sua volta le avrebbe esposte in conformità agli insegnamenti degli stoici.
Se le cose stanno così, non si ha alcuna o una minima differenza fra la teoria degli stoici e quella degli altri filosofi sulle passioni e le perturbazioni dell'anima.
In definitiva gli uni e gli altri sostengono che la facoltà spirituale del saggio è immune dal loro dominio.
E forse gli stoici dicono che esse non si hanno nell'animo del saggio perché non offuscano con l'errore e non eliminano con la colpa la saggezza per cui è saggio.
Ma in verità le passioni, salva la serenità della saggezza, si hanno nell'animo del saggio a causa di quelli che gli stoici definiscono benessere o malessere, sebbene preferiscano non chiamarli bene e male.9
Certamente se quel filosofo non avesse tenuto in considerazione i beni che, come prevedeva, avrebbe perduto col naufragio, come sono la vita e il benessere fisico, non avrebbe avuto paura del pericolo al punto di esternarla col pallore.
Tuttavia poteva anche inibire il turbamento e tener fisso nella mente il criterio che la vita e la salute fisica, minacciate dalla violenza della tempesta, non sono beni che rendono buoni coloro che li hanno come fa la giustizia.
L'affermare poi che non si devono considerare un bene ma un benessere si deve attribuire a una contesa di parole e non alla interpretazione dei concetti.
Che differenza fa se siano chiamati con maggiore proprietà un bene ovvero un benessere se hanno timore e paura di esserne privi tanto lo stoico che il peripatetico?
Alla fin fine li denominano in maniera diversa ma li valutano alla stessa maniera.
Tutti e due infatti, se siano spinti dai rischi di questo bene o benessere a una colpa o a una cattiva azione, sicché non sia loro possibile conservarli in altra maniera, affermano che preferiscono perderli perché con essi si conserva e si rende incolume l'essere fisico, anziché commettere azioni con cui si viola la giustizia.
In tal modo la mente, in cui è incrollabile questo criterio, non permette che in se stessa le perturbazioni, anche se si verificano nella parte inferiore dell'anima, prendano il sopravvento contro la ragione.
Anzi essa le domina e non consentendo e piuttosto resistendo loro esercita l'impero della virtù.
Anche Virgilio descrive così Enea con le parole: La mente si mantiene immobile, invano scorrono le lacrime ( di Didone ).10
Non è necessario mostrare diffusamente e accuratamente che cosa insegni sulle passioni la sacra Scrittura da cui deriva la dottrina cristiana.
Essa infatti considera la mente sottomessa all'ordine e al soccorso di Dio e le passioni alla misura e al limite della mente perché siano volte a vantaggio della giustizia.
Inoltre nell'insegnamento cristiano non si chiede tanto se l'animo va in collera ma perché va in collera, ( Sal 2,5 ) non se è triste ma per quale motivo è triste, ( Sal 43,5; 2 Cor 7,8-11 ) non se teme ma che cosa teme. ( Sal 19,10; Fil 2,12; Rm 11,20 )
Non so infatti se si possa biasimare con un retto criterio l'andare in collera con chi pecca perché si ravveda, il rattristarsi con chi è triste perché si riscatti dalla tristezza, il temere per chi è in pericolo affinché non vi perisca.
Gli stoici sono soliti incolpare la compassione,11 ma quanto più onesto del timore del naufragio sarebbe stato nello stoico di Gellio il turbamento della compassione per riscattare un uomo.
Con molta proprietà, umanità e corrispondenza al sentimento delle anime compassionevoli ha parlato Cicerone a lode di Cesare con le parole: Nessuna delle tue virtù è così ammirevole e gradita come la compassione.12
E la compassione non è altro che la partecipazione del nostro sentimento alla infelicità degli altri perché con essa, se ci è possibile, siamo spinti ad andare loro incontro.
E questo movimento è utile alla ragione quando la compassione si offre in modo da assecondare la giustizia, tanto nel contribuire al bisognoso come nel perdonare il pentito.
Cicerone, illustre oratore, non ha esitato a considerarla virtù, mentre gli stoici non hanno difficoltà a inserirla fra i vizi.
Essi tuttavia, come ha dato a conoscere il libro dell'illustre stoico Epitteto, affermano in base agli insegnamenti di Zenone e Crisippo, iniziatori della scuola, che esistono le passioni nell'animo del saggio, sebbene lo dichiarino immune da tutti i vizi.
Ne consegue che non considerano vizi le passioni quando si verificano nel saggio in modo da non ostacolare la virtù e l'egemonia razionale della mente.
Quindi è identica la dottrina dei peripatetici, dei platonici e degli stessi stoici ma, come dice Cicerone, la controversia sulle parole da lungo tempo turba i Greci desiderosi più della polemica che della verità.13
Inoltre è opportuno chiedersi ancora se è proprio della debolezza della vita presente provare certi sentimenti anche in alcuni doveri morali.
Anche gli angeli puniscono senza collera coloro che devono punire secondo l'eterna legge di Dio, aiutano gli infelici senza partecipare alla loro infelicità e soccorrono senza timore le persone da loro amate che si trovano nei pericoli.
Eppure anche nei loro confronti, in base alla tecnica della lingua umana, vengono usate parole indicanti le passioni per denotare una certa somiglianza delle azioni e non la soggezione ai turbamenti.
Stando alle Scritture, Dio stesso va in collera eppure non è turbato da alcuna passione.
L'effetto della punizione, e non un suo affetto perturbatore, ha indotto a usare questa parola.
Rimandiamo frattanto la questione sugli angeli.
Esaminiamo per ora in che senso i platonici dicano che i demoni posti di mezzo fra gli dèi e gli uomini sono agitati dai flutti delle passioni.
Se infatti subissero tali movimenti con la mente che rimane sgombra da essi e li domina, Apuleio non direbbe che nel mutare del sentimento e nel mareggiare dello spirito sono agitati attraverso tutti i flutti dei pensieri.14
Quindi la loro mente stessa, cioè la parte superiore dello spirito, per cui sono esseri ragionevoli e in cui si hanno virtù e saggezza, seppure ne hanno, sarebbe dominata dalle passioni turbatrici delle parti inferiori dello spirito che dovrebbero essere sottomesse e dominate: la loro mente stessa, dico, come dichiara questo platonico, è agitata dal mareggiare delle passioni.
Dunque la mente dei demoni è resa schiava dalle passioni della libidine, del timore, dell'ira e dalle altre.
Quindi non v'è in essi una facoltà libera e partecipe di sapienza con cui esser graditi agli dèi e orientare gli uomini alla conformità con la legge morale.
La loro mente soggetta e oppressa dalle imperfezioni delle passioni volge all'inganno e alla mistificazione ogni potere razionale che ha per natura, e tanto più intensamente quanto maggiore è il desiderio di fare del male che la possiede.
Ma qualcuno potrebbe osservare che non di tutti i demoni ma soltanto di quelli che sono nel numero dei malvagi i poeti, non andando lontani dalla verità, immaginano che si comportino da dèi nemici e amici di alcuni uomini.
Proprio di loro ha detto Apuleio che nel mareggiare dello spirito si agitano attraverso tutti i flutti dei pensieri.
Ma come potremmo accettare questa spiegazione se egli con quell'affermazione intendeva fissare la posizione di mezzo, fra gli dèi e gli uomini, a causa del corpo aeriforme, non di alcuni cioè dei malvagi, ma di tutti i demoni?
Ha affermato appunto che i poeti mediante l'impunita licenza della poesia mitica costruiscono favole nel considerare dèi alcuni di questi demoni, nell'attribuire loro i nomi degli dèi e nel classificarli arbitrariamente come amici o nemici di alcuni uomini, perché considera gli dèi alieni dalla condotta dei demoni per la dimora nel cielo e per la pienezza della felicità.
Questo è dunque il favoleggiare dei poeti: considerare come dèi esseri che dèi non sono e farli combattere fra di loro con la denominazione di dèi a favore di uomini che essi con parzialità amano o odiano.
E sostiene che la favola non è lontana dalla verità perché, sebbene designati con i nomi di dèi che non sono, sono fatti agire come demoni quali sono. Inoltre dichiara che di questo stampo è la Minerva di Omero che interviene fra le schiere dei Greci per frenare Achille.15
Dichiara dunque che quella Minerva è una finzione poetica perché egli considera Minerva una dea e la pone, lontana dal trattare con gli uomini, nell'alta dimora dell'etere fra gli dèi che ritiene tutti buoni e felici.
Vi sarebbe dunque qualche demone fautore dei Greci e nemico dei Troiani come qualche altro fautore dei Troiani contro i Greci, che Omero ricorda col nome di Venere o di Marte.
Invece Apuleio li pone nelle dimore del cielo lontani da tali azioni.
E questi demoni avrebbero combattuto fra di loro a favore di coloro che amavano contro quelli che odiavano.
Apuleio ha confessato che i poeti hanno detto queste cose senza discostarsi dalla verità.
Le hanno infatti affermate nei confronti di esseri che, stando a lui, col mutare del sentimento e col mareggiare dello spirito, simile a quello degli uomini, si agitano attraverso tutti i flutti delle rappresentazioni.
Possono dunque provare l'amore e l'odio non a favore della giustizia, come fa la massa, che loro somiglia e che mantiene i propri favoritismi per gli uni contro gli altri nei confronti dei campioni del circo e dell'arena.16
Il filosofo platonico, come è evidente, si è dato pensiero affinché non si credesse che certe azioni, per il fatto che erano cantate dai poeti, non fossero compiute dai demoni posti in mezzo, ma dagli dèi stessi, giacché i poeti nel favoleggiare fanno i loro nomi.17
Ma forse è opportuno esaminare la stessa definizione dei demoni perché in essa Apuleio stabilendone i dati essenziali li ha inclusi tutti. In essa ha dichiarato che i demoni sono viventi nel genere, soggetti alle passioni nello spirito, ragionevoli per mente, aeriformi nel corpo, immortali nell'esistenza.18
Non ha incluso affatto fra le cinque caratteristiche elencate una per cui possa sembrare che essi abbiano in comune con gli uomini buoni un qualcosa che non sia nei malvagi.
Infatti parlando nel luogo conveniente degli uomini stessi come di esseri di rango inferiore perché terreni, ne elenca un po' più diffusamente le caratteristiche essenziali.
Prima aveva parlato degli dèi esistenti nel cielo.
Così dopo aver ricordato i due estremi del rango più alto e del più basso, per ultimo al terzo posto ha parlato dei demoni in quanto posti in mezzo.
Dice dunque: Quindi gli uomini capaci di pensiero, dotati di parola, dall'animo immortale, dall'organismo soggetto alla morte, dallo spirito soggetto al piacere e al dolore, dal corpo inerte e schiavo, dalla condotta morale diversa, dalla identica inclinazione all'errore, dalla inflessibile audacia, dalla invincibile speranza, dall'inutile affaticarsi, dalla fortuna destinata a finire, individualmente mortali, perenni universalmente come razza, che si sostituiscono a vicenda mediante la riproduzione della prole, dall'esistenza fuggevole, dalla saggezza tarda a venire, dalla morte pronta a venire, dalla vita incline al lamento, abitano la terra.19
Pur avendo elencato varie caratteristiche che sono proprie di moltissimi uomini, non ne ha taciuta una che riconosceva a pochi quando ha detto dalla saggezza tarda a venire.
Se l'avesse tralasciata, l'accurata esattezza di questa descrizione non avrebbe affatto determinato le proprietà della razza umana.
Nell'evidenziare poi la superiorità degli dèi, ha affermato che in essi è eminente la felicità che gli uomini vogliono conseguire con la sapienza.
Quindi se intendesse far capire che alcuni demoni sono buoni, nell'elencarne le caratteristiche, porrebbe una dote, mediante la quale s'intenda che hanno in comune o con gli dèi una determinata parte di felicità o con gli uomini una qualunque sapienza.
Al contrario non ha ricordato alcun loro bene col quale i buoni si distinguono dai malvagi.
E sebbene si sia astenuto dal dichiarare più apertamente la loro malvagità, non tanto per non offendere loro quanto per non oltraggiarne gli adoratori ai quali si rivolgeva, ha indicato tuttavia alle persone sagge che cosa debbano pensare di loro.
Infatti ha ritenuto gli dèi, che stando alla sua teoria sono tutti buoni e felici, del tutto immuni dalle passioni o, come egli dice, dai turbamenti dei demoni e li ha ritenuti eguali soltanto per l'immortalità dei corpi.
Al contrario, per quanto riguarda lo spirito, ha dichiarato con estrema chiarezza che i demoni non sono simili agli dèi ma agli uomini, e non in considerazione del bene della sapienza, di cui anche gli uomini possono esser partecipi, ma del turbamento delle passioni che domina gli insipienti e i malvagi, ma viene dominato dai sapienti e dagli onesti al punto che preferiscono non provarlo che superarlo.
Se avesse voluto far capire che i demoni hanno in comune con gli dèi non l'immortalità del corpo ma dello spirito, non avrebbe negato agli uomini la comunanza di questa prerogativa, giacché come platonico ritiene indubbiamente che lo spirito umano è immortale.
E per questo nel determinare le caratteristiche degli uomini ha affermato che sono viventi dallo spirito immortale e dall'organismo soggetto alla morte.
Pertanto se gli uomini non hanno in comune con gli dèi l'immortalità perché sono mortali nel corpo, certamente i demoni l'hanno in comune perché nel corpo sono immortali.
Che razza di intermediari tra uomini e dèi sono i demoni, tanto che per loro mezzo gli uomini debbano aspirare all'amicizia con gli dèi, se la parte più perfetta in un vivente, cioè lo spirito, l'hanno meno perfetta assieme agli uomini e la parte meno perfetta, cioè il corpo, l'hanno più perfetta assieme agli dèi?
Un vivente, cioè un essere animato, è composto di anima e di corpo e di essi l'anima, anche se difettosa e infiacchita, è certamente più perfetta del corpo, anche del corpo più sano e vigoroso, poiché la sua natura è più eccellente e non può essere ritenuta inferiore al corpo a causa delle imperfezioni.
Anche l'oro grezzo vale più dell'argento e del piombo per quanto raffinati.
Invece questi intermediari fra dèi e uomini, giacché mediante la loro interposizione le cose umane si congiungono alle divine, hanno il corpo immortale assieme agli dèi e lo spirito imperfetto assieme agli uomini, come se la religione, con cui gli uomini intendono unirsi mediante i demoni agli dèi, sia collocata nel corpo e non nello spirito.
E quale malvagità o pena tengono sospesi questi intermediari, falsi e ingannatori, per così dire a testa all'ingiù?
Hanno infatti con gli esseri più alti la parte più bassa del vivente, cioè il corpo, e con quelli più bassi la parte più alta, cioè lo spirito, e sono uniti con la parte che è schiava agli dèi che stanno in cielo e sono infelici nella parte che è dominatrice con gli uomini che stanno sulla terra.
Il corpo infatti è schiavo, come ha detto anche Sallustio: Possediamo principalmente il dominio dello spirito e la sottomissione del corpo.
E aggiunge: L'uno ci è comune con gli dèi, l'altro con i bruti.20
Parlava degli uomini che hanno un corpo mortale come i bruti.
I demoni invece, che i filosofi ci hanno rimediato come intermediari fra noi e gli dèi, possono certamente dire parlando del loro spirito e del loro corpo: "L'uno ci è comune con gli dèi, l'altro con gli uomini".
Ma essi, come ho detto, quasi sospesi alla rovescia con una corda, hanno il corpo schiavo assieme agli dèi felici e lo spirito dominatore assieme agli uomini infelici, posti in alto con la parte bassa e in basso con la parte alta.
Quindi anche nell'ipotesi che abbiano l'eternità assieme agli dèi, perché il loro spirito non viene sciolto dal corpo con la morte, come avviene dei viventi terrestri, non si deve ritenere che il loro corpo sia eterno portatore di spiriti gloriosi ma carcere eterno di spiriti dannati.
Plotino vissuto nei tempi più vicini a noi viene lodato per essersi distinto nella conoscenza di Platone.21
Egli parlando dello spirito umano dice: Il Padre misericordioso costruiva per loro un carcere destinato a finire.22
Quindi ha sostenuto che il fatto stesso che gli uomini sono mortali nel corpo è dovuto alla bontà di Dio padre, in modo che gli uomini non fossero legati per sempre alla infelicità di questa vita.
La malvagità dei demoni è stata da lui giudicata indegna di questa bontà perché l'infelicità di uno spirito soggetto alle passioni ha avuto un corpo immortale e non mortale come gli uomini.
Sarebbero più fortunati degli uomini se avessero come loro un corpo mortale e uno spirito sereno come gli dèi.
Sarebbero invece eguali agli uomini se avessero ottenuto di avere come loro, assieme allo spirito infelice, per lo meno un corpo mortale.
Praticando la pietà sarebbero almeno dopo la morte liberi dalla sofferenza.
Nello stato attuale invece non sono più felici degli uomini, ma a causa della infelicità dello spirito sono ancora più infelici in considerazione della immortalità del corpo.
Dicendo esplicitamente che i demoni sono immortali, Apuleio ha voluto far comprendere che da demoni non diventano dèi, perché non possono rendersi migliori con una qualche disciplina religiosa o sapienziale.
Apuleio afferma inoltre che anche l'anima umana è un demone e che gli uomini divengono Lari se hanno fatto del bene, fantasmi o spettri se hanno fatto del male e che sono considerati dèi Mani se è incerta la loro qualificazione.23
E chi non vedrebbe, purché rifletta un tantino, quale voragine spalancano con questa teoria al dilagare dell'immoralità?
nfatti gli uomini, ritenendo che diverranno spettri o anche dèi Mani, sebbene siano stati iniqui, divengono tanto peggiori quanto sono più desiderosi di far del male al punto da convincersi che per far del male saranno invocati dopo la morte con sacrifici propri di onori divini.
Dice infatti che gli spettri sono uomini divenuti demoni malvagi.
Ma ne sorge un altro problema.
Egli, confermando che anche lo spirito umano è un demone, dichiara che in greco gli uomini felici sono appunto chiamati εύδαίμονες perché sono spiriti buoni, cioè demoni buoni.24
Indice |
3 | Apuleio, De deo Socr. 12 |
4 | Cicerone, De fin. 3, 10, 35; Tuscul. 3, 4, 7; 4, 5, 10 |
5 | Quintiliano, Instit. orat. 6, 2, 20 |
6 | Apuleio, De deo Socr. 12 |
7 | Cicerone, De fin. 4, 12, 30. 28, 79; 5, 8, 22; Tuscul. 4, 4, 8 |
8 | Aulo Gellio, Noct. att. 19, 1; Agostino, Quaest. in Heptat. 1, 30 |
9 | Cicerone, De fin. 3, 21, 69 |
10 | Virgilio, Aen. 4, 449 |
11 | Agostino,
De civ. Dei 14, 8, 9; Epitteto, Man. 16 |
12 | Cicerone, Pro Ligorio 12, 37 |
13 | Cicerone, De oratore 1, 11, 47 |
14 | Apuleio, De deo Socr. 12 |
15 | Apuleio, De deo Socr. 11; Omero, Il., 1, 192-198 |
16 | Agostino,
Enarr. in ps. 40, 8-9;
54, 10; Giamblico, De myst. 1, 15-19; vedi sopra 8, 14, 1 |
17 | Apuleio, De deo Socr. 12 |
18 | Apuleio, De deo Socr. 13 |
19 | Apuleio, De deo Socr. 4 |
20 | Sallustio, Catil. 1, 2 |
21 | Porfirio, Vita Plot. 15; Agostino, C. Acad. 3, 18, 41: NBA, III/1 |
22 | Plotino, Enn. 4, 3, 12 |
23 | Apuleio, De deo Socr. 15 |
24 | Apuleio, De deo Socr. 15; Plotino, Enn. 1, 2, 6; 3, 4, 6 |