La città di Dio |
Ho trattato i problemi assai difficili della nostra comparsa nel tempo e dell'origine del genere umano.
Ora lo svolgimento regolare richiede la discussione da me stabilita sulla caduta del primo uomo, anzi dei primi uomini e sull'avvenimento originario della morte umana.
Dio infatti non aveva creato gli uomini nella condizione degli angeli, cioè che per natura non potessero morire anche se avessero peccato.1
L'immortalità e la felice eternità propria degli angeli, senza la soggezione alla morte, sarebbero derivate dall'adempimento del dovere della obbedienza e al contrario la morte li avrebbe colpiti, come giusta condanna, se avessero disobbedito.
Ne ho parlato anche nel libro precedente.2
Osservo che si deve trattare un po' più esaurientemente il genere di morte.
Sebbene infatti l'anima umana sia secondo verità considerata immortale, ha tuttavia anche essa un certo suo morire.
È considerata immortale perché in una dimensione sua per quanto limitata non cessa di vivere e intendere.
Il corpo invece è soggetto alla morte perché può essere privato della vita e non vive in alcun senso da se stesso.
La morte dell'anima avviene quando Dio l'abbandona, come quella del corpo quando lo abbandona l'anima.
Dunque si ha la morte dell'una e dell'altra componente, cioè di tutto l'uomo, quando l'anima abbandonata da Dio abbandona il corpo.
In tale condizione essa non vive di Dio né di lei il corpo.
A una simile morte fa seguito quella che l'autorità della Scrittura definisce la seconda morte. ( Ap 2,11; Ap 21,8 )
La indicò il Salvatore quando disse: Temete colui che ha il potere di condannare alla geenna il corpo e l'anima. ( Mt 10,28 )
Essa non avviene prima che l'anima sia così fortemente unita al corpo che non siano disgiunti da alcuna separazione.
Perciò può sembrare incredibile l'affermazione che il corpo è stroncato da una morte per cui non è abbandonato dall'anima, ma è nei tormenti dotato di vita e sensitività.
Infatti in riferimento all'ultima pena che dura eternamente, di cui a suo tempo si dovrà trattare più esaurientemente,3 giustamente si parla di morte dell'anima perché non vive di Dio.
Ma in qual senso si parla della morte del corpo se vive dell'anima?
Non altrimenti infatti esso potrebbe subire i tormenti sensibili che avverranno dopo la risurrezione.
Ma c'è il problema che se la vita è un bene, la sofferenza un male, non si può parlare della vita del corpo se in esso l'anima non è causa del vivere ma del soffrire.
Dunque l'anima vive di Dio quando conduce una vita buona, e non può vivere bene se Dio non opera in lei il bene.
Il corpo invece vive dell'anima quando essa vive nel corpo, sia che viva o non viva di Dio.
Infatti la vita dei malvagi nei corpi non è delle anime ma dei corpi.
La possono comunicare loro le anime, anche se morte, ossia abbandonate da Dio, perché non cessa una loro propria vita, per quanto limitata, da cui sono immortali.
Nella condanna definitiva l'uomo non perde la sensitività.
Tuttavia poiché essa non è sorgente di diletto nell'attività né di distensione nello stato di quiete, ma di dolore nella pena, giustamente è stata considerata morte anziché vita.
È stata inoltre definita seconda perché avviene dopo la prima, con cui si verifica la secessione di esseri strettamente uniti, cioè di Dio e dell'anima come dell'anima e del corpo.
Della prima morte del corpo si può dire che è buona per i buoni, cattiva per i cattivi.
La seconda senza dubbio non è buona per alcuno poiché non è dei buoni.4
Si profila un problema che non si può eludere.
Davvero la morte, da cui l'anima è separata dal corpo, è buona per i buoni e se è così, come si potrà dimostrare che anche essa è pena del peccato?
Certo se i primi uomini non avessero peccato, non l'avrebbero subita.
Come dunque può essere buona per i buoni se non poteva incogliere che ai cattivi?5
Ancora: se poteva incogliere solo ai cattivi, non dovrebbe essere buona per i buoni ma non esservi affatto.
Perché infatti ci sarebbe una pena per soggetti in cui non si avessero delitti da punire?
Perciò si deve ammettere che i primi uomini furono così conformati che, se non avessero peccato, non avrebbero subito alcun genere di morte.
Però essi come primi peccatori furono colpiti da una morte tale che ogni individuo proveniente dalla loro discendenza fu soggetto alla medesima pena.
Da loro non poteva provenire un essere diverso da quel che essi erano stati.
La condanna che seguì alla gravità della colpa deteriorò la natura dell'uomo.
Così la condizione che precedette per condanna nei progenitori seguì anche per natura nei discendenti.
Non è eguale la discendenza dell'uomo dall'uomo e la provenienza dell'uomo dalla polvere.
La polvere infatti fu materia per creare l'uomo; l'uomo invece è padre nel generare l'uomo.
La terra non è la medesima cosa che la carne sebbene la carne sia stata tratta dalla terra e la specie umana dell'uomo padre è la medesima che nell'uomo figlio.
Nel primo uomo dunque vi era tutto il genere umano che mediante la donna doveva passare nella discendenza quando quella coppia di coniugi ricevette il divino verdetto della propria condanna.
E ciò che l'uomo divenne, non quando fu creato, ma quando peccò e fu punito, lo trasmise, per quanto riguarda l'inizio del peccato e della morte.
L'uomo non fu ridotto dal peccato e dalla condanna alla menomazione dell'intelligenza e debolezza del corpo che osserviamo nei bimbi.
Dio volle che queste condizioni infantili si adeguassero alla prima età dei piccoli degli animali, perché aveva degradato i progenitori alla vita e morte delle bestie.
È stato scritto infatti: L'uomo, quando era nella piena dignità, non comprese, si comportò come le bestie prive d'intelligenza e divenne simile a loro. ( Sal 49,13 )
Anzi osserviamo che i bimbi sono più deboli dei piccoli degli animali nell'uso e movimento delle membra e nella facoltà di conseguire e di evitare.
Sembrerebbe che il vigore dell'uomo si levi con tanta superiorità sugli altri animali allo stesso modo che una saetta, tirata indietro mentre si tende l'arco, potenzia il proprio slancio.
Dunque, dicevamo, il primo uomo non precipitò o fu spinto in condizioni infantili da una colpevole pretesa e da una giusta condanna,6 ma in lui l'umana natura fu viziata e mutata al punto da subire nelle membra la contrastante ribellione delle inclinazioni e da essere vincolato dalla necessità di morire.
Così generò ciò che egli era divenuto per la colpa e la pena, cioè individui soggetti al peccato e alla morte.
Se dunque i bimbi vengono sciolti dal vincolo del peccato mediante la grazia di Cristo Mediatore, possono subire soltanto la morte che separa l'anima dal corpo, ma non soggiacciono alla seconda che comporta la pena eterna, perché liberati dal debito del peccato.
Il fatto che la subiscono, se anche essa è pena del peccato, può turbare qualcuno, poiché la loro soggezione alla colpa viene annullata mediante la grazia.
La questione è stata trattata e risolta in un'altra mia opera che intitolai: Il battesimo dei piccoli.
In essa fu data la spiegazione che, sebbene tolta la soggezione al peccato, viene conservata per l'anima la prova della separazione dal corpo, poiché se l'immortalità del corpo seguisse immediatamente al sacramento della rigenerazione, verrebbe infiacchita la fede.
Ed essa è fede quando si attende nella speranza ciò che non si percepisce nella realtà. ( Eb 11,1 )
Col vigore combattivo della fede, soltanto nell'età più adulta doveva essere superato il timore perfino della morte.
Risultò soprattutto nei santi martiri.
Non si avrebbero certamente né vittoria né gloria di questo combattimento, che in definitiva non sarebbe combattimento, se immediatamente dopo il lavacro della rigenerazione ( Tt 3,5 ) i rigenerati non potessero subire la morte del corpo.
Ognuno piuttosto si recherebbe a ricevere la grazia di Cristo con i piccoli da battezzare per sfuggire alla morte.
Così la fede non sarebbe apprezzata in vista di un premio al di là dell'esperienza, anzi non sarebbe neanche fede, se cercasse e ricevesse immediatamente la ricompensa della sua azione salutare.
Ora con una più grande e straordinaria grazia del Salvatore la pena del peccato si è volta a favore della rettitudine.
Allora infatti fu detto all'uomo: Morirai se peccherai; ( Gen 2,17 ) ora si dice al martire: Muori per non peccare.
Allora fu detto: Se trasgredirete il comando, morirete; ora si dice: Se rifiuterete la morte, trasgredirete il comando.
Ciò che allora si doveva temere per non peccare, ora si deve accettare affinché non si pecchi.
Così per dono dell'ineffabile misericordia di Dio anche la pena della colpa si trasforma in strumento di virtù e diviene merito del giusto anche il castigo del peccatore.
Allora si ottenne la morte col peccare, ora si raggiunge la giustizia col morire.
Ma soltanto nei santi martiri, ai quali dal persecutore si propone una scelta, o che abbandonino la fede o che subiscano la morte.
I giusti infatti, perché credono, preferiscono soffrire ciò che i primi peccatori hanno sofferto perché non credettero.
Se essi non avessero peccato, non sarebbero morti; questi peccheranno, se non muoiono.
Dunque quelli sono morti perché peccarono, questi non peccano perché muoiono.
Avvenne per la colpa dei primi uomini che si giungesse alla condanna, avviene mediante la condanna dei martiri che non si giunga alla colpa.
E questo non perché la morte è diventata un bene sebbene prima fosse un male.
È Dio che ha conferito alla fede tanta grazia che la morte, evidentemente opposta alla vita, divenisse mezzo col quale tornare alla vita.
L'Apostolo, volendo evidenziare quale vigore ha per nuocere il peccato senza il soccorso della grazia, non esitò ad affermare che la legge stessa, con cui è vietato il peccato, è un potere del peccato.
Pungiglione, dice, della legge è il peccato e potere del peccato è la legge. ( 1 Cor 15,56 )
Assolutamente vero.
Il divieto infatti aumenta lo stimolo all'azione disonesta, se l'onestà non è apprezzata al punto che la brama del piacere sia superata dalla sua attrattiva.
Ma soltanto la grazia divina viene in aiuto perché abbia pregio e attrattiva la vera onestà.
Affinché la legge, definita potere del peccato, non fosse considerata un male, l'Apostolo, trattando la medesima questione in un altro testo, scrive: Dunque la legge è santa e il precetto santo, giusto e buono.
Tuttavia ciò che è buono è divenuto morte per me? No.
Ma il peccato, per manifestarsi come peccato, ha causato a me la morte mediante il bene, affinché mediante il precetto il peccatore o il peccato siano al di là di ogni misura. ( Rm 7,12-13 )
Ha detto: al di là di ogni misura, perché si aggiunge la disumanizzazione quando per l'aumento della inclinazione al peccare viene disprezzata la legge stessa.
Ma perché ho pensato a citarvi questo testo?
Per la verità, la legge non diviene un male quando accresce la brama di chi pecca, così la morte non diviene un bene quando accresce la gloria di chi soffre.
La legge infatti è trasgredita per disonestà, e produce i trasgressori, la morte è accettata per la verità e produce i martiri.
Perciò la legge è un bene perché è divieto del peccato, la morte un male perché tributo del peccato; ( Rm 6,23 ) ma come la disonestà nuoce non solo ai disonesti ma anche agli onesti, così l'onestà giova non solo agli onesti ma anche ai disonesti.
Ne consegue che i cattivi usano male della legge, anche se è un bene, e i buoni muoiono bene, anche se la morte è un male.
La morte fisica in se stessa considerata, cioè la separazione dell'anima dal corpo, quando la subiscono coloro che sono considerati in punto di morte, non è un bene per nessuno.7
La violenza stessa, con cui viene separato ciò che nel vivente era intimamente congiunto, finché dura, causa uno stato di coscienza tormentoso e contro natura, fino al momento in cui scompare la coscienza derivante dalla stessa unione dell'anima e del corpo.
Talora un colpo apoplettico o il distacco improvviso dell'anima impediscono tutto quel tormento e non permettono che si subisca perché lo previene la rapidità.
Qualunque nei morienti sia lo stato che con penosa coscienza strappa via la coscienza, se si sopporta con pietà e fede, accresce il merito della pazienza ma non elimina il significato di pena.
Poiché dunque la morte indubbiamente è la pena di chi nasce dalla discendenza ininterrotta del primo uomo, se si subisce nella pietà e giustizia, diviene merito per rinascere; e pur essendo la morte retribuzione del peccato, talora ottiene che non venga retribuito nulla al peccato.
La morte che qualsiasi persona, anche senza aver ricevuto il lavaggio di rigenerazione, subisce per rendere testimonianza a Cristo, ha efficacia per la remissione dei peccati come se fossero rimessi al fonte battesimale.
Gesù ha detto: Se qualcuno non avrà la rinascita nell'acqua e nello Spirito non entrerà nel regno dei cieli. ( Gv 3,5 )
Ma in un altro testo fece eccezione per i martiri, perché non meno in generale disse: A chi mi avrà reso testimonianza davanti agli uomini anche io renderò testimonianza davanti al Padre mio che è nei cieli. ( Mt 10,32 )
In un altro passo dice: Chi perderà la sua anima per me, la ritroverà. ( Mt 16,25 )
Per questo motivo è stato scritto: Preziosa agli occhi del Signore è la morte dei suoi santi. ( Sal 116,15 )
Nulla quindi è più prezioso della morte per cui sono rimessi i peccati e sovrabbondano i meriti.
Non hanno infatti molto merito coloro che non potendo rimandare la propria morte sono stati battezzati e ricevuta la remissione dei peccati sono usciti da questa vita.
Maggiore benemerenza hanno coloro che, pur potendo rimandare la morte, hanno scelto di terminare la vita rendendo testimonianza a Cristo che rinnegandolo giungere al battesimo.
Con esso, se l'avessero rinnegato, sarebbe stata loro rimessa anche questa colpa di aver rinnegato Cristo per timore della morte.
Col battesimo fu rimesso anche l'orrendo delitto di coloro che uccisero il Cristo.
Ma senza la ricchezza di grazia dello Spirito che spira dove vuole ( Gv 3,8 ) non avrebbero potuto amare Cristo al punto da non rinnegarlo in così grave rischio della morte e malgrado la grande fiducia nell'annullamento della pena.
Si ha dunque l'inclita morte dei martiri, per i quali è stata preordinata e prestabilita la morte del Cristo con tanta efficacia che per raggiungerlo non hanno esitato a consacrare la propria morte.
Ed essa ha dimostrato appunto che la condizione anteriormente stabilita per pena del peccato fu ricondotta a risultati tali che ne derivasse un più ricco rendimento di giustizia.
La morte dunque non deve essere considerata un bene, giacché non si è volta a vantaggio così distinto per suo influsso ma con l'aiuto divino.
Essa quindi, prestabilita perché nel timore di lei non si commettesse il peccato, ora si deve prestabilire di accettarla affinché non si commetta il peccato e una volta commesso sia rimesso e sia resa alla giustizia la palma dovuta alla sua grande vittoria.
Se consideriamo più attentamente, anche quando con sincerità e onore si muore per la verità, ci si garantisce dalla morte.
Infatti se ne accetta una parte affinché non sia totale e non si aggiunga la seconda che non ha fine.
Si accetta infatti la separazione dell'anima dal corpo affinché essa non sia separata dal corpo quando Dio è separato da lei.
Così avvenuta la prima morte di tutto l'uomo, incoglie la seconda che è eterna.
Perciò la morte, come ho detto,8 mentre i morienti la subiscono e mentre essa attua il loro morire, non è un bene per nessuno, ma si tollera con dignità per conservare o raggiungere un bene.
Se poi si considera in quelli che sono già morti, non è assurdo dire che è un male per i cattivi e un bene per i buoni.
Le anime dei buoni separate dal corpo sono infatti nella pace e quelle dei cattivi subiscono la pena, fino a che il corpo delle prime risorga alla vita eterna e quello delle altre alla morte eterna che è considerata la seconda morte.
Il tempo in cui le anime separate dal corpo sono nel bene o nel male si deve considerare dopo la morte o nella morte?
Se è dopo la morte, non già la morte che è trascorsa nel passato, ma la vita che viene dopo di essa è un bene o un male per le anime.
La morte era un male per esse quando avveniva, cioè quando la subirono nella esperienza del morire, poiché ad essa era congiunta una emozione penosa e opprimente.
Di questo male i buoni traggono profitto per il bene.
Ma in qual senso la morte ormai trascorsa è un bene o un male se non c'è più?
Se consideriamo ancor più accuratamente, ci sembrerà evidente che neanche quella è morte la quale, come abbiamo detto, genera in coloro che stanno morendo una emozione penosa e opprimente.
Finché essi sono coscienti vivono e se vivono ancora, si deve dire che si trovano prima della morte e non nella morte.
Essa, quando arriva, elimina ogni percezione che, al suo avvicinarsi, è opprimente.
Perciò è difficile spiegare il nostro modo di concepire coloro che stanno morendo, perché non sono morti ma sono sconvolti da un ultimo mortale tormento.
Però rettamente si dice che stanno morendo perché quando arriva la morte che li sovrasta sono considerati morti e non morienti.
Non sta per morire se non chi vive.
Difatti, sebbene al margine estremo della vita, come quelli di cui si dice che stanno rendendo l'anima, un individuo, se non è ancora privo dell'anima, è in vita.
È a un tempo nella morte e nella vita, perché si accosta alla morte e si discosta dalla vita.
Tuttavia è ancora in vita perché l'anima è nel corpo, non ancora nella morte perché non ha ancora lasciato il corpo.
E quando l'avrà lasciato anche allora non sarà nella morte ma dopo morte.
Né è possibile dire quando è nella morte.
Infatti non si può dare il morente, se non possono coesistere morente e vivente.
Finché l'anima è nel corpo, non si può negare che si ha un vivente.
E se si preferisce considerarlo morente, perché nel suo corpo si sta verificando che muore e nessuno può essere contemporaneamente vivente e morente, non so quando è vivente.
Infatti dal momento in cui un individuo comincia ad essere nel corpo che dovrà morire, sempre si sta verificando in lui il sopraggiungere della morte.
La sua soggezione al divenire per tutto il tempo della vita, se vita può esser considerata, opera che si arrivi alla morte.
Non v'è alcuno che non le sia più vicino l'anno dopo che l'anno prima, domani che oggi e oggi che ieri, poco dopo che ora e ora che poco prima.
Tutto il tempo che si vive si defalca dalla dimensione del vivere e ogni giorno diviene sempre meno quel che rimane.
In definitiva il tempo di questa vita non è altro che una corsa alla morte, perché a nessuno è concesso di soffermarvisi un tantino o di camminare più lentamente, ma tutti sono incalzati da un eguale impulso al muoversi e sospinti da una non diversa proporzione nell'avvicinarsi.
Anche l'individuo che ha avuto vita breve non ha trascorso il giorno più velocemente di chi la ha avuta più lunga ma, sebbene gli eguali spazi di tempo fossero con egual misura sottratti ad ambedue, uno ha avuto più vicino, l'altro più lontano il traguardo a cui con velocità non dissimile tutti e due correvano.
Una cosa è aver percorso un cammino più lungo e un'altra camminare più adagio.
Chi dunque fino alla morte percorre spazi di tempo più lunghi non cammina più lentamente, ma compie un viaggio più lungo.
Supponiamo che l'uomo comincia a morire, cioè ad essere nella morte dal momento in cui comincia a verificarsi la morte, cioè ad accorciarsi la vita, poiché quando essa con l'accorciarsi sarà finita, egli sarà dopo la morte non nella morte.
Nell'ipotesi egli è nella morte dal momento in cui inizia ad essere in questo corpo.9
Difatti altro non si fa nei singoli giorni ore e minuti fino a che sia esaurita la logorata condizione di morte che si conduceva e cominci il tempo dopo morte il quale, mentre veniva detratta la vita, era nella morte.
Dunque mai l'uomo è in vita da quando è in questo corpo più morente che vivente, se non può essere contemporaneamente in vita e in morte.
O piuttosto è nello stesso tempo in vita e in morte, cioè nella vita in cui vive fino a che non sia del tutto detratta, nella morte perché muore già mentre la vita viene detratta.
Se non è in vita, non si ha la dimensione che si detrae fino al suo intero esaurirsi.
Se poi non è nella morte, non v'è l'esaurirsi della vita.
Infatti non illogicamente si dice dopo morte quando la vita è interamente detratta al corpo giacché la vita, mentre veniva detratta, era morte.
Se l'uomo, con la detrazione totale della vita, non è nella morte ma dopo morte, soltanto mentre si detrae sarà nella morte.
Ma è assurdo dire che l'uomo è già nella morte prima che giunga alla morte.
A quale stato allora si avvicina trascorrendo il tempo della propria vita se è già nella morte?
È poi del tutto irragionevole dire che è contemporaneamente vivente e morente, come non può essere contemporaneamente sveglio e dormiente.
Si deve dunque indagare quando sarà morente.
Prima che giunga alla morte, non è morente ma vivente, quando vi giungerà sarà morto non morente.
Quella condizione è ancora prima della morte, questa ormai dopo la morte.
Quando dunque nella morte? Si avrebbe il morente se nel dire che sono tre le condizioni: "prima della morte, nella morte, dopo la morte", s'intendesse attribuirle separatamente ai tre soggetti: "vivente, morente e morto".
È assai difficile circoscrivere il limite di tempo in cui un tale sia morente, cioè nella morte, e perciò non sia vivente perché lo è prima della morte, né morto perché lo è dopo la morte, ma morente, cioè nella morte.
Finché l'anima è nel corpo, soprattutto se permane la facoltà sensitiva, indubbiamente l'uomo, il quale è composto di anima e di corpo, ancora vive.
Si deve perciò considerare prima della morte, non nella morte.
Quando invece l'anima si sarà allontanata e avrà sottratto totalmente la facoltà sensitiva, l'uomo è dopo la morte ed è considerato morto.
Scompare fra l'uno e l'altro lo stato per cui è morente, cioè nella morte perché, se ancora vive è prima della morte, se ha cessato di vivere è dopo morte.
Dunque non si può mai ritenere che è morente, cioè nella morte.
Allo stesso modo nella successione del tempo si attende il presente e non si ottiene, perché non v'è estensione attraverso la quale si passa dal futuro al passato.10
Si deve dunque indagare in base a tale considerazione se ha un senso la morte fisica e cioè se avviene, quando avviene, qual è in un soggetto e in quale un soggetto non può trovarsi.
Se si vive infatti, ancora non v'è perché si è prima della morte e non nella morte, se si è cessato di vivere, non v'è più perché si è dopo la morte e non nella morte.
Ma ancora se non v'è morte né prima né dopo un certo avvenimento, che cosa è quel che si dice prima o dopo la morte?
È un discorso vuoto se la morte non è un qualche cosa.
E magari avessimo agito con onestà nel paradiso terrestre affinché realmente non avvenisse la morte.
Adesso non solo avviene, ma è tanto spaventosa che non si può spiegare a parole né in alcun modo evitare.
Esprimiamoci dunque secondo l'uso, perché altrimenti non ci comprendiamo, e diciamo avanti la morte prima che essa avvenga.
È stato scritto a proposito: Non lodare alcun uomo prima della sua morte. ( Sir 11,30 )
Quando è avvenuta, possiamo dire pure: "Dopo la morte di questo o quel tale è avvenuto questo o quel fatto".
Anche del presente possiamo parlare come ci è possibile.
Si dice infatti: "Nel morire ha fatto testamento", e: "Nel morire ha lasciato a questi e a quelli questo e quel bene".
In verità non poteva farlo assolutamente se non in vita e lo ha fatto certamente prima della morte, non nella morte.
Possiamo parlare anche come parla la sacra Scrittura, la quale non esita a dire che anche i morti sono non dopo morte ma nella morte, come in questo passo: Non è nella morte chi si ricorda di te. ( Sal 6,6 )
Infatti giustamente si dice che sono nella morte finché non risorgono.
Allo stesso modo si dice che un tale è nel sonno finché non si sveglia, sebbene siano considerati dormienti coloro che sono nel sonno ma non nel medesimo senso morenti coloro che sono già morti.
Non muoiono tuttora coloro che, in attinenza alla morte fisica di cui stiamo parlando, sono già separati dal corpo.
Ma è proprio questo concetto che, come ho detto, non si può spiegare a parole, cioè in qual senso si dice che i morenti vivono e che i morti anche dopo morte sono nella morte.
Non ha senso il dire dopo la morte se sono ancora nella morte, tanto più che non li consideriamo morenti nel senso in cui consideriamo dormienti coloro che sono nel sonno, infermi coloro che sono nell'infermità, dolenti coloro che sono nel dolore, viventi coloro che sono in vita.
Dei morti invece, prima che risorgano, si dice che sono nella morte e tuttavia non possono essere considerati morenti.
Penso quindi che non senza motivo e ragionevolezza è avvenuto, non per umana riflessione ma forse per giudizio divino, che nella lingua latina neanche i grammatici siano stati in grado di coniugare il verbo moritur con la regola con cui sono coniugati gli altri verbi.
Infatti dal verbo oritur deriva il passato ortus est ed anche gli altri deponenti sono coniugati col participio passato.
Se cerchiamo invece le forme del passato di moritur, si suole rispondere mortuus est, cioè con la lettera u raddoppiata.
Quindi si dice mortuus come fatuus ( sciocco ), arduus ( ripido ), cospicuus ( notevole ) e simili che non hanno il passato ma, essendo nomi aggettivi, si declinano senza tempo.
Invece quasi a coniugare quella parola che è inconiugabile, a posto del participio passato viene usato un nome aggettivo.
È avvenuto quindi quasi per correlazione che come il suo significato non si può avverare di fatto, così il verbo non si può coniugare nel discorso.
Si può invece avverare con l'aiuto della grazia del nostro Redentore che si possa declinare almeno la seconda morte.
Essa è più grave e il peggiore dei mali perché non avviene con la separazione dell'anima dal corpo ma nel congiungimento di entrambi per la pena eterna.
In quello stato al contrario non si avranno uomini prima e dopo morte, ma sempre nella morte, perciò mai viventi, mai morti, ma morenti senza fine.
Giammai per l'uomo vi sarà nella morte uno stato peggiore di quello in cui la morte stessa sarà senza morte.
Indice |
1 | Teofilo d'Antiochia, Ad Aut. 2, 24-27 |
2 | Vedi sopra 12,21 |
3 | Vedi appresso 21,9-11 |
4 | Agostino, Serm. 65, 3, 4 - 7, 8 |
5 | Girolamo, Epp. 23; 39 |
6 | Agostino, De pecc. mer. et rem. 1, 36, 67s |
7 | Vedi appresso 19,6,5 |
8 | Vedi sopra 13,6 |
9 | Seneca, Consol. ad Marciam, 21, 6 |
10 | Agostino, Conf. 11, 15, 18-20: NBA, I |