Manuale sulla fede, speranza e carità |
Dopo aver dunque affrontato questi problemi con la brevità che qui è necessaria, poiché si debbono conoscere le cause delle cose buone e di quelle cattive, per quanto lo richiede la via che ci conduce al regno dove la vita sarà senza morte, la verità senza errore, la felicità senza turbamento, non dobbiamo affatto dubitare che la causa delle cose buone che ci toccano è solo la bontà di Dio, mentre delle cattive è la volontà di un bene mutevole che abbandona un bene immutabile, prima nell'angelo, quindi nell'uomo.
È questo il primo male in una creatura razionale, ossia la prima privazione di bene.
In seguito è subentrata, anche involontariamente, l'ignoranza circa le cose da farsi e la concupiscenza di quelle dannose, alle quali si aggregano come compagni l'errore e il dolore; l'impulso spirituale che cerca di scansare questi due mali, percepiti come imminenti, si chiama timore.
A sua volta l'anima, quando giunge alla realizzazione delle proprie voglie, per quanto funeste e futili, senza che possa avvedersene per l'errore, viene sopraffatta da un piacere malsano, o addirittura scombussolata da una vuota euforia.
Da questi malesseri, che sono fonte non di sovrabbondanza, ma di indigenza, scaturisce per la natura razionale ogni infelicità.
Eppure tale natura, in mezzo a questi mali, non ha potuto perdere l'aspirazione alla beatitudine.
Questi mali sono comunque comuni agli uomini e agli angeli, condannati dalla giustizia di Dio in rapporto alla loro malizia.
L'uomo poi ha anche una propria pena, secondo la quale è punito anche con la morte del corpo.
Dio gli aveva comminato il castigo della morte qualora avesse peccato, ( Gen 2,17 ) dotandolo del libero arbitrio, in modo però che il suo comando lo guidasse e la perdizione lo trattenesse, e lo collocò nella felicità del paradiso, ( Gen 2,15 ) quasi una parvenza di vita, da dove, avendo osservato la giustizia, potesse ascendere verso realtà superiori.
Esiliato da qui dopo il peccato, vincolò con la pena della morte e della dannazione anche la propria stirpe, che peccando aveva contaminato in se stesso, come nelle sue radici: così qualsiasi discendente, nato da lui e dalla sua sposa ( condannata anch'essa, essendo stata per lui occasione di peccato ) tramite quella concupiscenza carnale, in cui veniva fatta corrispondere una pena simile alla sua disobbedienza, avrebbe tratto con sé il peccato originale; e questo a sua volta lo avrebbe tratto, attraverso vari errori e dolori, al castigo estremo e senza fine insieme agli angeli ribelli, suoi corruttori, padroni e complici.
Così a causa di un solo uomo il peccato è entrato nel mondo e con il peccato la morte; così essa ha raggiunto tutti gli uomini, poiché tutti in lui hanno peccato. ( Rm 5,12 )
E l'Apostolo in quel punto ha chiamato " mondo " l'intero genere umano.
Le cose stavano dunque in questo modo: la massa condannata di tutto il genere umano languiva fra i mali, o addirittura vi si rotolava, precipitando da un male all'altro e, congiunta a quella parte degli angeli che avevano peccato, scontava pene più che meritate per la propria empia diserzione.
Indubbiamente rientra nella giusta collera di Dio tutto ciò che i malvagi compiono volentieri con cieca e indomita concupiscenza e tutto ciò che malvolentieri subiscono con pene esplicite e manifeste; certo la bontà del creatore non cesserà di trasmettere anche agli angeli cattivi la vita ed una attiva vitalità, senza la trasmissione delle quali essi perirebbero; non cessa neppure di formare ed animare i germi vitali degli uomini, anche se nascono da una stirpe corrotta e condannata, ordinandone le membra secondo l'articolazione temporale e la collocazione spaziale, vivificandone la sensibilità, assicurando l'alimentazione.
Ritenne preferibile infatti operare il bene a partire dal male, anziché non lasciar sussistere alcun male.
E se Dio non avesse voluto alcun miglioramento per gli uomini, così come non v'è per gli angeli empi, non sarebbe stato forse giusto che fosse da lui interamente abbandonata per sempre, espiando una pena eterna e proporzionata, quella natura che ha abbandonato Dio e, abusando della propria facoltà, ha conculcato e trasgredito l'insegnamento del suo creatore, che avrebbe potuto osservare con la massima facilità; che ha profanato in se stessa l'immagine del suo autore, dopo essersi fieramente allontanata dalla sua luce; che ha sradicato dalle sue leggi, in virtù di un uso cattivo del libero arbitrio, ogni salutare sottomissione?
Indubbiamente Dio avrebbe fatto questo, se fosse solo giusto, non anche misericordioso, e se non mostrasse molto più chiaramente la sua misericordia gratuita liberando soprattutto chi non lo merita.
In seguito poi all'abbandono di Dio, con empia superbia, da parte di alcuni angeli, sprofondati dall'alto della loro dimora celeste nella più bassa oscurità di questa atmosfera, il resto degli angeli è rimasto con Dio in eterna beatitudine e santità.
E non c'è stata la benché minima discendenza nemmeno da un solo angelo, caduto e condannato, in modo che un male originale li vincolasse come gli uomini con le catene di una colpa che si tramanda, trascinandoli tutti quanti alle pene dovute; ma dopo l'atto di superbia di colui che fu trasformato in diavolo, commesso con complici di empietà, tutti gli altri con pia obbedienza si unirono al Signore, ricevendo anche una scienza certa, che non ebbero i primi, grazie alla quale poter essere sicuri di una saldezza eterna e assolutamente incrollabile.
A Dio quindi, creatore e signore dell'universo, dal momento che non tutta la moltitudine degli angeli s'era perduta abbandonandolo, piacque che la moltitudine perduta rimanesse nell'eterna perdizione e che quella che era rimasta con Lui al momento della diserzione degli altri, godesse per sempre della sua futura felicità, conosciuta con assoluta certezza, mentre l'altra creatura razionale costituita dagli uomini, che s'era tutta perduta per i peccati ed i castighi, sia originali che personali, parzialmente riabilitata, colmasse il vuoto lasciato nella società angelica da quella caduta diabolica.
Ai santi, nell'atto della risurrezione, è stato infatti promesso che saranno uguali agli angeli di Dio. ( Lc 20,36 )
Così la Gerusalemme superiore, che è nostra madre, la città di Dio, non verrà defraudata nel numero dei suoi cittadini o forse regnerà su una moltitudine ancora più numerosa.
Noi non conosciamo il numero né degli uomini santi, né dei demoni immondi, subentrando ai quali sussisteranno senza alcun limite di tempo i figli della santa madre, che sembrava sterile sulla terra, ( Is 54,1 ) in quella pace dalla quale quelli decaddero.
Ma il numero, attuale o futuro, di quei cittadini è oggetto di contemplazione del suo artefice, che chiama le cose che non sono come quelle che sono ( Rm 4,17 ) e tutto dispone con misura, calcolo e peso. ( Sap 11,21 )
Questa parte del genere umano, a cui Dio promette la liberazione e il regno eterno, può forse riabilitarsi in virtù dei meriti delle sue proprie opere?
È impensabile. Quali opere di bene può compiere chi si è perduto, se non nella misura in cui sarà stato liberato dalla sua perdizione?
Potrà farlo grazie al libero arbitrio della volontà?
Anche questo è impensabile: abusando infatti del libero arbitrio, l'uomo si perde e lo perde.
Come infatti chi si uccide, può farlo indubbiamente in quanto vive, mentre non vive in quanto si uccide e, una volta uccisosi, non potrà risuscitare se stesso, allo stesso modo, peccando grazie al libero arbitrio, si è perduto il libero arbitrio per il trionfo del peccato.
Uno è schiavo di ciò che l'ha sottomesso: ( 2 Pt 2,19 ) è questo un pensiero proprio dell'apostolo Pietro ed essendo vero mi domando se la libertà di uno schiavo sottomesso non si riduca che al compiacimento del peccato.
Serve in modo libero chi compie volentieri la volontà del suo padrone; perciò è libero per il peccato chi è schiavo di esso.
Di conseguenza sarà libero di operare con giustizia solo chi avrà cominciato ad essere schiavo della giustizia, una volta liberato dal peccato.
È questa la vera libertà per la gioia dell'azione retta e insieme una pia schiavitù per l'obbedienza dell'insegnamento.
Ma questa libertà di operare il bene donde proverrà all'uomo sottomesso e venduto, se non per l'opera redentrice di colui che ha esclamato: Se il Figlio vi farà liberi, sarete liberi davvero? ( Gv 8,36 )
E prima che nell'uomo questo cominci a verificarsi, come potrà gloriarsi di un'opera buona che scaturisca dal libero arbitrio chi non è ancora libero di operare il bene, senza ostentare presuntuosamente vuota superbia?
È quel che reprime l'Apostolo con le parole: Per la grazia siete stati salvati mediante la fede. ( Ef 2,8 )
E perché gli uomini non si attribuissero nemmeno questa fede, al punto da non comprendere che è un dono divino, il medesimo Apostolo, che pure sostiene in un altro punto d'aver ottenuto misericordia per la sua fede, ( 1 Cor 7,25 ) ha aggiunto anche queste parole: E ciò non viene da voi, ma è dono di Dio; né dalle opere, perché nessuno possa vantarsene. ( Ef 2,8-9 )
Perché poi non si pensasse che i fedeli potessero rimanere senza opere buone, ha soggiunto ulteriormente: Siamo sua immagine, creati in Cristo Gesù per le opere buone che Dio ha predisposto perché in esse progredissimo. ( Ef 2,10 )
Siamo dunque resi veramente liberi, nella misura in cui Dio ci plasma, cioè ci forma e ci crea, non per essere uomini, ciò che già fece, ma uomini buoni; ciò che ora fa la sua grazia, per essere nuova creatura in Cristo Gesù, ( 2 Cor 5,17 ) secondo quanto è stato detto: Crea in me, o Dio, un cuore puro. ( Sal 51,12 )
E non è che il suo cuore, il cuore dell'uomo in senso naturale, Dio non l'avesse già creato.
Parimenti, perché nessuno si vanti, non dico delle opere, ma dello stesso libero arbitrio della volontà, come se da esso nasca un merito, a cui la libertà di operare il bene spetti come premio dovuto, presti ascolto alle parole del medesimo araldo della grazia: È Dio infatti che suscita in voi il volere e l'operare conformemente alla sua volontà buona. ( Fil 2,13 )
E altrove: Non dipende quindi né dalla volontà né dagli sforzi, ma dalla misericordia di Dio. ( Rm 9,16 )
Non c'è dubbio che un uomo, se ha ormai raggiunto l'età in cui si ha l'uso di ragione, non potrebbe credere, sperare, amare se non lo volesse, né raggiungere il premio che Dio ci chiama a ricevere lassù senza correre volontariamente: ( Fil 3,14 ) com'è dunque possibile che non dipenda né dalla volontà né dagli sforzi, ma dalla misericordia di Dio, se non perché la stessa volontà, come sta scritto, è prediposta dal Signore? ( Pr 8, 35 )
Del resto, se è stato detto: Non dipende né dalla volontà né dagli sforzi, ma dalla misericordia di Dio, in quanto sono entrambe indispensabili, vale a dire la volontà dell'uomo e la misericordia di Dio, cerchiamo di prendere le parole: Non dipende né dalla volontà né dagli sforzi, ma dalla misericordia di Dio, come se si dicesse che la sola volontà dell'uomo è insufficiente, senza il concorso della misericordia di Dio.
Non è dunque sufficiente nemmeno la misericordia di Dio da sola, senza il concorso della volontà dell'uomo; perciò se è stato detto giustamente: Non dipende né dalla volontà dell'uomo, ma dalla misericordia di Dio, in quanto la volontà dell'uomo da sola non basta, perché, al contrario, non è giusto dire: " Non dipende dalla misericordia di Dio, ma dalla volontà dell'uomo ", dal momento che la misericordia di Dio da sola non basta?
Certamente se nessun cristiano oserà affermare che tutto dipende dalla volontà dell'uomo, non dalla misericordia di Dio, per non mettersi nella contraddizione più stridente con l'Apostolo, per una comprensione corretta dell'espressione: Non dipende né dalla volontà né dagli sforzi, ma dalla misericordia di Dio, non resta che riconoscere tutto a Dio, che predispone la buona volontà dell'uomo e la sorregge dopo averla predisposta.
In effetti la buona volontà dell'uomo precede molti doni di Dio, ma non tutti, ed essa stessa si trova fra quelli che non precede.
Di entrambi i casi si legge nelle Sacre Scritture: La sua misericordia mi preverrà, ( Sal 59,11 ) e: La sua misericordia mi seguirà. ( Sal 23,6 )
Previene chi non vuole, perché voglia; segue chi vuole, perché non voglia invano.
Non ci viene forse comandato di pregare per i nostri nemici, ( Mt 5,44 ) soprattutto per quanti non vogliono vivere religiosamente, unicamente perché in loro sia opera di Dio anche il volere?
Ugualmente, perché mai siamo esortati a chiedere per ottenere, ( Mt 7,7 ) se non perché sia fatto ciò che noi vogliamo da colui al quale si deve il nostro volere?
Noi dunque preghiamo per i nostri nemici perché li prevenga la misericordia di Dio, così come ha prevenuto anche noi, ma preghiamo anche per noi, perché la sua misericordia ci segua.
Il genere umano stava dunque sotto una giusta condanna e tutti erano figli di quella collera, di cui è stato scritto: Tutti i nostri giorni sono venuti meno ed anche noi siamo venuti meno nella tua collera; i nostri anni saranno considerati come una ragnatela. ( Sal 90,9 )
Anche Giobbe ne parla: L'uomo, nato di donna, ha una vita breve e piena di collera. ( Gb 14,1 )
E pure il Signore Gesú: Chi crede nel Figlio ha la vita eterna; chi invece non crede nel Figlio non ha la vita, ma la collera di Dio resta su di lui; ( Gv 3,36 ) non dice: " Verrà ", ma: Resta su di lui.
Ogni uomo nasce infatti assieme ad essa e per questo l'Apostolo dice: Fummo infatti anche noi per natura figli della collera, come gli altri. ( Ef 2,3 )
Trovandosi dunque gli uomini in questa collera per il peccato originale, in una condizione tanto più grave e pericolosa quanto più grandi e più numerosi erano i pesi ch'essi vi avevano addossato, era necessario un mediatore, cioè un riconciliatore, che placasse questa collera con l'offerta di un sacrificio unico, adombrato da tutti i sacrifici della Legge e dei Profeti.
Di qui le parole dell'Apostolo: Se infatti, quand'eravamo nemici siamo stati riconciliati con Dio per mezzo della morte del Figlio suo, a maggior ragione ora, giustificati per il suo sangue, saremo salvati dalla collera per mezzo suo. ( Rm 5,10 )
Quando però si parla della collera di Dio, non s'intende un suo turbamento, come è nell'anima di un uomo che va in collera; piuttosto, per una metafora tratta dalle emozioni umane, la sua punizione, che non può essere che giusta, ha preso il nome di collera.
In quanto dunque noi ci riconciliamo con Dio per mezzo di un mediatore e riceviamo lo Spirito Santo, che ci trasforma da nemici in figli ( tutti quelli infatti che sono guidati dallo Spirito di Dio, costoro sono figli di Dio ( Rm 8,14 ) ), questo lo dobbiamo alla grazia di Dio per mezzo del Signore nostro Gesù Cristo.
Di questo mediatore sarebbe troppo lungo parlare come merita, ancorché sia impossibile per l'uomo parlarne davvero come merita.
Chi potrebbe spiegare con parole adeguate che il Verbo si fece carne ed abitò tra di noi, ( Gv 1,14 ) in modo da credere nell'unico Figlio di Dio Padre onnipotente, nato dallo Spirito Santo e da Maria vergine?
Così infatti il Verbo s'è fatto carne, essendo stata la carne assunta dalla divinità, non la divinità trasformata in carne.
Peraltro qui dobbiamo intendere carne come sinonimo di uomo, secondo un'espressione in cui la parte sta per il tutto, come quando è stato detto: Poiché in virtù delle opere della Legge non sarà giustificata nessuna carne, ( Rm 3,20 ) cioè nessun uomo.
Ed è lecito dire che in quella condizione da Lui assunta non è mancato nulla alla natura umana, una natura, tuttavia, assolutamente libera da ogni vincolo di peccato: non come quella nata dall'unione dei sessi per mezzo della concupiscenza della carne con l'ipoteca di un peccato, la cui colpevolezza è lavata dalla rigenerazione, ma quale doveva nascere da una vergine, concepita dalla fede della madre, non dalla passione.
Se con la sua nascita ne fosse stata compromessa l'integrità, non sarebbe più nato da una vergine e, cosa impensabile, in modo falso tutta la Chiesa confesserebbe che Egli è nato dalla Vergine Maria, quella Chiesa che ogni giorno partorisce le sue membra, pur restando vergine, ad imitazione di sua madre.
Leggi, se vuoi, la mia lettera sulla verginità santa di Maria, inviata a Volusiano, un uomo illustre che ricordo con stima e affetto.
Perciò Gesù Cristo, Figlio di Dio, è Dio e uomo: Dio prima di tutti i secoli, uomo nel nostro secolo; è Dio in quanto Verbo di Dio ( e il Verbo era Dio ( Gv 1,1 ) ), uomo in quanto nell'unità della persona al Verbo si sono aggiunte l'anima razionale e la carne.
Di conseguenza, in quanto è Dio, Egli e il Padre sono una cosa sola; ( Gv 10,30 ) in quanto poi è uomo, il Padre è maggiore di Lui. ( Gv 14,28 )
Essendo infatti unico Figlio di Dio, non per grazia, ma per natura, è divenuto anche figlio dell'uomo, per essere ugualmente pieno di grazia: ( Gv 1,14 ) e sempre Lui è l'uno e l'altro, dall'uno e dall'altro unico Cristo.
In effetti, nonostante la sua condizione divina, non considerò un'usurpazione ciò che era per natura, vale a dire la sua uguaglianza con Dio, ma spogliò se stesso, assumendo la condizione di servo, ( Fil 2,6-7 ) senza perdere o diminuire la condizione divina.
Perciò si è fatto inferiore ed è rimasto uguale, unico ad essere l'uno e l'altro, come si è detto, ma l'uno in quanto Verbo, l'altro in quanto uomo: in quanto Verbo uguale, in quanto uomo inferiore; unico Figlio di Dio, che è anche figlio dell'uomo; unico figlio dell'uomo, che è anche Figlio di Dio: non Dio e uomo, come due figli di Dio, ma un unico Figlio di Dio; Dio senza origine, uomo da un'origine definita, il Signore nostro Gesù Cristo.
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