La natura e la grazia |
Poi ricorda coloro "dei quali si dice non solo che non peccarono, ma che vissero anche santamente: Abele, Enoch, Melchisedech, Abramo, Isacco, Giacobbe, Giuseppe, Gesù di Nave, Finees, Samuele, Natan, Elia, Eliseo, Michea, Daniele, Anania, Azaria, Misaele, Ezechiele, Mardocheo, Simeone, Giuseppe di cui era sposa la vergine Maria, Giovanni".
Aggiunge pure delle donne: "Debora, Anna madre di Samuele, Giuditta, Ester, l'altra Anna figlia di Fanuel, Elisabetta" e anche la stessa Madre del Signore e Salvatore nostro, e di essa dice "che va necessariamente riconosciuta senza peccato dal nostro senso religioso".
Escludiamo dunque la santa vergine Maria, nei riguardi della quale per l'onore del Signore non voglio si faccia questione alcuna di peccato.
Infatti da che sappiamo noi quanto più di grazia, per vincere il peccato sotto ogni aspetto, sia stato concesso alla Donna che meritò di concepire e partorire colui che certissimamente non ebbe nessun peccato?
Eccettuata dunque questa Vergine!, se avessimo potuto riunire tutti quei santi e quelle sante durante la loro vita terrena e interrogarli se fossero senza peccato, quale pensiamo sarebbe stata la loro risposta?
Quella che dice costui o quella dell'apostolo Giovanni? Lo chiedo a voi.
Per quanto grande potesse essere la loro santità nella vita corporale, alla nostra eventuale domanda non avrebbero forse gridato ad una sola voce: Se dicessimo di essere senza peccato, inganneremmo noi stessi e la verità non sarebbe in noi? ( 1 Gv 1,8 )
O forse risponderebbero in questo modo più per umiltà che per verità?
Ma a costui già piace, e gli piace con ragione, "di non mettere il pregio dell'umiltà dalla parte della falsità".
Allora, se quei santi nella loro risposta dicessero la verità, sarebbero peccatori e la verità sarebbe in essi, proprio per il loro umile riconoscimento.
Se al contrario mentissero, sarebbero ugualmente peccatori, perché in essi non ci sarebbe la verità.
Costui scrive: "Diranno forse: Avrebbe mai potuto la Scrittura ricordare i peccati di tutti?".
No certamente, e gli direbbero la verità coloro che gli dicessero così, chiunque fosse a dirglielo, né vedo che costui abbia risposto alcunché di valido contro di loro, sebbene io veda che non ha voluto tacere.
State infatti a sentire per favore che cosa abbia detto.
Scrive: "Questo si può dire giustamente di coloro di cui la Scrittura non ricorda né il bene né il male.
Di coloro invece di cui ricorda la giustizia avrebbe ricordato senza dubbio anche i peccati, se fosse stata convinta che ne avevano commessi".
Dica dunque che non rientrava nella giustizia la fede tanto grande di coloro che, affollandosi numerosi prima e dopo l'asinello di Gesù, con canti di lode in mezzo anche a nemici frementi contro la loro dimostrazione, andavano gridando: Osanna al Figlio di Davide.
Benedetto colui che viene nel nome del Signore. ( Mt 21,9 )
Osi dunque costui dire, se può, che in tanta folla di gente non c'era nessuno che avesse assolutamente un qualche peccato.
Se è assurdissimo dir questo, perché mai la Scrittura non ricorda nessun peccato di quelli dei quali ebbe cura di ricordare tanta bellezza di fede?
Ma forse anche costui avvertì la debolezza della sua risposta e per questo soggiunge: "Passi però che in altri tempi la Scrittura abbia sorvolato sui peccati di tutti per il grande numero delle persone.
Ma all'origine stessa del mondo, quando non esistevano che quattro persone soltanto, come spieghiamo che non abbia voluto ricordare i peccati di tutti?
A causa dell'ingente moltitudine che non esisteva ancora?
Non è forse perché ricorda soltanto i peccati di quelli che ne commisero e non poteva ricordare i peccati di chi non ne commise?".
E aggiunge ancora altre parole che dànno una base più estesa e più chiara a questa sua sentenza.
Scrive: "È certo che in un primo tempo si riferiscono esistenti soltanto quattro persone: Adamo ed Eva, dai quali nacquero Caino e Abele.
Eva peccò e la Scrittura lo racconta. ( Gen 3,6 )
Adamo pure peccò e la Scrittura non lo tace. ( Gen 3,6 )
Che abbia peccato anche Caino l'attesta ugualmente la medesima Scrittura, ( Gen 4,8 ) e dei tre ci fa conoscere non solo il fatto dei peccati, ma anche la loro qualità.
Se avesse peccato pure Abele, la Scrittura l'avrebbe detto certamente.
Ma non l'ha detto e dunque Abele non peccò. Anzi lo presenta come giusto.
Dobbiamo dunque credere a quello che si legge e credere illecito sostenere quello che non si legge".
Dicendo così tiene poco conto di quello che aveva già detto immediatamente prima, cioè che "cresciuta ormai la moltitudine del genere umano, la Scrittura per il grande numero delle persone poté sorvolare sui peccati degli uomini".
Se avesse ben inteso la portata di queste sue parole, avrebbe visto che nemmeno di un uomo soltanto si poteva o si doveva, posta la possibilità, riferire tutta la fitta molteplicità dei peccati leggeri.
I fatti riferiti dalla Scrittura sono necessariamente limitati e il lettore deve istruirsi da pochi esempi su molte verità necessarie.
Delle stesse persone di allora, sebbene ancora poche, la Scrittura non ha voluto dire quante e quali fossero, cioè quanti figli e quante figlie abbiano procreato Adamo ed Eva e come li abbiano chiamati.
- Per questo taluni, poco attenti a quante notizie la Scrittura passi sotto silenzio, hanno creduto che lo stesso Caino si sia unito con la madre per procreare la prole che gli si attribuisce, ( Gen 4,17 ) pensando che quei due figli di Adamo non avessero sorelle, perché la Scrittura le tace allora, mentre nella ricapitolazione successiva suppone quello che aveva omesso, cioè che Adamo procreò figli e figlie, ( Gen 5,4 ) senza manifestare né il tempo della loro nascita, né il loro numero, né i loro nomi -.
Così non era necessario nemmeno che la Scrittura dicesse se Abele, benché meritamente chiamato giusto, ( Mt 23,35; Eb 11,4 ) abbia riso qualche volta un po' smodatamente, se abbia scherzato irriflessivamente o abbia guardato qualcosa con concupiscenza o se qualche volta abbia colto dei frutti oltre il giusto o abbia preso qualche piccola indigestione per eccesso di cibo o se durante la preghiera abbia pensato a qualcosa che lo distraesse, e quante volte gli siano scappati questi e molti altri simili peccati.
O forse non sono questi i peccati dai quali ci esorta universalmente a guardarci e liberarci l'Apostolo ordinandoci: Non regni più dunque il peccato nel vostro corpo mortale, sì da sottomettervi ai suoi desideri? ( Rm 6,12 )
Per non obbedire ad essi in azioni che non sono lecite o sono meno convenienti dobbiamo combattere una battaglia quotidiana e continua.
Da questo vizio di peccato dipende infatti che si lascia libero l'occhio di posarsi dove non dovrebbe e, se questo vizio diventa potente e prepotente, si commette anche l'adulterio nel corpo, mentre nel cuore è tanto più svelto quanto più veloce è il pensiero e nessuna remora gli fa ostacolo.
Coloro che sono riusciti a frenare in gran parte questo peccato, cioè il richiamo di questo attaccamento vizioso, così da non obbedire alle sue brame e non mettere a sua disposizione le proprie membra come strumenti d'ingiustizia, ( Rm 6,12-13 ) hanno meritato anche d'esser chiamati giusti, e l'hanno meritato per l'aiuto della grazia di Dio.
Tuttavia, poiché spesso questo peccato striscia insensibilmente nelle situazioni più banali e qualche volta incontrollate, ci furono alcuni che sono stati giusti e nello stesso tempo non sono stati immuni dal peccato!
Infine, se nel giusto Abele la carità di Dio, che è la sola a rendere veramente giusto chiunque è giusto, era ancora tale da poter e dover crescere, quello che le mancava costituiva un difetto!10
E in chi può non esser manchevole la carità finché non si giunge a quella sua fortezza che ingoi in sé tutta l'umana debolezza?
Conclude questo passo proprio con una gran bella sentenza: "Dobbiamo credere a quello che si legge e credere illecito sostenere quello che non si legge: questo valga per sempre".
Al contrario io dico che non dobbiamo credere a tutto quello che leggiamo, ammonendoci l'Apostolo: Leggete tutto e tenete ciò che è buono, ( 1 Ts 5,21 ) e dico che non è illecito sostenere qualcosa anche senza averlo letto.
Infatti possiamo sostenere in buona fede come testimoni quello che abbiamo sperimentato anche senza forse averlo letto.
Costui risponderà probabilmente: "Io dicendo ciò parlavo delle Scritture sante".
Magari non volesse sostenere nulla non dico che non abbia letto in quelle Lettere, ma nulla contro ciò che vi ha letto!
Allora ascolterebbe fedelmente e obbedientemente quanto è scritto nel testo: A causa di un solo uomo il peccato è entrato nel mondo e con il peccato la morte e così ha raggiunto tutti gli uomini, che tutti hanno peccato in lui. ( Rm 5,12 )
Allora non svaluterebbe la grazia di un Medico così grande, rifiutandosi di riconoscere che la natura umana è rimasta viziata.
Magari leggesse da cristiano che all'infuori di Gesù Cristo non esiste altro nome sotto il cielo nel quale è stabilito che possiamo essere salvati ( At 4,12 ) e non difendesse il potere della natura umana tanto da far credere che l'uomo può salvarsi con il libero arbitrio anche senza questo nome.
Ma forse costui pensa che il nome del Cristo è necessario soltanto perché impariamo mediante il suo Vangelo in che modo dobbiamo vivere e non anche perché siamo aiutati dalla sua grazia a vivere bene.
Almeno per questo confessi che nell'animo dell'uomo ci sono delle tenebre miserevoli: sa in che modo deve domare un leone e non sa in che modo deve vivere.
O anche per sapere in che modo deve vivere gli basta il libero arbitrio e la legge naturale?
Questo è un discorso sapiente che rende vana la croce del Cristo. ( 1 Cor 1,17 )
Ma colui che ha detto: Distruggerò la sapienza dei sapienti, ( 1 Cor 1,19 ) poiché la croce non può essere resa vana, rovescia certamente tale sapienza mediante la stoltezza della predicazione che sana i credenti. ( 1 Cor 1,21 )
Se infatti il potere naturale basta a se stesso mediante il libero arbitrio sia per conoscere come deve vivere, sia per vivere bene, allora il Cristo è morto invano, ( Gal 2,21 ) allora è annullato lo scandalo della croce. ( Gal 5,11 )
Perché qui non dovrei gridare anch'io? Ma sì che griderò e con dolore cristiano rimprovererò costoro: Non avete più nulla a che fare con il Cristo voi che cercate la giustificazione nella natura; siete decaduti dalla grazia: ( Gal 5,4 ) ignorando infatti la giustizia di Dio e volendo stabilire la propria, non vi siete sottomessi alla giustizia di Dio. ( Rm 10,3 )
Come il Cristo è infatti il termine della legge, così è anche il Salvatore della natura umana viziata, perché sia data la giustizia a chiunque crede!( Rm 10,4 )
All'obiezione che fa a se stesso come rivoltagli da coloro contro i quali scrive e desunta dalle parole: Tutti hanno peccato, ( Rm 3,23 ) risponde che "manifestamente l'Apostolo parlava di coloro che esistevano in quel tempo, ossia dei giudei e dei gentili".
Veramente il passo da me ricordato: A causa di un solo uomo il peccato è entrato nel mondo e con il peccato la morte e così ha raggiunto tutti gli uomini, che tutti hanno peccato in lui, ( Rm 5,12 ) abbraccia con questa sua sentenza e gli antichi e i nostri predecessori e noi e i nostri posteri.
Costui cita anche un altro testo per provare che non sempre quando si dice tutti bisogna intendere tutti assolutamente senza fare eccezioni.
Il testo è questo: Come per la colpa di uno solo si è riversata su tutti gli uomini la condanna, così anche per l'opera di giustizia di uno solo si riversa su tutti gli uomini la giustificazione che dà vita. ( Rm 5,18 )
Costui commenta: "Non c'è dubbio che per la giustizia del Cristo non sono stati santificati tutti, ma soltanto quelli che gli hanno voluto obbedire e sono stati purificati dall'abluzione del suo battesimo".
Con questo testo non dimostra davvero quello che vuole.
Infatti allo stesso modo che è detto: Come per la colpa di uno solo si è riversata su tutti gli uomini la condanna, ( Rm 5,18 ) senza tralasciare nessuno, così anche nel testo dove è detto: Per l'opera di giustizia di un solo si riversa su tutti gli uomini la giustificazione che dà vita ( Rm 5,18 ) non è stato tralasciato nessuno, non perché tutti credono in lui e vengono lavati dal suo battesimo, ma perché nessuno viene giustificato senza credere in lui e senza essere lavato dal suo battesimo.
Si dice dunque tutti, perché non si creda che qualcuno possa salvarsi in qualche altro modo facendo a meno di lui.
Se per esempio in una città c'è un solo maestro di lettere, diciamo giustissimamente: Egli insegna qui le lettere a tutti, non perché tutti i cittadini attendono a imparare le lettere, ma perché nessuno le impara se non da lui che le insegna.
Similmente nessuno viene giustificato senza che sia il Cristo a giustificarlo!
Scrive costui: "Ma voglio ammettere che la Scrittura attesti che tutti gli uomini sono stati peccatori.
Allora essa dice quello che sono stati, non dice che non potevano essere diversi.
Perciò, anche quando si potesse dimostrare che tutti gli uomini sono peccatori, ciò non nuocerebbe tuttavia alla nostra tesi, perché noi non difendiamo tanto quello che gli uomini sono, quanto quello che gli uomini possono essere".
Fa bene costui a riconoscere qui finalmente che nessun vivente è giusto davanti a Dio. ( Sal 143,2 )
Protesta tuttavia che la questione non sta qui, ma nella stessa possibilità di non peccare, nella quale nemmeno noi abbiamo bisogno di combattere contro di lui.
Né m'interessa troppo infatti se siano esistiti sulla terra o esistano o possano esistere in futuro taluni che abbiano avuto o abbiano adesso o avranno la carità di Dio perfetta, a cui non ci fosse nulla da aggiungere - la carità è infatti la più vera, la più piena, la più perfetta giustizia -, perché ciò che confesso e difendo è che questo è possibile alla volontà umana solo se aiutata dalla grazia di Dio, senza l'affanno di sapere quando e dove e in chi si verifichi!
Né dubito della possibilità stessa, perché tanto essa che la sua realizzazione provengono nei santi dalla volontà umana appena è sanata da Dio e aiutata da lui, quando la carità di Dio, nella massima pienezza in cui la può accogliere la nostra natura sana e pura, si diffonde nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo che ci è stato dato. ( Rm 5,5 )
Meglio dunque si difende la causa di Dio ( patrocinando la quale costui dice di fare l'avvocato della natura ), quando si riconosce e il Creatore e il Salvatore, piuttosto che quando si rende vano il soccorso del Salvatore difendendo la creatura come se fosse sana e integra nelle sue forze!
È vero però quello che asserisce costui: "Dio, tanto buono quanto giusto, fece l'uomo tale da bastare a se stesso per evitare il male del peccato, ma purché l'avesse voluto".
Chi ignora infatti che l'uomo fu creato sano e senza colpa, dotato di libero arbitrio e in possesso del libero potere di vivere santamente?
Ma ora si tratta dell'uomo che i ladri hanno lasciato semivivo sulla strada, ( Lc 10,30-34 ) dell'uomo piagato e trafitto da gravi ferite che non può ascendere più al culmine della giustizia con la stessa facilità con la quale poté discenderne, dell'uomo che per quanto già ricoverato in albergo ha bisogno ancora di cure.
Dio dunque non comanda cose impossibili, ma comandando ti ordina sia di fare quello che puoi, sia di chiedere quello che non puoi!
E vediamo ormai da dove viene all'uomo il potere e da dove gli viene il non potere.
Costui dice: "Non dipende dalla volontà il potere che proviene dalla natura".
Io dico: "Certamente dipende dalla volontà che l'uomo non sia giusto, se lo può per natura; ma sarà la medicina a dare alla natura dell'uomo il potere che non ha più per il vizio"!
Ma che bisogno c'è ormai di fermarci su tanti punti?
Veniamo più addentro alla causa che sola o quasi sola abbiamo con costoro limitatamente alla presente questione!
Come egli stesso dice, "il problema attuale non è di sapere se siano esistiti o se esistano alcuni uomini senza peccato in questa vita, ma se siano potuti o possano esistere".
Anche se io ammettessi che siano esistiti o che esistano, tuttavia non riconoscerei in nessun modo che siano potuti o possano esistere se non in quanto giustificati dalla grazia di Dio per Gesù Cristo nostro Signore, e questi crocifisso. ( Rm 7,25; 1 Cor 2,2 )
Sanò appunto gli antichi giusti la stessa fede che sana anche noi, cioè la fede nel mediatore tra Dio e gli uomini, l'uomo Cristo Gesù, ( 1 Tm 2,5 ) la fede nel suo sangue, la fede nella sua croce, la fede nella sua morte e risurrezione.
Dunque, animati da quello stesso spirito di fede, anche noi crediamo e perciò parliamo. ( 2 Cor 4,13 )
Ma vediamo che cosa risponde costui ad una obiezione che muove a se stesso e in cui appare veramente intollerabile ai cuori cristiani.
Ecco le suo parole: "Quello che urta parecchi, dirai, è che tu difenda la possibilità dell'uomo d'essere senza peccato facendo a meno della grazia di Dio".
Proprio questo ci urta, proprio questo gli rinfacciamo.
Questo appunto egli dice e noi ci soffriamo molto a sentirglielo dire.
Che dei cristiani su tal punto facciano tali questioni non lo sopportiamo per l'amore che abbiamo verso gli altri e verso di loro stessi.
Ascoltiamo dunque come costui si tiri fuori nella presente questione posta dalla nostra obiezione.
Scrive: "O cieca ignoranza, o pigrizia di menti incolte! Si crede che io patrocini senza la grazia di Dio ciò che invece mi si sente dire doversi attribuire a Dio soltanto".
Se non conoscessimo il seguito, a sentire unicamente queste parole, penseremmo d'aver creduto il falso su costoro andando dietro alle folate della fama e alle asserzioni di alcuni fratelli che ci sembravano testimoni attendibili.
Che cosa infatti si sarebbe potuto dire con più brevità e verità di questo: la possibilità di non peccare, per quanta ce ne sia o ce ne sarà in un uomo, non si deve attribuire se non a Dio?
Lo diciamo anche noi. Diamoci la mano.
Dobbiamo ascoltare o no le altre dichiarazioni di costui?
Le dobbiamo ascoltare interamente e anche le dobbiamo certamente correggere o schivare.
Scrive costui: "Quando infatti si dice che lo stesso potere non è affatto dell'arbitrio umano, ma della natura, cioè dell'autore della natura, ossia di Dio, com'è mai possibile intendere senza la grazia di Dio ciò che si fa appartenere propriamente a Dio?".
Comincia già ad apparire il senso del suo dire.
Ma perché non corriamo il rischio d'ingannarci, lo spiega più estesamente e chiaramente.
Scrive: "Affinché ciò si renda più manifesto, ne dobbiamo discutere un poco più a lungo.
Noi diciamo infatti che ogni possibilità dell'uomo si fonda non tanto sul potere del suo arbitrio quanto sulla necessità della sua natura".
Illustra la sua esposizione anche con degli esempi o similitudini.
Dice: "Io per esempio ho la possibilità di parlare.
Il poter parlare non dipende da me, ma il fatto di parlare dipende da me, cioè dalla mia propria volontà.
E poiché il parlare dipende da me, io posso fare l'uno e l'altro, cioè parlare o non parlare.
Ma poiché il poter parlare non dipende da me, cioè dal mio arbitrio e dalla mia volontà, la possibilità di parlare mi rimane necessariamente.
Anche se desiderassi di non poter parlare, non potrei tuttavia perdere la possibilità di parlare, a meno che non mi strappassi l'organo che serve a parlare"!
Molti invero possono dirsi i modi in cui l'uomo potrebbe privarsi della possibilità di parlare senza privarsi dell'organo della loquela.
Se per esempio si fa qualcosa che tolga la voce stessa, nessuno potrà parlare, pur rimanendogli le membra: la voce umana non è infatti un membro.
Si può causare l'impossibilità di parlare danneggiando molto qualche membro interno pur senza sopprimerlo.
Ma non vorrei dare l'impressione d'insistere su di una parola e sentirmi dire che anche danneggiare è sopprimere.
Ebbene, ci possiamo impedire di parlare anche chiudendo e tappando la bocca con delle bende in modo da non aver più né la forza né la possibilità d'aprirla, mentre avevamo prima la possibilità di chiuderla, continuando però a disporre di membra integre e sane.
Ma a noi che ce ne viene? Vediamo che cosa ne derivi costui.
Scrive: "È privo d'arbitrio volontario e di deliberazione tutto ciò che è costretto da necessità naturale".
Anche qui sorgerebbe qualche problema.
È infatti assurdissimo dire che non appartiene alla nostra volontà volere essere beati per il fatto che in forza di non so quale buona costrizione di natura non possiamo in nessun modo non volerlo.
Né osiamo dire che Dio non abbia la volontà della giustizia, ma ne abbia la necessità per il fatto che non può voler peccare.
Notate anche quello che segue. Scrive: "Dell'udito pure, dell'odorato o della vista è possibile pensare lo stesso: udire, odorare, vedere dipende da noi; poter udire, poter odorare, poter vedere non dipende da noi, ma da necessità naturale".
O sono io a non capire quello che dice o è lui. In che modo infatti non è in nostro potere la possibilità di vedere, se è in nostro potere la necessità di non vedere, perché è in nostro potere la cecità con la quale ci togliamo, se vogliamo, la stessa possibilità di vedere?
E poi il vedere com'è in nostro potere, se vogliamo, atteso che, pur rimanendo intatta l'integrità del nostro corpo e dei nostri occhi, non possiamo vedere volendo, sia a causa della notte, se vengono tolte le luci che si accendono fuori, sia nel caso che qualcuno ci rinchiuda in un luogo tenebroso?
Ugualmente, se non è in nostro potere la possibilità d'udire o di non udire, ma dipende da una costrizione di natura, e invece il fatto di udire o non udire dipende dalla nostra volontà, perché costui non si avvede quanti suoni udiamo senza volerlo, che penetrano nel nostro udito anche con gli orecchi turati, come lo stridore d'una sega o il grugnito di un porco?
Sebbene il turarsi gli orecchi dimostri che non è in nostro potere non udire con gli orecchi aperti, tuttavia una tale otturazione che ci tolga lo stesso udito ottiene forse pure l'effetto che sia in nostro potere anche l'impossibilità di udire.
Non si dimostra poi costui poco attento in quello che dice dell'odorato?
Dice: "Non è in nostro potere la possibilità o l'impossibilità di odorare, ma è in nostro potere", cioè dipende dalla nostra libera volontà, "odorare o non odorare".
Al contrario. Se ci trovassimo messi in mezzo a degli odori cattivi e molesti e qualcuno ci costringesse a rimanerci con le mani legate, noi, pur conservando assolutamente l'integrità e la salute delle membra, vorremmo non odorare e non lo potremmo affatto, perché, essendo costretti a tirare il fiato, tireremmo insieme anche il fetore che non vorremmo.
Alla stessa maniera dunque in cui sono sbagliate quelle similitudini, è sbagliata pure la tesi per la quale le ha volute adoperare.
Costui infatti seguita e dice: "In modo simile dobbiamo intendere la possibilità di non peccare: dipende da noi non peccare, non dipende da noi il potere di non peccare".
Anche se parlasse della natura integra e sana dell'uomo ( che adesso non abbiamo, Poiché nella speranza noi siamo stati salvati.
Ora, ciò che si spera, se visto, non è più speranza.
Ma se speriamo quello che non vediamo, lo attendiamo con perseveranza ( Rm 8,24-25 ) ), non avrebbe ragione di dire che non peccare dipende esclusivamente da noi, quantunque peccare dipenderebbe da noi: anche allora infatti ci sarebbe l'aiuto di Dio che si offrirebbe a farci volere, come la luce si offre ad occhi sani per farli vedere.
Ma poiché parla della vita attuale in cui un corpo corruttibile appesantisce l'anima e la tenda d'argilla grava la mente dai molti pensieri, ( Sap 9,15 ) mi sorprende con che cuore costui anche senza l'aiuto della medicina del nostro Salvatore faccia dipendere da noi il non peccare e sostenga che il poter non peccare dipende dalla natura, la quale appare tanto viziata che il colmo del vizio è non vederlo.
Scrive costui: "Poiché non peccare è cosa nostra, possiamo peccare e non peccare".
Allora se un altro dicesse: Poiché è cosa nostra non volere l'infelicità, possiamo volerla e non volerla?
Eppure non ci è affatto possibile volerla.
Chi può desiderare d'essere infelice, anche se vuole delle cose che poi contro la sua volontà lo renderanno infelice?
Inoltre, poiché non peccare è molto più proprio di Dio, oseremmo forse dire che egli può peccare e non peccare?
Ci mancherebbe che dicessimo che Dio può peccare.
Ugualmente è chiaro, al contrario di quanto pensano gli stolti, che Dio non perderà la sua onnipotenza per il fatto di non poter né morire né rinnegare se stesso. ( 2 Tm 2,13 )
Cos'è dunque quello che dice costui e con quali regole di retorica tenta di convincerci di quanto non vuole approfondire?
Aggiunge ancora e dice: "Poiché la possibilità di non peccare non è cosa nostra, anche desiderando di non avere la possibilità di non peccare, non possiamo non avere la possibilità di non peccare".
Lo dice con una frase contorta e quindi oscura.
Lo possiamo rendere più chiaro in questo modo: poiché non è cosa nostra la possibilità di non peccare, vogliamo o non vogliamo abbiamo la possibilità di non peccare.
Non dice infatti: Vogliamo o non vogliamo non pecchiamo.
Senza dubbio pecchiamo se vogliamo.
Ma asserisce piuttosto che, vogliamo o non vogliamo, noi continuiamo a possedere la possibilità di non peccare, che dice insita nella natura.
Ma di un uomo che ha le gambe sane si può passabilmente dire che ha la possibilità di camminare, voglia o non voglia.
Con le gambe rotte invece non ha più tale possibilità, anche se volesse camminare.
È malata la natura di cui si dice: Perché mai si insuperbisce chi è terra e cenere? ( Sir 10,9 )
È malata, implora il Medico. Grida: Salvami, Signore. ( Sal 12,2 )
Grida: Guarisci l'anima mia. ( Sal 41,5 )
Perché costui soffoca queste voci con il risultato d'impedire la sanità futura difendendo una presunta possibilità presente?
E notate che cosa soggiunge credendo di confermare il proprio pensiero.
Scrive: "Nessuna volontà può togliere ciò che risulta inseparabilmente insito nella natura".
Perché allora quell'affermazione: Voi non fate quello che vorreste? ( Gal 5,17 )
Perché anche l'altra affermazione: Io non compio il bene che voglio, ma il male che non voglio? ( Rm 7, 15.19 )
Dov'è la possibilità che risulterebbe inseparabilmente insita nella natura?
Ecco gli uomini non fanno le azioni che vogliono.
E l'Apostolo parlava certamente di non peccare, non parlava di volare, perché erano uomini e non uccelli.
Ecco l'uomo non fa il bene che vuole, ma fa il male che non vuole: in lui c'è il desiderio del bene, ma non la capacità di attuarlo. ( Rm 7,18 )
Dov'è la possibilità che risulterebbe inseparabilmente insita nella natura?
Chiunque l'Apostolo rappresenti, ( 2 Cor 11,13-15 ) se non parla di se stesso, certamente rappresenta l'uomo.
Costui invece sostiene che la stessa natura umana ha la possibilità inalienabile di non commettere nessun peccato.
Ora, l'effetto di queste parole, anche se le dice uno che non sa - ma non è uno che non sa, lui che queste parole mette in bocca agli incauti che pur temono Dio - è di annullare la grazia del Cristo, quasi che la natura umana sia sufficiente a se stessa per la propria giustizia.
Per calmare il malumore dei cristiani che gridano per la propria salvezza e dicono: Perché affermi che l'uomo può non peccare senza l'aiuto della grazia di Dio?, egli risponde: "La possibilità di non peccare non sta tanto in potere dell'arbitrio quanto nella necessità della natura.
Tutto ciò che si basa sulla necessità naturale, indubbiamente appartiene all'autore della natura, cioè a Dio.
Come mai dunque si stima che si dica senza grazia di Dio ciò che si indica come propriamente appartenente a Dio?".
Si è fatto esplicito il pensiero che rimaneva nascosto: ora non c'è più modo di celarlo.
In tanto attribuisce alla grazia di Dio la possibilità di non peccare in quanto Dio è il Creatore di quella natura nella quale dice inseparabilmente insita la possibilità di non peccare.
L'uomo dunque se vuole fa, se non vuole non fa.
Avendo infatti una possibilità indelebile, non gli può capitare d'esser debole di volontà o meglio d'avere il desiderio del bene, ma non la capacità di attuarlo.
Se dunque è così, perché allora le parole: C'è in me il desiderio del bene, ma non la capacità di attuarlo? ( Rm 7,18 )
Se l'autore di cotesto libro parlasse della natura umana che all'inizio fu creata innocente e sana, la sua affermazione si potrebbe in qualche modo accettare.
Sebbene, non si sarebbe dovuta dire dotata di una possibilità inseparabile, cioè inalienabile, per usare la sua parola, una natura che poteva viziarsi e andare in cerca del Medico che guarisse gli occhi del cieco e restituisse il potere di vedere perduto con la cecità, perché credo che un cieco vuol vedere, ma non può; se poi vuole e non può, significa che c'è la volontà, ma è stata perduta la possibilità.
Notate ancora quali massi tenti di rimuovere per aprire una possibile strada alla sua sentenza.
Fa a sé un'obiezione scrivendo: "Dirai che secondo l'Apostolo la carne è contraria a noi". ( Gal 5,17 )
E risponde: "Com'è possibile che la carne sia contraria ad ogni battezzato, se il battezzato secondo il medesimo Apostolo non viene più considerato nella carne?
Dice infatti: Voi però non siete nella carne". ( Rm 8,9 )
Bene, se dice che la carne non può essere contraria ai battezzati: vedremo in seguito se ciò sia vero.
Per ora, non potendo dimenticare di esser cristiano, benché se ne sia ricordato debolmente, costui recede dalla difesa della natura.
Dov'è dunque la possibilità inseparabile?
Che forse i battezzati non appartengono alla natura umana?
Qui potrebbe davvero aprire gli occhi e gli basterebbe per farlo appena un po' d'attenzione.
Scrive: "Com'è possibile che la carne sia contraria ad ogni battezzato?".
Dunque ai non battezzati la carne può essere contraria.
Spieghi in che modo, esistendo anche nei non battezzati la medesima natura, da lui tanto difesa.
Inevitabilmente ammette che almeno in essi la natura si è viziata, se nei battezzati quel ferito è ormai uscito sano dall'albergo o si trova sano nell'albergo dove l'ha condotto il misericordioso Samaritano per guarirlo. ( Lc 10,30-35 )
Ora, se ammette che almeno ai non battezzati la carne è contraria, dica che cos'è accaduto, essendo ambedue, la carne e lo spirito, creature di un unico e medesimo Creatore, creature buone senza dubbio perché creature di un Creatore buono.
Non potrà dire nient'altro se non che è un vizio questo provocato nell'uomo dalla propria volontà.
Per sanarlo nella natura è necessario quello stesso Salvatore che è stato il Creatore della medesima natura.
Se di questo Salvatore e della sua medicina, a motivo della quale il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi, ( Gv 1,14 ) riconosciamo la necessità per i piccoli e per i grandi, ossia dai vagiti dell'infanzia fino alla canizie della vecchiaia, tutta la polemica esistente tra noi su questo punto è sparita.
Vediamo ora se nella Scrittura si legga che la carne è contraria anche ai battezzati.
Mi domando in proposito a chi scriveva l'Apostolo le seguenti parole: La carne ha desideri contrari allo spirito e lo spirito ha desideri contrari alla carne; si oppongono a vicenda, sicché voi non fate quello che vorreste. ( Gal 5,17 )
Le scriveva, penso, ai Galati ai quali domanda: Colui che dunque vi concede lo Spirito e opera portenti in mezzo a voi, lo fa grazie alle opere della legge o perché avete creduto alla predicazione? ( Gal 3,5 )
È chiaro quindi che egli parla a cristiani e a persone alle quali Dio aveva donato il suo Spirito; pertanto a persone anche battezzate.
Ecco trovato che la carne è contraria pure ai battezzati e che non esiste quel potere che costui dice inseparabilmente insito nella natura.
Che senso hanno allora le sue parole: "Com'è possibile che la carne sia contraria ad ogni battezzato?".
Comunque intenda la carne, e realmente qui con il nome di carne non s'intende la sua natura che è buona, ma s'intendono i vizi carnali, ecco tuttavia che la carne è contraria anche ai battezzati.
E in che modo contraria? In modo che essi non fanno quello che vorrebbero fare.
Ecco nell'uomo la volontà c'è. Dov'è la possibilità della natura?
Decidiamoci a riconoscere la necessità della grazia e gridiamo: Sono uno sventurato!
Chi mi libererà da questo corpo votato alla morte? E ci venga risposto: La grazia di Dio per Gesù Cristo nostro Signore! ( Rm 7,24-25 )
Quando giustissimamente si chiede a costoro: Perché dite che l'uomo può essere senza peccato facendo a meno dell'aiuto della grazia di Dio? allora non è in questione quella grazia da cui proviene la creazione dell'uomo, ma questa grazia da cui proviene la salvezza dell'uomo per Gesù Cristo nostro Signore.
I fedeli infatti dicono pregando: Non c'indurre in tentazione, ma liberaci dal male. ( Mt 6,13 )
Perché mai pregano, se hanno la possibilità?
O da quale malanno chiedono d'esser liberati se non soprattutto da questo corpo votato alla morte? ( Rm 7,24 )
E da esso non ci libera se non la grazia di Dio per Gesù Cristo nostro Signore. ( Rm 7,25 )
Non certo dalla sostanza del corpo che è buona, ma dai vizi carnali, dai quali l'uomo non viene liberato senza la grazia del Salvatore, nemmeno quando a causa della morte del corpo si separa dal corpo.
Per dire questo che cosa aveva scritto precedentemente l'Apostolo?
Eccolo: Nelle mie membra vedo un'altra legge che muove guerra alla legge della mia mente e mi rende schiavo della legge del peccato che è nelle mie membra. ( Rm 7,23 )
Ecco qual vizio la disobbedienza della volontà ha inflitto alla natura umana.
La si lasci pregare, perché il male la lasci.
Perché si presume così tanto della possibilità della natura?
È stata ferita, piagata, danneggiata, rovinata: ha bisogno d'una sincera confessione e non d'una falsa protezione.
La grazia di Dio che si deve cercare non è dunque quella con la quale Dio istituisce la natura, ma quella con la quale restituisce la natura: proprio l'unica grazia che costui per il fatto stesso che la taceva gridando che non è necessaria.
Se egli non avesse detto assolutamente nulla della grazia di Dio e per non suscitare il malcontento da lui provocato non si fosse proposto la soluzione della questione, si sarebbe potuto credere che egli stesse dalla parte della verità, ma non avesse parlato della grazia, perché non in ogni occasione si deve dire tutto.
Invece ha posto la questione della grazia e ha dato la risposta che aveva in cuore.
È risolta la questione: non quella che noi volevamo, ma sul punto dove noi dubitavamo quale fosse la sua sentenza.
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10 | Aug. De spir. et litt. 36,65; Aug. De perf. iust. hom. 6,15 |