Teologia dei Padri |
Cominciamo a vivere secondo virtù, finché ne abbiamo il tempo!
Proponiamoci di conseguire sistematicamente le diverse virtù; come fanno i contadini con le varie attività previste dall'agricoltura: nel primo mese, cioè, smettiamo di scagliare insulti e maledizioni e di adirarci ingiustamente, imponendoci una norma di vita e dicendo: « Oggi faremo bene questo ».
Nel mese successivo, poi, cercheremo di apprendere la pazienza e, in un altro, un'altra virtù.
Una volta acquisita, insomma, l'abitudine a una determinata virtù, passeremo a impararne un'altra, cercando di ritenere definitivamente, come a scuola, quanto si è recepito e di continuare ad apprendere cose sempre nuove.
Un passo dopo l'altro, cercheremo di arrivare sino al disprezzo del denaro, trattenendoci, anzitutto, dall'avarizia e dalla smania di possedere sempre di più e, soltanto dopo, facendo dono agli altri dei nostri beni.
Non dobbiamo, a questo proposito, fare più alcuna confusione, pretendendo, con le stesse mani, di rapinare il prossimo e di beneficiarlo poi con l'elemosina.
Raggiunto anche quest'obiettivo, prenderemo in considerazione un'altra virtù e, dopo di questa, un'altra ancora.
Non siano neppure nominate, in mezzo a voi… parole disoneste né buffonerie né discorsi licenziosi ( Ef 5,3-4 ).
Cominciamo, intanto, a far bene questo.
Non occorre spesa né fatica né sudore: basta volere e tutto diventa possibile.
Non bisogna percorrere chissà quanta strada né attraversare un mare sterminato, ma soltanto dimostrare un certo impegno e una volontà solerte e ben disposta, imponendo un freno alla nostra lingua perché si astenga da deprecabili imprecazioni.
Liberiamo l'anima nostra dalla collera, dalle passioni, dalla sensualità, dagli sperperi eccessivi, dal desiderio di ricchezza, dagli spergiuri e dall'abitudine a giurare.
Se la coltiveremo a questo modo, strappando via le spine che vi si trovano e spargendovi il seme celeste, allora sì che saremo degni di conseguire i beni promessi!
Quando, infatti, giungerà il contadino, egli ci riporrà nel granaio, consentendoci così di entrare in possesso di tutti quei beni.
Giovanni Crisostomo, Omelia sulla lettera agli ebrei, 24,3
Che meschinità i peccati! Di poco valore è la morte, mentre preziosa è la virtù.
Il nemico ci espone come schiavi prigionieri, e ci vende a vil prezzo; ma il Signore ci tratta come buoni servitori, che egli ha fatti a sua immagine e somiglianza e, apprezzando da conoscitore la sua opera, ci riacquista a gran prezzo, come dice il santo Apostolo: Siete stati pagati a gran prezzo ( 1 Cor 6,20 ).
Certo « a gran prezzo », poiché il prezzo non è stato calcolato in denaro, ma in sangue: ché Cristo è morto per noi, con il suo sangue prezioso ci ha liberati, come ricorda anche san Pietro, quando nella sua epistola scrive a noi: Perché non con argento o con oro corruttibile siete stati redenti dai vostri vani costumi aviti, ma col prezioso sangue di Gesù Cristo, quale agnello senza difetto e senza macchia ( 1 Pt 1,18 ).
Sangue giustamente « prezioso », perché è sangue di un corpo senza peccato, è sangue del Figlio di Dio, che ci ha riscattati non soltanto dalla maledizione della legge ( Gal 3,13 ), ma anche dalla definitiva morte dell'empietà.
Ambrogio, Commento al Vangelo di san Luca, 7,117
Se è vero che riusciamo ad apprendere e a praticare certe arti che sbalordiscono la gente, tanto più dovremmo mostrarci all'altezza di ciò che non richiede uno sforzo e un impegno così rilevanti.
Dimmi un po': c'è forse qualcosa che sia più rischioso e più difficile del camminare su di una fune distesa, come se ci si trovasse per terra, vestendosi mentre si cammina e poi spogliandosi come se si stesse seduti su di un letto?
Tutto questo non sembra talmente impressionante, da indurci a non voler neppure guardare, tremando e trattenendo il fiato di fronte a un simile spettacolo?
Che cosa c'è, dimmi, di più arduo e impegnativo del porsi in equilibrio un lungo bastone sulla fronte, facendo volteggiare infinite volte un bimbo postovi sopra e divertendo così gli spettatori?
Cosa si può paragonare, per rischio e difficoltà, al giocare con una palla sopra delle spade?
Esiste forse qualcosa di più temerario dell'andare a scrutare la profondità del mare?
E si potrebbe proseguire all'infinito.
Più semplice di tutte queste arti è, però, la virtù, se davvero nutriamo la volontà di metterla in pratica, l'ascensione verso il cielo.
In tal caso, infatti, ciò che unicamente conta è la volontà: se questa è presente, tutto si realizza di conseguenza.
Non è consentito dire: « Non ci riesco ».
Suonerebbe accusa per il Creatore.
Se egli, infatti, dopo averci creato deboli, ci ordinasse ciò che noi non siamo in grado di compiere, la colpa sarebbe sua.
Per quale motivo, allora, sono in molti coloro che davvero non riescono a vivere secondo virtù?
Per il semplice motivo che non lo vogliono.
E a che cosa è dovuto questo?
Alla loro pigrizia: se ne avessero davvero la volontà, infatti, vedresti allora come ne sarebbero all'altezza!
Non è a caso che Paolo dice: Voglio che tutti gli uomini siano come me ( 1 Cor 7,7 ).
L'Apostolo, infatti, sapeva bene che tutti potevano diventare come era lui; neppure, anzi, avrebbe espresso un auspicio di quel genere, se la sua realizzazione non fosse stata possibile.
Vuoi davvero diventare virtuoso? Ebbene, prova intanto a cominciare.
Dimmi un po', infatti: in tutti i mestieri di questo mondo, non accade forse la stessa cosa?
Se abbiamo in animo di praticarne uno, basta semplicemente volerlo, o non è anche necessario cominciare in qualche modo a intraprenderlo praticamente?
Se uno, ad esempio, vuole diventare governatore, non gli basta dire: « Io lo voglio »; occorre, altresì, fare qualcosa di concreto per avvicinarsi a quell'obiettivo.
Uno vuole fare il mercante. Ebbene, costui non si limiterà a dire: « Lo voglio »; inizierà, al contrario, a farlo davvero.
Un altro desidera andare all'estero. Non dirà, anche qui, soltanto: « Voglio andarci »; ma cercherà di mettere in atto il suo progetto.
In tutte le cose, perciò, non è sufficiente semplicemente il volerle, ma occorre aggiungere alla volontà anche le opere che vi siano conformi.
Ora, volendo salire in cielo, dirai unicamente: « Lo voglio »?
Ma come - potresti obiettare - non dicevi prima che basta la volontà?
Certamente: la volontà, però, va manifestata concretamente, nell'intento di mandarla davvero ad effetto.
Dio, infatti, è colui che ci aiuta e ci sostiene nella nostra fatica: a noi spetta unicamente di scegliere, di manifestare la serietà e l'impegno dei nostri propositi, di mostrarci ben disposti e di rivolgere il nostro spirito verso quella meta.
Tutto il resto ne verrà di conseguenza.
Se, invece, ce ne restiamo a dormire e, mentre russiamo, ci aspettiamo di entrare in cielo, quando mai riusciremo a ottenere l'eredità celeste?
Risvegliamo, allora, la nostra volontà; è di questo che vi scongiuro: cerchiamo di volerlo davvero!
Giovanni Crisostomo, Omelia sulla lettera agli ebrei, 16,4
Da uno stato naturale d'ignoranza e difficoltà l'anima comincia a progredire e innalzarsi verso la sapienza e la pace, fino a che in lei si manifesta a pieno la vita beata.
Ma se, per propria volontà, trascura questo progresso nell'impegno e nella devozione, di cui non le è negato il potere, giustamente precipita in un'ignoranza e in una debolezza ben peggiori, che sono già punizione; essa viene abbassata al livello delle realtà inferiori, per un ordine di cose armonioso e convenientissimo.
Il fatto che l'anima naturalmente non sa e naturalmente non può, non è ritenuto reato; ma lo è il fatto che non cerca di sapere, e non si applica convenientemente per acquistare la facilità ad agire bene.
Non sapere e non poter parlare è naturale per il bambino piccolo: questa sua ignoranza e difficoltà, non viene censurata alla stregua delle leggi dei grammatici, ma anzi è grata e soave per l'animo umano; il piccino, certo, non trascura colpevolmente di acquistar la facoltà d'esprimersi, né colpevolmente tale facoltà perde.
Dunque, se la nostra beatitudine consistesse nell'eloquenza e si ritenesse peccato errare nell'espressione delle parole, come è peccato errare nelle azioni della vita, non si riterrebbe colpevole di peccato l'infanzia, che anzi è il punto di partenza per pervenire all'eloquenza; ma giustamente si condannerebbe chi per sua volontà e sua perversione o si ferma all'infanzia o ad essa ritorna.
Ora, se l'ignoranza del vero e la difficoltà del bene è naturale all'uomo ed è il punto da cui ci si eleva alla sapienza e alla pace beata, nessuno può rimproverare questo che è un inizio naturale; ma se l'uomo non vuole progredire, anzi vuol tornare indietro, ben giustamente ne sconterà la pena.
La lode da innalzare al Creatore, invece, è sempre identica, sia che egli abbia spinto l'anima da quel punto di partenza alla capacità del sommo bene, sia che l'abbia aiutata nel progresso, sia che nel progresso la perfezioni; oppure sia che stabilisca per lei una giustissima e ben meritata condanna, qualora essa pecchi, cioè ricusi di elevarsi alla perfezione, o addirittura decada dal progresso conseguito.
Ma non è stata creata cattiva per il fatto che all'inizio essa non è ancora quale le è stato concesso di divenire in seguito, progredendo; fin dall'inizio, infatti, sono a lei enormemente inferiori tutte le perfezioni corporee che nel loro genere sono degne di lode, come giudica chi rettamente giudica.
Se dunque un'anima ignora come debba agire, ciò dipende dal fatto che ancora non le è stato concesso; ma le sarà concesso, se userà bene ciò che ha già ricevuto.
E ha ricevuto di poter chiedere con devozione e diligenza, se lo vuole.
Se poi non è capace di adempiere immediatamente ciò che riconosce di dover compiere, anche questo non le è ancora stato concesso: una sua parte più elevata è in anticipo e percepisce il bene che deve compiere, ma un'altra sua parte, più lenta e carnale, non sa seguire senz'altro la prima.
E da questa difficoltà viene istruita a supplicare colui che la aiuta nella sua perfezione, e che essa sente autore del suo stesso inizio; e per questo si fa a lui più cara, perché non per le sue forze, ma per la sua bontà le è concesso l'essere e per la sua misericordia viene elevata alla beatitudine.
E quanto più è cara a colui da cui ha avuto l'essere, tanto più saldamente in lui si acquieta e tanto più riccamente gode della sua eternità.
Negli alberi, infatti, non diciamo che è sterile il virgulto rigoglioso e forte, anche se per qualche estate non porta frutto: a tempo opportuno spiegherà tutta la sua feracità.
Così non si deve negare la pia lode al creatore dell'anima, se le dona un tale inizio per cui, con l'applicazione e il progresso, essa perviene all'abbondanza della sapienza e della giustizia, e se le ha elargito tanta dignità, da porre in suo potere il voler tendere o no alla beatitudine.
Agostino, Il libero arbitrio, 3,64-65
Taluni ritengono impossibile, per chi viva in una città, praticare con perseveranza la virtù.
Sono persuasi invece che, a tale scopo, occorra separarsi dal contesto sociale per andare a vivere in chissà quale luogo isolato sulle montagne; secondo loro, infatti, un padre di famiglia, che abbia moglie e si prenda cura dei figli e dei servitori, non può essere al tempo stesso virtuoso.
Considerino, allora, costoro l'esempio offerto da quel giusto che, pur abitando in una città e avendo moglie, figli e servitori, brilla, a contatto dei malvagi ed empi con i quali vive, come una fiammella in mezzo al mare, non soltanto senza mai spegnersi, ma emanando una luce ogni giorno più radiosa.
Nel dir questo, peraltro, non intendo assolutamente proibire di abbandonare la città né di condurre l'esistenza sulle montagne o nei deserti; voglio soltanto dimostrare, invece, che, per chi desideri vivere sobriamente e in spirito di penitenza, la città non potrà essergli di alcun ostacolo.
Non è, infatti, un luogo piuttosto che un altro a renderci virtuosi, ma unicamente lo spirito e il costume di vita: prova ne sia che, come la solitudine non fa compiere alcun progresso a chi non sia animato da una sincera volontà e da una seria disposizione a perseverare nel bene, così pure la persona davvero assennata e consapevole non viene minimamente danneggiata dal condurre la sua esistenza in una città.
Il mio augurio, pertanto, è che tutti, non diversamente da quel beato, si possano distinguere nelle città per la loro virtù, così da divenire il lievito per gli altri e da indurre molti a imitarli.
Giovanni Crisostomo Omelie sul Genesi, 43,1
Non aver compiuto il bene equivale ad aver fatto del male.
Dimmi un po', infatti: se tu avessi un servo che, pur non rubando né mancandoti di rispetto né ubriacandosi né macchiandosi di alcun'altra colpa, se ne stesse continuamente seduto ad oziare, senza compiere nessuno di quei lavori che un servitore ha l'obbligo di assolvere per il suo padrone; se tu, dico, avessi un domestico del genere, non lo puniresti? « Certamente », mi risponderai.
Eppure costui non ha fatto nulla, propriamente, di male: è proprio in questo, perciò, che consiste il male.
Se siete d'accordo, facciamo un esempio tratto da una diversa situazione di vita.
Supponiamo che un contadino, che non rechi alcun danno alle nostre proprietà, non sia disonesto e non rubi, se ne rimanga, però, tranquillamente a casa con le mani in mano, senza andar a seminare né ad arare né ad aggiogare i buoi né a coltivare la vite: senza compiere, insomma, nessun altro dei lavori inerenti all'agricoltura.
Ebbene, non lo castigheremo per questo?
Eppure, egli non ha recato alcun danno e non potremmo accusarlo di nessun delitto.
Il danno, però, risiede appunto in questo: rappresenta un'offesa contro il senso comune, infatti, trascurare di compiere il proprio dovere.
Se ogni lavoratore e ogni operaio, pur non danneggiando nessuno né con il proprio né con l'altrui mestiere, rimanesse tuttavia inoperoso, la nostra esistenza non ne risulterebbe irrimediabilmente limitata e compromessa?
Vuoi che faccia un altro esempio dal corpo umano?
Supponiamo, allora, che la mano, benché non ferisca la testa né tagli la lingua né cavi un occhio né, insomma, commetta alcun danno del genere, resti tuttavia inerte e non assolva le sue funzioni a beneficio di tutto il corpo.
Ebbene, non sarebbe forse meglio tagliarla, piuttosto che portarsela dietro inutilmente e danneggiando, con essa, il corpo intero?
Se, ancora, la bocca, pur non divorando una mano né mordendo il petto, tralasciasse però di adempiere a tutti i suoi compiti, non sarebbe allora meglio che venisse definitivamente chiusa?
Se, dunque, sia per quanto concerne i servitori che per gli operai e per tutto il corpo un grave danno rappresenta, non soltanto l'aver fatto qualcosa di male, ma anche l'aver trascurato di compiere il bene, figuriamoci quanto più vero sarà tutto questo allorché si tratti di un membro del corpo di Cristo [ ricollegandosi alla teologia paolina, l'autore accenna qui alle implicazioni etiche derivanti, sul piano sociale e individuale, dalla dottrina del « corpo mistico » sotto il profilo ascetico e morale ].
Giovanni Crisostomo, Omelie sulla lettera agli Efesini, 16,1
Voi chiedete i miracoli, che compivano gli apostoli al loro arrivo, allorché guarivano i lebbrosi, scacciavano i demoni e risuscitavano i morti?
La dimostrazione più eloquente della vostra generosità e del vostro amore, tuttavia, consiste in questo: nel credere, cioè, in Dio, senza assistere a prodigi del genere.
É per questo, infatti, come anche per altri motivi, che Dio ha posto fine ai miracoli.
Infatti, se, nonostante la fine dei prodigi, coloro che si distinguono per altre doti, come il saper parlare o l'eccellenza della devozione, si riempiono di orgoglio, s'insuperbiscono e finiscono col separarsi dai loro fratelli, ebbene, se costoro avessero anche il potere di compiere miracoli, vi rendete conto a quali scismi si rischierebbe di andar incontro?
Che tutto questo non sia semplicemente il frutto di congetture, lo dimostra ciò che Paolo scrisse ai Corinti, i quali, proprio in conseguenza dei motivi che abbiamo denunciato, si erano divisi in molti partiti ( 1 Cor 1,10-12 ).
Non chiedete, perciò, miracoli; andate, piuttosto, in cerca della salvezza per le anime vostre.
Non abbiate la smania di veder risuscitare un morto, giacché sapete che, un giorno, saranno tutti i morti a risorgere.
Non vogliate chiedere di vedere un cieco risanato, ma rendetevi conto, invece, di come adesso chiunque sia in grado di percepire con uno sguardo più acuto e penetrante.
Abituatevi, altresì, ad esser casti nel guardare, orientando opportunamente i vostri sguardi.
Se tutti noi vivessimo come si conviene, i pagani ne riceverebbero un'impressione ancor maggiore che se assistessero al compimento dei più stupefacenti miracoli: i prodigi, infatti, sembrano spesso dei semplici trucchi e sono da taluni ritenuti opera di potenze diaboliche, benché un sospetto del genere non possa esser certo nutrito nei confronti dei nostri miracoli.
Nessuno, per contro, oserà mai avanzare delle riserve nei riguardi d'una vita pura.
Il possesso della virtù, infatti, chiude la bocca a chiunque.
Adoperiamoci, allora, per acquistare la virtù, giacché molte e di gran pregio sono stimate le ricchezze ch'essa racchiude.
La virtù procura la libertà, rendendo liberi anche gli schiavi, non già in quanto li riscatta dalla servitù, ma perché, pur rimanendo schiavi, essa li rende superiori agli stessi uomini liberi ( il che rappresenta molto di più della libertà comunemente intesa ).
La virtù non trasforma il povero in ricco, ma, pur lasciandolo nella sua condizione di indigenza materiale, gli dona una ricchezza più preziosa di quella posseduta da una persona facoltosa.
Se, poi, desideri compiere miracoli, liberati dai peccati e avrai fatto tutto.
Un pericoloso demonio è, infatti, il peccato, o carissimo; il giorno in cui te lo sarai strappato di dosso, avrai compiuto un'opera più prestigiosa che se avessi scacciato via mille demoni.
Ascolta ciò che dice Paolo, quando parla a proposito della virtù, considerandola superiore ai miracoli: Aspirate ai doni più elevati; raccomanda l'Apostolo, anzi, vi insegno una via che sorpassa ogni altra ( 1 Cor 12,31 ).
Spiegando, poi, in che cosa consista questa via, non parla di morti risuscitati né di lebbrosi risanati né di alcun'altra cosa del genere: al posto di tutto questo, invece, Paolo propone la carità.
Presta orecchio, ancora, alle parole di Cristo che dice: Non vi rallegrate perché vi stanno soggetti gli spiriti, ma per il fatto che i vostri nomi sono scritti nei cieli ( Lc 10,20 ).
E prima di questo il Signore aveva detto: Molti mi diranno in quel giorno: Signore! Signore! Non abbiamo noi profetato in tuo nome?
Non abbiamo nel tuo nome compiuto molti prodigi? Ma allora dirò a costoro apertamente: Io non vi conosco ( Mt 7,22-23 ).
Ormai prossimo alla sua crocifissione, disse agli apostoli riuniti: Da questo conosceranno tutti che siete miei discepoli, se avrete amore gli uni verso gli altri ( Gv 13,35 ), non se vi mostrerete in grado di scacciare i demoni.
E ancora: Da questo tutti riconosceranno che sei stato tu a mandarmi, non, cioè, se i miei discepoli esorcizzeranno i demoni, ma se saranno una cosa sola ( Gv 17,23 ).
Spesso, infatti, i miracoli, pur recando a taluno qualche giovamento, hanno nociuto a colui che li compiva, suscitando in lui superbia e vanagloria o danneggiandolo in altro modo.
Quando si compiono opere virtuose, invece, non si corre alcun rischio del genere: la virtù, al contrario, giova sia a colui che la persegue così come a molti altri.
Adoperiamoci, dunque, con tutto il nostro zelo per conquistarla.
Se infatti ti convertirai, diventando, da disumano che eri, generoso verso i poveri, sarà come se avessi guarito una mano sino a quel momento atrofizzata.
Se, rinunciando al teatro, entrerai in una chiesa, sarà per te come aver risanato un paralitico.
Se distoglierai il tuo sguardo dalle prostitute e dalla bellezza altrui, avrai restituito la vista a un cieco.
Allorché imparerai a cantare, in luogo di diaboliche canzoni, salmi spirituali, avrai reso a un muto il dono della parola.
Sono questi i miracoli più strepitosi, i più sublimi prodigi.
Se saremo perseveranti nel compiere opere come queste, diverremo noi stessi grandi e nello stesso tempo potremo essere di ammirazione agli altri; e attirando verso la virtù tutti i peccatori, meriteremo di conseguire la gloria futura.
Giovanni Crisostomo, Commento al Vangelo di san Matteo, 32,7-8
Il contadino, dopo aver seminato il campo, ne riceve, come ricompensa, un abbondante raccolto.
L'ortolano, similmente, una volta che abbia piantato gli alberi, ottiene in cambio i frutti che nascono da questi.
Ebbene, coloro i quali, invece, aspirano ad essere virtuosi e coltivano il paradiso divino, concentrando sulle piante che sono in esso tutto il loro sudore, con enorme fatica e una cura scrupolosa, dovrebbero, allora, essi soli, svolgere un lavoro improduttivo, affaticandosi senza la prospettiva di una ricompensa?
Anche i ballerini e i cantanti riscuotono corone e premi e godono della soddisfazione di essere applauditi dagli spettatori.
La virtù, allora, dovrebbe essere onorata meno dell'atletica o del pugilato?
Questa competizione, che è la più grandiosa di tutte, non merita, forse, spettatori, arbitro, successi, riconoscimenti?
Persino gli attori di tragedie e di commedie ottengono tutto questo: è con tale prospettiva, anzi, che essi si esibiscono e, confidando nel successo, si sottopongono a un duro lavoro.
Coloro che partecipano alle corse dei carri, parimenti, non esitano ad affrontare audacemente i pericoli, sollecitati dalla speranza della vittoria e dal desiderio delle lodi da parte del pubblico; oltre a tutto questo, poi, riscuotono una ricompensa dagli allevatori di cavalli.
Anche il nocchiere, d'altronde, guardando il porto allontanarsi dietro di sé, ha l'ardire di affrontare le onde e di sostenere la violenza delle tempeste, solo se è spinto dalla smania di guadagno.
Così pure il ciabattino, il fabbro, chiunque insomma eserciti un mestiere, attende il frutto della propria fatica e, unendo in egual misura la speranza del guadagno al lavoro richiesto dal mestiere, condisce di piacere il proprio sudore.
Se riteniamo allora, a quanto sembra, che soltanto l'arte della virtù, se così la si vuol chiamare ( ovvero la scienza del combattimento e della gara, o anche l'agricoltura e il giardinaggio: sono questi, infatti, titoli tutti che le si addicono ), se stimiamo, insomma, che ad essa sola debba rimanere estraneo un utile vantaggio, chi mai ci potrebbe confortare, nel momento della fatica?
Inutilmente, allora, i temperanti perseguono la continenza, resistendo alle più svariate passioni e cercando di spegnere il loro ardore?
Senza scopo i cultori della giustizia lottano con l'ingiustizia, tenendosi lontani dai beni altrui e privandosi persino dei propri?
Inutile è il possesso della fortezza per coloro che cercano di raggiungerla, dal momento che, pur sopportando con cuore generoso le disgrazie che subiscono, non v'è, tuttavia, nessun giudice a valutare i loro sacrifici come meritano?
Ma le cose non stanno affatto così, nossignore!
Il possesso della virtù, infatti, è prezioso e degno di esser perseguito …
E in questa vita presente, appunto, noi constatiamo come siano in parecchi coloro che cercano di conseguire la virtù e di sottoporsi a dure prove in nome di essa, anche se non tutti, però, riscuotono plauso e prestigio per questo loro comportamento: mentre taluni estimatori della virtù, infatti, sono sulla bocca di tutti e divengono celebri, al punto che, anche dopo la loro morte, lasciano dietro di sé una gloria incancellabile; altri, invece, rimanendo completamente sconosciuti, sono come la perla nascosta negli abissi del mare e rinchiusa nella conchiglia …
Dal momento che, allora, noi vediamo che, in questo mondo, una parte dei virtuosi consegue una grande gloria, mentre altri di loro ne rimangono assolutamente privi e vengono considerati alla stregua di tutti gli altri, dobbiamo dedurre da questo fatto l'esistenza di un'altra vita, nella quale la virtù sarà adeguatamente ricompensata.
e, infatti, Dio ha concesso ad alcuni la gloria, egli ha inteso, in questo modo, manifestare la ricompensa da lui riservata alla virtù.
Giacché, tuttavia, non tutti Dio rende, fin da questa vita, gloriosi e celebri, è per questo motivo che egli disvela, appunto, la vita futura …
Il supremo Ordinatore dell'universo, pertanto, non rende manifesti tutti coloro che abbiano vissuto con bontà e giustizia in questo mondo né, parimenti, punisce tutti coloro che abbiano condotto un'esistenza dissoluta; ne manda, tuttavia, alcuni al supplizio per dimostrare la giustizia del proprio tribunale e per invitare gli altri, con il terrore suscitato dalle pene inflitte a costoro, alla penitenza …
Esiste comunque un'altra vita, nella quale, coloro che quaggiù siano sfuggiti ai castighi, subiranno la giusta punizione; mentre quanti, nel corso dell'esistenza terrena, non abbiano ricevuto ricompensa alcuna, per la loro virtù, riscuoteranno il premio delle loro fatiche.
Teodoreto di Ciro, La provvidenza divina, 9
Se ti meravigli che la luna diminuisca e mostri tanta forza nel mutare, rifletti che in ciò vi è un grande mistero: dal suo esempio puoi conoscere, o uomo, che fra le realtà umane e mondane di tutto il creato non vi può esser niente che prima o poi non venga meno.
Se infatti la luna, a cui il Signore ha affidato il compito di illuminare la terra, cresce e viene meno, vengono meno anche tutte le cose che, sorte dal nulla, sono giunte alla perfezione: anche ciò che è perfetto viene meno, infatti il cielo e la terra passeranno.
Perché ciò non ci serve a mantenerci nella moderazione?
Così non ci abbatteremmo nelle avversità - chi ha fatto tutto dal nulla può facilmente elevare anche te alla perfezione somma -, e viceversa non ci esalteremmo nelle prosperità vantandoci del potere, delle ricchezze, delle forze corporee o della bellezza - tutto ciò facilmente viene meno e spesso muta -, ma cercheremmo con ansia la grazia dell'animo che resta per sempre.
Se ti rattrista il declinare della luna, che pur sempre ripara e rinnova la sua pienezza, tanto più ti devi contristare se la tua anima, già progredita nelle virtù, poi per l'incostanza e l'incuria viene meno al suo proposito e muta spesso le sue sollecitudini: segno questo di poca sapienza e poco criterio.
Per questo la Scrittura dice: Lo stolto muta come la luna ( Sir 27,12 ), mentre il sapiente non muta come la luna, ma resta come il sole.
Tuttavia la stoltezza non è nella luna, perché non è essa che muta come lo stolto, ma lo stolto che muta come la luna.
Del resto la schiatta dei giusti resterà perfetta in eterno come la luna, testimone in cielo fedele ( Sal 89,38 ).
Una cosa infatti è compiere un ufficio, altra cosa è mutare d'animo e per debolezza di carattere non restar fermi nel proposito.
La luna fatica per te, soggetta al volere di Dio; ogni creatura infatti è soggetta alla caducità, non di sua inclinazione, ma per volere di colui che ve l'assoggettò, però con la speranza ( Rm 8,20 ).
La luna dunque non muta di sua inclinazione: tu muti per tua inclinazione.
Essa attende nel travaglio, mutandosi; tu non comprendi quel che fai, e spesso te ne rallegri.
Essa aspetta con ansia la tua redenzione, per essere liberata dal servizio generale imposto a tutto il creato: tu invece impedisci la tua redenzione e insieme la sua libertà.
La stoltezza, dunque, non è sua, ma tua, se, mentre te ne stai ad aspettare e procrastini la tua conversione, essa continua a mutare.
Ambrogio, Esamerone, 4,31
Chi ricerca il bene per qualcos'altro non è saldo nella virtù.
Invero, allorché qualcosa svanisce, costui abbandona il bene al pari di uno che viaggia in mare a motivo del guadagno, ma subito cessa di viaggiare quando ha riscosso il guadagno.
Invece, colui che stima e onora il bene per se stesso possiede per questo motivo anche un saldo e costante entusiasmo in quanto egli ama ciò che perdura.
Così esperimenta e prova qualcosa di divino e può dire come Dio: Io sono sempre lo stesso e non cambio ( Ml 3,6 ).
Sicché egli non sarà soggetto al cambiamento, non si cambierà insieme con i tempi e con le cose, non sarà ora così, ora colà, non assumerà di continuo nuovi colori come i polipi che prendono i colori degli scogli che raggiungono.
Egli resta sempre lo stesso, sta fermo quando le cose vacillano, non si gira e rigira quand'anche queste si girino e rigirino.
Vorrei dire che è come uno scoglio in mezzo al mare che non viene scosso dalla violenza del vento né dei marosi, ma anzi spezza e polverizza le onde che s'infrangono contro di esso.
Gregorio di Nazianzo, Discorso di autodifesa, 9
Molti sono stati, forse, ad abbracciare la vita solitaria; pochi tuttavia, com'è naturale, si sono mostrati in grado di mantenervisi coerenti sino in fondo.
Ora, non certo nei soli propositi risiedono i buoni risultati; i frutti delle fatiche, al contrario, si verificano nell'esito finale.
Nessun vantaggio, dunque, per quanti non si diano da fare per condurre ad effetto il proposito formulato, ma si mantengano fedeli soltanto nei primi tempi alla vita monastica; anzi, offrendo il destro all'accusa d'ignavia e di leggerezza da parte di chi li osserva dal di fuori, i proponimenti di costoro finiscono col diventare persino ridicoli.
É a loro, infatti, che si rivolge il Signore, allorché dice: Chi di voi, avendo intenzione di costruire una casa, prima non si siede e calcola scrupolosamente la spesa, per vedere se possa condurla a termine?
Altrimenti se, una volta gettate le fondamenta, non riesce a finirla, tutti quelli che se ne accorgono, si mettono a deriderlo, dicendo: Costui ha incominciato a costruire, ma non ha potuto portare a compimento ( Lc 14,28-30 ).
Chi intraprende la strada della virtù, pertanto, vi progredisca anche con zelo e prontezza.
Paolo, infatti, da quel generosissimo atleta qual era, non volendo che noi riposassimo sugli allori della precedente vita ben condotta, ma, al contrario, continuassimo a progredire ogni giorno di più, disse: Dimenticando ciò che si trova alle spalle, e proteso a ciò che è davanti, corro verso la meta, per conseguire il premio riservato a una vocazione superiore ( Fil 3,13-14 ).
La vita umana, infatti, è degna di questo nome allorquando non sia soddisfatta degli avvenimenti ormai trascorsi, ma si alimenti di quanto è passato altrettanto quanto di ciò che ancora dovrà accadere.
Che cosa giova all'uomo d'aver saziato ieri il proprio stomaco, se non trova poi cibo sufficiente per soddisfare adeguatamente la fame che lo assilla oggi?
Similmente, perciò, anche per l'anima: nessun guadagno per essa dalla buona azione di ieri, nel caso in cui non sia seguita anche dalla giusta opera di oggi.
« Come ti avrò sorpreso », ammonisce infatti il Signore, « così ti giudicherò » …
Ti sia dunque chiaro, o fratello, che non è perfetto chi bene incomincia: colui che conclude bene, al contrario, riscuote il consenso da parte di Dio.
Non concedere, perciò, sonno ai tuoi occhi né alle palpebre riposo ( Sal 132,4 ), se vorrai salvarti come una gazzella dal cacciatore o come un uccello dai lacci che gli siano stati tesi ( Pr 6,5 ).
Ti sembri, appunto, di passare in mezzo a delle trappole e di camminare su di un muro altissimo donde sarebbe fatale il precipitare.
Dirigi allora subito te stesso verso la sommità della vita ascetica; soprattutto, poi, non nutrire soverchia confidenza nelle tue forze per non cadere nuovamente, una volta raggiunto il vertice dell'ascetismo.
« infatti cosa migliore progredire a poco a poco.
Distogliti perciò gradualmente dai piaceri dell'esistenza, abbandonando pian piano ogni tua consuetudine, per evitare così il pericolo che, frustrando improvvisamente tutti in una volta i tuoi appetiti sensoriali, tu non venga poi afflitto da una moltitudine di tentazioni.
Quando, invece, avrai decisamente sconfitto, come fosse una malattia, anche un solo aspetto della tua sensualità, sarà allora che ti accingerai a debellarne un altro; così facendo, alla fine, sarai in grado di tenere efficacemente a freno tutte le tue passioni.
Basilio il Grande, Lettere, 42,1-2 ( a Chilone )
Per la nostra fede comune, per l'amore schietto e sincero del nostro cuore, esortiamo voi, che avete vinto l'avversario al primo attacco, di mantenere inalterata la vostra gloria con virtù salda e perseverante.
Siamo ancora a questo mondo, siamo ancora in guerra, ogni giorno combattiamo per la nostra vita.
Dovete operare con forza, perché dopo lo splendido inizio segua anche l'aumento e si perfezioni in voi ciò che felicemente avete cominciato.
É poco aver acquistato alcunché; è più importante conservare ciò che si è acquistato; del resto la stessa fede e la rinascita alla salvezza vivificano non solo se accettate, ma anche custodite, e non è il primo conseguimento, ma il perfezionamento che salva l'uomo per Dio.
Ce lo ha proposto il Signore nel suo insegnamento dicendo: Ecco, sei stato risanato: non peccare più, ché non ti succeda qualcosa di peggio ( Gv 5,14 ).
Cipriano di Cartagine, Lettere, 13,2 ( ai confessori rilasciati dal carcere )
La lampada posta sul candelabro è la vera luce del Padre, quella che illumina ogni uomo che viene nel mondo: il nostro Signore Gesù Cristo, che prendendo la nostra carne, s'è fatto e s'è chiamato lampada.
Colui cioè che è per natura Sapienza e Parola del Padre; colui che nella Chiesa di Dio è proclamato dalla fede; colui che è esaltato e fatto risplendere tra i popoli con una vita virtuosa grazie all'osservanza dei comandamenti, e che brilla per tutti quelli che sono nella casa, cioè in questo mondo.
Così infatti afferma lo stesso Dio e Verbo: Nessuno accende una lucerna e la mette sotto il moggio, ma sul candelabro, dove brilla per tutti quelli che sono nella casa ( Mt 5,15 ).
Egli chiama evidentemente se stesso lucerna, in quanto è Dio per natura e s'è fatto carne secondo l'economia della salvezza …
Credo che anche il grande Davide pensasse a questo quando chiamò lucerna il Signore, dicendo: Lucerna per i miei piedi è la tua legge, e luce sui miei sentieri ( Sal 119,105 ).
Il mio Salvatore e mio Dio è liberatore dalle tenebre dell'ignoranza e del vizio: è per questo che anche dalla Scrittura è stato detto lucerna.
Lui solo, dissipando quale lucerna la caligine dell'ignoranza e le tenebre del peccato, si è fatto per tutti cammino di salvezza.
Mediante la virtù e la conoscenza, egli porta al Padre quelli che vogliono percorrere questa via di giustizia con l'osservanza dei comandamenti di Dio.
Quanto al candelabro, è la santa Chiesa.
Basata sulla sua predicazione, la parola di Dio splende e illumina con lo sfavillio della verità tutti quelli che si trovano in questo mondo, come fossero in una casa, riempiendo le menti di tutti della conoscenza di Dio …
La Parola non vuole in nessun modo essere tenuta sotto il moggio: essa vuole essere posta ben in alto, dove più sublime è la bellezza della Chiesa.
Tenuta infatti sotto la lettera della Legge come sotto un moggio, la Parola lasciò tutti privi della luce eterna, senza dare la contemplazione spirituale a quanti cercavano di svestirsi del senso ingannevole, capace soltanto d'illusione, atto a percepire solo le cose corruttibili.
Ma posta sul candelabro che è la Chiesa, cioè sul culto razionale nello Spirito, essa illumina tutti …
Perché la lettera, se non è compresa spiritualmente, ha solo il senso limitato della sua espressione, e non permette alla forza di quello che è stato scritto di aprirsi una strada verso l'intelligenza …
Se accendiamo dunque la lucerna, cioè la Parola luminosa della conoscenza, con la contemplazione e con l'azione, non mettiamola sotto il moggio, al fine di non essere condannati per aver circoscritto entro la lettera l'incomprensibile forza della Sapienza.
Mettiamola piuttosto sopra il candelabro, cioè sulla santa Chiesa, sulla sommità della vera contemplazione, perché possa far risplendere su tutti la luce della divina verità.
Massimo il Confessore, Quesito 63 a Talassio
Forse che il santo re Davide, benché molte vicende della sua storia siano avvolte in un mistero, non ci appare più grande per aver riconosciuto la sua umana debolezza, e aver giudicato che il peccato commesso togliendo la sposa a Uria doveva essere lavato con le lacrime del pentimento, mostrandoci così che nessuno deve fidarsi troppo della sua virtù?
In realtà noi abbiamo un temibile avversario, che non può essere vinto da noi senza l'aiuto di Dio.
Tu troverai che spesso nella vita di uomini illustri e santi ci furono gravi colpe; questo perché ti convinca che essi, quali esseri umani, furono accessibili alla tentazione, e poi perché, a motivo delle loro grandi virtù, non vengano considerati esseri sovrumani.
Infatti Davide, per aver detto: se ho restituito del male a chi mi voleva bene ( Sal 7,5 ), e avere aggiunto altrove: quanto a me, ho detto nella mia prosperità: non cadrò giammai ( Sal 30,7 ), ricorda di aver subìto immediatamente la punizione per la sua arroganza; così dice: Tu hai distolto il tuo volto da me, e io sono caduto nel turbamento ( Sal 30,8 ).
Se dunque anche un antenato diretto del Signore ha subìto la condanna per la sua superbia, quanto più noi peccatori, che non abbiamo alcuna ricchezza di meriti che ci sostenga, dobbiamo temere gli scogli dell'orgoglio, su cui tanta gente dabbene fa naufragio, e soprattutto perché un uomo tanto grande ce ne dà l'insegnamento e l'esempio, avendo egli ritenuto suo dovere cantare in seguito il canto del pentimento e della purificazione per rappacificarsi con il Signore dicendo: Signore, il mio cuore non è orgoglioso, i miei occhi non osano guardare verso le grandi altezze ( Sal 131,1 ), e ancora: Con il Signore alla mia destra io non sarò travolto ( Sal 16,8 ).
Egli sapeva bene, infatti, che il momento in cui aveva avuto troppa fiducia in se stesso, era stato proprio il momento della caduta.
E infine egli ci insegna che nell'uomo non c'è niente altro che il fatto di conoscere Dio; così leggi infatti: Cos'è mai l'uomo che tu ti fai conoscere a lui? cos'è il figlio dell'uomo di cui tieni conto? ( Sal 144,3 ).
Se dunque Davide condanna l'arroganza e si riveste di umiltà, giustamente nell'episodio della sposa di Uria c'è l'esortazione all'umiltà.
Ambrogio, Commento al Vangelo di san Luca, 3,37
Non c'è umiltà nel considerarsi peccatori, dato che lo siamo realmente.
L'umiltà invece esiste quando chi è consapevole di aver fatto molte cose di rilievo, non si fa un alto concetto di se stesso; quando, pur essendo simili a san Paolo al punto da poter affermare: Non sono consapevole di colpa alcuna, subito si aggiunge: Non per questo sono giustificato ( 1 Cor 4,4 ), oppure: Cristo Gesù è venuto nel mondo per salvare i peccatori e di questi il primo sono io ( 1 Tm 1,15 ).
Ecco in che cosa consiste l'umiltà: abbassare noi stessi nello spirito, nonostante la grandezza delle nostre azioni.
Dio, nel suo indicibile amore per gli uomini, non accoglie soltanto chi si umilia in questo modo, ma anche chi confessa lealmente le proprie colpe; si mostra anzi ben disposto e benevolo verso chi ha tali disposizioni.
Per imparare quanto sia bene non avere un'alta stima di sé, immagina due carri.
Attacca a uno la virtù e l'orgoglio, all'altro il peccato e l'umiltà.
Nella corsa, il carro del peccato supererà quello della virtù, non per la propria potenza, ma per la forza dell'umiltà che lo accompagna, e l'altro rimarrà indietro, non per la debolezza della virtù, ma a causa del peso dell'orgoglio.
L'umiltà, per la sua immensa forza di elevazione, trionfa sulla pesantezza del peccato ed è la prima a salire in cielo; l'orgoglio, a causa del suo grande peso e della sua enormità riesce a vincere l'agilità della virtù e a trascinarla facilmente verso il basso.
A proposito di questo « tiro a due » più veloce, ricorda la parabola del fariseo e il pubblicano.
Il fariseo attaccava insieme la virtù e l'orgoglio, affermando: O Dio, ti ringrazio che non sono come gli altri uomini ladri, ingiusti adulteri, e neppure come questo pubblicano ( Lc 18,11 ).
Quale pazzia! Il suo orgoglio non si accontentava del genere umano nel suo insieme, aveva bisogno di insultare con molta fatuità il pubblicano che gli era accanto.
E questi che fece? Non respinse le ingiurie, non si irritò per il biasimo, ma accolse il discorso con benevolenza.
Il comportamento del nemico divenne per lui occasione di rimedio e di guarigione; il biasimo si cambiò in elogio e l'accusa in premio.
Tali sono infatti la bellezza e i vantaggi dell'umiltà: non ci si irrita più per gli oltraggi e le ingiurie non toccano più.
Può persino derivarne un grande eccellente frutto, e così accadde al pubblicano.
Perché, accettando le ingiurie, si liberò dai peccati, e per aver detto: Abbi pietà di me peccatore ( Lc 18,13 ), se ne andò molto più giustificato dell'altro.
Le parole del pubblicano vincono le opere del fariseo; le parole dell'uno sono superiori alle azioni dell'altro.
Questi presentò la propria giustizia, i digiuni e le decime; l'altro pronunciò semplicemente delle parole e fu liberato dai suoi peccati.
Dio non ascoltò soltanto le parole, ma vide il cuore con cui erano state pronunciate, e avendolo trovato umile e contrito, gli diede la sua misericordia e il suo amore.
Giovanni Crisostomo, L'incomprensibilità di Dio, 5,6-7
Dice il Salvatore: Imparate da me che sono mite e umile di cuore, e troverete riposo alle anime vostre ( Mt 11,29 ).
E se vuoi conoscere il nome di questa virtù, cioè come essa è chiamata dai filosofi, sappi che l'umiltà su cui Dio rivolge il suo sguardo è quella stessa virtù che i filosofi chiamano « atuphía » oppure « metriótes ».
Noi possiamo peraltro definirla con una perifrasi: l'umiltà è lo stato di un uomo che non si gonfia, ma si abbassa.
Chi infatti si gonfia, cade, come dice l'Apostolo, « nella condanna del diavolo », il quale appunto ha cominciato col gonfiarsi di superbia; l'Apostolo dice: Per non incappare, gonfiato d'orgoglio, nella condanna del diavolo ( 1 Tm 3,6 ).
Origene, Commento al Vangelo di san Luca, 7,5
La tua foggia esteriore, il tuo abito, il tuo stesso atteggiamento e la casa dove abiti, la tua sedia, il tenore del tuo vitto e l'aspetto del tuo letto: ogni oggetto domestico, insomma, sia improntato alla modestia.
Quando discorri ovvero canti in compagnia del prossimo, anche questi atti dovranno apparire come governati dall'umiltà piuttosto che da una pretesa d'ostentazione.
Mentre parli, poi, non far mostra di sofistica iattanza sentenziando con superbia e gravità né, cantando, dovrai porre soverchia dolcezza nella tua voce.
In ogni cosa, invece, abbandonerai ostentazione e megalomania, mostrandoti premuroso verso l'amico, mite nei confronti del servo, paziente con gli importuni, generoso con gli umili; consolerai gli afflitti, ti recherai a far visita agli ammalati, senza mai nutrir disprezzo per nessuno, dolce nel rivolgerti agli altri, ilare e gioviale nel rispondere; ti dimostrerai facilmente disponibile verso chiunque, senza mai celebrare le tue proprie lodi né costringendo altri a farlo, giammai indulgendo a una conversazione meno che onesta e nascondendo, d'altronde, per quanto ti sarà possibile, le tue straordinarie qualità.
Al contrario, accusa te stesso di peccato e non attendere il rimprovero da parte degli altri, ma sii tu, com'è giusto, il primo accusatore di te stesso, come Giobbe ( Gb 31,33-34 ), che non ebbe vergogna della folla cittadina e gridò dinanzi a tutti i suoi peccati.
Allorché impartisci un rimprovero, non essere intollerante né impulsivo e non biasimare animosamente ( ciò che, infatti, ha in sé una certa superbia ); non sdegnarti, poi, per cose di poco conto, come se tu stesso fossi assolutamente perfetto.
Sforzati di comprendere coloro che cadono nel peccato e adoperati a contribuire al loro rinnovamento spirituale, conformemente a quanto viene ammonito dall'Apostolo: Bada bene a te stesso, perché anche tu non venga tentato ( Gal 6,1 ).
Nel mantenerti lontano dalla gloria umana, poni la medesima cura che gli altri pongono nel procurarsela, se vorrai davvero serbar memoria di Cristo allorché avverte che la ricompensa presso Dio è perduta da parte di colui che riscuote fama e onore al cospetto degli uomini, compiendo così il bene per esser da questi ammirato.
Costoro, dice infatti il Signore, hanno già ricevuto la loro ricompensa ( Mt 6,2 ).
Non nuocerti, dunque, da te stesso, aspirando a ottenere gloria presso gli uomini.
Cerca, invece, di riscuotere successo dinanzi a quell'illustre spettatore che è Dio: egli ti ricompenserà generosamente.
Hai conseguito un'alta carica e gli uomini ti onorano e ti rispettano?
Comportati, tuttavia, umilmente, non come colui che eserciti il potere supremo ( 1 Pt 5,3 ), e non agire alla maniera dei prìncipi di questo mondo.
Chi pretende di essere il primo, infatti, il Signore ha ordinato che costui sia il servo di tutti ( Mc 10,44 ).
Per dirla in una parola, va' in cerca dell'umiltà come se fossi il suo amante: amala, e la gloria ti arriderà.
Solo così, infatti, percorrerai il retto cammino verso la gloria autentica, che risiede fra gli angeli e al cospetto di Dio.
Cristo, allora, ti riconoscerà come suo discepolo dinanzi agli angeli ( Lc 12,8 ) e ti glorificherà, se avrai imitato l'umiltà di lui, che disse: Imparate da me, che sono mite e umile di cuore, e troverete riposo per le anime vostre ( Mt 11,29 ).
Basilio il Grande, Omelia sull'umiltà, 7
Nessun'altra cosa devi ritenere che sia più pregevole e più amabile dell'umiltà, in quanto questa virtù è quella che ti preserva e che ti fa custode - per così dire - di tutte le altre virtù.
Non c'è altro che ci rende così accetti agli uomini e a Dio del ritenerci all'ultimo posto per umiltà, anche se siamo in vista, grazie ai meriti della nostra vita.
Tant'è vero che la Scrittura dice: Quanto più sei grande, tanto più ti devi umiliare, e allora troverai grazia davanti a Dio ( Sir 3,18 ); e Dio fa dire al profeta: Su chi altro mi poserò, se non su chi è umile, in pace, e timoroso delle mie parole? ( Is 66,2 ).
L'umiltà a cui devi tendere, però, non è quella che si mette in vista e che viene simulata dal portamento esteriore o dalle parole sussurrate a metà, ma quella che lascia trasparire un genuino sentimento interiore.
Una cosa, infatti, è avere una virtù, e altra cosa lo scimmiottarla; una cosa è andare dietro a un'ombra di realtà, e altra cosa è seguire la verità.
Quella superbia che si nasconde sotto certi accorgimenti di umiltà è molto più mostruosa.
Non so perché, ma i vizi che si mascherano con apparenze virtuose sono molto più ripugnanti.
Girolamo, Le Lettere, IV, 148,20 ( a Celanzia )
Dice Davide: Dissi nella mia abbondanza: Non sarò scosso in eterno ( Sal 30,7 ).
Ma avendo così posta troppa confidenza nella propria virtù, poco dopo fu costretto ad aggiungere: Hai allontanato da me il tuo volto, e sono tutto squassato ( Sal 30,8 ).
É come se dicesse apertamente: Mi credetti forte per le mie virtù, ma ho dovuto riconoscere quanta debolezza è in me.
Così dice ancora: Ho giurato e stabilito di custodire i precetti della tua giustizia ( Sal 119,106 ), ma non essendo in suo potere osservare fedelmente ciò che giurava, scoperse ben presto, e con vergogna, la sua debolezza.
Perciò si rifugiò nella preghiera dicendo: Sono profondamente umiliato, o Signore; vivificami secondo la tua parola ( Sal 119,107 ).
Talvolta la provvidenza superna, prima di innalzarci con i suoi doni, ci richiama alla mente la nostra debolezza, perché non ci insuperbiamo delle virtù elargiteci.
Per questo il profeta Ezechiele, tutte le volte che viene condotto a contemplare le realtà celesti, viene chiamato prima « figlio dell'uomo »: è come se Dio lo ammonisse apertamente dicendogli: Per non insuperbirti interiormente per ciò che vedi, considera con attenzione ciò che sei.
Anche se penetri le realtà sublimi, riconoscerai così di essere uomo, e quando sarai rapito al di là delle cose terrene, verrai richiamato a te stesso col freno pungente della tua debolezza.
Perciò è necessario che quando la ricchezza delle nostre virtù ci arride, l'occhio della nostra mente si rivolga alla propria vanità, abbassando così se stesso: osservi non ciò che ha fatto, ma ciò che per negligenza ha omesso; di tal modo, mentre il cuore si atterrisce al ricordo della propria debolezza, si rinforza nella virtù agli occhi dell'autore dell'umiltà.
Per lo più, infatti, Dio onnipotente, pur avendo arricchito in gran parte l'animo dei superiori, l'ha lasciato in piccola parte imperfetto: così, pur splendendo per virtù magnifiche, sono oppressi dal tedio per la loro imperfezione e così non si gonfiano per le loro grandi opere, mentre devono ancora faticare contro i piccoli difetti; e non riuscendo a superare tali piccolezze, non osano insuperbirsi delle loro grandi realizzazioni.
Gregorio Magno, Regola pastorale, 4
L'anima tende ad assumere delle abitudini e ad adattarsi a ciò che compie frequentemente.
Il tuo aspetto esteriore, perciò, come l'abito che indossi, come la tua stessa andatura, e il tuo seggio, e il cibo che mangi, e il letto dove dormi, tutto, insomma, deve esser semplice e modesto.
Come pure dovrà esserlo l'accento del tuo discorso, l'atteggiamento della tua persona e il modo stesso con cui ti intrattieni con il prossimo: tutto questo, insomma, deve essere improntato a umiltà, piuttosto che a boriosa ostentazione.
Sii buono e dolce verso il fratello, senza rammentarti delle offese che ti abbia recato chi ti è ostile; sii umano e solidale con i miseri; reca sollievo e conforto agli ammalati, provando compassione per chi soffre ed è afflitto da pene e angustie.
Non disprezzare nessuno al mondo; sii dolce nel rivolgerti agli altri e sereno nel rispondere, buono in tutto, aperto e disponibile per chiunque.
Nilo di Ancira, Lettera all'avvocato Alcibiade
Per quale ragione aspiri ai primi posti? per sentirti superiore agli altri?
Ebbene, scegli l'ultimo posto e otterrai il primo.
Se desideri esser grande, perciò, non cercare di esserlo: vedrai come, allora, lo diverrai davvero.
L'aspirazione ad esser grande, infatti, è propria delle persone più meschine …
La grandezza esteriore dell'uomo deriva dal rispetto che gli altri, spinti dal timore o dall'opportunismo, gli manifestano; la grandezza interiore dell'umile, al contrario, si avvicina a quella di Dio.
Colui che possiede una grandezza del genere, la conserva costantemente, anche se nessuno gli dimostra ammirazione; il superbo, invece, è il più disprezzato di tutti, ancorché da tutti riceva ossequio.
L'onore che viene reso al superbo risulta forzato e, per questo motivo, facilmente si dilegua, mentre la considerazione verso l'umile è libera e spontanea e, come tale, si dimostra salda e costante.
Per questo noi nutriamo ammirazione per i santi, perché, pur essendo superiori a tutti, si sono umiliati in misura maggiore di chiunque altro.
Ecco perché la loro grandezza perdura sino ai nostri giorni, rimasta inalterata anche nonostante la morte.
Se volete, analizziamo questo fatto, alla luce della ragione.
Una persona viene considerata grande, nel caso in cui sia alta di statura o allorché si trovi a occupare una posizione elevata; in caso contrario, si dice che uno è basso oppure piccolo.
Se, a questo punto, passiamo a considerare chi si trovi in queste condizioni, l'uomo superbo, cioè, oppure quello umile, ci renderemo conto del fatto che nulla è più meschino dell'orgoglio e nulla, invece, più sublime dell'umiltà.
Il superbo pretende di essere il primo di tutti e ha la presunzione che nessuno gli stia alla pari.
Quanto più onore riscuote, tanto più ne desidera e pretende, senza soffermarsi a considerare i riconoscimenti già ricevuti.
Prova disprezzo nei confronti degli uomini e, nello stesso tempo, aspira alla loro stima.
Si può trovare qualcosa di più illogico e incoerente? Sembra davvero un enigma.
Il superbo nutre disprezzo, infatti, per le stesse persone dalle quali, poi, pretende d'esser stimato.
Non vedi che un tipo d'uomo simile, nel momento in cui vorrebbe elevarsi in alto, cade, invece, in basso e giace per terra?
Già la sua affermazione di non nutrire alcuna considerazione per gli altri, infatti, dimostra chiaramente la sua arroganza.
Per quale motivo, allora, corri dietro a chi non vale nulla?
Perché ne vai mendicando la stima? Perché ti circondi di tante persone di quella risma?
Prendiamo, invece, esempio dall'umile, da colui, cioè, che sta davvero in alto!
Egli ben conosce il valore dell'uomo: sa che l'uomo è grande e stima se stesso inferiore a tutti; per questo ritiene come qualcosa di grande ogni minimo onore che gli venga reso.
La persona umile, perciò, è coerente con se stessa: compie sempre delle scelte superiori, senza mai mutare il proprio parere.
Dal momento che nutre una profonda considerazione per gli altri, ritiene come grandi gli onori che da questi gli provengono, anche se, in realtà, essi appaiono tutt'altro che tali: è lui, infatti, a considerarli grandi.
Il superbo, al contrario, pur stimando un niente coloro che lo riveriscono, ritiene grandi unicamente gli onori che da costoro gli vengono tributati.
L'umile, inoltre, non si lascia condizionare da nessuna passione: non subisce la violenza dell'ira né dell'orgoglio né dell'invidia né della gelosia.
C'è qualcosa di più sublime, forse, di un'anima immune dalle passioni?
Il superbo, invece, le possiede tutte, come un verme che si rigira nel fango: la sua anima, infatti, è costantemente vittima della gelosia, dell'invidia e dell'ira.
Chi è il più grande, allora, fra questi due?
Colui che è al di sopra di qualsiasi passione o colui che ne è schiavo?
Colui che ha paura e trema dinanzi ad esse oppure colui che le sconfigge, senza mai lasciarsene dominare?
Quale uccello diremo che vola più in alto: quello che si eleva al di sopra delle mani e delle reti del cacciatore oppure quello che si lascia catturare senza che il cacciatore abbia neppure bisogno della rete, non riuscendo nemmeno a sollevarsi dal suolo e a volare in aria?
Tale è l'uomo orgoglioso: giacché striscia per terra, non v'è trappola che non lo catturi in un baleno …
Facciamoci dunque umili per divenire grandi.
É l'orgoglio, infatti, ad abbassarci oltre ogni misura …
Non v'è nulla di cui Dio abbia orrore al pari della presunzione e della superbia.
Fin dal principio, perciò, egli si è adoperato in ogni modo allo scopo di sradicare questa passione.
É a causa di essa che noi siamo divenuti mortali e viviamo fra sofferenze e lamenti; per sua conseguenza lavoriamo con fatica e sudore incessanti e con tribolazione.
Il primo uomo, infatti, ha peccato per orgoglio, pretendendo di diventare uguale a Dio ( Gen 3,5 ).
In questo modo, dunque, egli non soltanto non è riuscito a conservare ciò che possedeva, ma ha finito col perdere anche quello.
Ecco le conseguenze dell'orgoglio: lungi dal recare alcunché di positivo alla nostra vita, ci sottrae, per di più, anche ciò che già possediamo.
L'umiltà, viceversa, produce l'effetto contrario: non soltanto non ci toglie nulla di quanto abbiamo, ma aggiunge ciò che non possediamo ancora.
Adoperiamoci, con ogni sforzo, ad acquisire questa virtù e a metterla in pratica, per esser felici nella vita presente e conseguire, poi, la gloria eterna …
Giovanni Crisostomo, Commento al Vangelo di san Matteo, 65,4-6
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