Gli stati di vita del cristiano |
Quando lo stato cristiano fu descritto una prima volta nella sua universalità, esso apparve fondato su di una scelta e una chiamata di Dio ad uscir fuori dal mondo decaduto, su di un'opera di divisione che continuava poi all'interno della Chiesa ancora una volta come divisione fra lo stato dei consigli fondato da una chiamata che elegge e lo stato di vita nel mondo, che colloca all'interno degli ordinamenti naturali.
Là apparve preferito il secondo stato, in quanto stato nel luogo e nello stato di Cristo, che era uno stato - al di là del paradiso terrestre - contemporaneamente del Cielo e della Croce.
L'uomo nello stato mondano era non meno chiamato all'amore perfetto, ma sembrava averlo più difficilmente; egli aveva tuttavia da raggiungere la stessa méta, partendo da uno stato in cui gli ordinamenti mondani sono inestricabilmente mescolati con la caducità della natura umana.
Egli era così « diviso ».
Ma la frattura che lo attraversava era la forma in cui in fin dei conti anch'egli si veniva a trovare sotto l'unica legge della Croce.
E se nella descrizione della doppia concezione del Vangelo come verità e come parabola si rafforzò ulteriormente l'impressione di una graduazione d'importanza, questo fu soltanto per sfociare ultimamente nel riconoscimento della reciproca prestazione di aiuto dei due stati, anzi dell'espressa sussidiartela del secondo stato nei riguardi del primo.
Qui diventò chiaro quanto entrambi gli stati siano partecipazione all'unico stato di Cristo e di sua madre, e quanto dunque nell'analogia del concetto di stato nella Chiesa persista l'unità di status o dì tutti i cristiani.
La prima caratterizzazione di questo stato, chiamata e scelta da parte di Dio, restò una caratterizzazione formale.
Poi la considerazione dello status di Cristo e di Maria portò ad un concreto adempimento contenutistico dell'idea cristiana di stato di vita.
Partendo di qui noi incontrammo i due stati ecclesiali in una nuova maniera.
Essi si sono mostrati ora come il dispiegamento dell'unico stato di Cristo e di sua madre, che conteneva in sé prefigurate, pure analogamente, entrambe le possibilità, in modo che cioè l'unica perfetta via di Gesù e di Maria ( in fasi differite l'una rispetto all'altra ) conduceva dallo stato nel mondo allo stato nell'elezione.
Poiché però l'unico e indivisibile stato di Cristo conteneva in sé il movimento da Dio al mondo e dal mondo a Dio, per questo la differenziazione degli stati non può condurre adesso a nessuna ripartizione di questa indivisibile via.
Questo significa che entrambi gli stati possono contenere in sé entrambi i movimenti in unità, entrambi, anche se in maniera diversa, devono rappresentare in sé l'interezza dello stato di Cristo.
In ogni caso il senso della chiamata e scelta di Dio è quello di far partecipare il cristiano allo stato originario di Cristo.
« Infatti dove sono io, là deve essere anche il mio servo » ( Gv 12,26 ).
« Padre, voglio che quelli che tu mi hai dato siano con me là dove sono io » ( Gv 17,24 ).
Il « dove » del cristiano è Cristo stesso, così come il « dove » di Cristo è il Padre.
Questo « dove » non è n spaziale-temporale, n la semplice prefigurazione di un ideale o di un programma di vita, n l'assunzione esteriore di un incarico o di una dignità, come può ben essere il caso per quanto riguarda l'insediamento in uno stato civile pubblico; esso è piuttosto una neodeterminazione dell'intera esistenza dei chiamati, cosicché questi attraverso l'inserimento nello stato di Cristo ottengono la loro definitiva determinazione personale, che assorbe in sé e relativizza tutto il resto.
Quello stare di Cristo nella volontà e nell'essenza del Padre, dove status ed esser persona per lui coincidono, diviene forma del nuovo « stare » del cristiano.
Sebbene costui non sia Dio, né venga divinizzato dall'inserimento nella Chiesa, la forma di Cristo diviene tuttavia forma sua propria, e precisamente altrettanto immediatamente secondo l'essere quanto secondo il dover essere.
Per lui la vera sorgente della vita non sta più in lui stesso; essa sta, da quando egli ha rivestito la forma di Cristo ( Rm 13,14 ), l'uomo nuovo che è fatto secondo Dio ( Ef 4,24 ), in Cristo: « Come il Padre che ha la vita mi ha mandato, e io vivo per il Padre, così anche colui che mangia me vivrà per me » ( Gv 6,57 ).
Questo significa ora che il cristiano, in qualunque stato viva, deve sempre stare in un rapporto concentrico nei confronti di Cristo.
Così come per Cristo non c'era nessuna possibilità di collocarsi al di fuori del Padre, per mediare fra lui e il mondo, così anche per il cristiano non ci può essere alcuna cristiana possibilità di collocarsi al di fuori di Cristo, per ripristinare a partire di là il collegamento tra Cristo e il mondo.
Come Cristo non lasciò il Padre quando egli stava nel mondo, e come il suo passaggio dalla famiglia nella comunità dei discepoli non significò un ritorno al Padre, un perfezionamento, un progresso, così anche lo stare del cristiano nel mondo - e in fin dei conti stanno in qualche modo nel mondo i cristiani di ambedue gli stati di vita ( Gv 17,11; 1 Cor 5,10 ) - non può significare nessuna seppur piccola distanza nei confronti di Cristo.
Il cristiano che vive nel mondo non è « diviso » per il fatto che egli deve vivere negli ordinamenti naturali, giacché una simile vita l'ha condotta anche Cristo senza distanziarsi minimamente dal Padre e dalla sua volontà; egli lo è soltanto perché è nella tentazione di « non preoccuparsi delle cose del Signore, di come piacere al Signore, ma delle cose del mondo, di come piacere alla moglie » ( 1 Cor 37,32s ).
In cosa consista questa tentazione, deve venir chiarito ancora una volta guardando a Cristo.
Il Figlio vive nel mondo, ma non è del mondo.
Ciò significa due cose: egli vive come uomo nella partecipazione alla natura creata dal Verbo eterno, ma parla e agisce con un'autorità che lo rivela come il Verbo eterno stesso.
« Il cielo e la terra passeranno, ma le mie parole non passeranno » ( Mc 13,31 ).
Come origine della natura egli è libero di fronte alle sue leggi.
Ma questo significa in maniera ulteriormente accentuata: tutto ciò che rientra nella natura, che non solo « attraverso di lui », ma « in vista di lui » fu fatto, ha « in lui la sua consistenza » ( Col 1,16-17 ), nella misura in cui egli lo relaziona alla libera grazia divina che egli dal Padre porta al mondo.
L'ordine naturale è stato posto da sempre soltanto in vista del suo compimento nell'ordine della grazia.
Che il mondo decaduto, che si occupa solo di se stesso, non riconosca più ciò, non cambia nulla nel piano di Dio.
Quando il Figlio come libera Parola di Dio che crea e redime viene nel mondo, diventa l'unica unità di misura del rapporto fra natura e grazia.
Dio, che attraverso la sua « parola onnipotente » ( Sap 18,15 ) fondò l'ordine naturale, non lo distruggerà quando questa Parola appare personalmente nella sua creazione come Grazia, ma così pure non sarà nemmeno legato interiormente alle sue leggi.
Esse, promulgate da lui liberamente, non hanno di fronte a lui che è il Signore nessuna autorità.
Se egli in principio ha comandato agli uomini di moltiplicarsi e di dominare la terra, non è affatto detto con questo che se egli stesso, il Signore, apparirà in figura d'uomo, si debba attenere a questo decreto.
Egli è in verità la sovrana Parola creatrice di Dio stesso, che non soltanto attraverso - le leggi della natura può divenir feconda, giacché essa è sin dall'eternità l'assoluta fecondità.
Egli non ha bisogno di rendere la terra sottomessa, essa è da sempre completamente a suo servizio ( Mc 4,41 ).
Incarnandosi egli può cioè adeguarsi al mondo, divenir sottomesso alla sua naturalità, ma la misura di questa sottomissione sta racchiusa unicamente nella sua discrezione inappellabile.
Nessuno gli può chieder ragione del perché egli, già che diventa uomo, non obbedisce alle leggi del mondo in egual maniera come un qualsiasi altro uomo.
Perché egli non si sposa, quando egli stesso ha pure impartito il comandamento di moltiplicarsi; perché egli non coltiva la terra, dal momento che egli stesso ha impartito questo comando.
Egli si serve della natura per i suoi scopi, che sono divini e soprannaturali, e la conduce così alla sua destinazione.
Non varrebbe la pena apparire nel mondo personalmente come Parola di Dio, se con ciò dovessero solo venir confermate le leggi naturali e non piuttosto divenire manifesta una essenza completamente nuova, che fa saltare tutto ciò che appartiene alla natura e rapisce al di là di essa.
È infatti la libertà di Dio di fronte alla sua creazione che deve venir rappresentata all'interno di essa stessa.
Il rapporto di natura e grazia, come Cristo lo presenta, è un rapporto di reciprocità, che rimane in sospeso, tra la Grazia che volontariamente si china e si lega nelle leggi della natura e la Natura rapita al di sopra di sé e tuttavia proprio così in sé adempiuta, portata alla propria idea originaria.
Infatti la Natura con tutte le sue leggi esplorate dalle scienze naturali e culturali può trovare il suo senso finale solo nell'eterno Verbo divino, al di là di ogni creaturalità naturale.
Essa è materiale che sta a disposizione per questo Verbo, « che si diletta a giocare continuamente davanti a Dio sulla faccia della terra » ( Pr 8,30-31 ).
La sottomissione alle regole della Natura può condurre fino alla morte sulla croce, tuttavia essa deve sempre manifestare il modus della libertà divina, e il Signore si preoccupa che gli uomini non perdano mai di vista la sua libertà.
Egli è signore del Sabato, egli sa in anticipo e predice la sua Passione, egli getta a terra i suoi nemici, prima di lasciarsi legare, egli insegna anche ai suoi discepoli, prima di pagare il tributo, che i figli di Dio sono liberi ( Mt 17,27 ).
Se egli si lega, questo avviene per libero amore; e se egli mostra di non essere legato, questo è per far risplendere la libera origine di ogni legame.
A questa libertà devono partecipare i suoi.
Egli da schiavi li rende figli.
Li lega nella legge del suo proprio stato nel Padre per scioglierli dal legame delle leggi e degli elementi di questo mondo: « Se rimanete nella mia parola, sarete veramente miei discepoli; conoscerete la verità, e la verità vi farà liberi » ( Gv 8,31s ).
Il cristiano viene così strappato alla caducità temporale, e ottiene insieme al Figlio la sua posizione nella vita eterna.
« Il Padre ama il Figlio e gli ha messo in mano tutto. Chi crede nel Figlio ha la vita eterna » ( Gv 3,35-36 ).
Se i cristiani « sono predestinati a divenire conformi all'immagine del Figlio, che è il primogenito tra molti fratelli » ( Rm 8,29 ), se essi « sono stati in Lui eletti già prima della fondazione del mondo e predestinati in Gesù Cristo a essere suoi figli » ( Ef 1,4-5 ), se dunque l'idea prima che Dio ebbe di essi non era un'idea naturale, ma di grazia nel suo Figlio, allora il loro trasferimento « dalle tenebre nella sua ammirabile luce » ( 1 Pt 2,9 ) non è niente di forzato, ma solo il collocamento di essi nel loro luogo ereditario, naturale nel senso più alto.
Se attraverso ciò essi divengono pure « stranieri e pellegrini » ( 1 Pt 2,11 ) in questo mondo, entrano tuttavia solo nella loro propria eredità, « l'eredità dei santi nella luce » ( Col 1,12 ), entrano « nella festosa assemblea dei primogeniti, i cui nomi sono scritti nei cieli » ( Eb 12,23 ).
Con ciò è detto che la partecipazione alla libertà di Cristo di fronte alla creazione non significa per gli eletti alcuna innaturalità o richiesta eccessiva.
È infatti per questo posto che la loro esistenza è stata prevista ( Ef 1,4-5 ), e se anche temporalmente ciò che è terreno precede ciò che è celeste ( 1 Cor 15,46 ), esso deve tuttavia necessariamente trapassare in esso.
Infatti « quelli che Dio ha predestinati, li ha anche chiamati, e quelli che ha chiamati, li ha anche giustificati, e quelli che ha giustificati, li ha anche glorificati » ( Rm 8,30 ).
« Come abbiamo portato in noi l'immagine dell'uomo terreno, così porteremo in noi anche l'immagine dell'uomo celeste » ( 1 Cor 15,49 ).
Se Cristo chiama a partecipare alla sua libertà dalle leggi e dai comandi della natura, ad abbandonare le ristrettezze delle strade terrene, per camminare sulle grandi strade del cielo, i cristiani sanno che essi così non vengono trasferiti in un luogo a-cosmico, ma bensì là dove tutte le leggi del mondo acquistano la loro origine, la loro regolamentazione e la misura della loro validità.
Essi sono, se entrano nello stato di Cristo, al cuore e alla sorgente della natura.
E se qui la molteplicità delle cose appare come abbagliata e dissolta dall'unità del sole che sta al centro, nel quale « tutti i tesori della sapienza e della conoscenza sono nascosti » ( Col 2,3 ), i cristiani ricevono tuttavia, dopo un attimo di abbagliamento, qualcosa degli occhi di Dio, per vedere il mondo insieme a Lui a partire dalla sua origine.
Essi vengono iniziati al piano di Dio: « ricapitolare tutte le cose, nei cieli e sulla terra, in Cristo come capo, nel quale anche noi siamo stati predestinati a ricevere la nostra parte di eredità » ( Ef 1,10-11 ).
Al centro delle loro anime sboccia questo destino: « Piacque allora a Colui che mi ha scelto fin dal seno materno e mi ha chiamato per sua grazia, di rivelare in me suo Figlio » ( Gal 1,15 ).
« Vivo non più io. Cristo vive in me » ( Gal 2,20 ).
Questo rapporto fra natura e grazia, nel quale la natura da una parte trova il suo compimento - poiché nella sua strumentalità per la grazia ritorna alla sua idea originaria -, dall'altra viene attratta al di sopra di sé in una nuova legge e privata così della sua chiusura, questo rapporto acquista la sua acutizzazione ultima nel rapporto cristiano fra libertà e obbedienza.
Se prima lo status cristiano apparve come libertà dalle leggi di questo mondo, poiché il cristiano viene condotto non solo in parte, ma completamente nello stato di Cristo che sta al di là di esse, adesso questa libertà dal mondo significa immediatamente una libertà per Cristo, una strumentalità per lui, così come le membra di un corpo servono, al di sopra di sé, il capo ( 1 Cor 12,27 ).
La nostra strumentalità ha sin da principio una duplice fondazione: essa significa in primo luogo che tutta la nostra natura e persona è stata posta a servizio, nella misura in cui noi siamo fatti per Cristo, nostro capo divino; subito dopo però anche l'intima assunzione dell'atteggiamento interiore di Cristo, la cui divina libertà e personalità coincide col suo servizio di obbedienza al Padre.
Nel primo aspetto l'obbedienza è creaturale, nel secondo è divina.
Nel primo essa è espressione della strumentalità propria anche del nucleo personale del cristiano in base alla « graziosita » ( Gnadenhaftigkeit ) del suo stato; nel secondo l'apparente costrizione che vi giace viene dissolta dal fatto che lo stesso stato di Cristo consiste nell'identità di libertà e obbedienza.
Nel primo aspetto lo stato appare come qualcosa di formale, che sostituisce il contenuto naturale della persona quasi soppiantandolo: « Vivo non più io, Cristo vive in me ».
Ma nel secondo diventa subito chiaro che il formale stesso dello status è un contenutistico, poiché l'essenza della persona divina di Cristo ( quella di essere immagine del Padre, e perciò obbedienza nell'amore ) coincide completamente col suo stato.
Il cristiano che viene inserito in questo stato di Cristo perde cioè, visto a partire dalla natura pura e semplice, la sua « autonomia » personale.
Egli non possiede più alcun diritto di determinazione sulla sua persona e il suo destino, sulla configurazione e la conduzione della sua vita.
Egli rinuncia statutivamente a questo diritto, per ricevere da Cristo e dalla sua Chiesa la legge della sua nuova vita.
Nel più intimo egli è un servitore, anche se in questo servizio egli deve impiegare responsabilmente tutte le sue capacità personali: la sua memoria, il suo intelletto e la sua libera volontà.
Egli ha scambiato l'indegno servizio al peccato col nobile servizio a ciò che è divinamente giusto ( Rm 6,16-23 ).
Ma a questa spersonalizzazione in virtù dello stato di vita corrisponde immediatamente una più alta personalizzazione, poiché il cristiano partecipa ora statutivamente al mistero proprio di Cristo dell'esser persona divina.
Finora la sua persona, che si riteneva autonoma, era tuttavia sotto il giogo di leggi formali e astratte, « racchiusa, tenuta prigioniera sotto la legge in attesa della fede che doveva venir rivelata » ( Gal 3,23 ), « non ancora adulta, sotto la schiavitù degli elementi del mondo » ( Gal 4,3 ).
Solo mettendo a disposizione tutta la sua persona per la fede, egli ottiene parte all'unica « legge » che coincide con la personalità stessa, con l'infinita persona del Figlio.
E partecipando a questa « legge » il cristiano supera il dualismo lIbera, concreta persona, e legge astratta, che lega.
Per questo l'unica legge del nuovo status è la legge dell'amore, legge nella quale il cristiano servendo si libera e per libertà serve.
« Liberandovi, Cristo vi ha posto nella libertà. Fratelli, voi siete chiamati alla libertà; non usate della libertà come un'occasione per darvi ai desideri della carne.
Servitevi piuttosto l'un l'altro nell'amore. Tutta la legge, infatti, si adempie nell'unico comandamento: Amerai il prossimo tuo come te stesso » ( Gal 5,1.13-14 ).
Così lo stato del cristiano è il contrario di una formalizzazione della sua vita; solo visto dal di fuori e da chi non crede il suo stare nell'obbedienza di Cristo può destare quest'impressione.
Il suo stato significa piuttosto un'incomprensibile vivificazione di ciò che nella sfera naturale rimane astratto e formale.
Infatti « il comandamento di Dio è vita eterna » ( Gv 12,50 ), e « chi crede nel Figlio ha la vita eterna » ( Gv 3,36 ).
Questa partecipazione all'obbedienza di libertà dell'amore divino è il dono più sovrabbondante che poteva venir fatto all'uomo.
Se per l'uomo dell'Eden questo innalzamento dello stato creaturale ad una « partecipazione alla natura divina » ( 2 Pt 1,4 ) non racchiudeva in sé alcuna rinuncia dolorosa ( nel caso che l'uomo fosse rimasto obbediente ), per colui che vive nella caducità questo innalzamento diverrà ora una dolorosa tensione tra le leggi della natura che pecca e quelle della grazia che espia.
L'obbedienza di fede appare come un sacrificio dell'autonomia personale, la dedizione dell'amore a Cristo come una kènosis della propria natura.
Lo stato di grazia porta adesso il timbro di una morte nei confronti dello stato intramondano: « Non sapete che noi tutti che siamo stati battezzati in Cristo Gesù siamo stati battezzati nella sua morte?
Così attraverso il Battesimo siamo sepolti con Lui nella morte.
Camminiamo dunque in novità di vita, come Cristo è risorto dai morti a gloria di Dio Padre! » ( Rm 6,3-4 ).
È una morte che quanto all'essere è definitiva, ma quanto alla coscienza di questo esige un « portare la croce ogni giorno » ( Lc 9,23 ), un « morire ogni giorno » ( 1 Cor 15,31 ), e così un « rinnovarsi di giorno in giorno dell'uomo interiore » ( 2 Cor 4,16 ).
L'esistenza cristiana sarà così un'esistenza in continuo passaggio ( 2 Cor 5,1 ), nella nostalgia e nel sospirare, poiché il vecchio sta scomparendo e il nuovo rimane però ancora velato.
Di ciò che era, il cristiano non deve più ricordarsi ( Ef 4,17-22 ), ciò che egli sarà, non è ancora manifesto ( 1 Gv 3,2 ).
Il raptus della Grazia, che lo strappa alla terra e lo trasferisce nel cielo, è come un togliere la terra da sotto i piedi e l'aria per respirare; l'essere « radicato e fondato nell'amore » ( Ef 3,17 ) può sembrargli, nella notte della fede, una pura utopia, che viene contraddetta ogni giorno dalla brutale realtà.
Per il mondo e addirittura per lui stesso questo suo passaggio mobile può sembrare una mancanza di posizione in cui stare, un pendere nel vuoto, e la pretesa che egli dimori in un simile « non luogo » una pretesa assolutamente eccessiva.
In ciò diventa però chiaro che nell'ordine della Redenzione lo stato del cristiano significa già uno stare nella espiazione della Croce.
Essere cristiani significa già essere sacrificati, ancor prima che il singolo fornisca coscientemente il suo contributo al sacrificio della croce.
E la cristianità è la comunità di quelli che Dio in base ad una scelta d'amore fa partecipare all'agire e patire redentivo del suo Figlio.
La comunità di Cristo è composta certo da uomini che sono stati da Cristo redenti, ma questi redenti sono subito e direttamente anche uomini che vengono inseriti nel mistero della Redenzione e attraverso il sacrificio dell'esser cristiani divengono collaboratori di questa Redenzione.
La formale partecipazione ( determinata dal proprio stato di vita ) al sacrificio di Cristo è inseparabile da una personale partecipazione alla disposizione interiore di Cristo.
La kénosi del cristiano, che viene strappato al suo uomo vecchio, il quale « muore ogni giorno » ( 2 Cor 4,16 ), per divenire in Cristo una « nuova creatura » ( 2 Cor 5,17 ), non è qualcosa che possa trovare la sua spiegazione ultima in se stessa o nel suo proprio passaggio.
È partecipazione alla kénosi di Cristo stesso, il quale « non considerò un tesoro geloso la sua uguaglianza con Dio, ma annientò se stesso, prese forma di servo, divenendo simile agli uomini, e fu trovato in forma d'uomo » ( Fil 2,6-7 ).
Non è quindi una semplice provvisorietà psicologica o « etica » del perdere il terreno d'appoggio finché non si è trovato il nuovo.
Cristo, ma è un perdere il terreno insieme con Cristo che muore.
« Se uno è morto per tutti, allora tutti sono morti. Ed egli è morto per utti, affinché quelli che vivono non vivano più per se stessi, ma per colui che è morto e risorto per tutti » ( 2 Cor1 5,15 ).
Questo morire con Cristo attraverso il Battesimo e attraverso tutta la vita cristiana diventa però immediatamente un vivere in Cristo, e cioè espressamente nel Cristo risorto ( Rm 6,4 ); infatti un morire con Cristo senza resurrezione sarebbe non solo privo di senso, ma impossibile.
Esso significa « esser risorti insieme con Cristo Gesù, e insieme a lui esser trasferiti nel Regno dei Cieli » ( Ef 2,6 ), aver parte alla « stessa grande potenza che ( Dio ) ha dimostrato in Cristo, facendolo risorgere dai morti e sedere alla sua destra nel più alto dei cieli » ( Ef11,20 ).
Vita cristiana e stato cristiano non stanno dunque semplicemente in parallelo all'esistenza terrena di Cristo: come se il cristiano fino alla morte terrena dovesse vivere nella sequela di quella condizione in cui Gesù ha vissuto fino alla croce.
Non è semplicemente imitazione della vita nascosta e della vita pubblica del Signore.
È piuttosto sin da principio e in ogni momento partecipazione tanto alla Croce quanto alla Risurrezione del Signore.
Il capo della Chiesa, la quale è il corpo di Cristo, è già un capo glorificato, e la carne e il sangue che i cristiani gustano è carne e sangue trasfigurata, risorta.
E la legge dell'amore, che regola la vita dei cristiani, è in verità già la legge « della città del Dio vivente, la Gerusalemme celeste, la festosa assemblea dei primogeniti, i cui nomi sono scritti nei cieli » ( Eb 12,22s ), quella città che però tuttavia già viene trovata sulla terra come « la dimora dei santi e la città amata » ( Ap 20,9 ).
La sequela di Cristo è quindi assai più che un semplice morale attenersi ai suoi comandamenti e consigli, una semplice imitazione dei suoi atti e delle sue virtù.
È un vivere, qui e adesso, della verità della sua morte e della sua resurrezione, quanto all'essere oggettivo per la forza della sua grazia di croce e di pasqua, e quanto alla coscienza soggettiva per l'adempimento nella fede - nella misura in cui Egli chiama e rende idonei a ciò - delle sue vie verso il Cielo attraverso il mondo e gli inferi.
Così lo status dei cristiani si rivela veramente come uno stare in Cristo: ma non come una situazione localizzabile, bensì come una condizione di vita nella piena apertura di colui che « discende sino agli inferi e sale sopra tutti i cicli per riempire tutto » ( Ef 4,9-10 ), nell'ampiezza e vitalità di colui che è « la via » ( Gv 14,6 ) in un infinito « venire e andare » ( Gv 16,28 ), e che colloca i suoi servi sulla sua via, in tutta la sua « larghezza e lunghezza, altezza e profondità » ( Ef 3,18 ).
29 E tuttavia questa immensa pienezza e ampiezza dello status cristiano, come stare con Cristo nel Padre, come stare col Redentore nella croce e col Risorto nel Cielo non è un dissolvimento del normale ambito terreno.
Il cristiano, che ha parte a realtà così incomprensibili e possiede in esse il centro della sua esistenza, rimane però nondimeno un membro della società terrena, un fedele servitore anche dello Stato ( « per questo motivo pagate anche le tasse », Rm 13,6 ) un custode della morale pubblica ( « nessuno deve permettersi abusi e truffare negli affari il suo fratello », 1 Ts 4,6 ), della umile preoccupazione anche per il bene materiale del prossimo ( 1 Gv 3,17; Gc 2,1-8 ), della fedeltà coniugale, della disciplina familiare e della giusta relazione tra padrone e servo ( Col 3,18-4,1 ).
Tutto questo i cristiani lo seguono non soltanto dall'esterno e apparentemente, mentre all'interno essi sarebbero essenzialmente occupati con tutt'altre cose; essi sono con tutta la loro attenzione rivolti a questo, poiché sono posti nello stato di Cristo, che ha dimostrato la sua libertà divina nel servizio ai fratelli.
La loro elevazione non è un movimento contrario all'abbassamento di Cristo, ma il suo compimento concomitante per grazia.
Ogni tendenza che neghi, anche se solamente pensandolo in maniera nascosta, l'incarnazione di Cristo, non è spirito di Dio, ma spirito dell'Anticristo ( 1 Gv 4,2-3 ).
Il mantenimento dell'autenticità dello stato cristiano avviene all'interno del mondo così com'esso è oggi e adesso.
Questo significa però che la grazia di stato cristiana non viene concessa altrimenti che in forma di una missione.
Essa è la significatività che inabita nello stato.
La missione è però l'amore a Dio e al prossimo così come è stato rivelato dall'opera di Cristo, e diventa eseguibile se si sta là dove egli è stato.
All'interno di questa missione si deve trovare tutto quello che il cristiano opera nel mondo.
Egli non deve mediare fra il cristianesimo e il mondo.
Egli deve testimoniare al mondo la forma di Cristo, viverla davanti ad esso e imprimervela.
Anche se egli ha sempre da fare i conti con le leggi di questo mondo, non ha mai il diritto di erigersi a unità di misura del rapporto fra natura e grazia, mondo e Chiesa, cultura e cristianesimo.
La misura dell'assunzione in servizio delle forze mondane giace nella relativa situazione cristiana, la cui interpretazione si lascia trovare nell'attimo di volta in volta sempre attuale e presente della chiamata divina: « La parola di Cristo abiti in voi in tutta la sua ricchezza! » ( Col 3,16 ).
Questa è abbastanza ricca per contenere la soluzione adeguata per ogni situazione mondana; soluzione che certo può spesso essere una « parola di croce » ( 1 Cor 1,18 ).
Così il cristiano è costretto ad uscir fuori dallo stato di Cristo per scendere a un compromesso che gli sembra inevitabile.
Una volta fatto ciò, l'unità di Cristo è abbandonata, vuoi per una qualche colpa personale, vuoi per una colpa comune.
In nessun luogo il Signore o gli Apostoli diedero istruzioni ai cristiani che si trovano a vivere nel mondo su come, in situazioni perplesse, scegliere il « male minore ».
Le descrizioni della vita cristiana che per noi sono state abbozzate nella Scrittura mostrano sempre la possibilità dell'incondizionato esser cristiani, dell'indivisa risposta del credente al pieno dono della grazia di stato cristiana.
Anche del matrimonio Paolo abbozza un'immagine cristiana, che egli ha rilevato dall'ideale assoluto di Cristo: « Come la Chiesa è sottomessa a Cristo, così lo devono essere in tutto le mogli nei confronti dei loro mariti.
E voi, mariti, amate le vostre mogli, come Cristo ha amato la Chiesa e ha dato se stesso per essa » ( Ef 5,24-25 ).
Egli innalza questo ideale assoluto senza che ciò pregiudichi la sua consapevolezza che « è bene per l'uomo non toccar donna » e il suo desiderio che « tutti gli uomini vivano come me » ( 1 Cor 7,1-7 ), fermo restando dunque il fatto che colui che vive nel matrimonio può di fatto solo in mezzo a difficoltà, a causa del peccato personale e di quello universale, mantenere l'unità di stato a lui presentata.
« Egli è diviso »; ma non dovrebbe esserlo, visto a partire da Cristo.
Ed egli non ha il diritto di installarsi nel suo essere diviso come in un dato di fatto ineliminabile.
Egli deve tendere ogni giorno dalla divisione all'unità prefigurata dal suo stato.
E quello che vale per il matrimonio vale ugualmente per ogni altra attività del cristiano nel mondo; nell'ambito sodale, economico, politico e culturale egli non ha nessun permesso di seguire nella sua attività mondana un'altra legge che quella dell'esser cristiano.
Poiché infatti tutte le cose sono state fatte in Cristo, per Cristo e in vista di Cristo, e a Lui Dio « ha tutto sottomesso e posto ai suoi piedi » ( 1 Cor 15,25-27 ), poiché Egli è il vincitore su tutte le potenze del mondo, sarebbe mancanza di fede fare come se le forze mondane seguissero una legge autonoma, emancipata da Cristo.
Certo la loro sottomissione, che nella Croce è « compiuta » ( Gv 19,30 ) una volta per tutte, giacché « adesso il Principe di questo mondo è stato precipitato » ( Gv 12,31 ), è sempre solo avviata a realizzarsi, fintante che ancora « la creazione è sottoposta alla vanità » ( Rm 8,20 ) e « Cristo nostra vita » non è ancora apparso ( Col 3,4 ).
Ma questa provvisorietà non dà al cristiano alcun diritto di padroneggiare la situazione mondana con giudizi e metodi puramente mondani.
Anche laddove egli dalla finitezza delle cose terrene e dalla caducità della natura è apparentemente costretto a compromessi, nella soluzione adottata non c'è adeguamento alcuno al modo di pensare del mondo, bensì la risposta possibile adesso dell'amore cristiano.
Il prestarsi ad ogni situazione parziale ( « mi sono fatto tutto a tutti, pur di salvare qualcuno in ogni modo possibile », 1 Cor 9,22 ) ha come presupposto la libertà interiore, l'intenzione pura senza compromessi ( « sebbene io sia sotto ogni riguardo libero, mi sono fatto servo di tutti, per guadagnarne un gran numero [ … ], tutto io faccio per il Vangelo, per ottener parte ad esso », 1 Cor 9,19-23 ).
In base alla missione di Cristo, lo stato dei cristiani è infine, nel più profondo, uno stato di comunione.
Esso è di natura sociale.
Questo non può essere senz'altro evidente, se si guarda solo all'urgenza personale della chiamata che elegge.
Perché Dio non dovrebbe chiamare un uomo anche in uno stare solitario verso di Lui?
Ma la chiamata cristiana non ha mai questo carattere.
Essa è infatti in primo luogo chiamata a entrare nella Chiesa, la quale, come fu mostrato, come luogo della comunione precede la chiamata individuale.
In secondo luogo essa è una chiamata ad uscir fuori dall'io solitario ed egoista per entrare in uno stato che nella sua idea originaria significa il far scoppiare ogni isolamento.
Esso è infatti lo stato di Cristo, la cui persona è servizio e amore al Padre, e per voler del Padre servizio e amore agli uomini.
Già la trasposizione dallo stato a sé allo stato di Cristo, e ancor più l'appropriazione del contenuto di questo stato, fanno apparire impossibile che il cristiano viva per qualcosa d'altro che per Dio e il prossimo.
In forza di questo stato egli è espropriato per esser introdotto nella comunità; egli non può più avere, giacché oramai vive nella forma di Cristo, nessun'altra idea di personalità, di esser persona, all'infuori di quella che si esprime in missione, servizio e offerta di sé.
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