Summa Teologica - II-II |
Infra, q. 36, a. 4; In 2 Sent., d. 42, q. 2, a. 3; De Malo, q. 11, a. 4
Pare che l'accidia non sia un vizio capitale.
1. Si dice capitale quel vizio che sollecita ad atti peccaminosi, come sopra [ q. 34, a. 5 ] si è spiegato.
Ora, l'accidia non sollecita all'atto, ma piuttosto trattiene dall'agire.
Perciò non va considerata un vizio capitale.
2. A un vizio capitale vengono attribuite delle figlie.
Ora, S. Gregorio [ Mor. 31,45 ] attribuisce all'accidia queste sei figlie: « la malizia, il rancore, la pusillanimità, la disperazione, il torpore relativo ai precetti, il vagare della mente sulle cose illecite ».
Ma queste cose non pare che derivino dall'accidia.
Infatti il rancore pare che si identifichi con l'odio, il quale nasce dall'invidia, come si è detto [ q. 34, a. 6 ].
La malizia e il vagare sulle cose illecite sono invece dati generici che si riscontrano in tutti i vizi.
La pigrizia poi relativa ai precetti pare che si identifichi con l'accidia, mentre la pusillanimità e la disperazione possono nascere da qualsiasi peccato.
Perciò non è giusto mettere l'accidia tra i vizi capitali.
3. S. Isidoro [ Sent. 2,37 ] distingue il vizio dell'accidia da quello della tristezza, affermando che la tristezza consiste nell'abbandonare le cose gravose e faticose a cui si è tenuti, mentre l'accidia consiste nell'abbandonarsi a un riposo colpevole.
E scrive che dalla tristezza nascono « il rancore, la pusillanimità, l'amarezza e la disperazione », mentre dall'accidia nascerebbero sette cose, che sono « l'oziosità, la sonnolenza, l'importunità dello spirito, l'irrequietezza del corpo, l'instabilità, la verbosità, la curiosità ».
Perciò o S. Gregorio o S. Isidoro sbaglia nel collocare l'accidia con le sue figlie tra i vizi capitali.
S. Gregorio [ l. cit. ] afferma che l'accidia è un vizio capitale, e che ha le figlie sopraindicate.
Come sopra [ I-II, q. 84, aa. 3,4 ] si è detto, si denomina capitale quel vizio dal quale, come da causa finale, facilmente ne derivano altri.
Ora, come gli uomini compiono molte cose per il piacere, sia per raggiungerlo, sia perché spinti dal suo impulso ad agire, così pure compiono molte cose per il dolore o tristezza, sia per evitarlo, sia perché portati da esso a compiere certe azioni.
Essendo quindi l'accidia una specie di tristezza, come sopra [ a. 1 ] si è dimostrato, è giusto considerarla un vizio capitale.
1. L'accidia, aggravando lo spirito, trattiene l'uomo dalle opere che causano tristezza.
Essa però sollecita a compiere gli atti che sono consoni alla tristezza, p. es. a piangere, oppure a compiere cose con cui si può evitare la tristezza.
2. S. Gregorio ha determinato con esattezza le figlie dell'accidia.
Dal momento infatti che « nessuno », come dice il Filosofo [ Ethic. 8, cc. 5,6 ], « può rimanere a lungo con la tristezza senza qualche piacere », è necessario che dalla tristezza nascano queste due cose: primo, l'abbandono di ciò che contrista; secondo, il passaggio ad altre cose in cui si prova piacere.
E così il Filosofo [ Ethic. 10,6 ] nota che coloro i quali non sono in grado di gustare i piaceri spirituali, sono portati ai piaceri materiali.
Ora, nell'abbandono della tristezza si nota questo sviluppo: prima si fugge ciò che addolora, poi si passa a impugnarlo.
Ma i beni spirituali di cui si addolora l'accidia possono essere sia il fine che i mezzi.
L'abbandono del fine si ha nella disperazione, mentre l'abbandono dei mezzi si ha nella pusillanimità quando si tratta di cose ardue, oggetto dei consigli [ evangelici ], e nel torpore relativo ai precetti quando si tratta di cose che appartengono alla santità comune.
- Invece l'impugnazione dei beni spirituali rattristanti talora ha di mira gli uomini che promuovono tali beni, e si ha il rancore, e talora investe gli stessi beni spirituali, che uno arriva a detestare, e allora si ha la malizia.
- Si enumera finalmente tra le figlie dell'accidia la divagazione sulle cose illecite per il fatto che uno, mosso dalla tristezza, si volge alle cose piacevoli esteriori.
Sono così risolte le obbiezioni relative alle singole figlie dell'accidia.
Infatti qui la malizia non è presa in quanto elemento generico di ogni vizio, ma nel senso indicato.
E così il rancore non è qui sinonimo di odio, ma indica un certo sdegno, come si è detto.
E così si dica per le altre figlie dell'accidia.
3. Anche Cassiano [ De instit. coenob. 10,1 ] distingue la tristezza dall'accidia, ma con più ragione S. Gregorio [ l. cit. ] le identifica.
Poiché la tristezza, come sopra [ a. 2 ] si è visto, non è un vizio distinto dagli altri in quanto uno tende a scansare opere gravose e faticose, oppure in quanto viene contristato da altri motivi, ma solo in quanto si rattrista del bene divino.
E ciò forma il costitutivo dell'accidia, la cui quiete in tanto è peccaminosa in quanto è un disprezzo del bene divino.
Le cose poi che S. Isidoro considera come originate dalla tristezza e dall'accidia si riducono a quelle stabilite da S. Gregorio.
Infatti l'amarezza, che per S. Isidoro nasce dalla tristezza, è un effetto del rancore.
L'oziosità e la sonnolenza poi si riducono al torpore relativo ai precetti: precetti intorno ai quali uno è ozioso trascurandoli del tutto, e sonnolento osservandoli con negligenza.
Tutte e cinque poi le altre cose che S. Isidoro fa nascere dall'accidia si riducono alla divagazione della mente sulle cose illecite.
Divagazione che, considerata nella sommità dell'anima che vuole importunamente effondersi sulle varie cose, viene detta importunità dello spirito; in quanto invece appartiene alle facoltà conoscitive viene detta curiosità; in quanto poi si produce nella locuzione prende il nome di verbosità; rispetto al corpo invece che non sta fermo nello stesso luogo è detta inquietudine del corpo, ed è il caso di chi indica con i moti incomposti delle sue membra la divagazione della mente; se invece si ha un variare di luoghi allora abbiamo l'instabilità.
Oppure per instabilità si può intendere la mutabilità nei propositi.
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