Summa Teologica - II-II |
C. G., III, cc. 130, 131, 133, 134; Contra Retr., c. 15; De perf. vitae spir., cc. 7, 8; C. impugn., cc. 1, 6; In Matth., c. 19
Pare che la povertà non sia indispensabile alla perfezione religiosa.
1. Non può essere richiesto per lo stato di perfezione ciò che è illecito.
Ora, non è lecito che l'uomo lasci tutti i suoi beni: infatti l'Apostolo [ 2 Cor 8,12 ] così insegna ai fedeli riguardo al modo di fare l'elemosina: « Se c'è la buona volontà, essa riesce gradita secondo quello che uno possiede », « cioè in modo da ritenere il necessario » [ Glossa interlin. ]; e aggiunge [ 2 Cor 8,13 ]: « non si tratta di dare ad altri sollievo e a voi afflizione », « cioè povertà », [ Glossa interlin. ].
E a proposito di quell'altro testo di S. Paolo [ 1 Tm 6,8 ]: « Avendo di che mangiare e di che coprirci », la Glossa [ P. Lomb. ] commenta: « Sebbene nulla abbiamo portato in questo mondo, e nulla porteremo via da esso, tuttavia i beni temporali non sono da disprezzarsi del tutto ».
Quindi la povertà volontaria non è indispensabile per la perfezione religiosa.
2. Chi si espone al pericolo commette peccato.
Ma chi lasciati tutti i suoi beni pratica la povertà volontaria si espone al pericolo: sia al pericolo spirituale, poiché nella Scrittura [ Pr 30,9 ] si legge: « Perché ridotto all'indigenza non rubi e profani il nome del mio Dio », e ancora [ Sir 27,1 Vg ]: « Per la miseria molti peccarono »; sia al pericolo corporale, poiché sta scritto [ Qo 7,12 ]: « Si sta all'ombra della saggezza come si sta all'ombra del danaro ».
E il Filosofo [ Ethic. 4,1 ] afferma che « la perdita delle ricchezze è come la perdita dell'uomo stesso, poiché con esse egli si sostenta ».
Quindi la povertà volontaria non è richiesta dalla perfezione della vita religiosa.
3. « La virtù consiste nel giusto mezzo », come insegna Aristotele [ Ethic. 2,6 ].
Invece chi abbandona tutto con la povertà volontaria non sta nel giusto mezzo, ma va piuttosto a un estremo.
Egli quindi non agisce in maniera virtuosa.
Quindi ciò non appartiene alla perfezione della vita.
4. L'ultima perfezione dell'uomo consiste nella beatitudine.
Ora, le ricchezze contribuiscono alla beatitudine, poiché nella Scrittura [ Sir 31,8 ] si legge: « Beato il ricco che si trova senza macchia ».
E il Filosofo [ Ethic. 1,8 ] insegna che le ricchezze servono « organicamente », ossia strumentalmente, alla felicità.
Quindi la povertà volontaria non è richiesta dalla perfezione della vita religiosa.
5. Lo stato episcopale è più perfetto dello stato religioso.
Ma i vescovi possono possedere, come sopra [ q. 185, a. 6 ] si è visto.
Quindi anche i religiosi.
6. Fare l'elemosina è un'opera graditissima a Dio: anzi, secondo il Crisostomo [ In Heb. hom. 9 ], « essa è il rimedio più efficace nella penitenza ».
Ora, la povertà impedisce l'elargizione dell'elemosina.
Quindi la povertà non è richiesta dalla perfezione della vita religiosa.
S. Gregorio [ Mor. 8,26 ] scrive: « Ci sono dei giusti che si preparano a scalare la cima della perfezione abbandonando tutti i beni esteriori, per il desiderio dei beni interiori tanto più eccelsi ».
Ora, disporsi a salire la vetta della perfezione è proprio dei religiosi, come si è detto [ aa. 1,2 ].
Quindi è indispensabile per essi abbandonare tutti i beni esterni con la povertà volontaria.
Lo stato religioso, come si è già detto [ a. prec. ], è un esercizio o tirocinio per giungere alla perfezione della carità.
Ora, per questo è indispensabile che uno distolga totalmente il proprio affetto dalle cose del mondo.
Dice infatti S. Agostino [ Conf. 10,29.40 ] rivolgendosi a Dio: « Poco ti ama chi ama con te qualcosa che non ama per te ».
Per cui altrove [ Lib. LXXXIII quaest. 36 ] egli dice che « il nutrimento della carità è la diminuzione della cupidigia; la sua perfezione l'assenza di ogni cupidigia ».
D'altra parte, se si possiedono i beni terreni, l'animo viene attratto ad amarli.
Scrive infatti S. Agostino [ Epist. 31 ] che « i beni terreni posseduti sono più amati di quelli semplicemente desiderati.
E in verità perché quel giovane si allontanò triste se non perché aveva grandi ricchezze?
Poiché una cosa è il non voler incorporare ciò che non si ha, e un'altra il dover svellere ciò che è già incorporato: quello infatti è come un elemento estraneo che viene ripudiato, questo è come un membro che si recide ».
E il Crisostomo [ In Mt hom. 63 ] afferma che « il possesso delle ricchezze accende una fiamma più grande, e la cupidigia si fa più violenta ».
Dal che segue che per acquistare la perfezione della carità è indispensabile come primo fondamento la povertà volontaria, per cui uno vive senza alcuna proprietà personale, secondo le parole del Signore [ Mt 19,21 ]: « Se vuoi essere perfetto, va', vendi quello che possiedi e dallo ai poveri; poi vieni e seguimi ».
1. Come spiega bene nello stesso punto la Glossa, « l'Apostolo non scrisse quelle parole ( "non si tratta di dare afflizione a voi" ) per indicare ciò che era più perfetto, ma temendo per i deboli nella fede esorta a dare in modo da non esporsi al bisogno ».
- E similmente l'altro testo della Glossa non va inteso nel senso che sia proibito disfarsi di tutti i beni temporali, ma nel senso che ciò non è indispensabile in modo assoluto.
Da cui le parole di S. Ambrogio [ De off. 1,30 ]: « Il Signore non vuole », per necessità di precetto, « che le ricchezze siano date tutte in una volta, ma che siano distribuite: a meno che uno non voglia imitare Eliseo [ cf. 1 Re 19,21 ], il quale uccise i suoi buoi e sfamò i poveri con le sue sostanze per liberarsi da ogni cura domestica ».
2. Chi abbandona ogni cosa per Cristo non si espone ad alcun pericolo, né spirituale né corporale.
Dalla povertà infatti deriva un pericolo spirituale quando essa non è volontaria: poiché l'uomo cade in molti peccati per il desiderio di arricchire, che è proprio dei poveri involontari, secondo le parole di S. Paolo [ 1 Tm 6,9 ]: « Coloro che vogliono arricchire cadono nella tentazione e nel laccio del diavolo ».
Ma questa brama viene deposta da coloro che abbracciano la povertà volontaria, mentre domina in coloro che possiedono le ricchezze, come è evidente da quanto si è detto [ nel corpo ].
E neppure esiste un pericolo corporale per coloro che abbandonano tutto per seguire Cristo, poiché essi si affidano alla divina provvidenza.
Da cui le parole di S. Agostino [ De serm. Dom. in monte 2,17.56 ]: « Chi cerca il regno di Dio e la sua giustizia non deve avere la preoccupazione che gli manchi il necessario ».
3. Il giusto mezzo della virtù, al dire del Filosofo [ l. cit. nell'ob. ], va misurato « secondo la retta ragione », e non materialmente.
Perciò tutto quanto merita di essere fatto secondo la retta ragione non è peccaminoso per la sua grandezza, ma semmai è più virtuoso.
Ora, sarebbe certo contro la retta ragione se uno sperperasse tutti i suoi beni nei bagordi, o senza utilità.
Ma che uno si disfaccia delle ricchezze per attendere alla contemplazione della sapienza è secondo la retta ragione: e si legge che così hanno fatto anche alcuni filosofi.
Scrive infatti S. Girolamo [ Epist. 58 ]: « Il tebano Cratete, che un tempo era ricchissimo, dirigendosi verso Atene per attendere alla filosofia gettò via una gran quantità di oro, pensando di non poter possedere insieme la virtù e la ricchezza ».
Molto più dunque è conforme alla retta ragione che uno abbandoni ogni cosa per seguire perfettamente Cristo.
Da cui l'esortazione di S. Girolamo [ Epist. 125 ]: « Segui nudo Cristo nudo ».
4. Ci sono due tipi di beatitudine, o felicità: la prima è la felicità perfetta che attendiamo nella vita futura.
La seconda invece è imperfetta, ed è quella per cui chiamiamo felici alcuni uomini in questa vita.
Ora la felicità della vita presente, come spiega il Filosofo [ Ethic. 10, cc. 7,8 ], è anch'essa di due specie: la prima è propria della vita attiva, la seconda accompagna la vita contemplativa.
Alla felicità dunque della vita attiva, che si esplica nelle azioni esterne, cooperano strumentalmente anche le ricchezze, come scrive il Filosofo [ Ethic. 1,8 ]: « Noi compiamo molte cose per mezzo degli amici, delle ricchezze e del potere civile, come servendoci di strumenti ».
Esse però non giovano molto nella vita contemplativa, ma sono piuttosto di impedimento, poiché con le loro preoccupazioni disturbano la quiete dell'animo, che è sommamente necessaria ai contemplativi.
Per questo il Filosofo [ Ethic. 10,8 ] scrive che « per l'azione si richiedono molte cose, ma per la speculazione non c'è bisogno di nessuna di esse », cioè non servono i beni esterni; « anzi, essi sono di impedimento alla speculazione ».
Alla beatitudine futura poi l'uomo viene ordinato dalla carità.
E poiché la povertà volontaria è un esercizio efficace per giungere alla carità perfetta, essa è un mezzo importante per conseguire la beatitudine celeste.
Da cui le parole del Signore [ Mt 19,21 ]: « Va', vendi quello che possiedi e dallo ai poveri, e avrai un tesoro nel cielo ».
Invece le ricchezze possedute tendono per loro natura a impedire la perfezione della carità, principalmente in quanto seducono l'animo e lo distraggono.
Infatti nel Vangelo [ Mt 13,22 ] si legge che « la preoccupazione del mondo e l'inganno della ricchezza soffocano la parola di Dio »: poiché, come dice S. Gregorio [ In Evang. hom. 15 ], « non permettendo ai desideri buoni di entrare nel cuore, chiudono la via alla linfa vitale ».
È quindi difficile conservare la carità in mezzo alle ricchezze.
Per cui il Signore [ Mt 19,23 ] afferma che « difficilmente un ricco entrerà nel regno dei cieli ».
Il che è da intendersi di chi possiede attualmente le ricchezze: poiché riguardo a chi mette il suo affetto nelle ricchezze egli dice che è addirittura impossibile, stando alla spiegazione che il Crisostomo [ In Mt hom. 63 ] dà di quelle parole: « È più facile che un cammello passi per la cruna di un ago, che un ricco entri nel regno dei cieli ».
Per cui è detto beato non il ricco in generale, ma quello « che si trova senza macchia, e non corre dietro all'oro » [ Sir 31,8 ].
E ciò perché si tratta di una cosa difficile; il testo infatti continua [ Sir 31,9 ]: « Chi è costui? Noi lo proclameremo beato.
Difatti egli ha compiuto meraviglie in mezzo al suo popolo »: è stato cioè tra le ricchezze senza amare la ricchezza.
5. Lo stato dei vescovi non è ordinato ad acquistare la perfezione, bensì a governare gli altri con la perfezione ormai raggiunta, amministrando non solo i beni spirituali, ma anche quelli materiali.
E questo è un compito della vita attiva, nella quale si presentano molte cose che vanno compiute servendosi delle ricchezze, come si è notato sopra [ ad 4 ].
Perciò dai vescovi che hanno il compito di governare il gregge di Cristo non si esige la rinunzia alla proprietà come la si esige dai religiosi, i quali sono impegnati nell'acquisto della perfezione.
6. La rinunzia ai propri beni sta all'elemosina come l'universale sta al particolare, o come l'olocausto al sacrificio.
Per cui S. Gregorio [ In Ez hom. 20 ] afferma che « quanti soccorrono i poveri mediante il frutto dei loro averi, con il bene che fanno offrono un sacrificio, poiché immolano a Dio qualcosa riservandosi una parte; quelli invece che non si riservano nulla offrono un olocausto, che è più di un sacrificio ».
Da cui anche le parole di S. Girolamo [ Contra Vigilant. 14 ]: « Quando egli [ Vigilanzio ] afferma che fanno un'opera migliore quelli che usano dei loro beni e spartiscono ai poveri il frutto dei loro averi, la risposta non la riceve da me, ma da Dio: "Se vuoi essere perfetto" », ecc.
E continua: « Questo che tu lodi è [ non il primo, ma ] il secondo e il terzo grado: che anche noi accettiamo, purché si riconosca che il primo va preferito al secondo e al terzo ».
Per confutare quindi l'errore di Vigilanzio, è detto nel De ecclesiasticis Dogmatibus [ 71 ]: « È cosa buona fare elemosine ai poveri: è però cosa migliore dare tutto in una volta per seguire il Signore, e liberi da ogni preoccupazione essere indigenti con Cristo ».
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