Summa Teologica - III |
In 3 Sent., d. 15, q. 2, a. 3, sol. 1, expos.; De Verit., q. 26, a. 8, ad 7, 8; Comp. Theol., c. 232
Pare che in Cristo non ci fosse il vero dolore sensibile.
1. S. Ilario [ De Trin. 10,10.13 ] scrive: « Se morire per Cristo è vivere, come si fa a pensare che nel mistero della morte egli abbia sofferto, mentre premia con la vita quelli che muoiono per lui? ».
E dopo aggiunge: « Dio unigenito, senza cessare di essere Dio, si è fatto vero uomo: perciò raggiunto dai colpi, coperto di ferite, caricato di catene, sospeso alla croce, può ricevere da tutto questo passione, ma non dolore ».
In Cristo dunque non c'era il vero dolore.
2. Soggiacere alla necessità del dolore è proprio della carne concepita nel peccato.
Ma la carne di Cristo non fu concepita nel peccato, bensì per opera dello Spirito Santo in un seno verginale.
Quindi non soggiaceva alla necessità di patire il dolore.
3. Il gaudio della contemplazione delle cose divine diminuisce il senso del dolore, per cui anche i martiri nelle loro passioni sopportavano meglio il dolore considerando l'amore divino.
Ma l'anima di Cristo godeva sommamente della contemplazione di Dio, che vedeva nella sua essenza, come si è detto sopra [ q. 9, a. 2 ].
Quindi non poteva sentire alcun dolore.
Isaia [ Is 53,4 ] scrive: « Egli si è caricato delle nostre sofferenze, si è addossato i nostri dolori ».
Come risulta da quanto si è detto nella Seconda Parte [ I-II, q. 35, a. 7 ], perché ci sia un vero dolore sensibile occorre una lesione del corpo e la sensazione di essa.
Ora, il corpo di Cristo poteva subire lesioni, essendo passibile e mortale, come si è visto sopra [ q. 14, aa. 1,2 ].
Né gli mancava la sensazione delle lesioni, avendo l'anima di Cristo perfetto possesso di tutte le potenze naturali.
Quindi non si può dubitare che in Cristo ci fosse un vero dolore.
1. In quei testi e in altri simili S. Ilario non intende escludere dalla carne di Cristo la realtà del dolore, ma la necessità.
Tanto che dopo le parole citate spiega [ n. 24 ]: « Infatti quando il Signore ebbe fame, o sete, o pianse, non simulò di mangiare, o di bere, o di piangere, ma per dimostrare la realtà del suo corpo assunse le abitudini del corpo e le soddisfece alla nostra maniera.
Oppure quando accettava di bere o di mangiare non lo faceva per una necessità del suo corpo, ma per adattarsi all'uso comune ».
E la « necessità » che esclude è quella del peccato, quale causa prima di quei limiti, come si è detto sopra [ q. 14, aa. 1,3 ]: cioè la carne di Cristo non sottostava alla necessità di quei limiti, non essendoci in essa il peccato.
Per cui soggiunge [ n. 25 ] che Cristo « aveva un corpo, ma di origine singolare, non viziosamente concepito alla maniera umana, ma fatto dalla sua potenza a somiglianza del nostro corpo ».
Quanto però alla causa prossima di quei limiti, che è la composizione di elementi contrari, la carne di Cristo soggiaceva alla loro necessità, come si è già spiegato [ q. 14, a. 2 ].
2. La carne concepita nel peccato soggiace necessariamente al dolore non solo in forza dei suoi princìpi naturali, ma anche in pena del peccato.
Ora, quest'ultima necessità mancava in Cristo, essendoci solo la necessità dei princìpi naturali.
3. Come si è detto sopra [ q. 14, a. 1, ad 2 ], la divinità di Cristo faceva sì che in via straordinaria la beatitudine della sua anima non rifluisse nel corpo, così da togliere la sua passibilità e mortalità.
E per lo stesso motivo il gaudio della contemplazione era così circoscritto nell'anima da non discendere nelle facoltà sensitive e non impedire il dolore sensibile.
Indice |