Regola pastorale |
Diverso è il modo di ammonire i benevoli e gli invidiosi.
Bisogna ammonire i benevoli a gioire dei beni altrui così da desiderare di farli propri.
Lodino con vero amore le azioni del prossimo così da moltiplicarle anche, imitandole; perché se nella sosta della vita presente assistono alla gara altrui come devoti sostenitori ma insieme come spettatori pigri, non restino, dopo la gara, senza premio quanto più ora, durante la gara, non hanno faticato; e, allora, non debbano guardare afflitti alle palme di coloro davanti alle cui fatiche, ora, persistono in ozio.
Poiché pecchiamo gravemente se non amiamo ciò che gli altri fanno di bene, ma non traiamo motivo di ricompensa se, per quanto sta in noi, non imitiamo ciò che amiamo.
Perciò alle persone benevole bisogna dire che se non si affrettano per nulla ad imitare il bene che approvano con la loro lode, a loro piace la santità delle virtù come agli stolti spettatori piace la vanità delle arti ludiche.
Costoro infatti esaltano coi loro applausi le imprese di aurighi e di attori e tuttavia non desiderano essere tali quali vedono essere coloro che lodano.
Li ammirano per ciò che hanno compiuto di piacevole, tuttavia evitano di piacere allo stesso modo.
Bisogna dire ai benevoli che quando guardano alle azioni del prossimo rientrino nel proprio cuore e non si vantino di azioni altrui; non lodino il bene mentre rifiutano di compierlo, poiché tanto più gravemente devono essere colpiti dall’estremo castigo coloro a cui è piaciuto ciò che non hanno voluto imitare.
Bisogna ammonire gli invidiosi a valutare attentamente la cecità di coloro che vengono meno per il successo degli altri e si struggono per la gioia altrui.
Quanto grande è l’infelicità di coloro che diventano peggiori perché vedono migliorare gli altri e, mentre guardano aumentare la fortuna altrui, stretti dall’afflizione in se stessi, muoiono per la peste che hanno nel loro cuore.
Che cosa ci può essere di più infelice di costoro che la pena per la constatazione della felicità altrui rende più cattivi?
Invero, se amassero i beni degli altri che non possono avere per sé, li farebbero propri.
Poiché essi sono tutti stabiliti nella fede, come molte membra in un solo corpo, le quali sono certo diverse per la diversità delle funzioni, ma per il fatto stesso della loro corrispondenza reciproca diventano una cosa sola ( cf. 1 Cor 12,12-30 ).
Per cui avviene che il piede vede attraverso l’occhio e gli occhi camminano per mezzo dei piedi, l’ascolto delle orecchie serve alla bocca e la lingua che sta in bocca concorre con gli orecchi alla propria funzione; il ventre sostiene l’attività delle mani e le mani lavorano per il ventre.
Pertanto, è dalla stessa condizione del corpo, che riceviamo ciò che dobbiamo conservare nel nostro agire.
E così è troppo vergognoso non imitare ciò che siamo.
È certamente nostro ciò che amiamo negli altri anche se non possiamo imitarlo; e ciò che è amato in noi diviene di chi l’ama.
Perciò gli invidiosi misurino quanto è grande la potenza della carità che rende nostre senza fatica le opere della fatica altrui.
E così bisogna dire agli invidiosi che quando non si custodiscono per nulla dall’invidia, sprofondano nella malizia antica dello scaltro nemico, perché di lui è scritto: Per l’invidia del diavolo la morte entrò nel mondo ( Sap 2,24 ).
Infatti, poiché egli aveva perduto il cielo, lo invidiò all’uomo appena creato, ed essendosi perduto lui volle accrescere la sua perdizione perdendo ancora altri.
Bisogna ammonire gli invidiosi a rendersi conto di quanto siano grandi le cadute per le quali cresce la rovina sotto cui essi giacciono, poiché sé non gettano via l’invidia dal cuore precipitano in una aperta iniquità di opere.
Se infatti Caino non avesse invidiato il sacrificio gradito [ a Dio ] del fratello, non sarebbe giunto a spegnere la sua vita.
Perciò è scritto: E il Signore riguardò ad Abele e ai suoi doni; ma non riguardò a Caino e ai suoi doni.
E Caino si adirò fortemente e gli cadde il volto ( Gen 4,4 ).
E così, l’invidia per il sacrificio fu il germe del fratricidio, ed egli tagliò via chi non sopportava fosse migliore di lui, affinché non fosse più in alcun modo.
Bisogna dire agli invidiosi che mentre si consumano interiormente per questa peste essi uccidono anche ogni altra cosa buona sembrino avere dentro di sé.
Perciò è scritto: La sanità del cuore è vita della carne, l’invidia è putredine delle ossa ( Pr 14,30 ).
Che cosa si intende per carne se non le azioni molli e deboli, e per ossa se non quelle forti?
Eppure accade spesso che alcuni i quali appaiono deboli in alcune loro azioni, hanno l’innocenza del cuore e altri invece si comportino in maniera forte agli occhi degli uomini e tuttavia nei confronti del bene altrui si consumino nell’intimo, per la peste dell’invidia.
Pertanto è ben detto: La sanità del cuore è vita della carne, perché se si custodisce l’innocenza del cuore, anche se l’agire esterno talvolta è debole, prima o poi si irrobustisce.
E si aggiunge correttamente: L’invidia è putredine delle ossa, perché per il vizio dell’invidia, agli occhi di Dio vanno perdute anche quelle azioni che agli occhi degli uomini sembrano da forti; infatti l’imputridire delle ossa per l’invidia significa il deperire di certe cose anche forti.
Diverso è il modo di ammonire i semplici e gli insinceri.
I semplici bisogna lodarli perché si studino di non dire mai il falso, ma bisogna ammonirli che sappiano ogni tanto tacere il vero.
Come il falso nuoce sempre a chi lo dice, così talvolta ad alcuni nuoce ascoltare la verità.
Perciò il Signore, temperando il suo discorso col silenzio, davanti ai discepoli, dice: Ho molte cose da dirvi ma ora non potete portarle ( Gv 16,12 ).
Pertanto bisogna ammonire i semplici a dire la verità badando sempre all’utilità allo stesso modo che sempre utilmente evitano l’inganno.
Bisogna ammonirli ad aggiungere al bene della semplicità quello della prudenza, affinché abbiano quella sicurezza che viene dalla semplicità senza perdere quell’attenzione propria della prudenza.
Perciò infatti dice il dottore delle genti: Voglio che voi siate sapienti nel bene ma semplici nel male ( Rm 16,19 ).
Perciò la Verità stessa ammonisce i suoi eletti dicendo: Siate prudenti come serpenti e semplici come colombe ( Mt 10,16 ).
Perché evidentemente nel cuore degli eletti l’astuzia del serpente deve rendere acuta la semplicità della colomba, e insieme la semplicità della colomba deve temperare l’astuzia del serpente, affinché essi non si lascino sedurre ad eccedere nell’esercizio della prudenza né, per la semplicità, divengano torpidi nell’uso dell’intelligenza.
Al contrario, bisogna ammonire gli insinceri a riconoscere quanto sia grave colpa la fatica di quella doppiezza, che essi sostengono.
Infatti, per il timore di essere scoperti cercano sempre giustificazioni cattive e sono sempre agitati da sospetti che li rendono paurosi.
Ma niente è più sicuro della purezza, a propria difesa; niente più facile a dirsi della verità.
Infatti il cuore costretto a proteggere la propria falsità dura una pesante fatica, e perciò è scritto: La fatica delle loro labbra li ricoprirà ( Sal 140,10 ).
La fatica, che ora riempie e soddisfa, allora ricoprirà perché opprimerà con atroce retribuzione l’animo di colui che ora tira fuori d’impaccio a prezzo di una leggera inquietudine.
Perciò si dice in Geremia: Hanno insegnato alla loro lingua a dire la menzogna, si sono affaticati per commettere l’iniquità ( Ger 9,5 ), come se dicesse apertamente: Coloro che potevano essere amici della verità senza fatica, si affaticano per peccare e mentre rifiutano di vivere semplicemente, si adoperano con tutte le loro forze per morire.
Infatti, non di rado, se sono colti in fallo, mentre rifuggono dal farsi riconoscere quali sono, si nascondono sotto il velo della falsità e si affaccendano per giustificare ciò in cui stanno peccando e che è già apertamente visibile; così che spesso colui che ha cura di correggere le loro colpe, ingannato dalle nebbie di questa aspersione di falsità, ha quasi l’impressione di aver perduto di vista ciò che ormai teneva per certo a loro riguardo.
Perciò all’anima che pecca e si giustifica si dice, per mezzo del profeta che rettamente la rappresenta nella Giudea: Là ebbe la sua tana il riccio ( Is 34,15 ).
Col nome di riccio si indica la doppiezza di una mente impura che si difende con astuzia, e ciò chiaramente perché il riccio, nel momento in cui viene preso, mostra tutto intero il corpo e si vedono capo e piedi, ma appena è stato preso si raccoglie tutto in una palla, tira dentro i piedi, nasconde il capo e di colpo scompare tutto nella mano di chi lo tiene, mentre appena prima si mostrava tutto intero.
Così certamente sono le anime insincere quando vengono sorprese nelle loro prevaricazioni.
Infatti si vede il capo del riccio perché si vede quando il peccatore incomincia ad accostarsi alla colpa; si vedono i piedi del riccio perché si conoscono le tracce del peccato commesso.
E tuttavia, con l’addurre subito le sue giustificazioni, l’anima insincera tira dentro i piedi, cioè nasconde tutte le tracce della sua iniquità; sottrae il capo, perché con le sue mirabili difese dimostra di non avere neppure dato inizio a qualcosa di male, e resta come una palla in mano di chi lo tiene.
Il quale improvvisamente non si ritrova più tutto quanto aveva già compreso di lui poiché ha di fronte un peccatore avvolto e chiuso nel segreto della sua coscienza; e lui stesso, che lo aveva veduto tutto intero nel coglierlo sul fatto, tratto in inganno dai raggiri di una maliziosa difesa, ancora tutto intero lo ignora.
Il riccio dunque ha una tana nei reprobi, esso che raccogliendosi in se stesso nasconde le doppiezze di un animo malizioso nelle tenebre della giustificazione.
Ascoltino gli insinceri ciò che è scritto: Chi cammina nella semplicità, cammina con fiducia ( Pr 10,9 ); poiché la semplicità dell’azione è fiducia di una grande sicurezza.
Ascoltino ciò che è detto dalla bocca del sapiente: Lo Spirito Santo fugge una dottrina di falsità ( Sap 1,5 ).
Ascoltino ciò che ancora è offerto dalla testimonianza della Scrittura: La sua conversazione è coi semplici ( Pr 3,32 ).
Infatti il conversare di Dio è il rivelare i suoi misteri ai cuori degli uomini attraverso l’illuminazione della sua presenza.
Pertanto si dice che conversa coi semplici perché col raggio della sua visita illumina sui misteri celesti i loro cuori che non sono oscurati da alcun’ombra di doppiezza.
Il peccato delle persone doppie, poi, è un peccato speciale, perché esse ingannano gli altri con l’azione doppia e perversa e insieme si gloriano come fossero più astuti di loro; e poiché non considerano la severità della retribuzione che riceveranno, esultano miseramente del proprio danno.
Ma ascoltino come sopra di loro il profeta Sofonia stenda la forza della punizione divina, dicendo: Ecco, viene il giorno del Signore, grande e terribile, giorno d’ira quel giorno, giorno di tenebre e di caligine, giorno di nebbia e di turbine, giorno di suono di tromba su tutte le città fortificate e su tutti gli angoli elevati ( cf. Sof 1,15-16; Gio 2,2 ).
Infatti, che cosa si intende per città fortificate se non gli animi sospettosi e sempre circondati di false giustificazioni, i quali ogni volta che viene rimproverata la loro colpa respingono da sé i dardi della verità?
E che cosa è indicato con angoli elevati ( poiché negli angoli c’è sempre una doppia parete ) se non i cuori insinceri?
I quali mentre fuggono la semplicità della verità, per la stessa perversità della loro doppiezza, in qualche modo si ripiegano e, quel che è peggio, per la loro stessa colpa di insincerità si esaltano nei loro pensieri come avessero raggiunto l’apice della astuzia.
Dunque il giorno del Signore, pieno di vendetta e di castigo, verrà sulle città fortificate e sugli angoli elevati, perché l’ira dell’ultimo giudizio distruggerà i cuori umani chiusi dalle difese contro la verità, e scioglierà le pieghe della loro doppiezza.
Allora infatti cadranno le città fortificate perché saranno condannati gli animi che non si sono lasciati penetrare da Dio.
Allora crolleranno gli angoli elevati perché i cuori che si edificano, attraverso l’astuzia della falsità, saranno atterrati dalla sentenza di giustizia.
Diverso è il modo di ammonire i sani e i malati.
Bisogna ammonire i sani a esercitare la salute del corpo a vantaggio della salute dello spirito perché, se piegano ad un uso malizioso la grazia della buona salute che hanno ricevuto, proprio per questo dono non diventino peggiori e meritino poi supplizi tanto più gravi quanto più ora essi non temono di usare male dei più larghi beni di Dio.
Bisogna ammonire i sani che non disprezzino l’occasione di una salute da meritare per l’eternità, poiché è scritto: Ecco, ora è il tempo gradito, ecco ora il tempo della salvezza ( 2 Cor 6,2 ).
Bisogna ammonirli che, se non vogliono piacere a Dio quando possono, può accadere che non lo possano quando lo vorranno troppo tardi.
Da ciò infatti viene che poi la Sapienza abbandona coloro che prima ha chiamato a lungo nel loro rifiuto, dicendo: Vi ho chiamato e avete detto di no; ho teso la mia mano e nessuno ha guardato; avete disprezzato ogni mio consiglio e avete trascurato i miei rimproveri; anch’io riderò nella vostra fine e vi schernirò quando vi accadrà ciò che temevate ( Pr 1,24ss ).
E ancora: Allora mi invocheranno e non ascolterò; si leveranno la mattina e non mi troveranno ( Pr 1,28 ).
Pertanto, quando si disprezzala salute del corpo ricevuta per operare il bene, ci si rende conto di quale grande dono fosse, quando la si è perduta; e alla fine si cerca senza frutto ciò che, concesso al momento adatto, non è stato utilmente posseduto.
Perciò è ben detto ancora, per mezzo di Salomone: Non consegnare ad altri il tuo onore e i tuoi anni al crudele, perché non si riempiano gli stranieri con la tua forza e il frutto delle tue fatiche finisca in casa altrui, e negli ultimi giorni tu pianga, quando avrai consumato le tue carni e il tuo corpo ( Pr 5,9ss ).
Chi sono infatti gli stranieri, per noi, se non gli spiriti maligni separati dalla sorte della patria celeste?
E qual è il nostro onore se non l’essere creati a immagine e somiglianza del nostro Creatore, nonostante che siamo fatti di corpo e di fango?
O chi altri è il crudele se non quell’angelo apostata, il quale con la sua superbia colpi se stesso con la pena di morte e, ormai perduto, non volle risparmiare la morte al genere umano?
E così, consegna il suo onore agli stranieri colui che, fatto a immagine e somiglianza di Dio, amministra il tempo della sua vita coi piaceri che sono propri degli spiriti maligni.
Consegna i suoi anni al crudele, chi dissipa il tempo di vita ricevuto, secondo la volontà dell’avversario signore del male.
E qui bene si aggiunge: Perché non si riempiano gli stranieri della tua forza, e il frutto delle tue fatiche finisca in casa altrui.
Infatti chiunque si affatica, con la forza del corpo che ha ricevuto e la sapienza della mente che gli è stata assegnata, non a esercitare la virtù, ma a soddisfare i vizi, non accresce la propria casa con le sue forze, ma certamente - praticando sia la lussuria sia la superbia così da accrescere, con l’aggiunta di se stesso, il numero dei perduti - moltiplica le dimore degli stranieri, cioè le azioni degli spiriti immondi.
E poi opportunamente si aggiunge: E tu pianga, negli ultimi giorni, quando avrai consumato le tue carni e il tuo corpo.
Spesso, infatti, la salute del corpo che si è ricevuta viene dissipata coi vizi; ma quando improvvisamente è sottratta, quando la carne viene afflitta da tormenti, quando l’anima già è incalzata ad uscire, si ricerca, quasi per vivere bene, quella salute perduta che si è goduta a lungo, male.
E allora si lamentano gli uomini di non aver voluto servire Dio, quando ormai non possono più servire, per rimediare ai danni della propria negligenza.
Per cui altrove è detto: Quando li uccideva, allora lo cercavano ( Sal 78,34 ).
Al contrario, bisogna ammonire i malati a sentirsi tanto più figli di Dio quanto più li castigano i colpi della correzione.
Infatti, se Egli non avesse disposto di dare l’eredità a coloro che corregge, non si curerebbe di istruirli attraverso le sofferenze.
Perciò il Signore dice a Giovanni per mezzo dell’angelo: Io rimprovero e castigo quelli che amo ( Ap 3,19 ).
Perciò ancora è scritto: Figlio mio, non trascurare la correzione del Signore, non stancarti di essere rimproverato da lui.
Poiché Dio castiga chi ama e colpisce ogni figlio che accoglie ( Eb 12,5-6 ).
Perciò il salmista dice: Molte sono le tribolazioni dei giusti, ma da tutte li ha liberati il Signore ( Sal 34,20 ).
Perciò pure il santo Giobbe dice, gridando nel dolore: Se sarò giusto non leverò la testa, sazio di tribolazione e di miseria ( Gb 10,15 ).
Bisogna dire ai malati che, se credono che sia loro la patria celeste, è necessario che patiscano fatiche in questa come in terra straniera.
È per questo infatti che, per essere poste senza rumore di martelli nella costruzione del tempio del Signore, le pietre vennero squadrate di fuori; per significare cioè che ora noi siamo percossi dalle sferze di fuori, per essere poi posti dentro, nel tempio di Dio, senza i colpi della correzione, affinché tutto ciò che in noi è superfluo ora, lo tagli via la battitura, e allora, nell’edificio, ci tenga uniti la sola concordia della carità.
Bisogna ammonire i malati a considerare la durezza dei colpi con cui vengono castigati i figli carnali, e solamente in vista di eredità terrene.
E perché allora ci è pesante la pena della correzione divina, per la quale si riceve una eredità che non andrà mai perduta e si evitano supplizi che dureranno sempre?
Perciò infatti dice Paolo: Del resto, noi abbiamo avuto come educatori i nostri padri secondo la carne, e rispettavamo; non obbediremo molto di pia al padre degli spiriti e vivremo?
Quelli invero ci educavano secondo la loro volontà e per un tempo breve, ma questo ci educa per ciò che è utile a ricevere la sua santificazione ( Eb 12,9-10 ).
Bisogna ammonire i malati a considerare quanta salute del cuore sia la sofferenza del corpo, la quale richiama la mente alla conoscenza di sé e restituisce il ricordo della propria debolezza, che spesso la salute rigetta; e così lo spirito, portato fuori di sé a gonfiarsi di orgoglio, si ricorda a quale condizione è soggetto proprio per quella carne colpita che deve sostenere.
E ciò è rettamente rappresentato da Balaam ( se effettivamente avesse voluto seguire obbediente la voce di Dio ) proprio in quell’essere ritardato nel suo cammino.
Infatti Balaam vuole giungere alla mèta che si è prefisso ma l’animale che egli guida ostacola il suo desiderio ( cf. Nm 22,23ss ).
In effetti, l’asina trattenuta dalla proibizione dell’angelo vede ciò che lo spirito dell’uomo non riesce a vedere, poiché spesso la carne resa tarda dalla sofferenza, con la percossa che patisce indica Dio allo spirito, mentre lo stesso spirito che governa la carne non lo vedeva; e così la carne [ sofferente ] trattiene l’ansietà dello spirito di colui che brama di progredire in questo modo, come di chi sta percorrendo un cammino, finché gli illumina l’invisibile che gli si oppone.
Per ciò anche, per mezzo di Pietro, è ben detto: Ricevette la correzione della sua follia: un muto giumento parlando con voce umana impedì la stoltezza del profeta ( 2 Pt 2,15 ).
E avviene che un uomo folle sia corretto da un giumento muto, quando una mente esaltata, si ricorda per l’afflizione della carne di quel bene dell’umiltà che avrebbe dovuto custodire.
Ma Balaam non ottenne il dono di questa correzione proprio perché, andando per maledire, mutò le parole ma non la mente.
Bisogna ammonire i malati a considerare quale grande dono sia la sofferenza del corpo, che scioglie i peccati commessi e impedisce quelli che si sarebbero potuti compiere e, prodotta da piaghe esterne, infligge ferite di penitenza all’animo colpito.
Perciò è scritto: Il livido della ferita porta via il male, e così le piaghe nei recessi del ventre ( Pr 20,30 ).
Infatti il livido della ferita porta via il male perché il dolore delle percosse scioglie i pensieri e le azioni inique.
Con la parola ventre si suole intendere la mente perché, come il ventre consuma i cibi, la mente meditando scioglie le preoccupazioni.
E che la mente sia detta ventre, lo insegna il proverbio: Lo spirito dell’uomo è lampada del Signore, che scruta tutti i recessi del ventre ( Pr 20,27 ); come se dicesse: l’illuminazione del soffio divino, quando viene nella mente dell’uomo, illuminandola, la mostra a se stessa, essa che prima della venuta dello Spirito Santo poteva portare pensieri cattivi e non sapeva pensare.
Pertanto, il livido della ferita porta via il male e così pure le piaghe nei recessi del ventre, perché quando siamo percossi all’esterno, veniamo richiamati, silenziosi e afflitti, al ricordo dei nostri peccati, e riportiamo davanti ai nostri occhi tutto quanto abbiamo compiuto di male; e ciò che patiamo di fuori ci procura maggiormente dolore nell’intimo per ciò che abbiamo fatto.
Quindi avviene che più abbondantemente che le ferite aperte del corpo, ci lavi la piaga nascosta del ventre, perché la ferita nascosta del dolore sana la malizia del cattivo operare.
Bisogna ammonire gli ammalati a conservare la virtù della pazienza, a considerare incessantemente quanto grandi mali il nostro Redentore sopportò da coloro che aveva creato.
Egli sostenne i tanto volgari oltraggi della derisione e degli schemi,
lui che rapisce ogni giorno le anime dei prigionieri dalla mano dell’antico nemico, ricevette gli schiaffi degli insultatori;
lui che ci lava con l’acqua della salvezza non ritrasse la faccia dagli sputi dei perfidi;
lui che con la sua intercessione ci libera dagli eterni supplizi, tollerò in silenzio le battiture;
lui che ci assegna eterni onori tra i cori degli angeli, sopportò i pugni;
lui che ci salva dalle punture dei peccati, non rifiutò di sottoporre il capo alle spine;
lui che ci inebria in eterno di dolcezza, ricevette l’amarezza del fiele nella sua sete;
lui - che pure essendo uguale al Padre per la divinità, lo adorò per noi - adorato per irrisione, tacque;
lui che prepara la vita ai morti, essendo lui stesso la vita, giunse fino a morire.
Perché allora si giudica crudele che l’uomo sopporti castighi di Dio in cambio dei suoi mali, quando Dio ha sopportato mali tanto grandi dagli uomini in cambio dei suoi beni?
O chi può esserci che, sano di mente, sia ingrato per essere stato colpito, se colui che visse in questo mondo, senza peccato, non se ne andò da questo mondo senza castigo?
Diverso è il modo di ammonire coloro che temono i castighi, e perciò conducono una vita innocente, e coloro tanto induriti nell’iniquità che neppure i castighi li correggono.
A coloro che temono i castighi bisogna dire che né desiderino come gran cosa i beni temporali dei quali vedono godere anche i cattivi; né fuggano come intollerabili i mali presenti, poiché non ignorano che in questo mondo spesso essi colpiscono anche i buoni.
Bisogna ammonirli, se desiderano veramente essere privi di mali, ad avere orrore degli eterni supplizi; non restino però in questo timore dei supplizi, ma nutrendosi di carità crescano fino alla grazia dell’amore, poiché sta scritto: La carità perfetta caccia il timore ( 1 Gv 4,18 ).
Ed è ancora scritto: Non avete ricevuto spirito di servitù ancora per il timore, ma spirito di adozione a figli nel quale gridiamo: Abbà, Padre ( Rm 8,15 ).
Perciò il medesimo maestro dice ancora: Dove è lo Spirito del Signore, là c’è la libertà ( 2 Cor 3,17 ).
Dunque, se è il terrore della pena che trattiene dal commettere il male, non è certo la libertà di spirito a possedere l’animo di colui che è atterrito.
Infatti, se non temesse la pena non c’è dubbio che commetterebbe la colpa.
E così il cuore, legato dalla schiavitù della paura, ignora la grazia della libertà, poiché il bene si deve amare per se stesso e non sono le pene che devono spingere a compierlo.
Infatti, chi fa il bene perché teme il male dei castighi, vorrebbe solo che non esistesse ciò che teme per potere osare di compiere ciò che è lecito.
Da cui risulta più chiaramente che si perde l’innocenza davanti a Dio poiché si pecca di desiderio davanti ai suoi occhi.
Al contrario, coloro che neppure i castighi trattengono dall’iniquità, vanno colpiti con rimprovero tanto più aspro quanto maggiore è l’insensibilità del loro indurimento.
Spesso infatti occorre respingerli, pur senza disprezzo, e lasciare che la disperazione incuta il terrore e quindi subito l’ammonizione li riporti alla speranza.
Così, bisogna pronunciare severamente contro di loro le sentenze divine, perché siano richiamati alla coscienza di sé dalla considerazione del supplizio eterno.
Ascoltino che si è compiuto contro di loro ciò che sta scritto: Se pestassi lo stolto nel mortaio come grani d’orzo sotto i colpi del pestello, non verrebbe tolta da lui la sua stoltezza ( Pr 27,22 ).
Contro costoro il profeta si volge con lamenti al Signore, dicendo: Li hai stritolati ed hanno rifiutato di accogliere la correzione ( Ger 5,3 ).
Ed è ciò che dice il Signore: Ho ucciso e distrutto questo popolo e tuttavia non si sono ritratti dalle loro vie ( Ger 15,7 ).
E poi di nuovo dice: Il popolo non è ritornato a colui che lo percuote ( Is 9,13 ).
Quindi, con la voce dei castigatori, il profeta si lamenta dicendo: Abbiamo curato Babilonia ma non è guarita ( Ger 51,9 ).
Si intende che Babilonia viene curata e tuttavia non guarisce, quando il cuore turbato dal cattivo operare ode le parole della correzione, ne riceve i castighi e tuttavia trascura di ritornare al retto cammino della salvezza.
Perciò il Signore rimprovera il popolo di Israele prigioniero e tuttavia non convertito dalla sua iniquità, dicendo: La casa di Israele si è mutata per me in scoria: tutti costoro sono rame stagno ferro e piombo dentro la fornace ( Ez 22,18 ).
Come se dicesse apertamente: Volli purificarli col fuoco della tribolazione e cercai di farli diventare oro e argento, ma mi sono riusciti rame stagno ferro e piombo, perché anche nella tribolazione si sono buttati nei vizi e non nella virtù.
Rame, perché quando lo si percuote dà suono più ampio degli altri metalli; pertanto colui che sotto i colpi che riceve rompe nel suono della mormorazione risulta rame dentro la fornace.
Lo stagno, invece, trattato con arte, prende l’aspetto dell’argento e pertanto, chi nella tribolazione non si astiene dal vizio della simulazione diventa stagno nella fornace.
Chi insidia alla vita del prossimo si serve del ferro, e così è ferro nella fornace chi, pure nella tribolazione, non perde la malizia di nuocere.
E c’è anche il piombo che è il più pesante degli altri metalli; e nella fornace si rivela piombo colui che è tanto oppresso dal peso del suo peccato che, anche posto nella tribolazione non si solleva dai suoi desideri terreni.
Perciò ancora è scritto: Con molta fatica si sudò e non usci da essa tutta la sua ruggine, neppure col fuoco ( Ez 24,12 ).
Cioè, ci invia il fuoco della tribolazione per purgarci dalla ruggine dei vizi, che è in noi; ma non perdiamo la ruggine neppure col fuoco quando, pure tra i castighi, non ci asteniamo dal vizio.
Perciò il profeta dice ancora: Invano li ha fusi il fonditore: le loro malizie non si sono consumate ( Ger 6,29 ).
Ma bisogna anche sapere che spesso, quando persistono a non correggersi nella durezza dei castighi, bisogna blandirli con una dolce ammonizione, perché non di rado sono le parole miti e le carezze che trattengono dalle azioni inique quelli che non si lasciano correggere dalle punizioni, come anche spesso certi malati, che una forte bevanda medicinale non riesce a curare, vengono risanati da acqua tiepida; e alcune ferite che non possono curarsi incidendo, guariscono con impacchi di olio.
Così il duro diamante che non resta minimamente scalfito dal ferro, diviene molle nel leggero sangue di capri.
Diverso è il modo di ammonire coloro che tacciono troppo e coloro che sono sempre pronti a parlare molto.
Bisogna suggerire a coloro che parlano troppo poco che, mentre vogliono fuggire - in modo poco avvertito - certi vizi, restano nascostamente implicati in vizi peggiori.
Spesso infatti, frenando la lingua oltre misura, devono portare in cuore un eccessivo peso di parole, e così, tanto più i pensieri ribollono nella mente quanto più li costringe la custodia forzata di un silenzio privo di discernimento, e si espandono tanto più ampiamente quanto più si giudicano al sicuro perché non si mostrano fuori, a chi potrebbe riprenderli.
Perciò spesso la mente monta in superbia e disprezza come deboli coloro che sente parlare; ma mentre chiude la bocca del suo corpo, non si rende conto di quanto si apre ai vizi col suo insuperbire.
Infatti comprime la lingua e innalza il pensiero e mentre non considera affatto la sua malizia, dentro di sé accusa tutti tanto più liberamente quanto più lo fa in segreto.
Perciò bisogna ammonire coloro che tacciono troppo, ad adoperarsi con sollecitudine a conoscere non solo come si debbano mostrare al di fuori, ma anche come si debbano disporre interiormente così da temere di più l’occulto giudizio divino in seguito ai loro pensieri che il rimprovero del prossimo in seguito ai loro discorsi.
Infatti è scritto: Figlio mio, fa’ attenzione alla mia sapienza e piega l’orecchio alla mia prudenza per custodire i pensieri ( Pr 5,1 ).
Poiché niente in noi è più instabile del cuore, che si allontana da noi ogni qual volta è trascinato via sull’onda dei cattivi pensieri.
Perciò infatti il salmista dice: Il mio cuore mi ha abbandonato ( Sal 40,13 ).
E perciò, ritornando in se stesso dice: Il tuo servo ha trovato il suo cuore per pregarti ( 2 Sam 7,27 ).
Pertanto, il cuore solito a disperdersi, si ritrova quando il pensiero è frenato dalla vigilanza.
Spesso poi, quando coloro che tacciono troppo patiscono qualche ingiustizia, cadono in un dolore tanto più aspro quanto meno parlano del dolore che devono sopportare; perché se dicessero tranquillamente la sofferenza che è stata loro inflitta, il dolore uscirebbe dalla coscienza.
Infatti le ferite chiuse fanno soffrire di più e quando il pus che infiamma dentro viene espulso, il dolore si apre alla guarigione.
Pertanto, coloro che tacciono più del conveniente devono sapere che non è bene aumentare la forza del dolore tra le sofferenze che sopportano, per il fatto di trattenersi dal parlare.
Bisogna ammonirli a non tacere al prossimo, se lo amano come se stessi, ciò di cui giustamente lo rimproverano, giacché con la medicina della parola si concorre alla salute di ambedue: si frena dalla cattiva azione colui che la compie ( cf. Lv 19,17 ), e con l’apertura della ferita si allevia la fiamma del dolore di colui che la sostiene.
Infatti, coloro che si volgono a guardare i peccati del prossimo e poi trattengono la lingua nel silenzio, è come se, viste delle ferite, sottraessero ad esse il medicamento, e divengono doppiamente causa di morte in quanto non hanno voluto curare l’infezione come avrebbero potuto.
Dunque, bisogna frenare la lingua con discrezione e non legarla indissolubilmente, poiché sta scritto: Il sapiente tacerà fino al tempo opportuno ( Sir 20,7 ); nel senso cioè che, quando vede l’opportunità, tralasciata la censura del silenzio, dicendo quanto è conveniente si adopera per l’utilità.
E ancora sta scritto: C’è un tempo per tacere e un tempo per parlare ( Qo 3,7 ).
Cioè bisogna calcolare con discrezione l’alternarsi dei momenti diversi, perché la lingua non scorra inutilmente sulle parole quando dovrebbe invece trattenersi; o non si trattenga pigramente quando potrebbe utilmente parlare.
Ciò che ben considera il salmista dicendo: Poni, Signore, una custodia alla mia bocca e una porta intorno alle mie labbra ( Sal 141,3 ).
Infatti non chiede che gli sia posta una parete davanti alla bocca, ma una porta che, evidentemente, si apre e si chiude; perciò anche noi dobbiamo imparare con prudenza il momento opportuno perché la voce apra la bocca con discrezione, e ancora il momento opportuno perché il silenzio la chiuda.
Al contrario, bisogna ammonire coloro che sono sempre pronti a parlare molto, che siano pronti a rendersi conto di quanto vengono meno alla loro rettitudine col diffondersi in tante parole.
Giacché la mente umana è come l’acqua, che quando è trattenuta si raccoglie verso l’alto poiché tende a risalire là di dove è scesa, ma lasciata andare viene meno perché si sparge inutilmente nei luoghi più bassi.
Infatti, ogni volta che la mente si dissipa in vane parole fuori dalla censura del proprio silenzio, è condotta fuori di sé come per tanti rivoletti.
Perciò non è più capace di rientrare in se stessa, alla conoscenza di sé, perché dispersa nelle molte parole si chiude fuori dal nascondimento dell’intima meditazione; e si scopre tutta alle ferite del nemico insidioso perché nessuna protezione la circonda e la custodisce.
Perciò è scritto: Come una città aperta e senza giro di mura, così è l’uomo che non può trattenere il suo animo quando parla ( Pr 25,28 ); giacché la città della mente non possiede il muro del silenzio ed è aperta alle frecce del nemico, e quando si butta fuori di se stessa attraverso le parole, si mostra tutta all’avversario.
Ed egli la espugna senza fatica tanto più in quanto anche lei stessa, che viene vinta, combatte contro di sé col suo continuo parlare.
Ma per lo più, poiché la mente negligente è spinta a cadere per gradi, se trascuriamo di guardarci dalle parole oziose, giungiamo a quelle dannose; così che, prima si gode a parlare degli altri, poi si morde la vita di coloro di cui si parla, con la detrazione, e infine la lingua rompe fino alle aperte offese.
E di qui si seminano le provocazioni, nascono le risse, si accendono le fiamme dell’odio, si estingue la pace dei cuori.
Perciò, bene è detto per mezzo di Salomone: Chi lascia andare l’acqua, dà principio alle contese ( Pr 17,14 ).
Lasciare andare l’acqua significa abbandonare la lingua allo sproloquio.
Al contrario, è detto ancora in senso buono: Le parole che procedono dalla bocca dell’uomo sono acque profonde ( Pr 18,4 ).
Pertanto, chi lascia andare l’acqua dà principio alle contese perché chi non frena la lingua dissipa la concordia.
E perciò in senso inverso è detto: Chi impone silenzio allo stolto, mitiga le ire ( Pr 26,10 ).
Che poi colui il quale è dedito alle chiacchiere non possa mantenere la rettitudine della giustizia, lo attesta il profeta che dice: L’uomo linguacciuto non va diritto sulla terra ( Sal 140,12 ).
Perciò, pure Salomone dice ancora: Nel molto parlare non mancherà il peccato ( Pr 10,19 ).
Perciò Isaia dice: Il silenzio è coltivazione della giustizia ( Is 32,17 ), significando chiaramente che la giustizia dell’animo resta desolata se non la risparmia il parlare smodato.
Perciò Giacomo dice: Se qualcuno pensa di essere religioso e non tiene a freno la sua lingua ma seduce il suo cuore, la sua religione è vana ( Gc 1,26 ).
Perciò dice ancora: Ognuno sia pronto ad ascoltare ma lento a parlare ( Gc 1,19 ).
E di nuovo, definendo la potenza della lingua, dice: È un male irrefrenabile, piena di veleno mortifero ( Gc 3,8 ).
Perciò la Verità stessa ci ammonisce dicendo: Di ogni parola oziosa che avranno detto, gli uomini dovranno rendere conto il giorno del giudizio ( Mt 12,36 ).
Ed è oziosa ogni parola che non sia giustificata da una ragionevole necessità o dall’intenzione di una pia utilità.
Se dunque si esige il rendiconto di una parola oziosa, pensiamo quale pena attenda il molto parlare in cui si pecca anche con parole che arrecano danno.
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