La città di Dio

Indice

I mali della storia e la Provvidenza

8.1 - Buoni e cattivi …

Qualcuno dirà: Perché questo tratto della bontà di Dio è giunto anche a miscredenti e ingrati?

Perché? Certamente perché lo ha compiuto colui che ogni giorno fa sorgere il suo sole sopra buoni e cattivi e fa piovere su giusti e ingiusti. ( Mt 5,45 )

Alcuni di loro riflettendo con ravvedimento su questi fatti si convertono dalla loro miscredenza; altri invece, come dice l'Apostolo, disprezzando la ricchezza della bontà e longanimità di Dio a causa della durezza del loro cuore e di un cuore incapace di ravvedimento, mettono a profitto lo sdegno nel giorno dello sdegno e della manifestazione del giusto giudizio di Dio che renderà a ciascuno secondo le sue azioni. ( Rm 4,4-6 )

Tuttavia la pazienza di Dio invita i cattivi al ravvedimento, come il flagello di Dio istruisce i buoni alla pazienza.

Allo stesso modo la misericordia di Dio abbraccia i buoni per proteggerli, come la severità di Dio ghermisce i cattivi per punirli.

È ordinamento infatti della divina provvidenza preparare per il futuro ai giusti dei beni, di cui non godranno gli ingiusti, e ai miscredenti dei mali, con cui non saranno puniti i buoni.

Ha voluto però che beni e mali nel tempo siano comuni ad entrambi affinché i beni non siano cercati con eccessiva passione, poiché si vede che anche i cattivi li hanno, e non si evitino disonestamente i mali, poiché anche i buoni spesso ne sono colpiti.

8.2 - … nel disegno della bontà e giustizia divina

Inoltre differisce molto la condizione tanto di quella che si considera prosperità come di quella che si considera avversità.

L'individuo onesto non si inorgoglisce dei beni e non si abbatte per i mali temporali; il cattivo invece è punito dalla sorte sfavorevole appunto perché abusa della favorevole.

Tuttavia Dio manifesta abbastanza chiaramente la sua opera spesso anche nel dispensare tali cose.

Se una pena palese colpisse ogni peccato nel tempo, si potrebbe pensare che nulla è riservato all'ultimo giudizio.

Se al contrario un palese intervento di Dio non punisse nel tempo alcun peccato, si potrebbe pensare che non esiste la divina provvidenza.

Lo stesso è per la prosperità.

Se Dio non la concedesse con evidente munificenza ad alcuni che la chiedono, diremmo che queste cose non sono di sua competenza.

Allo stesso modo se la concedesse a tutti quelli che la chiedono, supporremmo che si deve servirlo soltanto in vista di tali ricompense.

Il servizio a lui non ci renderebbe devoti ma interessati e avari.

Stando così le cose, buoni e cattivi sono egualmente tribolati, ma non ne consegue che non siano diversi perché non è diversa la sofferenza che gli uni e gli altri hanno sopportato.

Resta la differenza di chi soffre anche nella eguaglianza della sofferenza e, sebbene sia comune la pena, non sono la medesima cosa la virtù e il vizio.

Come in un medesimo fuoco l'oro brilla, la paglia fuma, come sotto la medesima trebbia le stoppie sono triturate e il grano è mondato e la morchia non si confonde con l'olio per il fatto che è spremuto dal medesimo peso del frantoio, così una unica e medesima forza veemente prova, purifica, filtra i buoni, colpisce, abbatte e demolisce i cattivi.

Quindi in una medesima sventura i cattivi maledicono e bestemmiano Dio, i buoni lo lodano e lo pregano.

La differenza sta non nella sofferenza ma in chi soffre.

Infatti anche se si scuotono con un medesimo movimento, il fetidume puzza disgustosamente, l'unguento profuma gradevolmente.

9.1 - Anche la sventura dei buoni …

Dunque nella desolazione degli avvenimenti passati, se si valutano con la fede, che cosa hanno sofferto i cristiani che non è riuscito a loro vantaggio?

Prima di tutto possono riflettere umilmente sui peccati, a causa dei quali Dio sdegnato ha riempito il mondo di tante sventure.

E sebbene essi siano ben lontani dagli scellerati, disonesti e miscredenti, tuttavia non si ritengono così immuni dalle colpe da non giudicarsi degni di dover sopportare, a causa di esse, mali nel tempo.

Si fa eccezione per il caso che un individuo, pur vivendo onestamente, cede in alcune circostanze alla concupiscenza carnale, sebbene non fino all'enormità della scelleratezza, non fino al gorgo della disonestà e all'abbominio dell'immoralità, ma ad alcuni peccati o rari o tanto più frequenti quanto più piccoli.

Eccettuato dunque questo caso, è forse facile trovare chi tratti come devono esser trattati coloro, per la cui tremenda superbia, lussuria, avarizia ed esecrande ingiustizie e immoralità, Dio, come ha predetto con minacce, distrugge i paesi? ( Is 24 )

Chi tratta con essi come devono esser trattati?

Il più delle volte infatti colpevolmente si trascura di istruirli e ammonirli e talora anche dal rimproverarli e biasimarli o perché rincresce l'impegno o perché ci vergogniamo di affrontarli o per evitare rancori.

Potrebbero ostacolarci e nuocerci nelle cose del mondo o perché la nostra avidità desidera ancora di averne o perché la nostra debolezza teme di perderle.

Certamente ai buoni dispiace la condotta dei cattivi e pertanto non incorrono assieme ad essi nella condanna che è riservata ai malvagi dopo questa vita.

Tuttavia, dato che sono indulgenti con i loro peccati degni di condanna perché si preoccupano per i propri sebbene lievi e veniali, giustamente sono flagellati con i malvagi nel tempo, quantunque non siano puniti per l'eternità.

Ma giustamente, quando vengono per disposizione divina tribolati assieme ai cattivi, sentono l'amarezza della vita perché, amandone la dolcezza, hanno preferito non essere amari con i malvagi che peccavano.

9.2 - … rientra nell'ordine …

Ma se qualcuno si astiene dal rimproverare e biasimare coloro che agiscono male o perché aspetta un tempo più opportuno o perché teme per essi che da ciò non diventino peggiori o perché potrebbero scandalizzarsi, importunare e allontanare dalla fede individui deboli, che devono essere educati alla bontà e alla pietà, allora evidentemente non si ha l'interesse dell'avidità ma la prudenza della carità.

È da considerarsi colpa il fatto che coloro i quali vivono onestamente e detestano le azioni dei malvagi, sono tuttavia indulgenti con i peccati degli altri che dovrebbero redarguire o rimproverare.

Lo fanno per evitare le loro reazioni perché non nuocciano loro nelle cose che i buoni usano lecitamente e onestamente ma con desiderio più intenso di quanto sarebbe opportuno per chi è esule in questo mondo e professa la speranza di una patria superiore.

Or vi sono individui più deboli che menano vita coniugale, hanno figli o desiderano averli, posseggono casa e famiglia.

L'Apostolo si volge loro nelle varie chiese insegnando e istruendo come le mogli devono comportarsi con i mariti e i mariti con le mogli, i figli con i genitori e i genitori con i figli, i servi con i padroni e i padroni con i servi. ( Col 3,18-22 )

Costoro con piacere conseguono molti beni temporali e terreni e con dolore li perdono, quindi per mantenerli non osano affrontare coloro la cui vita peccaminosa e delittuosa, a loro avviso, è reprensibile.

Ma anche quelli che hanno raggiunto un grado più perfetto di vita, non sono intralciati dai legami coniugali e si limitano nel vitto e nel vestito, nel temere le macchinazioni e la violenza dei malvagi contro il proprio buon nome e incolumità, per lo più si astengono dal riprenderli.

Certamente non li temono al punto da giungere a compiere simili azioni a causa delle intimidazioni e perversità dei malvagi.

Tuttavia spesso non vogliono rimproverare le azioni, che non compiono assieme ai disonesti, sebbene potrebbero col rimprovero correggerne alcuni, perché, se non riuscissero, la loro incolumità e buon nome potrebbero subire un grave danno.

Non lo fanno perché considerano il loro buon nome e la vita indispensabili all'educazione degli uomini, ma piuttosto per debolezza perché fanno piacere le parole lusinghiere e la vita serena ( 1 Cor 4,3 ) e si temono il giudizio sfavorevole del volgo, la sofferenza e la morte fisica, cioè a causa di certi legami della passione e non dei doveri della carità.

9.3 - … per la loro tiepida testimonianza al bene

Non mi sembra una ragione di poco rilievo che anche i buoni siano colpiti con i cattivi dal momento che Dio vuole punire la immoralità anche con la calamità delle pene nel tempo.

Sono puniti insieme non perché conducono insieme una vita cattiva ma perché amano insieme la vita nel tempo, non in maniera eguale, comunque insieme.

I buoni dovrebbero averla in minor conto affinché i malvagi efficacemente ammoniti conseguano la vita eterna.

E se non volessero esser compagni nel conseguirla, dovrebbero esser sopportati e amati come nemici, giacché finché vivono, non si sa mai se non muteranno in meglio il proprio volere.

In proposito, non certamente eguale ma di gran lunga più grave responsabilità hanno coloro ai quali per mezzo del profeta si dice: Egli morrà nel suo peccato, ma io chiederò conto del suo sangue dalla mano della sentinella. ( Ez 33,6 )

Le sentinelle, cioè i capi delle comunità sono stati costituiti nelle chiese proprio perché non si astengano dal rimproverare i peccati.

Tuttavia non è del tutto immune da colpa chi, sebbene non sia posto a capo, conosce e trascura di biasimare e correggere molti fatti in coloro, ai quali è unito da particolare condizione di vita, se vuole evitare fastidi in vista di quei beni che in questa vita usa onestamente ma da cui ritrae piacere più del dovuto.

Inoltre per i buoni si ha un'altra ragione della loro soggezione ai mali temporali.

È il caso di Giobbe.

La coscienza dell'individuo nella prova si rende consapevole del disinteressato sentimento di pietà con cui ama Dio.

10.1 - Per i cristiani rientra nel bene qualsiasi sventura …

Considerati attentamente secondo ragione questi fatti, rifletti se ai credenti e devoti sia avvenuto qualche male che non si sia mutato per loro in bene.

A meno di pensare eventualmente che è vuoto di significato il detto dell'Apostolo: Sappiamo che a coloro che amano Dio tutte le cose si volgono in bene.18

Hanno perduto tutto ciò che avevano.

Ma anche la fede? anche la pietà? anche il bene della coscienza ricca davanti a Dio? ( 1 Pt 3,4 )

Queste sono le ricchezze dei cristiani.

E l'Apostolo che ne era ricco diceva: È un grande guadagno la pietà con quanto basta.

Non abbiamo portato nulla in questo mondo ma non possiamo portar via nulla.

Se abbiamo di che mangiare e coprirci, contentiamoci.

Coloro che vogliono diventar ricchi incorrono nella tentazione, nello scandalo e in vari desideri stolti e dannosi che infossano l'uomo nella rovina e perdizione.

Radice infatti di tutti i mali è l'amore del denaro ed alcuni che in esso sono incorsi si sono allontanati dalla fede e si sono impigliati in molti dolori. ( 1 Tm 6,6-10 )

10.2 - … la perdita delle ricchezze …

Torniamo a quelli che hanno perduto le ricchezze nel saccheggio di Roma.

Se le consideravano come hanno udito da questo uomo povero nel corpo ma ricco nella coscienza, cioè se usavano del mondo come se non ne usassero, ( 1 Cor 7,31 ) han potuto dire come Giobbe gravemente tentato ma non vinto: Sono uscito nudo dal grembo di mia madre e nudo tornerò alla terra.

Il Signore ha dato, il Signore ha tolto, è avvenuto come è piaciuto al Signore; sia benedetto il nome del Signore. ( Gb 1,21 )

Da buon servo dovette considerare come grande ricchezza lo stesso volere del suo Signore, obbedendogli si arricchì nello spirito, non si addolorò perché da vivo fu abbandonato da quelle cose che, morendo, in breve avrebbe abbandonato.

I più deboli poi che con una certa avidità si erano attaccati ai beni terreni, sebbene non li preponessero a Cristo, hanno esperimentato perdendoli fino a qual punto peccavano amandoli.

Infatti sono stati tanto addolorati quanto si erano impigliati in dolori, secondo il detto dell'Apostolo che dianzi ho citato.

Era infatti necessario che intervenisse l'insegnamento delle prove per individui, da cui a lungo era stato trascurato quello delle parole.

Infatti quando l'Apostolo dice: Coloro che vogliono diventar ricchi incorrono nella tentazione, eccetera, certamente riprova nelle ricchezze l'amore disordinato, non la facoltà di averle perché in un altro passo ha ordinato: Comanda ai ricchi di questo mondo di non atteggiarsi a superbia e di non sperare nelle ricchezze fallibili, ma nel Dio vivo che generosamente ci dà a godere tutte le cose; agiscano bene, siano ricchi nelle opere buone, diano con facilità, condividano, mettano a frutto un buon stanziamento per il futuro allo scopo di raggiungere la vera vita. ( 1 Tm 6,17-19 )

Coloro che trattavano così le proprie ricchezze hanno compensato lievi danni con grandi guadagni e si sono più rallegrati delle ricchezze che dando con facilità hanno conservato più sicuramente che contristati di quelle che tenendo strette per timore hanno perduto con tanta facilità.

È avvenuto che è stato perduto sulla terra ciò che rincresceva trasferire altrove.

Vi sono alcuni che hanno accolto il consiglio del loro Signore che dice: Non accumulatevi tesori sulla terra perché in essa la tignola e la ruggine distruggono e i ladri scassano e rubano, ma mettete a frutto per voi un tesoro nel cielo perché in esso il ladro non arriva e la tignola non distrugge.

Dove infatti è il tuo tesoro, lì sarà anche il tuo cuore. ( Mt 6,19-21 )

Costoro nel tempo della sventura hanno provato quanto furono saggi nel non disprezzare il maestro più veritiero e il custode più fedele e insuperabile del proprio tesoro.

Perché se molti si sono rallegrati di avere le proprie ricchezze dove per puro caso il nemico non giunse, quanto più tranquillamente e sicuramente poterono rallegrarsi coloro che per consiglio del proprio Dio le hanno trasferite là dove non poteva assolutamente giungere.

Per questo il nostro Paolino, vescovo di Nola, da uomo straordinariamente ricco divenuto volontariamente poverissimo e santo di grande ricchezza, quando i barbari saccheggiarono anche Nola, fatto prigioniero, così pregava in cuor suo, come abbiamo appreso da lui personalmente: O Signore, fa' che non mi affligga per l'oro e l'argento; tu sai dove sono tutte le mie cose.

Aveva tutte le sue cose in quel luogo, in cui gli aveva insegnato ad accumularle e metterle a frutto colui il quale aveva preannunciato che simili mali sarebbero avvenuti nel mondo.

E per questo coloro che avevano obbedito al consiglio del proprio Signore sul luogo e il modo con cui dovevano riporre il tesoro, nelle incursioni dei barbari non perdettero neanche le ricchezze della terra.

Ma quelli che han dovuto pentirsi di non avere ascoltato che cosa si doveva fare dei beni terreni, hanno imparato se non in base alla saggezza che doveva precorrere, certamente in base all'esperienza che ne seguì.

10.3 - … la tortura …

Alcuni buoni, anche cristiani, si dirà, sono stati sottoposti a torture perché consegnassero i propri beni ai nemici.

Ma costoro non han voluto né consegnare né perdere il bene, di cui essi stessi erano buoni.

Se poi han preferito essere torturati che consegnare l'iniquo mammona, non erano buoni.

Individui che sopportavano pene tanto grandi per l'oro dovevano essere educati a sopportarne più gravi per il Cristo, per imparare ad amarlo perché arricchisce della felicità eterna chi soffre per lui.

Non dovevano dunque amare l'oro e l'argento, poiché fu grande miseria soffrire per essi, sia che fossero occultati con la menzogna o palesati con la verità.

Difatti non è stato perduto il Cristo rendendogli testimonianza fra i tormenti e si è conservato l'oro soltanto affermando di non averlo.

Quindi erano forse più utili le torture che insegnavano ad amare un bene incorruttibile che quei beni i quali, per farsi amare, facevano torturare i loro possessori senza alcun vantaggio.

10.4 - … la soggezione della crudeltà …

Ma alcuni, si dice, anche se non avevano che consegnare, sono stati torturati perché non creduti.

Ma anche costoro forse desideravano di avere e non erano poveri in virtù di una scelta santa.

A loro si doveva far capire che non le ricchezze ma gli stessi desideri disordinati sono degni di tali sventure.

Se poi non avevano riposto oro e argento per un impegno di vita più perfetto, non so se a qualcuno di loro avvenne di essere torturato perché si è creduto che l'avesse.

Ma anche se è avvenuto, certamente chi, fra le torture testimoniava una santa povertà, testimoniava Cristo.

Pertanto anche se non è riuscito a farsi credere dai nemici, tuttavia un testimone della santa povertà non poté essere torturato senza la ricompensa del cielo.

10.5 - … l'inedia …

Ma una fame prolungata, dicono, ha fatto morire anche molti cristiani.

I buoni fedeli hanno volto anche questo fatto a proprio vantaggio sopportando con fede.

La fame, come la malattia, ha sciolto dai mali di questa vita coloro che ha estinto e ha insegnato a vivere più morigeratamente e a digiunare più a lungo coloro che non ha estinto.

11 - Anche la morte non è l'irrazionale

Ma, soggiungono, molti cristiani sono stati uccisi, molti sono stati sterminati da varie forme di morte per contagio.

Se il fatto è penoso, è comunque comune a tutti quelli che sono stati generati alla vita sensibile.

Questo so che nessuno è morto se non doveva morire una volta.

Il termine della vita eguaglia tanto una lunga come una breve vita.

Quello che non è più, non è né migliore né peggiore né più lungo né più breve.

Che differenza fa con quale genere di morte si termina la vita se colui, per il quale è terminata, non è più soggetto a morire?

Innumerevoli tipi di morte minacciano in un modo o nell'altro ciascun uomo nelle condizioni di ogni giorno della vita presente, finché è incerto quale di esse sopravverrà.

Chiedo dunque se è peggio subirne una morendo o temerle tutte vivendo.

E so bene che senza indugio si sceglie vivere a lungo sotto l'incubo di tante morti anziché non temerne più alcuna morendo una sola volta.

Ma un discorso è ciò che l'istinto atterrito per debolezza rifugge ed un altro ciò che la riflessione diligentemente liberata dal timore dimostra come vero.

Non si deve considerare cattiva morte quella che è preceduta da una buona vita.

E non rende cattiva una morte se non ciò che segue alla morte.

Coloro che necessariamente moriranno non devono preoccuparsi molto di ciò che avviene per farli morire ma del luogo dove saranno costretti ad andare dopo morti.

I cristiani sanno che è stata di gran lunga migliore la morte del povero credente tra i cani che lo leccavano che quella del ricco miscredente nella porpora e nella batista. ( Lc 16,19-31 )

Dunque in che cosa quel ripugnante genere di morte ha danneggiato i morti vissuti bene?

12.1 - La privazione della tomba non è il male …

Inoltre, dicono, in una strage così grande non si poté seppellire i cadaveri.19

Ma la fede sincera neanche di questo si preoccupa eccessivamente perché ricorda che le bestie divoratrici non impediranno che risorgano i corpi, di cui non andrà perduto neanche un capello. ( Lc 21,18; At 27,34 )

La Verità stessa non avrebbe detto: Non temete coloro che uccidono il corpo ma non possono uccidere l'anima, ( Mt 10,28 ) se nuocesse alla vita futura ciò che i nemici hanno deciso di fare dei corpi degli uccisi.

A meno che un tizio sia tanto irragionevole da sostenere che coloro i quali uccidono il corpo non si devono temere che prima della morte uccidano il corpo, ma si devono temere che dopo la morte non lascino inumare il corpo ucciso.

È falso allora, se hanno tanto potere da esercitare sui cadaveri, ciò che ha detto il Cristo: Essi uccidono il corpo ma dopo non possono fare altro. ( Lc 12,4 )

Ma è impossibile che sia falso ciò che la Verità ha detto.

È stato detto appunto che fanno qualche cosa quando uccidono perché vi è sensibilità nel corpo da uccidere, ma poi non hanno che fare perché non vi è sensibilità nel corpo ucciso.

La terra dunque non ha ricoperto molti corpi dei cristiani.

Nessuno però ha posto fuori del cielo e della terra alcuno di loro, giacché li riempie con la presenza di sé colui che sa da che cosa risuscitare ciò che ha creato.

Si dice nel salmo: Han posto i cadaveri dei tuoi servi come cibo agli uccelli del cielo e le carni dei tuoi santi alle belve della terra; hanno versato come acqua il loro sangue alla periferia di Gerusalemme e non vi era chi li seppellisse. ( Sal 79,2-3 )

Ma è stato detto più per evidenziare la crudeltà di coloro i quali compirono tali azioni che la mala sorte di coloro i quali le subirono.

E sebbene agli occhi degli uomini questi fatti siano intollerabili e atroci, tuttavia preziosa alla presenza del Signore è la morte dei suoi santi. ( Sal 116,15 )

Pertanto tutte queste cose, e cioè la preparazione del funerale, l'allestimento della tomba, la parata del corteo funebre sono più una consolazione per i superstiti che aiuto per i trapassati.20

Se giovasse in qualche modo al miscredente una tomba lussuosa, nuocerebbe al credente una povera o inesistente.

Una moltitudine di servi allestì al ricco coperto di porpora un solenne corteo funebre davanti agli uomini, ma ne offrì dinanzi a Dio uno molto più solenne al povero coperto di piaghe il servizio degli angeli che non lo depositarono in un mausoleo di marmo ma fra le braccia di Abramo. ( Lc 16,22.31 )

12.2 - … come mostra anche una certa tradizione pagana

Gli individui, contro cui abbiamo inteso di difendere la città di Dio, scherniscono questi pensieri.

Ma anche i loro filosofi hanno disdegnato l'allestimento della tomba.21

E spesso non si preoccuparono dove rimanessero o di quali bestie divenissero cibo i soldati di tutto un esercito, quando morivano per la patria terrena.

In proposito i poeti poterono dire a titolo d'encomio: È coperto dal cielo chi non ha un'urna.22

A più forte ragione non debbono motteggiare i cristiani a causa dei corpi non sepolti.

Ad essi si promette una nuova forma della carne e delle singole membra che nell'attimo indivisibile di tempo ( 1 Cor 15,52 ) dovrà essere restituita e rinnovata non solo dalla terra ma anche dalla più intima struttura degli altri elementi in cui sono tornati i cadaveri decomposti.

13 - Gli onori funebri come opera di umanità

Non per questo si devono abbandonare e trascurare i corpi dei morti, soprattutto dei giusti che avevano la fede, perché di essi l'anima razionale si è servita santamente come di strumenti e mezzi per tutte le opere buone.

Se infatti la veste e l'anello di un padre o altro oggetto simile è tanto più caro ai figli quanto è maggiore l'affetto verso i genitori, per nessun motivo si deve trascurare il corpo che portiamo certamente in una più intima unione di qualsiasi vestito.

Esso non concerne un ornamento o arnese che s'impiega fuori di noi ma la stessa natura umana.

Per questo anche i funerali degli antichi giusti furono preparati con doveroso rispetto, celebrate le esequie, provveduta la tomba ed essi stessi, mentre ancor vivevano avevano dato disposizioni ai figli su la tumulazione ed anche il trasferimento del proprio corpo.23

Anche Tobia per dichiarazione di un angelo è elogiato per aver meritato presso Dio col seppellire i morti. ( Tb 2,9; Tb 12,12 )

Lo stesso Signore che doveva risorgere al terzo giorno elogia l'opera buona di una donna pietosa e la elogia come un fatto da ricordarsi perché ha versato un unguento prezioso sopra le sue membra e lo ha fatto per rispetto al suo corpo da seppellire. ( Mt 26,6-13 )

Nel Vangelo con lode si ricordano coloro che con diligente ossequio si presero cura di coprire e tumulare il suo corpo staccato dalla croce. ( Mt 27,57; Mc 15,42; Lc 23,52; Gv 19,38 )

Tuttavia questi testi biblici non sostengono che vi sia sensibilità nei cadaveri ma indicano, per affermare la fede nella risurrezione, che anche il corpo dei morti rientra nella provvidenza divina la quale dispone anche tali doveri di umanità.

Se ne deduce salutarmente quale possa essere il merito delle elemosine che si danno per uomini che vivono e sentono, se davanti a Dio non è perduto neanche ciò che si dà di doverosa cura alle membra esanimi degli uomini.

Vi sono anche altre indicazioni che i santi patriarchi diedero in relazione all'inumazione e trasferimento del proprio corpo e vollero far intendere che erano state dette per ispirazione profetica. ( Gen 49,29; Gen 50,25 )

Ma non è qui il luogo di trattarne a lungo. Basta ciò che è stato detto.

Ed anche se le cose necessarie per la sopravvivenza, come vitto e vestiario, possono venire a mancare, sia pure con grave disagio, tuttavia non fiaccano nei buoni la virtù del pazientare e sopportare e non strappano dallo spirito la pietà ma la rendono più viva esercitandola.

A più forte ragione dunque, quando mancano i mezzi che di solito si usano per preparare i funerali e tumulare i cadaveri, la mancanza non rende infelici individui già in pace nelle invisibili dimore degli spiriti credenti.

E per questo se sono mancati i funerali ai cadaveri dei cristiani nel saccheggio della grande Roma e anche di altri paesi, non è né colpa dei vivi che non han potuto offrirli, né pena dei morti che non possono sentire tale mancanza.

14 - Libertà nella schiavitù

Ma, dicono, molti cristiani sono stati condotti in schiavitù.

Sarebbe veramente una grande infelicità se sono riusciti a condurli dove non han trovato il loro Dio.

Nella sacra Scrittura ci sono parole di grande conforto anche per tale sciagura.

Erano prigionieri i tre fanciulli, lo era Daniele, lo erano altri profeti. ( Dn 1,6 )

Ma non mancò loro Dio consolatore.

Dunque non ha abbandonato i suoi fedeli posti sotto il dominio di un popolo che sebbene barbaro era di uomini, come non ha abbandonato un suo profeta nel ventre di una bestia. ( Gn 2,1 )

I nostri oppositori preferiscono dileggiare anziché ammettere questi fatti.

Eppure ammettono dalla loro letteratura che Arione di Metimna, bravissimo citarista, gettato da una nave, fu accolto sul dorso di un delfino e trasportato a terra.24

Però l'episodio di Giona, dicono, è più incredibile.

Certo che è più incredibile, perché più meraviglioso e più meraviglioso perché opera di un potere maggiore.

15.1 - L'esempio di Attilio Regolo …

Hanno tuttavia anche essi fra i loro uomini illustri un esempio insigne in relazione alla prigionia sopportata anche volontariamente per motivi religiosi.

Marco Regolo, condottiero del popolo romano, fu prigioniero presso i Cartaginesi.

Costoro stimavano più vantaggioso, che dai Romani fossero restituiti i propri prigionieri anziché tenere prigionieri i loro.

Per conseguire l'intento mandarono a Roma con i propri ambasciatori proprio Regolo dopo averlo fatto giurare che sarebbe tornato a Cartagine se non avesse ottenuto ciò che volevano.25

Egli andò ma in senato sostenne la tesi contraria perché pensava che non c'era tornaconto per lo Stato romano scambiare i prigionieri.

Dopo tale discorso dai concittadini non fu costretto a tornare dai nemici.

Lo fece spontaneamente perché aveva giurato.

Ed essi lo ammazzarono con un supplizio squisitamente atroce.

Chiusolo in una stretta cassa di legno, in cui era costretto a stare in piedi, e piantati dei chiodi acuminati nella cassa perché non sì sorreggesse in alcuna parte senza sofferenze terribili, lo fecero morire anche privandolo del sonno.

Giustamente dunque gli scrittori lodano una virtù superiore a una sorte tanto triste.26

Ed egli aveva giurato per gli dèi.

Eppure i nostri accusatori ritengono che siano inflitte al genere umano queste calamità perché è stato proibito il loro culto.

Ma se essi, che venivano onorati proprio per rendere prospera la vita, hanno voluto o permesso che fossero irrogate a Regolo che giurò il vero tali pene, che cosa più gravemente irati avrebbero fatto se avesse spergiurato?

Ma piuttosto perché non dovrei risolvere io stesso il mio dilemma?

Egli onorò gli dèi così da non rimanere in patria per fedeltà al giuramento e da non accettare neanche il dubbio di andare altrove e non tornare dai suoi spietati nemici.

Se lo stimava vantaggioso per questa vita, dal fatto che ne conseguì una fine così orribile, senza dubbio sbagliava i suoi calcoli.

Col suo esempio egli insegnò che gli dèi non aiutano affatto i propri cultori ai fini della felicità temporale, giacché egli fedele nel loro culto fu vinto e fatto prigioniero; e poiché non volle comportarsi diversamente da come aveva loro giurato, morì dopo esser stato torturato con un inaudito e veramente atroce genere di supplizio.

Se poi il culto degli dèi procura come ricompensa la felicità dopo questa vita, perché insultano alla civiltà cristiana dicendo che a Roma è capitata quella sventura perché ha cessato di onorare i propri dèi?

Anche onorandoli con grande zelo poteva avere la mala sorte che ebbe Regolo.

Ma forse contro una verità tanto chiara si resiste con l'irragionevolezza di un accecamento che sbalordisce.

Sosterrebbero appunto che tutta la città onorando gli dèi non poteva avere una triste sorte ma che un solo individuo lo poteva.

Il potere degli dèi, cioè, sarebbe adatto a proteggere i molti anziché i singoli.

Ma la moltitudine è composta di singoli.

15.2 - … è per tutti un monito alla vera libertà

Se poi dicono che Marco Regolo, anche in prigionia e nelle sofferenze fisiche, poté sentirsi felice a causa di un valore spirituale, si cerchi allora questo valore ideale per cui anche la cittadinanza possa sentirsi felice.

Non è vero infatti che da un oggetto è felice la città, da un altro l'individuo, giacché la città non è altro che una moltitudine unanime di individui.

Per questo frattanto non metto in discussione quale valore fu in Regolo.

Basta per adesso che siano costretti da questo altissimo esempio ad ammettere che gli dèi non si devono onorare per i beni fisici e per le cose che accadono all'uomo dal di fuori.

Egli infatti preferì esser privo di tutte queste cose anziché offendere gli dèi, nel cui nome aveva giurato.

Ma come dovremmo comportarci con individui che si vantano di avere un tale concittadino e poi temono di avere la città che gli rassomigli?

E se non temono questo, ammettano che alla città che, come lui, onorava devotamente gli dèi è potuto accadere un fatto quale accadde a Regolo e non insultino alla civiltà cristiana.

Ma la questione è sorta in relazione ai cristiani che furono fatti prigionieri.

E allora coloro che da questo fatto oltraggiano con sfrontata sconsideratezza alla religione della vera salvezza, riflettano sul seguente motivo e stiano zitti.

Non fu di disonore ai loro dèi che uno scrupoloso loro cultore, nel conservare la fedeltà loro dovuta, rimanesse privo della patria, poiché altra non ne aveva, ed essendo prigioniero fosse ucciso in casa dei nemici attraverso una morte prolungata con un supplizio d'inaudita crudeltà.

A più forte ragione dunque non si deve accusare il nome cristiano per la prigionia dei suoi aderenti i quali, aspettando con fede veritiera la patria celeste, sanno di essere esuli anche se sono a casa loro. ( 1 Pt 2,11 )

16 - La pudicizia non soccombe alla violenza

Pensano anche di lanciare una pesante accusa contro i cristiani quando, per ingrandire gli aspetti dell'occupazione, aggiungono le violenze carnali commesse non solo contro donne sposate e fanciulle ma anche contro alcune persone consacrate.

Qui non è in discussione la fede, la pietà e la virtù che si chiama castità.

La nostra discussione si restringe per certi limiti fra pudore e ragione.

E in proposito non ci preoccupiamo tanto di dare una risposta agli estranei, quanto una consolazione ai nostri.

Sia dunque fermamente stabilito che la virtù morale dalla coscienza impera alle membra del corpo e che il corpo diviene santo per l'attitudine di un volere santo.

Se il volere rimane stabilmente inflessibile, ogni azione che un altro compie mediante il corpo o nel corpo, se non si può evitare senza peccato proprio non è imputabile a chi la subisce.

Ma nel corpo di un altro si può compiere un atto che produce non soltanto dolore ma anche piacere.

Ogni atto di questa specie, sebbene non strappi via la pudicizia se conservata con animo irremovibile, tuttavia urta il pudore.

Non si creda però che sia avvenuto anche con la volontà della mente ciò che forse non è potuto avvenire senza la voluttà della carne.

17 - Il suicidio è sempre colpevole

E perciò quale umano sentimento non si vorrebbe perdonare alle donne che si uccisero per non subire tale violenza?

Però chiunque accusa quelle che non vollero uccidersi, per evitare col proprio atto l'altrui delitto, non può sfuggire all'accusa di stoltezza.

Se infatti non è lecito per privato potere uccidere sia pure un colpevole poiché nessuna legge concede tale autorizzazione, certamente anche il suicida è omicida e tanto più colpevole quanto è più incolpevole nei confronti della motivazione per cui ha pensato di uccidersi.

Noi condanniamo l'operato di Giuda e l'umana ragione giudica che con l'impiccarsi ha piuttosto accresciuto che espiato l'azione dello scellerato tradimento ( Mt 27,3-5 ) perché pentendosi a propria condanna col disperare la misericordia di Dio non si lasciò il momento propizio per il pentimento che salva.

A più forte ragione dunque si deve astenere dall'uccidersi chi non ha nulla da punire in sé con tale esecuzione.

Giuda uccidendosi uccise un delinquente e tuttavia pose termine alla vita rendendosi colpevole della propria morte perché lo era anche di quella di Cristo.

Così a causa d'un suo delitto si è giustiziato con un altro delitto.

Ma perché un individuo che non ha fatto nulla di male dovrebbe farsi del male e uccidendosi uccidere un innocente per non subire un colpevole e compiere su di sé un proprio peccato perché in lui non se ne compia quello di un altro?

18.1 - La contaminazione e …

Si teme, dicono, che contamini la lussuria dell'altro.

Non contamina se è dell'altro, se invece contamina non è dell'altro.

Ma la pudicizia è virtù dell'animo ed ha per compagna la fortezza, con cui essa sceglie di sopportare qualsiasi male anziché consentire al male, inoltre l'individuo di animo grande e pudico non ha in suo potere ciò che avviene nella sua carne ma soltanto ciò che accoglie o respinge con la ragione.

Chi dunque con la medesima ragione, se è sana, potrebbe pensare che perde la pudicizia se eventualmente nel suo corpo ghermito e violentato si svolge e si compie un atto libidinoso non suo?

Se la pudicizia si perde così, certamente la pudicizia non è virtù dell'animo, non appartiene ai beni morali, ma è considerata bene fisico, come il vigore, la bellezza, la salute ed altri se ve ne sono.

E la diminuzione di questi beni non diminuisce affatto la rettitudine e l'onestà.

Che se la pudicizia è un bene così fatto, a che scopo per non perderla, si resiste anche col pericolo del corpo?

Se poi è un bene dell'animo, non si perde anche se il corpo subisce violenza.

Che anzi quando il bene di una santa continenza non acconsente alla contaminazione dei desideri carnali, anche il corpo è reso santo.

Perciò quando questo bene con inflessibile intenzione continua a non cedere, non si perde neanche la santità del corpo perché persevera la volontà nell'usarne bene e, per quanto da esso dipende, anche la disposizione.

18.2 - … la pudicizia è nello spirito

Il corpo non è santo perché le sue membra sono integre o perché non è fatto oggetto di toccamenti.

In diverse circostanze le membra possono subire violenza anche con ferite.

I medici talora provvedendo alla salute compiono in esse degli interventi che lo sguardo rifugge dal vedere.

Una ostetrica che esplora con la mano l'integrità di una ragazza, nel controllare, può rovinarla o per cattiveria o per incapacità o per fatalità.

Non ritengo che si possa essere tanto insensati da sostenere che per la fanciulla si è perduto anche qualche cosa della santità del suo corpo, sebbene sia perduta la integrità di uno dei suoi membri.

Pertanto se rimane l'intenzione dell'animo, per cui anche il corpo ha potuto esser reso santo, la violenza dell'atto libidinoso di un altro non toglie la santità al corpo stesso se la conserva la perseveranza della propria continenza.

Se al contrario una donna, avendo depravato la propria coscienza e violata la promessa fatta a Dio, si reca dal proprio seduttore per esser deflorata, possiamo forse, mentre ancor vi si reca, considerarla santa anche nel corpo, se è perduta e distrutta la santità dello spirito, per cui anche il corpo è reso santo?

Non sia mai questo errore.

Riflettiamo anzi che non si perde la santità del corpo se rimane quella dello spirito, anche se il corpo è stato contaminato, come si perde anche la santità del corpo se è violata la santità dello spirito e il corpo è tuttora illibato.

Quindi la donna sopraffatta violentemente e contaminata dal peccato di un altro senza suo consenso non ha nulla da punire in sé con una morte volontaria.

A più forte ragione prima che avvenga, perché non si deve commettere un omicidio certo quando è ancora incerto se il delitto, sebbene di altri, sarà compiuto.

19.1 - Lucrezia uccidendosi …

Con questo evidente ragionamento noi affermiamo che anche se il corpo è contaminato, ma il proposito della volontà non muta per consenso al male, il peccato è soltanto di chi si è unito carnalmente con la violenza, non di colei che sopraffatta lo ha subito senza volere.

Ma a questo ragionamento oseranno opporsi coloro contro di cui difendiamo la santità non solo della mente ma anche del corpo delle donne cristiane violentate durante l'occupazione di Roma?

Essi veramente esaltano per grandi meriti di pudicizia Lucrezia nobile matrona e antica romana.

Il figlio di re Tarquinio aveva posseduto con la violenza il suo corpo a scopo di lussuria.

Ella indicò il misfatto del giovane dissoluto al marito Collatino e all'amico Bruto, uomini illustri e valorosi, e li indusse alla vendetta.

Poi sopportando di malanimo lo sconcio commesso contro di lei si uccise.27

Che dire? Si deve giudicare adultera o casta?

Chi pensa di affannarsi in una discussione simile?

Un tale parlando con singolare verità sul fatto ha detto: Cosa meravigliosa, erano due e uno solo ha commesso adulterio.28

Espressione stupendamente vera.

Notando infatti nell'unione carnale dei due corpi la vergognosa passione di uno e la casta volontà dell'altra e riflettendo su ciò che avveniva non nella unione dei corpi ma nella diversità degli animi, ha detto: Erano due e uno solo ha commesso adulterio.

19.2 - … fu ingiusta contro se stessa …

Ma che principio è questo per cui più severamente contro di lei è punito l'adulterio che lei non ha commesso?

Il drudo è espulso dalla patria assieme al padre, ella subisce la pena più grave.

Se non è impudicizia quella con cui lei riluttante viene violentata, non è giustizia quella con cui lei casta è punita.

Mi rivolgo a voi, leggi e giudici romani.

Proprio voi avete disposto che è reato uccidere dopo i delitti commessi un delinquente se non è stato condannato.

Se dunque si portasse al vostro giudizio questo delitto e risultasse dalle prove che è stata uccisa una donna, non solo non condannata, ma casta e innocente, non colpireste con la dovuta severità chi avesse commesso il reato?

Ma lo ha commesso Lucrezia, proprio quella Lucrezia così esaltata ha giustiziato Lucrezia casta, innocente, violentata.

Pronunciate la sentenza. E se non potete perché non è presente chi possiate condannare per qual motivo esaltate con tanto encomio l'assassina di una donna innocente e onesta?

Ma per nessun motivo la potete difendere presso i giudici d'oltretomba, che appaiono in certi canti dei vostri poeti, appunto perché è posta fra quelli che innocenti si diedero la morte e odiando la luce han gettato l'anima nella tenebra.

E se ella desiderasse tornar quassù, la impedisce il destino e la trattiene la squallida palude dalle acque odiate.29

Ma forse non è lì dal momento che si è uccisa non perché innocente ma perché era consapevole della colpa?

Se infatti, e questo poteva saperlo soltanto lei, travolta anche dalla propria passione, acconsentì al giovane che la prese con la violenza e per punire in sé il fatto si pentì al punto di pensare di espiarlo con la morte?

Ma anche in questo caso non doveva uccidersi se poteva fare presso falsi dèi una salutare penitenza.

Ma se è così ed è falso che erano in due e uno solo commise adulterio, ma entrambi commisero adulterio, lui con aggressione palese, lei con assenso nascosto, non si uccise innocente.

Quindi si può dire dai letterati suoi difensori che nell'oltretomba non è fra quelli che innocenti si diedero la morte.

Ma così il processo si restringe dall'uno e dall'altro canto.

Se ha attenuanti l'omicidio, si ratifica l'adulterio; se ha scusanti l'adulterio, si aggrava l'omicidio e non si trova affatto la soluzione al dilemma: se ha consentito all'adulterio, perché è lodata? se era onesta, perché si è uccisa?

19.3 - … seppure fu casta

Ma a noi nell'episodio tanto celebre di questa donna basta, per confutare coloro che, profani ad ogni concetto di santità, insultano alle donne cristiane violentate durante l'occupazione, ciò che a sua lode più alta è stato detto: Erano in due e uno solo commise adulterio.

Dai letterati Lucrezia è stata considerata incapace di macchiarsi di un consentimento da adultera.

Quindi il motivo per cui anche non adultera si uccise, e cioè perché non tollerò l'amante, non è amore dell'onestà ma debolezza della vergogna.

Si vergognò appunto della dissolutezza dell'altro commessa in lei, sebbene senza di lei.

Da donna romana, molto desiderosa di lode, temette si pensasse che ciò che aveva subito violentemente mentre viveva l'avrebbe subito volontariamente se rimaneva in vita.

Pensò quindi di usare agli occhi degli uomini come testimone della propria disposizione interiore quella pena perché ad essi non poteva mostrare la propria coscienza.

Si vergognò di essere ritenuta compartecipe al fatto se avesse sopportato remissivamente ciò che l'altro aveva compiuto in lei disonestamente.

Così non si sono comportate le donne cristiane.

Pur avendo subito il medesimo affronto continuano a vivere e non hanno punito in sé il delitto di un altro.

Così non hanno aggiunto un proprio delitto a quello d'altri, giacché se i nemici avevano commesso violenza per lussuria, esse avrebbero commesso omicidio per vergogna.

Hanno infatti nell'interiorità la testimonianza della coscienza come ornamento della castità.

Agli occhi di Dio poi, hanno, e non chiedono altro, poiché non hanno altro per comportarsi onestamente, di non deviare dall'autorità della legge divina, evitando con una colpa il disfavore del sospetto umano.

Indice

18 Rm 8,28;
Enarr. in ps. 51, 13; 54, 8; 139, 4: NBA, XXVI; XXVIII;
Serm. 17, 3; 88, 18; 164, 7: NBA, XXIX; XXX/2; XXXI/2
19 Agostino, De cura pro mort. ger. 2
20 Agostino, De cura pro mort. ger. 2, 4;
Enarr. in ps. 33, s. 2, 25: NBA, XXV
21 Platone, Apol. 40 c-d;
Fedone 70c;
Cratilo 400c;
Cicerone, Tuscul. 1, 43
22 Lucano, Phars. 7, 819
23 Agostino, De cura pro mort. ger. 3;
Gen 49,29-31;
Gen 50,2.24
24 Ovidio, Fasti, 2, 79-117;
Aulo Gellio, Noct. att. 16, 19
25 Aulo Gellio, Noct. att. 6, 4;
Appiano, De bellis pun. 4 ed altri
26 Sempronio Tuditano, fr. 5;
Elio Tuberone, fr. 9;
Floro, Epit. 1, 18, 24;
Paolo Orosio, Hist. 4, 10, 1
27 Ovidio, Fasti, 2, 825-832;
Cicerone, De rep. 2, 25, 47
28 Autore ignoto
29 Virgilio, Aen. 6, 434-439