Il consenso degli Evangelisti

Indice

Libro II

1.1 - Prologo

Con un trattato non breve ma molto necessario, da noi circoscritto nell'ambito di un solo libro, abbiamo confutato la stoltezza di coloro che si arrogano il diritto di deridere quei discepoli di Cristo che hanno scritto il Vangelo, motivando l'accusa sul fatto che non ci è possibile citare passi scritti di persona dallo stesso Cristo.

Di lui essi dicono non esserci alcun dubbio che lo si debba onorare, non però come Dio ma come un uomo che per sapienza supera di gran lunga tutti gli altri uomini; e pretendono di sapere che egli verosimilmente scrisse cose ben accette da quanti hanno smarrito la retta via, ma non tali che, leggendole e credendo in esse, li facciano recedere dalla loro perversione.

Terminato questo discorso, ora vogliamo esaminare quanto su Cristo hanno scritto i quattro evangelisti e vedere com'essi siano coerenti ciascuno con se stesso e poi anche i quattro tra di loro.

Con ciò verrà tolto ogni motivo di scandalo nei confronti della fede cristiana anche a coloro che andranno a leggere questi libri mossi da curiosità ma sprovvisti di solida preparazione.

Succede infatti che costoro, leggendo i testi evangelici non alla buona ma investigandoli con abbastanza attenzione, si creano l'opinione che in essi ci siano affermazioni fra loro contrastanti e inconciliabili, di fronte alle quali si credono in dovere di venirci a rinfacciare litigiosamente l'esistenza di tali difficoltà più che non esaminarle con la necessaria diligenza.

1.2 - La genealogia di Gesù

L'evangelista Matteo comincia con queste parole: Genealogia di Gesù Cristo, figlio di Davide, figlio di Abramo. ( Mt 1, 1 )

Iniziando in tal modo il suo libro mostra con sufficiente chiarezza che egli si propone di narrare l'origine di Cristo secondo la carne, per la quale appunto Cristo è Figlio dell'uomo. ( Mt 8,20; Mt 9,6 )

Così infatti egli denomina spessissimo se stesso, inculcandoci ciò che misericordiosamente s'è degnato diventare per noi.

Di lui si predica anche una generazione celeste ed eterna per la quale è il Figlio unigenito di Dio, nato prima di ogni creatura - per mezzo di lui infatti sono state create tutte le cose ( Gv 1,3 ) -; ma questa generazione è talmente ineffabile che ad essa va ragionevolmente applicato il detto del Profeta: La sua generazione, chi potrà narrarla? ( Is 53,8 )

Matteo dunque espone la generazione umana di Cristo, e ne ricorda gli avi cominciando da Abramo e giungendo a Giuseppe, lo sposo di Maria dalla quale nacque Gesù.

Non gli era consentito, al riguardo, supporre Giuseppe mancante del vincolo sponsale che lo legava a Maria per il fatto che costei generò Cristo non da un rapporto fisico con lui ma rimanendo vergine.

Con questo esempio s'inculca ai cristiani sposati una dottrina meravigliosa, e cioè che il matrimonio vige e merita tale nome anche quando di comune accordo gli sposi osservano la continenza, e quindi fra loro non c'è unione sessuale ma si custodisce l'affetto dell'anima.

Questo vale a maggior ragione dei genitori di Cristo, per il fatto che essi ebbero anche un figlio pur non avendo rapporti carnali, leciti soltanto per la procreazione dei figli.

Né si dica che Giuseppe non debba essere chiamato padre di Cristo perché non l'aveva generato fecondando la sua sposa, se è vero, com'è vero, che sarebbe stato padre anche di un figlio non nato da sua moglie ma adottato da un'altra coppia.

1.3 È vero indubbiamente che Cristo era ritenuto figlio di Giuseppe anche nell'altro senso, cioè come se fosse stato generato propriamente dalla sua carne; ma così pensavano quanti non conoscevano la verginità di Maria.

Lo riferisce Luca: Gesù quando incominciò [ il suo ministero ] aveva circa trent'anni ed era figlio, come si credeva, di Giuseppe. ( Lc 3,23 )

Lo stesso Luca non si limita a chiamare genitrice di Gesù la sola Maria ma di tutt'e due dice che erano suoi genitori.

Ecco le sue parole: Il fanciullo cresceva e si irrobustiva pieno di sapienza e la grazia di Dio era in lui.

E i suoi genitori andavano a Gerusalemme tutti gli anni per la solennità della Pasqua. ( Lc 2,40-41 )

Né si deve pensare che in questo passo siano da intendersi come " suoi genitori " i parenti di Maria, inclusa con essi la stessa sua madre.

Cosa infatti potrebbe rispondere uno che così la pensasse a quel che antecedentemente lo stesso Luca aveva detto, e cioè che suo padre e sua madre si meravigliavano delle cose che si dicevano di lui? ( Lc 2,33 )

Orbene, questo Luca racconta che Cristo nacque da Maria, la quale rimase vergine e non ebbe rapporti carnali con Giuseppe.

In che senso dunque l'avrà chiamato padre di Gesù se non in quanto era sposo di Maria?

E come tale lo riteniamo anche noi per l'unione sponsale che ci fu tra loro pur mancando fra loro il rapporto carnale.

Per questo motivo noi riteniamo Giuseppe padre di Cristo, nato solamente dalla sposa di lui, in un senso molto più stretto che se fosse stato adottato da una coppia estranea.

In tal modo si rende evidente che le parole: A quel che si credeva, figlio di Giuseppe, ( Lc 3,23 ) sono state scritte dall'evangelista rapportandole a quei tali che lo credevano nato da Giuseppe come nascono comunemente gli uomini.

2.4 - Il Cristo figlio di Davide

Ammesso tutto questo, anche se si riuscisse a dimostrare che Maria non fu in alcun modo imparentata con la stirpe di Davide, ( Mt 1,1-20 ) per ritenere Cristo figlio di Davide sarebbe sufficiente il motivo che autorizza a chiamare Giuseppe padre di lui.

Ma c'è di più. Se infatti l'apostolo Paolo con estrema chiarezza dice che Cristo secondo la carne è figlio di Davide, ( Rm 1,3 ) non c'è dubbio che anche Maria per una qualche parentela derivi dalla stirpe di Davide.

Di lei non si passa sotto silenzio che apparteneva alla tribù sacerdotale in quanto era consanguinea di quell'Elisabetta ( Lc 1,36 ) che - come lascia intravedere Luca - era discendente di Aronne. ( Lc 1,5 )

Pertanto è da ritenersi con assoluta sicurezza che il corpo di Cristo derivò dalla stirpe regia e da quella sacerdotale, e rivestendo questa duplice personalità rappresentava, in relazione con le usanze del popolo ebraico, anche l'unzione mistica, cioè il crisma a cui evidentemente si richiama il nome di Cristo, che in tal modo veniva preannunziato tanto tempo prima anche attraverso questa denominazione estremamente significativa.

3.5 - Gli antenati di Cristo secondo Matteo e secondo Luca

Adesso una risposta a quanti sono impressionati dal fatto che Matteo, con ordine discendente da Davide fino a Giuseppe, ( Mt 1, 1.16 ) elenca una serie di antenati di Cristo, mentre un'altra ne riferisce Luca risalendo da Giuseppe a Davide. ( Lc 3, 23.38 )

Costoro dovranno tener presente che, com'è facile, Giuseppe poté avere due padri: uno, quello che lo generò; un altro, quello che lo adottò.

Anche nel popolo di Dio infatti vigeva fin dai tempi antichi la costumanza di adottare figli, considerando come figli propri quelli che non si era generati.

Non cito qui l'esempio della figlia del faraone, che adottò Mosè, ( Es 2,10 ) poiché lei era una estranea al popolo eletto, ma è certo che Giacobbe, con parole quanto mai esplicite, adottò i suoi nipoti, cioè i figli di Giuseppe, dicendo: Orbene, i tuoi due figli che ti sono nati prima che io venissi da te sono miei: Efraim e Manasse saranno miei come Ruben e Simeone; saranno invece tuoi i figli che genererai in seguito. ( Gen 48,5-6 )

Per tal motivo è avvenuto che fossero dodici le tribù d'Israele, sebbene non si computasse la tribù di Levi, che prestava servizio nel tempio.

Contando anche questa, le tribù d'Israele sarebbero state tredici, poiché erano già dodici i figli nati da Giacobbe.

Da ciò si comprende che Luca nel suo Vangelo non ha inserito, di Giuseppe, il padre da cui era stato generato ma quello da cui era stato adottato, ( Lc 3,23 ) riferendoci in ordine ascendente gli antenati di lui fino ad arrivare a Davide.

In realtà se è doveroso ritenere che i due evangelisti, Matteo e Luca, ci raccontano la verità, ne segue necessariamente che l'uno ci ha descritto l'origine di Giuseppe dicendoci il padre che l'aveva generato, mentre l'altro colui che l'aveva adottato.

Ora, fra i due, chi dovremo ritenere con maggiore probabilità che ci abbia voluto segnalare il padre adottivo di Giuseppe se non colui che, narrando di chi egli era figlio, si astenne dal precisare che l'aveva generato?

Più agevolmente infatti poté dire di lui che era suo figlio in quanto l'aveva adottato, che non se avesse detto che l'aveva generato, mentre in effetti non era nato dalla sua carne.

Il contrario è di Matteo. Dicendo: Abramo generò Isacco, Isacco generò Giacobbe ( Mt 1,2 ) e così di seguito insistendo nel verbo generare fino a dirci, terminando la serie: Giacobbe generò Giuseppe, ( Mt 1,16 ) ha sottolineato in maniera sufficientemente chiara che egli, nel tracciare la serie degli antenati di Giuseppe, la stilò in modo d'arrivare non al padre che lo aveva adottato ma a colui che davvero l'aveva generato.

3.6 Ma ammettiamo, per ipotesi, che anche Luca avesse detto, di Giuseppe, che fu generato da Eli.

Nemmeno in questo caso la parola " generare " dovrebbe turbarci al segno da farci credere diversamente; noi riterremmo parimenti che un evangelista volle tramandare il nome del padre che lo generò e l'altro quello di colui che l'adottò come figlio.

Quando infatti uno adotta un figlio, non è assurdo dire di lui che lo genera: evidentemente non nell'ordine della carne ma in quello dell'amore.

Non altrimenti riteniamo di noi stessi quando affermiamo che Dio ci ha dato il potere di diventare figli di Dio: ( Gv 1,12 ) egli non ci ha generati dalla sua natura ed essenza, come ha fatto per il suo Figlio unico, ma ci ha adottati per amore. ( Rm 8, 15.23; Rm 9,4 )

La parola " generare " torna di frequente sulla penna dell'Apostolo, e si capisce in che senso.

Egli non intende altro se non rilevare la distinzione che c'è fra noi e l'Unigenito nato prima di ogni creatura, colui ad opera del quale tutte le cose furono fatte e che, solo, è nato dalla sostanza del Padre ed è, nell'uguaglianza della natura divina, assolutamente lo stesso che il Padre.

Di lui dice che fu mandato ad assumere la carne da quella stirpe cui per natura apparteniamo noi: con la conseguenza che, divenendo lui per amore partecipe della nostra mortalità, ha reso noi mediante l'adozione partecipi della sua divinità.

Ecco le sue parole: Quando giunse la pienezza del tempo Dio mandò il suo Figlio, generato da donna, generato sotto la legge, per riscattare quelli che erano sotto la legge e noi ricevessimo l'adozione a figli. ( Gal 4,4-5 )

Altrove si dice di noi che siamo nati da Dio, cioè: noi che per natura eravamo semplici uomini abbiamo ricevuto il potere di diventare figli di Dio, e tali diventiamo per grazia, non per l'origine naturale. ( Ef 1,5 )

Se infatti fossimo già stati suoi figli per natura, mai saremmo stati un qualcosa di diverso.

Giovanni però si esprime così: A coloro che credono nel suo nome ha dato il potere di diventare figli di Dio, e prosegue: Costoro non sono nati da sangue né da volontà della carne né da volontà dell'uomo ma da Dio. ( Gv 1,13-14 )

Egli pertanto afferma che tutti quelli che sono nati da Dio ( Rm 8,15 ) sono diventati figli di Dio per un potere da loro ricevuto - la qual cosa indica Paolo col termine " adozione " -; e per chiarire meglio quale sia stata la grazia che ciò ha prodotto, dice: E il Verbo si è fatto carne e ha preso dimora fra noi. ( Gv 1,14 )

Con queste parole sembra volerci dire: Cosa c'è di sorprendente se gli uomini, che sono carne, sono diventati figli di Dio quando per essi l'unigenito Figlio, che era il Verbo di Dio, si è fatto carne?

È tuttavia da rilevarsi la gran differenza che c'è in questo passaggio, e cioè che noi diventando figli di Dio siamo cambiati in meglio mentre lui, Figlio eterno di Dio, quando è divenuto Figlio dell'uomo non si è cambiato in peggio ma ha solamente assunto in sé quel che gli era inferiore.

Lo dice anche Giacomo: Con un atto della sua volontà egli ci ha generati mediante il Verbo della verità, perché noi fossimo come una primizia della sua creazione. ( Gc 1,18 )

Con ciò egli vuol indicare che, sebbene sia usata la parola generare, noi non dobbiamo credere d'essere diventati la stessa cosa che è Dio, e sottolinea in maniera sufficientemente chiara che a noi, mediante l'adozione divina, è stata concessa soltanto una dignità che ci eleva nell'ordine creaturale.

3.7 In base a ciò, non avrebbe stravolto la verità Luca, anche se avesse detto di Giuseppe che l'aveva generato quel padre dal quale era stato invece solo adottato.

Con tale atto in realtà egli lo generò, non nel senso che lo fece esistere come uomo ma in quanto lo rese suo figlio.

In questa maniera infatti ci ha generati Dio quando ha reso suoi figli noi che eravamo stati da lui creati come uomini.

Per quanto invece riguarda il suo Unigenito, Dio l'ha generato non solo come Figlio - cosa che non è il Padre - ma anche come Dio, cosa che è anche il Padre.

È ovvio tuttavia che, se anche Luca avesse usato il verbo generare, sarebbe rimasto totalmente incerto quale dei due evangelisti ci abbia tramandato il padre che lo adottò e quale il padre che realmente lo procreò.

Lo stesso dovrebbe dirsi se nessuno dei due avesse usato il temine generare ma ci avessero detto l'uno che era figlio di questo e l'altro di quello.

Sarebbe rimasto sempre incerto quale dei due ci avesse riferito il padre da cui nacque e quale il padre da cui fu adottato.

In realtà però uno ci dice: Giacobbe generò Giuseppe, ( Mt 1,16 ) e l'altro: Giuseppe, figlio di Eli. ( Lc 3,23 )

Usando parole diverse, con ciò stesso ci hanno segnalato in maniera elegante cosa si proponeva ciascuno.

Evidentemente una tale soluzione può, come ho detto, venire in mente - e con facilità - alla persona pia che ritiene doversi cercare ogni altra soluzione e mai pensare che gli evangelisti abbiano mentito.

Dico che un uomo simile facilmente trova la maniera per spiegare i motivi per i quali di una persona si può asserire che abbia avuto due padri.

La cosa potrebbe venire in mente - è vero - anche a chi va in cerca di calunnie, ma costoro preferiscono il litigio alla seria riflessione.

4.8 - Matteo riporta quaranta generazioni di Cristo

Indagare su ciò che inoltre potrebbe dedursi, richiede veramente - come ho già notato e come ciascuno può vedere - un lettore quanto mai attento e diligente.

È stato infatti notato con acutezza che Matteo, volendo presentare la persona di Cristo investita di potere regale, nel riferire la serie delle generazioni nomina quaranta uomini, escluso lo stesso Cristo. ( Mt 1,17 )

Orbene, questo numero rappresenta il tempo che trascorriamo in questo mondo e qui sulla terra: un tempo nel quale dobbiamo essere guidati da Cristo con pedagogia severa e dolorosa, cioè quella pedagogia con la quale, come sta scritto, Dio flagella ogni figlio che riconosce. ( Eb 12,6 )

Parlando di questa pedagogia, dice l'Apostolo che noi dobbiamo entrare nel regno di Dio per la via della tribolazione. ( At 14,21 )

Essa è raffigurata anche da quello scettro di ferro di cui si legge nel Salmo: Li dominerai con scettro di ferro, ( Sal 2,9 ) mentre poco prima aveva detto: Io sono stato da lui costituito re sul Sion suo monte santo. ( Sal 2,6 )

In realtà anche i buoni vengono governati con scettro di ferro, se di loro è stato detto: È tempo che cominci il giudizio dalla casa del Signore.

E se tale è il suo inizio, che avviene in noi, quale ne sarà la fine in coloro che non credono al Vangelo di Dio?

E se a mala pena riuscirà a salvarsi il santo, dove andranno a finire l'empio e il peccatore? ( 1 Pt 4,17-18 )

Ad essi infatti si riferisce il testo: Come vasi d'argilla li frantumerai. ( Sal 2,9 )

Con tale disciplina vengono dunque governati i buoni, mentre i cattivi sono annientati, sebbene siano anch'essi ricordati, per il fatto che i buoni e i cattivi hanno ora in comune gli stessi e identici sacramenti.

4.9 Che mediante questo numero venga rappresentato l'attuale periodo di vita travagliata in cui sotto la guida severa di Cristo re combattiamo contro il diavolo, lo manifesta anche il fatto che durò quaranta giorni il digiuno - che è un tempo di umiliazione dell'anima - consacrato dalla Legge e dai Profeti nelle persone di Mosè e di Elia, che digiunarono appunto quaranta giorni. ( Es 34,28; 1 Re 19,8 )

Così anche il Vangelo ci parla del digiuno del Signore, durato quaranta giorni, durante i quali veniva tentato dal diavolo. ( Mt 4,1-2 )

E cosa intendeva significarci il Signore con questo digiuno?

Egli nella carne che si era degnato assumere dalla nostra mortalità voleva offrirci una figura della tentazione a cui siamo sottoposti noi per tutta la durata della vita presente.

Ugualmente dopo la risurrezione non volle restare in terra con i discepoli per più di quaranta giorni, ( At 1,3 ) partecipando in maniera umana alla loro vita presente e prendendo, sebbene immortale, il cibo dei mortali come essi prendevano.

Limitandosi a restare con loro quaranta giorni voleva indicare che sarebbe stata invisibile la presenza promessa quando aveva detto: Ecco io sono con voi sino alla fine del mondo. ( Mt 28,20 )

Quanto poi al motivo per cui il numero quaranta significa la presente vita temporale, ce ne potranno essere probabilmente altri più reconditi, ma qui sul momento mi viene da pensare, come motivo immediato, che anche i periodi dell'anno si snodano in quattro stagioni e che il mondo è delimitato in quattro parti, che a volte la Scrittura denomina dal nome dei venti: Oriente, Occidente, Settentrione e Meridione. ( Zc 2,6; Zc 14,4 )

Ora, quaranta è dieci per quattro, e lo stesso numero dieci si raggiunge sommando l'uno dopo l'altro i numeri da uno fino a quattro.

4.10 Cristo re veniva dunque in questo mondo e, partecipando della vita terrena e mortale di noi uomini, intendeva sostenerci nel faticoso combattimento contro le tentazioni che incontriamo quaggiù.

Per questo motivo Matteo inizia il suo racconto da Abramo ed elenca quaranta personaggi.

Ora, è risaputo che Cristo re nella carne trasse origine dal popolo ebraico, com'è anche risaputo che, per separare questo popolo da tutti gli altri, Dio fece uscire Abramo dalla sua terra e dal suo parentado. ( Gen 12,1-2 )

Questa promessa che concerne il popolo da cui il Cristo sarebbe venuto aveva soprattutto la funzione di profetizzare e preannunziare in maniera precisa che tutto si riferiva a lui.

In vista di ciò l'evangelista distingue le generazioni in tre gruppi di quattordici ciascuno, segnalando che da Abramo a Davide ci furono quattordici generazioni, da Davide alla deportazione in Babilonia altre quattordici e altrettante fino alla nascita di Cristo. ( Mt 1,17 )

Alla fine però egli non tira la somma dicendo che tutte le generazioni ricordate sono quarantadue.

In effetti uno dei proavi di Cristo, cioè Geconia, è contato due volte, in relazione al fatto che sotto di lui accadde una specie di curvatura verso popoli stranieri in quanto gli Israeliti emigrarono in Babilonia.

Orbene, quando una successione ordinata non segue più una linea retta ma si piega in direzione divergente, si forma come un angolo, e ciò che si trova nell'angolo è contato due volte, cioè alla fine della serie precedente e all'inizio della ripresa dopo la curva.

Questo fatto raffigurava fin da allora che Cristo in certo qual modo sarebbe emigrato dal popolo dei circoncisi a quello degli incirconcisi, ( Ef 2,11 ) rappresentati da Gerusalemme e Babilonia rispettivamente.

In tal modo egli sarebbe stato la pietra angolare per tutti coloro che avrebbero creduto in lui, sia che provenissero da una parte che dall'altra. ( Ef 2,20 )

In tal modo Dio predisponeva le cose che erano solo figura, orientandole però a fatti che sarebbero realmente accaduti.

Tant'è vero che lo stesso nome Geconia, nel quale veniva raffigurato quest'angolo, significa " preparazione di Dio ".

Pertanto le generazioni non raggiungono il numero di quarantadue ( che sarebbe tre volte quattordici ) ma quarantuno, computando anche Cristo, che è colui che da vero re domina sulla presente nostra vita terrena e mortale figurata dal numero quaranta.

4.11 Matteo si propone dunque di presentarci Cristo come colui che scende a far parte della nostra condizione mortale: per questo all'inizio ricorda in ordine discendente le sue generazioni da Abramo a Giuseppe, anzi fino alla nascita dello stesso Cristo. ( Mt 1,2 )

Il contrario è di Luca. Egli narra le generazioni di Cristo non all'inizio ma in occasione del battesimo di lui, ( Lc 3, 23. 38 ) e lo fa non in ordine discendente ma ascendente, come per attribuire a lui la funzione di sacerdote che espia i peccati.

Lì infatti la voce dal cielo lo proclamò, lì Giovanni gli rese testimonianza dicendo: Ecco colui che toglie i peccati del mondo. ( Gv 1,29 )

Nel suo ascendere poi Luca oltrepassa Abramo e giunge fino a Dio, con il quale siamo riconciliati attraverso la purificazione e l'espiazione operata da Cristo. ( Rm 5,10 )

Ben a ragione quindi egli nel riferirci l'origine di Cristo ne rileva le adozioni, poiché anche noi diventiamo figli di Dio per via di adozione, credendo cioè nel Figlio di Dio; quanto invece al Figlio stesso di Dio, è da dirsi piuttosto che divenne per noi Figlio dell'uomo attraverso la generazione carnale.

In maniera sufficientemente chiara dunque l'evangelista ci indica che, se ha detto di Giuseppe che era figlio di Eli, non lo era perché da lui generato ma solo adottato.

In effetti, anche parlando di Adamo lo dice figlio di Dio, mentre si sa che egli fu creato da Dio e, se fu collocato nel paradiso in qualità di figlio, ciò fu per un dono di grazia: quella grazia che in seguito perse a causa del peccato.

4.12 Da tutto ciò si deduce che nella genealogia di Matteo è raffigurato Cristo Signore che prende su di sé i nostri peccati, in quella di Luca, invece, Cristo Signore che elimina i nostri peccati.

Questo è il motivo per cui l'uno narra le generazioni in ordine discendente, mentre l'altro in ordine ascendente.

Dice infatti l'Apostolo: Dio mandò il suo Figlio in una carne simile a quella che aveva peccato, e ciò in relazione al fatto che egli prese su di sé i nostri peccati.

Quanto invece alle parole che aggiunge: Affinché mediante il peccato condannasse il peccato nella carne, ( Rm 8,3 ) vanno riferite all'espiazione dei peccati.

Ecco pertanto Matteo che da Davide scende attraverso Salomone, di cui nomina la madre con cui il re aveva peccato.

Luca al contrario ascende a Davide attraverso Natan, cioè quel Profeta di cui si servì Dio per punirlo del peccato. ( 2 Sam 11,4; 2 Sam 12, 1.14 )

Ma c'è di più: ed è il numero ottenuto da Luca, che con ogni certezza indica l'abolizione completa dei peccati.

Siccome infatti Cristo non commise iniquità e perciò in nessun modo si può dire che la sua iniquità si unì alle iniquità degli uomini che egli prese su di sé nella sua carne, per questo troviamo che in Matteo il numero delle generazioni, Cristo escluso, è di quaranta.

Siccome però è anche vero che egli, dopo averci redenti e purificati da ogni peccato, ci ha uniti alla giustizia sua e del Padre, perché si avveri ciò che dice l'Apostolo: Chi si unisce al Signore forma con lui un solo spirito, ( 1 Cor 6,17 ) in vista di ciò nel numero riportato da Luca troviamo elencati e Cristo, da cui inizia il computo, e Dio, con il quale tale computo finisce.

Si raggiunge così il numero settantasette, con il quale si rappresenta la remissione e l'eliminazione totale di ogni peccato: cosa che anche il Signore manifestò di sua bocca quando, per evidenziare il mistero di questo numero, disse che al peccatore si deve perdonare non solo sette volte ma addirittura settenta volte sette. ( Mt 18,22 )

4.13 Né è insensato dire che questo numero, se lo si esamina con profonda accuratezza, ha pertinenza con la purificazione di tutti i peccati.

In effetti, del numero dieci si può dimostrare che è il numero della giustizia a motivo dei dieci comandamenti della legge.

Ma ecco sopraggiungere il peccato, che è la trasgressione della legge, e quindi, come trasgressione del numero dieci, è ben rappresentata dal numero undici.

In vista di ciò si prescrisse che nel tabernacolo si facessero undici veli di lana caprina. ( Es 26,7 )

E chi potrebbe dubitare che la veste di lana caprina bene si adatta a rappresentare il peccato?

Ora, siccome la totalità del tempo si snoda in periodi di sette giorni, ragionevolmente si conclude che l'insieme di tutti i peccati raggiunge la somma di settantasette, che è il numero undici moltiplicato per sette.

Nell'ambito di questo numero avviene la completa remissione dei peccati, che espia per noi sul suo corpo il nostro Sacerdote, dal quale prende inizio questo numero nella genealogia di Luca.

Egli parimenti ci riconcilia con Dio, nel quale la numerazione si conclude con un richiamo allo Spirito Santo che apparve sotto forma di colomba nell'episodio del battesimo, ( Lc 3,22 ) dove appunto si fa cenno di questo numero.

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