Supplemento alla III parte

Indice

I novissimi

a) oltretomba e resurrezione ( Suppl., qq. 69-86 )

1 - Non è facile introdurre il lettore profano in un trattato di escatologia.

Né ci sembra giustificata l'idea, cara a certi teologi moderni, che le difficoltà nascano dal fatto che oggi la gente vive in una società demitizzata.

La difficoltà in questo campo è sempre esistita: basterebbero a provarlo le parole di scherno con le quali gli antichi pagani commentarono la proclamazione di codeste verità da parte degli apostoli e dei martiri.

« Paolo, tu sei fuori di senno », gridò Festo all'Apostolo che aveva accennato alla resurrezione dei morti; « la tua molta dottrina ti fa dare in pazzia » ( At 26,24 ).

Ma il nostro non è un compito apologetico: chi prende in mano la Somma Teologica sa bene che si tratta di un'esposizione sistematica della dottrina cristiana secondo la più genuina tradizione cattolica, così come essa poteva essere conosciuta nella seconda metà del secolo XIII.

Ora, secondo il pensiero cristiano l'escatologia ha un'importanza capitale, come affermano consapevolmente gli studiosi moderni di teologia positiva, e come si rileva dall'analisi stessa delle correnti moderne di teologia sistematica.

Hans Urs von Balthasar osserva argutamente in proposito che mentre per la teologia liberale del secolo XIX poteva valere il motto: « L'ufficio escatologico è abitualmente chiuso », dall'inizio del secolo XX codesto ufficio si fanno molte ore di straordinario.

Non c'è quindi da meravigliarsi che quest'ultimo trattato sui novissimi abbia un grande rilievo nella sintesi tomistica.

Ma i lettori devono tener presente che la sintesi dell'Aquinate non ha potuto mostrarsi qui in tutta la sua bellezza e chiarezza, perché la morte immatura dell'Autore ha lasciato l'opera incompiuta costringendoci a ripiegare sulle opere precedenti.

Il trattato dei Novissimi che noi presentiamo fa parte del Supplemento, ossia di quel compendio tratto dal Commento giovanile alle Sentenze di Pietro Lombardo che ha supplito in qualche modo l'esposizione originale e matura dell'Autore.

2 - Purtroppo il compilatore anonimo non era un genio, e neppure un teologo ben preparato, come vedremo chiaramente nel corpo dell'esposizione, mediante opportune note in calce.

Perciò è assolutamente da respingere l'affermazione gratuita, troppe volte ripetuta, che il compilatore del Supplemento sarebbe da identificarsi in Fra Reginaldo da Piperno, intelligente e affezionato segretario dell'Aquinate.

Tra l'altro il distratto compilatore dimentica due questioni importanti per l'escatologia, ossia la questione relativa al purgatorio e quella sul destino dei bambini morti senza battesimo ( il limbo ), costringendo gli editori tardivi della Somma ad aggiungere delle Appendici.

Comunque, nonostante l'imperizia del compilatore, il trattato che S. Tommaso aveva redatto in gioventù nel suo commento al 4° libro delle Sentenze di Pietro Lombardo è riportato sostanzialmente nel Supplemento.

Si tratta di « un'escatologia geniale nel suo genere, ed estremamente completa per il suo tempo », come dice il già citato H. Urs von Balthasar, il quale si lamenta che codesto trattato non sia stato ancora « studiato globalmente dal punto di vista storico e sistematico ».

Agli studiosi che volessero accingersi all'impresa vorremmo trasmettere qualche suggerimento che è emerso dalla lunga fatica della traduzione e dal controllo dei riferimenti.

I Indole del trattato e luoghi paralleli.

3 - Al primo sguardo si nota subito che questa parte del Supplemento presenta uno svolgimento piuttosto disordinato, cui l'Autore della Somma Teologica avrebbe posto rimedio, qualora la morte non l'avesse prevenuto.

Il tema centrale dei novissimi secondo il prologo della Terza Parte avrebbe dovuto essere « il fine della vita immortale, cui arriviamo risorgendo per opera di Cristo ».

Invece il modesto compilatore ha scelto come tema di fondo la resurrezione dei morti, che gli permetteva di ordinare il trattato in una maniera sbrigativa, molto materiale « Intorno al trattato della resurrezione sono da esaminare tre cose: ciò che la precede, ciò che l'accompagna e le cose che la seguono.

Prima quindi tratteremo di ciò che in parte almeno precede la resurrezione; secondo, della resurrezione stessa e delle circostanze che l'accompagnano; terzo delle cose che la seguono » ( q. 69, prol. ).

In sostanza il compilatore si è adattato allo stato di fatto esistente, adeguandosi al compendio di teologia che i maestri seguivano nelle loro lezioni, ossia alle Sentenze di Pietro Lombardo.

Questi aveva puntato decisamente sulla resurrezione « Da ultimo tratteremo brevemente delle circostanze della resurrezione, e dei vari tipi di risorti, quindi del giudizio e dei vari aspetti della misericordia ( Sent., d. 13, c. 1 ).

Nel suo commento giovanile all'opera di Pietro Lombardo S. Tommaso aveva dovuto seguire l'esposizione confusionaria del Maestro, che si permette persino di intercalare problemi estranei all'escatologia ( vedi, per es., d. 46, e. 3 : « De iustitia et misericordia Dei » ).

Ma quel continuo vagare di palo in frasca non corrispondeva certo ai suoi gusti personali.

4 - Un abbozzo di quello che egli avrebbe voluto fare per una sintesi organica del trattato possiamo trovarlo nelle opere minori.

Ecco perché bisogna attribuire qui un'importanza particolarissima ai luoghi paralleli.

I novissimi furono oggetto di due brevi trattati: nella Summa Gontra Gentiles ( cfr. 4 Cont. Gent., cc. 79-97 ), e nel compendium Theologiae ( cc. 239- 245 ; II, c. 9 ).

Il primo è però di schietta indole apologetica, e quindi dà per scontate quelle tesi che erano comuni all'escatologia ebraica, mussulmana e cristiana.

Ne risulta quindi un trattato molto incompleto, pur offrendo qua e là preziose delucidazioni.

Il secondo invece si presenta come un prolungamento o corollario del De Verbo Incarnato.

Codesta dislocazione offre poco respiro alla complessa tematica dei novissimi, però mette bene in evidenza il concetto che S. Tommaso aveva della resurrezione finale e di tutta l'escatologia.

Per lui come per S. Paolo si tratta dell'ultimo atto del mistero stesso dell'incarnazione.

Ma il suo pensiero non è riducibile all'escatologia apsichica o antipneumatica che molti oggi tendono a divulgare.

Alludo a quella tendenza che esclude dalle prospettive bibliche ogni distinzione e separazione tra anima e corpo, a tutto vantaggio della « carne ».

Ebbene proprio nel Compendium Theologiae S. Tommaso afferma nella maniera più inequivocabile la netta distinzione tra i due compiti che Cristo svolge per la nostra salvezza: riparazione immediata delle anime con il soccorso della grazia; resurrezione dei corpi alla fine del mondo ( c. 239; vedi, sullo stesso tono, III, q. 56, aa. 1,2 ).

Ma è evidente che l'Aquinate si riprometteva di completare il tema escatologico nel corso dell'opuscolo citato, che purtroppo doveva lasciare incompiuto, come lasciava incompiuta la Somma Teologica.

Nella II Parte del Compendio egli torna a parlare del Regno che il Signore ci ha promesso, e che noi chiediamo con la seconda domanda del Pater Noster.

Il Santo terminò la vita terrena senza aver potuto esprimere tutto quello che egli pensava in proposito ( cfr. II, cc. 9,10 ).

Anche nella sua Espositio in Orat. Dominicam egli insiste nel vedere le attese escatologiche espresse nella seconda domanda: « Venga il tuo regno ».

In forma catechistica aveva formulato il suo atto di fede escatologico nel commento al Simbolo degli Apostoli, indicando gli errori che il messaggio cristiano ha incontrato in proposito ( In Articulos Fidei et Sacr. Eccl, aa. 5,6,12 ).

Per una conoscenza approfondita del pensiero tomistico sui novissimi non si possono trascurare i commenti ai brani escatologici sia del Vecchio che del Nuovo Testamento.

Ricordiamo qui in particolare le opere esegetiche su Giobbe e su Isaia, sui vangeli di S. Matteo e di S. Giovanni, nonché le osservazioni e riflessioni teologiche sulle epistole paoline.

Anche le Quaestiones disputatae offrono qualche contributo prezioso per l'approfondimento di problemi particolari: quello, per es., della conoscenza dell'anima separata ( cfr. De Verit., q. 19 ; De Anima, aa. 17-20 ); quello relativo alla pena del senso ( ibid. a. 21 ); e quello relativo al limbo, ossia alla pena riservata per il solo peccato originale ( De Malo, q. 5 ).

Analizzando certi problemi particolari S. Tommaso apre in qualche modo quella corrente della teologia cattolica, che tende a dare un rilievo così marcato ai novissimi del singolo individuo, da far passare in seconda linea i novissima mundi.

Ma in lui la preminenza di questi ultimi è ancora evidentissima.

Anzi egli nel suo trattato non ricorda affatto la morte tra i novissimi, come del resto non ricorda il purgatorio, di cui aveva parlato diffusamente per inciso ( seguendo l'estro del Maestro delle Sentenze ) nel trattato sulla Confessione sacramentale ( cfr. 4 Sent., d. 21, q. 1, aa. 1-3 ).

II Le fonti.

5 - Per completare l'elenco delle note che caratterizzano il trattato dobbiamo dire che esso è stato elaborato in forma piana e didattica, senza nessuna pretesa di originalità.

La genialità dell'Autore emerge ugualmente, ma non è facile rendersene conto a prima vista.

Il continuo richiamo alle fonti non può certo giovare allo scopo.

Ma un teologo che si rispetti non si rassegnerà mai a presentarsi sradicato dalla tradizione.

Uno sguardo all'indice onomastico del trattato è sufficiente a persuaderci che la fonte principalissima, come c'era da attendersi, è la sacra Scrittura.

Il Dottore Angelico non solo conosce tutti i brani escatologici dei testi sacri, ma ne conosce le varie interpretazioni dei Padri Latini, non senza l'apporto di alcuni Padri Greci, quali S. Giovanni Crisostomo, S. Basilio, lo Pseudo-Dionigi e S. Giovanni Damasceno.

È facile constatare che egli non aveva la preparazione sufficiente per risalire di persona al testo originale; ma la sua eccezionale capacità di sintesi gli offriva il modo di interpretare quasi sempre con esattezza le pericopi più ermetiche nel condizionamento logico del contesto.

In più dobbiamo notare che egli, al pari dei grandi teologi suoi contemporanei e dei buoni fedeli, è assolutamente convinto della complementarietà dei testi biblici, escludendo ogni loro reale contraddizione.

Ai suoi occhi non esistono neppure graduatorie di originalità e di autenticità.

I testi biblici possono essere più o meno chiari, ma il teologo non può accettare l'idea che siano più o meno veri.

Perciò il pensiero teologico deve emergere in primo luogo dalla globale e organica interpretazione di tutte le affermazioni bibliche che si riferiscono a un determinato argomento.

Se vogliamo, questa piattaforma unica sacrifica a prima vista la dimensione storica del messaggio biblico, sebbene S. Tommaso sia disposto a tenerne conto ( cfr. I-II, q. 1, a. 7 ) ma permette di evitare discriminazioni col pericolo di ridurre le affermazioni dei testi sacri a pura documentazione letteraria di mentalità sorpassate.

E per quanto riguarda l'escatologia al teologo come tale non interessa tanto la dipendenza che i testi più chiari del Nuovo Testamento storicamente possono avere dai brani profetici dell'Antico, quanto la luce che la pienezza della rivelazione divina getta sui primi albori di essa.

Questo discorso ci porta a criticare l'atteggiamento di quei teologi che invece tendono a riassorbire nel crepuscolo dei primordi la luce meridiana; mentre giustifica pienamente il metodo adottato da S. Tommaso e in genere dai teologi della grande scolastica.

6 - Ma sul modo di utilizzare i testi biblici, sia nella costruzione teologica in generale, che in particolare nel trattato dei novissimi, bisogna fare un'altra osservazione importante.

Molto prima che si parlasse di demitizzazione, ossia fin dai primordi dell'era cristiana, i teologi hanno rilevato che non poche espressioni bibliche non possono e non devono essere intese nella loro materialità.

Il testo sacro, per es., è pieno di espressioni antropomorfiche, le quali materialmente prese comprometterebbero l'assoluta semplicità, invisibilità e incorporeità di Dio.

E neppure siamo tenuti a sottoscrivere le idee cosmologiche che emergono incidentalmente dal testo sacro.

Giustamente già S. Agostino aveva detto che Dio con la sua rivelazione intendeva fare dei cristiani e non dei matematici o dei naturalisti.

E se questo è vero per la cosmologia, non si capisce perché ciò non debba essere altrettanto vero per la biologia e per la psicologia, sia filosofica che scientifica.

S. Tommaso, come tutti i teologi cattolici fino a pochi anni or sono, ha pensato che la Bibbia non escluda uno studio sistematico sull'uomo; studio che non può essere condotto in base alle descrizioni più o meno vaghe e poetiche che s'incontrano nel testo sacro.

Non ci consta che in passato qualcuno si sia scandalizzato per il fatto che la Bibbia non conteneva una dimostrazione della spiritualità e dell'immortalità dell'anima.

Una simile pretesa ci avrebbe fatto ridere.

Ma ci sembra che sia altrettanto ridicolo dare oggi per dimostrato, come fanno certi esegeti, che il dualismo anima-corpo, spirito-materia sia del tutto estraneo al pensiero biblico, esigendo per questo dai teologi e dai filosofi cristiani la rinunzia alla psicologia razionale, che invece l'afferma con sicurezza.

Vedremo in seguito che questa negazione biblica del dualismo suddetto è del tutto arbitraria; ma fin da questo momento era necessario accennarvi, per indicare le buone ragioni che giustificano il metodo adottato da S. Tommaso nell'utilizzare il testo sacro.

7 - Accanto alla Bibbia tra le fonti del trattato sui novissimi troviamo i Santi Padri, cui abbiamo già accennato.

Al posto d'onore, al solito, troviamo S. Agostino che viene citato continuamente, come del resto aveva già fatto Pietro Lombardo nel testo delle Sentenze che qui l'Aquinate commenta.

Anzi al Santo vescovo d'Ippona viene concesso più del giusto, perché a lui vengono attribuite anche opere che non gli appartengono: il De Fide ad Petrum che è di S. Fulgenzio di Ruspe, e il De Spiritu et Anima, di cui S. Tommaso stesso riconobbe in seguito la non autenticità ( oggi viene attribuito concordemente al monaco cistercense Alchero di Chiaravalle ).

Molto citate sono pure le opere di S. Gregorio Magno, sopratutto i Dialoghi e i Moralia.

I primi specialmente formavano la delizia dei medioevali con le loro storie meravigliose in cui frequenti sono le apparizioni d'oltretomba.

Le altre fonti sono in confronto molto meno importanti; ma ci permettono di controllare la vastità della cultura teologica di S. Tommaso.

Di Eusebio di Cesarea ( 265-339 ), p. es., abbiamo una sola citazione.

Ma essa ci permette una constatazione molto importante: mediante la Storia Ecclesiastica di codesto autore, citata al momento opportuno, S. Tommaso mostra di conoscere l'importanza che l'escatologia aveva rivestito nei primordi del cristianesimo, fino al punto di suscitare movimenti di fanatici come quelli dei Catafrigi, e dei Chiliasti.

Nelle opere apologetiche ( tra le quali va ricordato anche l'opuscolo Contra errores Graecorum ) vediamo che il Santo conosceva abbastanza anche l'escatologia ebraica e quella mussulmana, tenendo bene in evidenza le controversie che in materia esistevano tra cattolici e greci scismatici.

Per completare il quadro relativo alle fonti del trattato, dobbiamo almeno accennare ai molti anonimi maestri di cui S. Tommaso si è servito, senza mai citarli espressamente per rispetto verso una tradizione di scuola.

I « quidam » cui egli accenna sono i teologi dei secoli XII e XIII, che avevano insegnato a Parigi e altrove, pubblicando opere meno fortunate, ma non meno valide delle Sentenze di Pietro Lombardo.

Dietro la scorta degli editori della Somma Teologica, sia Leonini che Canadesi, daremo qua e là qualche indicazione in proposito.

Le anime separate e l'escatologia.

8 - Tra tutti i problemi che interessano l'escatologia cattolica non ce n'è uno che sia oggi più discusso e più vitale di quello relativo all'esistenza e consistenza delle anime separate.

Per I'esattezza esso non rientra direttamente tra i temi escatologici, perché le anime separate non sono che in una condizione di trapasso, in una situazione intermedia e non finale.

Ma tutto quello che i teologi hanno detto intorno alle condizioni attuali dei regni d'oltretomba presuppone la loro esistenza.

In seguito però all'apertura del dialogo con i fratelli separati, promosso dal Concilio Ecumenico Vaticano II, molti teologi cattolici, in un'atmosfera antimetafisica e antiscolastica come quella attuale, si sono sentiti a disagio nella difesa delle posizioni tradizionali.

E, per evitare ai cristiani d'Oriente e a quelli riformati d'Occidente ogni fatica per capire la tesi cattolica, hanno accettato sostanzialmente le tesi degli scismatici e quelle anche più radicali dei protestanti.

Questi ultimi respingono il dualismo anima e corpo, perché secondo loro esso non sarebbe di origine biblica, ma filosofica; mentre i Greci Ortodossi si ostinano a considerare le anime dei trapassati prima della resurrezione finale in una specie di ibernazione.

Ecco come nel clima post-conciliare parla della morte, che tutti i catechismi cattolici finora descrivevano quale separazione dell'anima dal corpo, il Nuovo Catechismo Olandese: « Poi l'uomo ritorna alla terra, come una foglia d'autunno, come un animale.

Mistero insopportabile, la morte, cui nessun cuore umano può adattarsi.

La morte non si addice all'uomo.

La morte è radicale.

Non muoiono solo le braccia, le gambe, il busto, la testa. No. Muore tutto l'uomo terrestre.

Su questo punto hanno ragione coloro che non possono ammettere la sopravvivenza; la morte è la fine di tutto l'uomo, quale lo conosciamo.

Il nostro cuore circonda la morte di rispetto.

L'uomo tace di fronte alla morte.

La morte è un mistero ».

E dopo aver affermato che dalla fede nella resurrezione di Cristo scaturisce anche la fede nella resurrezione dei giusti ( ibid. p. 571 ), si prendono in esame « senza preconcetti » ( sic ! ) le parole della Bibbia in cui « pare » che si parli dell'anima separata, arrivando alle seguenti conclusioni: « Ma sulla bocca di Gesù la parola anima non significa uno spirito umano sciolto e fluttuante!

Significa piuttosto, come anche in altre parti della Bibbia, la vita, il nucleo vitale di tutto l'uomo, corpo e spirito.

Il Signore intende dire che qualcosa la parte più autentica dell'uomo, può venire salvata dopo la morte.

Questo qualcosa non è il cadavere che rimane.

Ma il Signore non dice che quel qualcosa esiste senza alcun legame con un nuovo corpo.

Il linguaggio biblico ignora l'anima umana assolutamente incorporea » ( ibid. p. 573 ).

Per evitare l'imbarazzo di fronte all'attesa piuttosto prolungata della resurrezione finale, questi nuovi maestri del dialogo a oltranza, per evitare che il suddetto « qualcosa » il quale attende la resurrezione reclami un suo modus vivendi, vengono a dirci con tutto candore che la resurrezione dei morti è già in atto.

« Stando la centralità della resurrezione di Cristo », scrive E. Ruffini, « e poiché gli eventi escatologici sono da situare al di fuori di ogni categoria temporale, ne consegue che la resurrezione dei morti deve essere stabilita in perfetta simultaneità con quella di Cristo stesso ».

Idee, ovvero fantasticherie del genere possono riscontrarsi in molti autori protestanti, p. es. nell'opera di OSCAR CULLMANN, Cristo e il tempo ( parte IV, c. 3 ), con accenti abbastanza rispettosi verso la posizione cattolica, ma che certo nessun cattolico degno di questo nome può condividere.

Si fa presto a dire che l'interesse dei nostri fedeli e dei nostri teologi per la maniera in cui viene a esistere l'uomo ( non più l'anima separata ), prima della resurrezione finale « costituisce prova di poca fede, è un segno incontestabile che la fede nella già avvenuta resurrezione di Cristo è vacillante ».

Sarebbe facile infatti dimostrare precisamente il contrario.

9 - Ad ogni modo quello che noi contestiamo è la legittimità di questo ostracismo decretato alle anime separate in base a un fanatico attaccamento al testo biblico nella sua materialità e a una non meno fanatica ripugnanza per la filosofia greca in genere e platonica in particolare.

Procedondo con il medesimo criterio, noi dovremmo escludere nel modo più assoluto la sfericità dell'orbe terraqueo, perché non concorda con la Bibbia, e riaffermare la solidità e l'impermeabilità del firmamento, perché così lo immaginavano gli agiografi.551

Ma chiunque abbia un minimo di criterio nell'interpretazione dei testi sacri accetta senza scandalizzarsi l'idea che Dio parlava agli uomini secondo il grado di cultura che essi avevano, senza pretendere dalle persone semplici il linguaggio rigoroso della scienza e della filosofia.

Non è detto però che egli intendeva per questo condannare le indagini oneste e coscienziose della sapienza umana; perché, come ricorda con insistenza S. Tommaso, il Dio della rivelazione è anche il Dio della creazione.

Ora, concepire l'anima del tutto spirituale ( e l'osservazione vale per la concezione stessa della divinità ) è un'impresa che supera la capacità del fanciullo e quella della massa.

Di qui l'esclusione abituale delle anime disincarnate dal linguaggio biblico, che non era indirizzato a un'assemblea di dotti.

Perciò la questione del dualismo sostanziale dell'uomo va trattata a prescindere dal testo sacro.

Quello che importa è che le affermazioni del Vecchio e del Nuovo Testamento non combattono espressamente questa dicotomia risultante dall'indagine filosofica.

Dopo tutto gli stessi sostenitori del nuovo corso, che poi è quello arcaico dell'ignoranza congelata ed elevata a sistema, devono riconoscere che esistono non pochi testi in cui la deprecata dicotomia affiora.

« Il Nuovo Testamento », scrive O. Cullmann nel libro citato, « afferma in più di un passo, che coloro che muoiono in Cristo, sono con Cristo subito dopo la loro morte.

Si pensi alle parole rivolte da Gesù al ladrone "Oggi sarai con me in Paradiso" ( Lc 23,43 ), all'espressione di Paolo nell'epistola ai Filippesi ( Fil 1,23 ): « Desidero ardentemente dissolvermi per essere con Cristo», e ad un lungo brano della seconda lettera ai Corinti ( 2 Cor 5,1-10 ), in cui, riferendosi proprio allo stato intermedio di coloro che muoiono prima del ritorno di Cristo, l'Apostolo si mostra pieno di fiducia.

Ci si è preclusa ogni possibilità di capire questi passi, quando si sono intese espressioni come "essere con Cristo" ed essere "nel seno di Abramo" ( Lc 16,22 ) nel senso di rivestire il corpo spirituale.

Una simile interpretazione dell'essere con Cristo di coloro che in lui sono morti non si trova accennata in nessuno dei passi citati e si può pensare che questi morti siano con Cristo prima che risorgano i loro corpi, prima ancora che essi rivestano un corpo spirituale è ( op. cit., pp. 277 s. ).

10 - Ma accanto a questi riconoscimenti a favore del dualismo, concessi a denti stretti dai suoi oppositori, noi potremmo citare altri testi, persino del Vecchio Testamento.

Nell'Ecclesiaste, per es. troviamo un'espressione drastica sulla diversità della fine che attende il corpo e lo spirito dell'uomo « . . . e la polvere ritorni alla terra donde è venuta, e lo spirito ( il soffio vitale traducono gli esegeti contemporanei ) ritorni a Dio che l'ha dato » ( Qo 12,7 ).

- A proposito poi di questo brano e di altri consimili sarebbe interessante sapere dagli esegeti perché le parole che nei testi biblici indicano l'anima o lo spirito ( ruah, nefeš' ) devono essere ricondotte invariabilmente all'etimologia mediante parafrasi, dal momento che anche i termini corrispondenti pneuma e psiche e in spirito e anima hanno esattamente la stessa etimologia; poiché la massa dei greci e dei latini era refrattaria all'astrazione non meno di quella ebraica possibile che i nostri bravi esegeti abbiano dimenticato la distinzione tra il processo che conduce all'imposizione del nome e l'oggetto preciso che codesto nome è chiamato a significare?

E se codesta distinzione è valida, sarà ben difficile determinare volta per volta il significato di un'espressione in tutta la sua intensità, puntando unicamente sull'etimologia.

Senza contare poi che la scarsità dei testi ebraici di cui disponiamo rende la loro interpretazione molto problematica.

Chiediamo venia al lettore di questa digressione e continuiamo nel proposito di riscontrare la deprecata dicotomia in qualche altro brano del Vecchio Testamento.

Nel 1 Libro dei Re al c. 28 si narra la celebre evocazione del profeta Samuele, già morto, da parte di una negromante a richiesta del re Saul.

È un episodio che mostra bene il sottofondo del culto verso i defunti esistente in mezzo al popolo d'Israele.

Samuele compare e si lamenta di essere stato disturbato dall'evocazione.

Inoltre dopo aver predetto al re la sua rovina aggiunge: « Domani poi, tanto tu che i tuoi figli sarete con me » ( 1 Re 20,3 ).

La sopravvivenza delle anime è qui affermata in una maniera lampante.

Che poi queste anime fossero concepite, o, meglio, immaginate come delle ombre, perché il volgo non sa distinguere tra pensiero e immagine, non dice affatto che secondo la mentalità ebraica esse sarebbero state « tutte d'un pezzo » col loro corpo, che subiva ben altre vicende.

Perciò il dualismo corpo-anima è immanente in tutte le civiltà che esercitano un culto verso i defunti, perché nasce nella persuasione della loro spirituale sopravvivenza.

- I profeti d'Israele combattevano il culto dei morti perché dava facilmente adito alle pratiche dell'idolatria ( di qui la sobrietà con cui parlano dei trapassati ); ma essi non hanno mai detto una parola contro la sopravvivenza della parte spirituale dell'uomo.

Pretendere poi che quei popoli primitivi concepissero la sopravvivenza come continuità di tutto l'uomo, corpo compreso, significa attribuire loro gratuitamente la patente di cretini.552

11 - Ci siamo riferiti ai libri più antichi della Bibbia, perché sono quelli più caratteristici del pensiero ebraico; ma sarebbe anche più facile riscontrare la dottrina della sopravvivenza delle anime separate nei libri più recenti.

Isaia, per es., descrive la discesa agli inferi del re di Babilonia, mostrando la commozione degli abitanti dell'oltre tomba che gli diranno: « Anche tu fosti colpito al pari di noi » ( Is 14,9-11 ).

Nel libro della Sapienza ( Sap 3,1ss ) si ha la celebre descrizione dell'immortalità beata dei giusti, vittime dell'iniquità nella vita presente e quella degli empi costretti a riconoscere il proprio errore.

E nel 2° dei Maccabei ( 2 Mac 12,43-46 ) si ricorda e si loda il gesto di Giuda Maccabeo, il quale volle che si offrissero dei sacrifici in espiazione dei peccati commessi dai caduti in battaglia.

Perciò la fede nella sopravvivenza delle anime in mezzo al popolo ebraico è documentata più che a sufficienza, molto prima della venuta del Signore; e codesta sopravvivenza non si spiega, senza l'accettazione del deprecato dualismo che ci si ostina a definire « platonico ».

Ebbene, il pensiero teologico cattolico, a cominciare dell'epoca dei Padri, non ha fatto altro che approfondire questa dottrina, spiegando che tale sopravvivenza non può essere immaginata, secondo gli schemi ingenui del bambino o della persona ignorante, come una copia più o meno sbiadita o trasfigurata della nostra esistenza terrena.

La parte sostanziale dell'uomo che sopravvive alla morte non può essere concepita, prima della resurrezione finale, che come una realtà del tutto spirituale.

12 - A Platone, secondo la critica assennata dell'Aquinate, dobbiamo rimproverare il tentativo di concepire l'anima quale semplice motore del corpo umano, ossia come uno spirito incarcerato nella carne ( cfr. I, q. 76, a. 1 ).

Nessuno meglio di S. Tommaso ha difeso l'unità dell'essere umano, mediante una concezione ilemorfica veramente radicale e profonda, lottando per tutta la vita, sia contro il neoplatonismo che contro l'averroismo.

Ma i modernissimi oppositori del Platonismo pretendono ben altro.

« Che cosa passa è, scrive José-Maria Gonzales-Ruiz, « tra il momento della morte individuale e la realizzazione piena della promessa divina riferentesi al superamento della morte?

Resta una parte dell'uomo come in stato dl ibernazione aspettando l'aggregazione di tutti gli altri per formare il definitivo popolo di Dio, il popolo dei redenti?

« Non possiamo negare che nella nostra tradizione cristiana e nella successiva formulazione ecclesiale della nostra fede abbiamo messo su con l'immaginazione una costruzione teologica che non dà affatto risposte concrete ai problemi che ci angustiano.

Sono valide queste risposte?

S'impone anche un compito di demitizzazione delle nostre formulazioni, comprese quelle dogmatiche?

Credo che questo compito sia essenziale.

Se siamo d'accordo nell'intraprendere un serio lavoro di demitizzazione biblica, perché resistiamo all'inevitabile demitizzazione dogmatica?

C'è dunque in programma la demitizzazione delle anime separate.

Ma quello che preoccupa in codesto programma è il fatto che i promotori, oltre ad essere sprovvisti delle necessarie attrezzature filosofiche, non si accorgono di essere in ritardo di secoli.

Infatti l'affermazione cosciente della perfetta spiritualità delle anime separate non è che il superamento dei miti dell'oltre tomba.

Non si capisce quindi che cosa ci sia da demitizzare.

Per ora noi vediamo in azione un fatto emotivo: il desiderio di correre incontro ai fratelli separati, sopratutto ai teologi protestanti di tendenza fideista, i quali non hanno da offrirci che una buona dose di fanatismo antiscolastico, a tutto favore di un agnosticismo filosofico il quale distrugge alla radice ogni possibilità di raggiungere quello certezze primordiali che costituiscono i praeambula fidei.

Senza la chiara affermazione dell'immortalità dell'anima e quindi delle anime separate, non solo crolla la psicologia razionale espressa dalla più profonda e feconda tradizione filosofica dell'occidente, ma crolla il trattato dei novissimi, così come è stato concepito dalla teologia cattolica.

13 - Il platonismo e l'aristotelismo non sono che nomi quello che conta è la verità, la quale va amata e cercata per se stessa.

E d'altra parte è innegabile che la prima espansione del cristianesimo nel mondo ellenistico non può essere attribuito al fato o all'influsso maligno di qualche costellazione, bensì alla Divina Provvidenza.

E se è vero che l'ellenismo ha influito con il dualismo anima-corpo a formare intere generazioni di asceti, di vergini, di anacoreti e di cenobiti, non c'è che da ringraziarne Iddio.

Perché codesti uomini rivestirono « la mansuetudine e modestia di Cristo » molto meglio dei fideisti moderni che vogliono negano.

È risaputo inoltre che al fondo di cento dialogo a tutti i costi c'è l'agnosticismo, cioè una filosofia assai meno conciliabile col cristianesimo di quanto lo fossero il platonismo e l'aristotelismo.

Perciò bisogna riconoscere che l'escatologia è un banco di prova per il dialogo ecumenico; ma se da parte cattolica codesto dialogo dovesse continuare con simili interlocutori, avremmo aperto le porte all'eresia, anzi alla negazione di ogni certezza.

Ma, per grazia di Dio, con ben altra autorità Paolo VI si è così espresso nel solenne atto di fede al termine dell'anno centenario dei SS. Apostoli Pietro e Paolo: « Noi crediamo nella vita eterna.

Noi crediamo che le anime di tutti coloro che muoiono nella grazia di Cristo, sia che debbano ancora essere purificate nel Purgatorio, sia che dal momento in cui lasciano il proprio corpo siano accolte da Gesù in Paradiso, come egli fece per il buon ladrone, costituiscono il popolo di Dio nell'aldilà della morte, la quale sarà definitivamente sconfitta nel giorno della resurrezione, quando queste anime saranno unite ai propri corpi.

Noi crediamo che la moltitudine delle anime, che sono riunite intorno a Gesù ed a Maria in Paradiso, formano la Chiesa del Cielo, dove esse nella beatitudine eterna vedono Dio così com'è e dove sono anche associate, in diversi gradi, con i santi Angoli al governo esercitato da Cristo glorioso, intercedendo per noi ed aiutando la nostra debolezza con la loro fraterna sollecitudine.

Noi crediamo alla comunione tra tutti i fedeli di Cristo, di coloro che sono pellegrini su questa terra, dei defunti che compiono la propria purificazione e dei beati del Cielo, i quali tutti insieme formano una sola Chiesa ».

Questa è l'escatologia in cui la Chiesa Cattolica può riconoscersi.

IV Parti caduche del trattato

14 - La riaffermazione dell'escatologia tradizionale non deve parò impedirei di riscontrare nell'esposizione tomistica e in quella dei teologi suoi contemporanei la parte caduca.

Nessun documento del magistero ci obbliga a sostenere che il giudizio universale dovrà svolgersi nella valle di Giosafat, sebbene quei teologi ne fossero persuasi, perché legati all'interpretazione restrittiva di un passo della Bibbia ( Gl 3,2 ).

Meno ancora ci sentiamo vincolati dalla cosmologia escatologica.

La localizzazione dei regni d'oltre tomba come la immaginavano i nostri medioevali è concepita su misura rispecchia cioè la cosmologia che era allora patrimonio comune, sia dei credenti che dei non credenti.

Aveva certamente la sua bellezza, se pensiamo che Dante Alighieri ha potuto renderla in forma poetica nel suo capolavoro con accenti spesso addirittura sublimi.

Ma non è proponibile ad una generazione come la nostra, che ha visto spalancarsi sotto gli occhi un universo dalle proporzioni immense e indefinite, in cui il nostro pianeta, ben lungi dal costituire il centro fisico dell'universo, ci appare qual è una particella quasi sperduta e insignificante tra i miliardi di stelle che formano la nostra galassia.

Per non smarrirsi in questo universo, che certamente non è « a misura d'uomo », noi siamo costretti a ripiegare sull'analisi metafisica degli esseri che ci circondano.

Allora soltanto potremo comprendere che la vera gerarchia delle cose non può dipendere dall'estensione, ma dall'intensità dell'essere e della vita.

Anzi ben presto ci accorgiamo che nessuna scienza puramente umana, né positiva né filosofica, potrà dire una parola sicura sul valore della nostra esistenza, sia individuale che collettiva.

Ogni nostro sforzo e tutto il travaglio della nostra civiltà ci si presenta come aleatorio: basta un fenomeno macrocosmico che interessi il nostro sistema solare per distruggere ogni traccia di vita umana.

E d'altra parte basta il lento e inesorabile logorio del tempo a cancellare ogni traccia della nostra esistenza personale.

La storia medesima degli eventi umani non è tale da dare una risposta tranquillizzante.

In una situazione così incerta l'uomo sente più che mai il bisogno di chiedere soccorso alla rivelazione divina.

Dio solo è in grado di svelarci il suo disegno, che può liberare l'uomo dalla tentazione di rassegnarsi a vivere come le bestie, o a quella di lottare disperatamente e inutilmente contro un cieco destino.

15 - S. Tommaso ha assolto al suo tempo la funzione di trasmettere il messaggio divino sulle eterne speranze dell'umanità.

In un'epoca in cui la cosmologia aristotelica pareva identificarsi con la scienza, egli tentò onestamente di constatare l'accordo tra la rivelazione divina e le teorie aristoteliche sui moti celesti.

Al De Coelo et Mundo dello Stagirita dedicò uno dei suoi commenti più impegnativi; e così si accinse a fare per il De Generatione et Corruptione.

Con ogni probabilità egli si preparava così a una rielaborazione più approfondita del trattato sui novissimi.

Infatti secondo l'aristotelismo cristiano, il moto dei cieli e la generazione delle piante, degli animali e degli stessi corpi composti dovevano incontrare il loro termine invalicabile nella resurrezione finale ( cfr. q. 91 ).

Il suo, dopo tutto, era un tentativo concordista: il tentativo di mettere in consonanza la fede con le scienze.

Ma si trattava di un'impresa la cui ingenuità oggi ci fa sorridere.

Forse però il fallimento dell'impresa ha qualche cosa da insegnare ai teologi del nostro tempo.

Per lo meno può suggerire molta cautela per non confondere le prospettive di due ordini così diversi di conoscenza.

Del resto S. Tommaso stesso reagisce in questo senso contro certi suoi contemporanei, che credevano di poter stabilire in base alle scienze il tempo approssimativo della fine del mondo.

Egli giustamente li contraddice, ricordando che la fine di cui ci parla la rivelazione divina non è di ordine naturale ( q. 75, a. 3; q. 77, a. 2c, ad 1 ).

Indice

551 A proposito degli esseri viventi è ben difficile sfuggire all'argomentazione dell'Aquinate che dimostra nel modo più rigoroso la distinzione tra anima e corpo: La vita si manifesta specialmente nella duplice attività della conoscenza e del movimento.
Gli antichi filosofi, che non riuscivano ad elevarsi al di sopra dell'immaginazione, ritenevano che il principio di tali attività fosse un corpo; perciò affermavano che i soli corpi sono esseri reali e che fuori di essi non vi è che il niente.
In base a ciò, dicevano che l'anima non è che un corpo. « Sebbene si possa mostrare la falsità di tale opinione in molte maniere, tuttavia useremo un solo argomento, che, per la sua universalità e certezza, prova come l'anima non sia un corpo.
Infatti è evidente che non ogni principio di operazioni vitali è un'anima, altrimenti anche l'occhio sarebbe anima, essendo principio dell'operazione visiva; e lo stesso potremmo dire degli altri organi dell'uomo.
Noi invece chiamiamo anima il primo principio della vita.
Ora, benché un corpo possa essere in un certo senso principio di vita, il cuore per es. , è principio di vita nell'animale, tuttavia un corpo non potrà mai essere primo principio di vita infatti manifesto che al corpo, in quanto corpo, non appartiene né di essere principio dl vita, né di essere un vivente: altrimenti ogni corpo sarebbe vivente, o principio di vita. Dunque, se un corpo è vivente o principio di vita, ciò dipende dal fatto che esso è tale corpo.
Ora un essere è attualmente tale in forza di un principio, che viene chiamato il suo atto.
Perciò l'anima, la quale è il primo principio di vita, non è un corpo, ma atto di un corpo: come il calore, che è principio del riscaldamento, non è un corpo, ma l'atto ( o la perfezione ) di un corpo ( I, q. 75, a. 1).
Vorremmo sapere dai modernissimi teologi perché questo ragionamento è da considerarsi superato, e se essi lo considerino filosofia platonica o semplice buon senso. Non abbiamo nessuna difficoltà a concedere che il tentativo tomistico di determinare la conoscenza delle anime separate ( cir. I, q. 89 ) e persino Il comportamento della loro volontà ( cfr. 4 Cont. Gent., cc. 92-95 ) è molto meno persuasivo, sebbene l'indagine sia condotta con rigore e sobrietà; perché in codesti particolari avvertiamo la necessità di verificare l'ipotesi razionale con dei dati sperimentali, che purtroppo nessuno può fornirei. Ben diverso è invece il caso della spiritualità e quindi dell'immortalità dell'anima, che per essere dimostrata richiede soltanto l‟analisi razionale delle funzioni superiori dello spirito, che risultano del tutto Irriducibili alle categorie di ordine corporeo e materiale (cfr. I, q. 75, aa. 2 ss )
552 Va notato che la mentalità ebraica è così lontana dal concepire l'uomo come « tutto d'un pezzo, che analizzando bene i testi si riscontra addirittura una tricotomia corpo, anima e spirito ( o soffio vitale ).
Quest'ultimo sembra concepito come influsso diretto di Dio, quale partecipazione di vita emanante da Dio stesso ( cfr. LEON DUFOUR X., Dizionario di Teologia Biblica, coll. 54 s. ).
Comunque l'affermazione che la morte secondo gli ebrei colpisce l'uomo in blocco non ha senso, se con essa si vuole intendere che la morte distrugge ugualmente l'anima e il corpo: perché la parte che scende nello Sheol non è affatto identificata col corpo rimasto privo di vita, e non è mai affermato che assume un altro corpo.