Baruc |
Il libro attribuito a Baruc contiene materiali diversi, sia per genere letterario che per epoca di composizione.
Si può pensare ad un'antologia, composta da queste parti:
Prologo storico ( 1,1-15a )
Liturgia penitenziale ( 1,15b-3,8 )
Inno alla sapienza ( 3,9-4,4 )
Omelia profetica di consolazione ( 4,5-5,9 )
Lettera di Geremia ( 6,1-72 ).
Il libro di Baruc, pur raccogliendo elementi diversi, insiste su tre tematiche:
il peccato d'Israele riconosciuto e confessato;
l'impegno di conversione;
la speranza fiduciosa nella bontà di Dio.
Il peccato è visto come rifiuto di ascoltare la voce del Signore, disprezzo dei suoi comandamenti, abbandono della sapienza.
Di fronte a questi comportamenti umani, si stagliano la giustizia, la fedeltà, la bontà e la misericordia di Dio.
Il c. 6 ( Lettera di Geremia ) è uno scritto polemico contro l'idolatria, in particolare contro la religione babilonese.
Nel prologo ( 1,1-15a ), l'opera viene attribuita a Baruc, il segretario di Geremia.
Si tratta di un caso di "pseudepigrafia", cioè di attribuzione fittizia di uno scritto a un personaggio famoso.
Dato il carattere antologico del libro, può darsi che le diverse parti siano state redatte in circostanze e momenti diversi.
Per questo è difficile stabilire con precisione la data di composizione del libro, in particolare dei primi cinque capitoli.
Alcune somiglianze con il libro di Daniele fanno pensare al II sec. a.C.; nello stesso periodo va forse collocata anche la stesura della Lettera di Geremia ( c. 6 ).
I destinatari di questa raccolta di scritti sono certamente da ricercare tra gli Ebrei della diaspora, cioè tra coloro che, anche dopo l'editto di Ciro del 538, non avevano voluto o potuto ritornare.
Vivevano come cittadini leali del paese in cui si trovavano, ma mantenevano un forte legame con Gerusalemme e con il tempio.
La Lettera di Geremia è un esempio dell'attività apologetica di questi Ebrei, a difesa della loro fede, cercando di mostrarne la superiorità rispetto alle religioni pagane.
Il libro, almeno in alcune sue parti ( se non tutte ), fu scritto originariamente in ebraico o aramaico; il testo che possediamo, però, ci è pervenuto nella versione greca dei LXX.
Nella nostra Bibbia, che segue l'uso della Vulgata latina, del libro di Baruc fa parte anche la Lettera di Geremia ( 6,1-72 ), che nei manoscritti greci antichi invece è riportata altrove.
Il libro di Baruc non fa parte del canone ebraico: è un testo deuterocanonico.
Leggendo Ger., si intravvede la simpatica figura di un discepolo, di cui si paria poco in maniera diretta ( Ger 32,12-14; Ger 36,4-6.10.15.18.32; Ger 45,1ss ), ma la cui ombra sembra riflettersi sempre intorno al profeta di Anatot.
È il segretario Baruch, che accompagnerà il profeta in Egitto ( Ger 43,2-6 ).
Dopo tale notizia non abbiamo più tracce sicure del figlio di Neria e fratello di Seraia ( Ger 51,59 ).
I critici moderni hanno rivendicato alla sua penna una parte notevole di Ger.
La tradizione ha tramandato sotto il suo nome un'opera breve, il libro di Baruch.
Il libriccino si compone di un'introduzione e quindi di tre parti, assai brevi ma nettamente distinte fra di loro.
L'introduzione ( 1,1-14 ) descrive la genesi del libro.
Baruch lo legge con grande effetto a un gruppo di esuli presso il fiume Sud ( 1,1-5 ).
La riunione si conclude con atti di penitenza e con una colletta per gli abitanti di Gerusalemme, ai quali si mandano denaro e vasi sacri ( 1,6-9 ) con una lettera ( 1,10-14 ) per invitarli alla preghiera per gli esuli e per il re di Babilonia.
La prima parte ( 1,15-3,8 ) contiene una lunga preghiera imperniata sull'umile confessione dei peccati ( 1,15-2,35 ) e una supplica per la liberazione e il ritorno dall'esilio ( 3,1-8 ).
Nella seconda parte ( 3,9-4,4 ) si legge una lode alla sapienza, inaccessibile agli uomini ma proprietà naturale di Dio ( 3,15-36 ), che l'ha partecipata al popolo ebraico con la sua legge ( 3,37-4,4 ).
La terza parte ( 4,5-5,9 ) contiene un'esortazione, in cui Gerusalemme personificata invita il popolo - specialmente i deportati - alla speranza, minacciando le nazioni vicine ( 4,5-29 ), e un'apostrofe del profeta alla città, cui si promettono il ritorno dall'esilio dei deportati e un nuovo splendore ( 4,30-5,9 ).
Si tratta di un piccolo libro, ma prezioso sia per quanto lascia intravvedere sulla vita dei deportati in Babilonia sia per la dottrina.
Dall'introduzione, che è in prosa narrativa, possiamo formarci un quadro approssimativo dei deportati, che iniziano una vita nuova, per la quale non mancano prospettive di un probabile successo economico.
Essi non dimenticano, però, la patria di origine, dove inviano denaro e oggetti sacri.
Assistiamo anche a un raduno, che deve essere un po' il tipo delle riunioni liturgiche, quali si svolsero poi nelle sinagoghe.
Nella prima parte ( 1,15-3,8 ) abbiamo una preghiera penitenziale, genere letterario abbastanza frequente nella Bibbia, specialmente nel Salterio.
Il brano è importante, perché manifesta una lettura assidua di altri libri sacri, in modo particolare di Deut. e di Ger.
Dal lato letterario esso ha una relazione tutta speciale con Dn 9,4-19; ma è possibile che la dipendenza sia dalla parte di Dan.
Nella lunga preghiera dal lato dottrinale si possono segnalare non pochi attributi divini e la profonda disamina del peccato nazionale: la disubbidienza alla legge.
La seconda parte ( 3,9-4,4 ) non si può facilmente definire dal punto di vista letterario.
La prima impressione è che siamo davanti a una poesia gnomica con spiccate analogie con i libri sapienziali ( Giob., Prov., Eccli., Sap.), ma non mancano elementi lirici e anche brani, sul cui carattere poetico è lecito esprimere qualche dubbio.
Dal lato teologico il brano è importante per i vari attributi di Dio e specialmente per la vivace personificazione della sapienza che ha una parte notevole nella teologia dell'A. T.
In Bar, però, è chiaro che la sapienza è identificata con la legge o con il complesso della rivelazione fatta al popolo ebraico ( 4,1 ).
Nella terza parte ( 4,5-5,9 ) si ha il medesimo sfondo supposto da Is 40-66.
Si ha lo stesso genere letterario quasi indefinibile, in quanto comprende parecchie descrizioni del disastro, grida di speranza e la visione idillica del ritorno e della nuova Gerusalemme.
Anche qui si nota la dottrina teologica espressa nella prima parte: Dio unico vero attore nella storia, relazione fra l'esilio e il peccato ecc.
La diversità delle parti ha reso molto complessa la questione dell'A.
Ormai ben pochi si assumono il compito - letterariamente poco attraente - di difendere l'unicità dell'A.
La terza parte per lo sfondo che riflette, per il modo di procedere, per la lingua ecc. non sembra ascrivibile all'A., che compose la prima o la seconda.
Essa deve essere stata scritta quando il crollo di Babilonia si profilava con sicurezza; quindi poco prima del 539, quando Baruch con ogni probabilità era già morto.
Il carattere gnomico della seconda parte consiglia di ravvicinarla ai libri sapienziali.
Essi rispecchiano un'epoca particolare della letteratura biblica con problemi specifici e con temi preferiti.
La mancanza di riferimenti sicuri alla sapienza greca invita a non limitare a un periodo storico troppo tardivo tale epoca.
Tenendo conto della tendenza degli esegeti moderni nell'assegnare una data a Giob. e alla sezione dei Prov. che ha maggiori affinità con la nostra pericope, crediamo che il periodo persiano sia il più verosimile.
Non vediamo, invece, ragioni serie, per cui si debba negare l'autenticità della prima parte, cosi satura del pensiero e dello stile di Ger.
Essa è l'opera di Baruch che la scrisse a Babilonia dove si era recato dopo la scomparsa di Geremia.
Ma non mancano autori anche cattolici, che pongono tutto il libro in un'epoca più tardiva.
Le tre parti furono scritte in ebraico; ora abbiamo soltanto le versioni.
La più antica - da cui provengono le altre - è quella greca.
In latino esistono quattro tipi di testo, che sembrano derivare però da un'unica traduzione primigenia.
Bar. è un libro deuterocanonico, ossia esso manca nel canone ebraico.
Siccome l'appartenenza al canone o meno non è altro che effetto del giudizio circa l'ispirazione divina o no dell'opera, un cattolico non può dubitare su tale carattere, perché vari Concili della Chiesa espressamente affermarono l'ispirazione e la canonicità del libro.
Lettera di Geremia: Nel testo latino Bar. termina con il lungo c. 6, presentato come copia della Lettera di Geremia ai deportati in Babilonia.
Nella Bibbia greca l'operetta è data come un libro a sé e di solito segue Lam., mentre Bar. le precede.
La denominazione Lettera è impropria; si tratta piuttosto di un'allocuzione o esortazione.
Eccettuata la notizia contenuta nella breve prefazione, nessun elemento stilistico ricorda il genere epistolare.
Il lungo c. è una sarcastica confutazione dell'idolatria babilonese, che l'A. mostra di conoscere bene per informazione diretta.
Non è una confutazione filosofica, ma una forte stroncatura basata sul concetto feticistico degli idoli.
Tale modo di procedere, che aveva efficacia perché in realtà neppure il clero babilonese distingueva fra la divinità e il suo idolo di metallo o di legno, è perfettamente consono alla polemica antidolatrica della Bibbia.
Esso compare anche in Filone d'Alessandria ( De Decalogo, 74 ) e fu adottato da non pochi apologisti cristiani.
La Lettera presenta affinità maggiori con Ger 10,3-16 e Is 40,19s; Is 41,23; Is 44,9-20; Is 45,6.20; Is 46,6s
È il sistema che compare anche in alcuni Salmi ed in modo molto più sviluppato in Sap 13,10-19; Sap 14,8-21; Sap 15,15ss
Ora quasi tutti gli studiosi riconoscono che la Lettera fu scritta in ebraico o, al massimo, in aramaico, come risulta da un errore di traduzione nel penultimo v. ( ved. nota ).
Molti autori sostenevano un originale greco o perché vedevano nell'idolatria condannata il pantheon egiziano ( cosa comunemente negata oggi ) o perché ritenevano troppo elegante la lingua greca dell'operetta per considerarla traduzione di un testo semita.
Vari autori cattolici ancora difendono l'attribuzione dello scritto a Geremia; ma si fa sempre più strada l'opinione che esso è stato tramandato sotto il nome del grande profeta a causa di una affinità con il suo libro e per influsso delle notizie registrate in Ger 29,1ss e in 2 Mac 2,2.
L'attribuzione dimostra quanto fosse stimato e ammirato Geremia.
Tutta la letteratura riguardante l'esilio ( Lam., Bar., Lettera di Geremia ) fu ascritta a lui oppure al suo segretario.
Ma solo con una certa violenza si possono conciliare le sette generazioni del v. 2 con i settanta anni di Ger 25,11; Ger 29,10; è ben difficile che le due espressioni possano essere attribuite allo stesso autore.
Anche la singolare relazione della Lettera con testi di Ger. e di Is. non depone in favore della attribuzione a Geremia.
Infine tutto il tono dello scritto pare diverso da quello di Ger.
Alcuni concetti, come quelli dei vv 49.55, appaiono poco opportuni in un'allocuzione di Geremia ai miseri prigionieri, i quali avevano assistito allo sfacelo della nazione e alla distruzione del tempio.
Anche l'esclusione della Lettera dal canone ebraico si spiega molto difficilmente; se si ammette che la sua composizione risalga a Geremia.
Il rapporto fra 2 Mac 3,2 e la Lettera è assai discusso.
È probabile che 2 Mac. si riferisca a uno scritto apocrifo di Geremia, ora perduto.
L'A., perciò, è ignoto; egli scrisse in ebraico, quando ancora la religione babilonese esercitava un fascino deleterio.
Quest'ultima condizione non esige un tempo tanto antico, ossia prima del 539, anno della caduta di Babilonia.
Sappiamo, infatti, che la religione continuò con momenti di splendore e di fascino fino all'epoca seleucida.
Per questo è possibile che l'A. ignoto abbia composto l'opera durante il periodo persiano oppure al principio di quello greco.
Il carattere di libro ispirato dello scritto è stato solennemente definito nei Concili, che si occuparono dei libri sacri.
La Lettera è un libro deuterocanonico, perché manca nella Bibbia ebraica.
Già nei tempi più antichi della Chiesa lo scritto è citato come un libro ispirato.
Don Federico Tartaglia
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