Regola pastorale |
Diverso è il modo di ammonire i pigri e i precipitosi.
I primi bisogna persuaderli a non perdere quei beni di cui differiscono l’adempimento; gli altri invece bisogna ammonirli che, col prevenire incautamente, per la loro fretta, il tempo di fare certe opere buone, rischiano di mutarne i meriti.
E così bisogna inculcare nei pigri che ciò che spesso non vogliamo fare al momento opportuno mentre lo possiamo, poco dopo, quando lo vorremmo, non ne siamo più in grado; poiché la stessa pigrizia della mente, se non viene accesa e stimolata da un ardore appropriato, viene uccisa del tutto, quanto al desiderio delle buone opere, da un torpore sotterraneo e crescente.
Perciò è detto apertamente per mezzo di Salomone: La pigrizia fa venire sonno ( Pr 19,15 ).
Il pigro infatti, nella rettitudine del suo sentire, si può dire che veglia, nonostante il torpore del suo non far nulla; ma si dice che la pigrizia fa venire sonno, perché, se si cessa dalla pratica del bene operare a poco a poco si perde anche la vigilanza del retto sentire.
Perciò giustamente prosegue: E l’anima indolente soffrirà la fame ( Pr 19,15 ).
Infatti, poiché non si dirige verso l’alto col suo sforzo, con la trascuratezza di sé, si espande verso il basso, nei suoi desideri; e non essendo costretta dal vigore di interessi elevati, è ferita dalla fame di una bassa cupidigia, così che quanto più trascura di legarsi alla disciplina tanto più si dissipa, affamata, nei desideri dei piaceri.
Perciò ancora dal medesimo Salomone è scritto: Ogni ozioso vive nei desideri ( cf. Pr 21,26 ).
Perciò la Verità stessa ci annuncia che quando uno spirito immondo è uscito da una casa questa è pura, ma se quando quello ritorna essa è vuota, viene poi occupata da spiriti tanto più numerosi ( cf. Mt 12,44 ).
Spesso il pigro, mentre trascura di fare le cose necessarie, alcune se le immagina difficili e altre le teme infondatamente; e trovata la scusa con cui giustificare il suo timore, pretende di dimostrare che il suo dormire in ozio non è ingiustificato.
A lui bene viene detto per mezzo di Salomone: Il pigro non ha voluto arare per il freddo; dunque in estate andrà a mendicare, e non gliene daranno ( Pr 20,4 ).
Il pigro non ara per il freddo quando, costretto dal sonno della pigrizia, trascura di fare le opere buone che deve; non ara per il freddo quando tralascia di fare cose importanti per timore di piccoli mali in contrario.
Ed è ben detto: In estate andrà a mendicare e non gliene daranno, infatti chi ora non fatica nelle buone opere, quando il sole del giudizio apparirà più bruciante, in quella estate, mendicherà senza ricevere nulla perché invano andrà a questuare all’ingresso del Regno.
E di nuovo per mezzo del medesimo Salomone si dice giustamente a costui: Chi bada al vento non semina; e chi considera le nubi non miete ( Qo 11,4 ).
Che cosa si esprime col vento se non la tentazione degli spiriti maligni?
E che cosa con le nubi, che sono mosse dal vento, se non le ostilità di uomini iniqui?
Evidentemente, le nubi sono spinte dai venti perché gli uomini iniqui sono eccitati dal soffio degli spiriti immondi; pertanto, chi bada al vento non semina, e chi considera le nubi non miete mai, perché chi teme la tentazione degli spiriti maligni e chi teme la persecuzione di uomini iniqui né semina il grano delle buone opere né taglia i covoni della santa retribuzione.
Al contrario, i precipitosi che prevengono il tempo delle buone azioni, ne pervertono il merito e spesso cadono nel male perché non hanno alcun discernimento del bene.
Essi non indagano quale sia il momento giusto di compiere qualcosa, ma per lo più se ne rendono conto solo quando l’hanno fatta, con l’accorgersi che così non avrebbero dovuto farla.
Ad essi, come a chi ascolta, viene detto da Salomone: Figlio, non fare nulla senza consiglio, e dopo che l’hai fatto non ti pentirai ( Sir 32,24 ).
E ancora: Le tue palpebre precedano i tuoi passi ( Pr 4,25 ).
Le palpebre precedono i passi quando retti consigli prevengono il nostro agire.
Chi infatti trascura di considerare in precedenza ciò che prevede di fare, drizza i suoi passi, chiude gli occhi e giunge al termine del suo cammino, ma non si fa precedere dalle sue stesse previsioni e perciò cade a terra più rapidamente, perché non fa attenzione, attraverso la palpebra del consiglio, a dove deve mettere il piede dell’opera.
Diverso è il modo di ammonire i mansueti e gli iracondi.
Spesso infatti, quando i mansueti hanno qualche responsabilità di guida, soffrono di una certa lentezza di decisione unita alla loro mitezza; e per lo più, per via di una pacatezza eccessivamente rilassata, addolciscono oltre il necessario il vigore della severità.
Al contrario, gli iracondi, quando ricevono posti di governo, quanto più si lasciano travolgere dall’impeto dell’ira all’esagitazione della mente, tanto più turbano anche la vita dei sudditi disperdendone la tranquillità e la pace.
Quando il furore li spinge a trascendere inconsideratamente, ignorano ciò che fanno nell’impeto dell’ira e anche il male che nell’impeto dell’ira ricevono da se stessi.
Spesso però, ciò che è più grave, giudicano lo stimolo della propria ira zelo di giustizia; e quando il vizio passa per una virtù, senza timore si accumula colpa su colpa.
Infatti, spesso, i mansueti intorpidiscono per la noia della rilassatezza; e gli iracondi peccano per zelo di rettitudine.
Pertanto, per i primi, si tratta di un vizio che nascostamente si aggiunge a una virtù; agli altri invece, il proprio vizio appare come virtù ardente.
Dunque, bisogna ammonire quelli a fuggire ciò che hanno presso di sé, e questi a badare a ciò che hanno in sé; quelli discernano ciò che non hanno, questi ciò che hanno: i mansueti abbraccino la sollecitudine; gli iracondi bandiscano l’agitazione.
Bisogna ammonire i mansueti che si studino di avere spirito di emulazione per la giustizia; e gli iracondi ad aggiungere la mansuetudine a questo medesimo spirito che essi credono di possedere.
Perciò infatti lo Spirito Santo ci si è mostrato come colomba e come fuoco, per presentarci tutti quelli che riempie, mansueti per la semplicità della colomba e ardenti per il fuoco dello zelo.
Pertanto, non è pieno dello Spirito Santo né colui che, tranquillo della sua mansuetudine, tralascia il fervore dello zelo, né colui che ancora per l’ardore dello zelo, perde la virtù della mansuetudine.
Ma forse ci spieghiamo meglio se portiamo come esempio il magistero di Paolo, il quale, a due discepoli, forniti di non diversa carità, dà tuttavia consigli diversi, per la predicazione.
Infatti, ammonendo Timoteo dice: Confuta, esorta e rimprovera con ogni pazienza e dottrina ( 2 Tm 4,2 ); ammonisce anche Tito dicendo: Di’ queste cose ed esorta e confuta con ogni autorità ( Tt 2,15 ).
A che cosa si deve che egli applichi tanto sapientemente la sua dottrina che, nel proporla, ad uno consiglia l’autorità e all’altro la pazienza, se non al fatto che conosceva lo spirito più mansueto di Tito e quello un poco più fervido di Timoteo?
Perciò infiamma quello, con l’amore dello zelo e modera questo, con la dolcezza della pazienza: aggiunge ciò che manca all’uno e toglie ciò che è di troppo nell’altro; si sforza di stimolare il primo e di frenare il secondo, e come grande agricoltore della Chiesa che ha ricevuto, annaffia alcuni rami perché crescano, e altri che vede crescere più del normale li pota affinché non accada che, o non crescendo non portino frutto o crescendo eccessivamente perdano quello che hanno già dato.
Ma è molto diversa l’ira che accompagna l’emulazione per la giustizia, dall’ira che turba un cuore agitato e senza pretesto di giustizia.
Nel primo caso, infatti, essa si estende disordinatamente a ciò che è doveroso, nell’altro invece si accende sempre indebitamente.
Perciò bisogna sapere che gli impazienti differiscono dagli iracondi in ciò, che quelli non sopportano ciò che viene loro imposto da altri; questi invece sono loro a provocare ciò che gli altri devono sopportare.
Infatti gli iracondi, spesso, assalgono anche coloro che si ritirano, provocano occasioni di risse, godono di affaticarsi in contese.
Costoro tuttavia si correggono meglio se ci si tira indietro nell’eccitazione della loro ira, perché in quel momento ignorano ciò che viene detto loro, ma ritornati in sé, accolgono tanto più liberamente le parole di esortazione quanto più arrossiscono di essere stati sopportati in pace.
Giacché, qualunque cosa giusta si dica a una mente ebbra di furore, le parrà sempre sbagliata.
Perciò anche, a Nabal ubriaco, Abigail tacque lodevolmente la sua colpa che, altrettanto lodevolmente, gli disse solo quando egli ebbe smaltito il vino ( cf. 1 Sam 25,37 ); e perciò egli poté conoscere il male che aveva compiuto e che non gli fu detto quando era ubriaco.
Quando però gli iracondi assalgono gli altri in modo che essi non possano in alcuna maniera ritirarsi, bisogna affrontarli non con aperto rimprovero ma usando verso di loro il riguardo di un certo cauto rispetto.
Cosa che si intende meglio con l’esempio di Abner.
Di lui, quando Asael lo inseguiva con violenza precipitosa e incauta, è scritto: Abner parlò ad Asael dicendo: Ritirati, non inseguirmi che io non sia costretto a trafiggerti in terra.
Ma quello disprezzò l’avvertimento e non volle ritirarsi.
Allora Abner lo colpi con la parte posteriore della lancia, nell’inguine, e lo trafisse e mori ( 2 Sam 2,22-23 ).
E di chi è figura Asael se non di coloro che quando il furore li coglie con violenza, li trascina a precipizio?
Costoro sono da evitare tanto più cautamente nell’impeto dell’ira in quanto ne sono anche trascinati come folli; perciò anche Abner - che nella nostra lingua significa lucerna del padre - fugge; perché la lingua dei maestri, che indica la luce celeste di Dio, quando vede la mente di qualcuno portata per i precipizi del furore, e trascura di restituire le frecce delle sue parole contro l’irato, è come chi non vuol ferire il suo persecutore.
Ma quando gli iracondi non si acquietano con alcun ragionamento e, come Asael non cessano di perseguitare e comportarsi da pazzi, è necessario che coloro i quali cercano di trattenere i furiosi, non si erigano anch’essi con furore, ma mostrino tutta la possibile tranquillità; facciano cioè qualche sottile osservazione che colpisca indirettamente l’animo di colui che infuria.
Perciò anche Abner, quando ristette contro colui che lo inseguiva, non lo trapassò con la lancia diritta ma rovesciata; poiché percuotere con la punta corrisponde ad affrontare d’impeto con un aperto rimprovero; invece, ferire con la parte posteriore della lancia vale toccare tranquillamente il furioso con qualche argomento e vincerlo quasi risparmiandolo.
Asael tuttavia cadde subito perché le menti eccitate, mentre sentono che si ha riguardo per loro, toccate con tranquillità nell’intimo dalla ragionevolezza delle risposte, cadono improvvisamente da quello stato di esaltazione a cui si erano innalzati.
Così, coloro che sotto un leggero colpo piombano dall’impeto del loro ardore, sono come chi muore quasi senza ricevere ferita di spada.
Diverso è il modo di ammonire gli umili e gli orgogliosi.
Ai primi bisogna suggerire quanto sia vera quella superiorità che possiedono nella speranza; gli altri bisogna persuaderli quanto nulla valga la gloria temporale che essi, pur tenendola stretta, non possiedono.
Ascoltino gli umili quanto è eterno ciò a cui aspirano e quanto è transitorio ciò che trascurano; e gli orgogliosi ascoltino quanto è passeggero ciò che ambiscono ed eterno ciò che perdono.
Ascoltino gli umili, dalla maestra voce della Verità: Chi si umilia sarà esaltato ( Lc 18,14 ); ascoltino gli orgogliosi: Chi si esalta sarà umiliato ( Lc 18,14 ).
Ascoltino gli umili: L’umiltà precede la gloria ( Pr 15,33 ); ascoltino gli orgogliosi: Lo spirito si esalta prima della rovina ( Pr 16,18 ).
Ascoltino gli umili: A chi volgerò lo sguardo se non all’umile e tranquillo e che teme le mie parole? ( Is 66,2 ); ascoltino gli orgogliosi: Perché insuperbisce la terra e la cenere? ( Sir 10,9 ).
Ascoltino gli umili: Dio volge lo sguardo alle cose umili ( Sal 138,6 ); ascoltino gli orgogliosi: e conosce da lontano le alte ( Sal 138,6 ).
Ascoltino gli umili: Poiché il Figlio dell’Uomo non è venuto per essere servito ma per servire ( Mt 20,28 ); ascoltino gli orgogliosi: poiché la superbia è l’inizio di ogni peccato ( Sir 10,15 ).
Ascoltino gli umili: poiché il nostro Redentore umiliò se stesso fatto obbediente fino alla morte ( Fil 2,8 ); ascoltino gli orgogliosi ciò che è scritto del loro capo: Egli è re sopra tutti i figli della superbia ( Gb 41,25 ).
Dunque, la superbia del diavolo fu l’occasione della nostra perdizione, e l’umiltà di Dio fu trovata argomento della nostra redenzione.
Infatti il nostro nemico, creatura come tutte, volle apparire innalzata su tutte; ma il nostro Redentore, pur rimanendo grande su tutte, si degnò di diventare piccolo fra tutte.
Si dica dunque agli umili che nel loro abbassarsi si elevano alla somiglianza di Dio; si dica agli orgogliosi che con il loro innalzarsi cadono ad imitazione dell’angelo apostata.
Perciò, che cosa c’è di più basso dell’orgoglio, che nel tendersi al di sopra di sé si allontana dalla misura della vera altezza?
E che cosa è più sublime dell’umiltà che nell’abbassarsi fino al fondo si unisce al suo Creatore, il quale rimane al di sopra dell’altezza più eccelsa?
C’è tuttavia dell’altro che in essi si deve valutare con prudenza, poiché spesso alcuni restano ingannati dalla apparenza di umiltà e altri peccano per ignoranza del proprio orgoglio.
Spesso infatti ad alcuni che si stimano umili si unisce un timore che non deve essere portato a uomini; mentre non di rado l’affermazione di una propria franchezza accompagna gli orgogliosi; e così, quando bisogna rimproverare certi vizi altrui, i primi tacciono per timore, e tuttavia pensano di tacere per umiltà; i secondi invece parlano con l’impazienza dell’orgoglio e si immaginano di parlare mossi da una libera rettitudine.
Dunque, la colpa della paura, sotto l’apparenza dell’umiltà, trattiene quelli dal rimproverare i vizi altrui; mentre, sotto l’immagine di uno spirito libero, la sfrenatezza dell’orgoglio spinge questi a fare rimproveri che non devono, o a fare più rimproveri di quel che devono.
Perciò gli orgogliosi vanno ammoniti a non essere franchi di quanto è conveniente; e gli umili a non stare sottomessi più di quanto è opportuno, affinché i primi non voltino in difesa della giustizia l’esercizio della superbia, e i secondi, quando si applicano a sottomettersi agli uomini più del necessario, non siano spinti a rispettare anche i loro vizi.
Bisogna però considerare che spesso si correggono più utilmente gli orgogliosi, se mescoliamo le correzioni con qualche incoraggiamento di lode.
Infatti, bisogna riconoscere altre cose buone che sono in loro o, se non ci sono, dire almeno quelle che potrebbero esserci; solo allora si deve togliere quanto c’è in loro di male che a noi dispiace, quando cioè è stato fatto precedere il ricordo delle loro cose buone e che ci piacciono, con cui il loro cuore si è disposto a un ascolto placato.
Infatti, anche i cavalli irrequieti li tocchiamo prima con mano leggera, per sottometterceli poi più pienamente anche con le frustate; e a un bicchiere di amara medicina si aggiunge la dolcezza del miele perché ciò che deve giovare alla salute non debba essere gustato proprio col sapore di un’aspra amarezza; e invece, mentre il gusto resta ingannato dalla dolcezza, l’umore mortifero viene espulso con l’amarezza.
Pertanto, nell’accusa rivolta agli orgogliosi, l’inizio deve essere temperato con la lode, affinché con l’accoglimento degli elogi che amano, essi accettino insieme le correzioni che odiano.
Ma spesso possiamo persuadere meglio e più utilmente gli orgogliosi, se facciamo passare il loro progresso piuttosto come più vantaggioso per noi che per loro, se chiediamo che il loro miglioramento si compia più per noi che per loro stessi.
Poiché è facile che l’orgoglio si pieghi al bene se crede che la propria condiscendenza giovi ad altri.
Perciò Mosè che aveva Dio come guida e attraversava il deserto dietro la nuvola d’aria, volendo allontanare il suo parente Hobab dalla consuetudine pagana e sottometterlo alla signoria di Dio onnipotente, [ lo pregò dicendo ]: Noi partiamo per il luogo che il Signore ci darà; vieni con noi affinché ti facciamo del bene perché il Signore ha promesso dei beni a Israele.
Ma poiché quello gli rispose: Non verrò con te ma ritornerò alla terra dove sono nato, aggiunse subito: Non ci abbandonare, perché tu conosci in quali luoghi attraverso il deserto, dobbiamo porre l’accampamento e sarai nostra guida ( Nm 10,29ss ).
Certo l’ignoranza riguardo al viaggio non angustiava l’animo di Mosè, lui che la conoscenza della divinità aveva dilatato alla scienza della profezia; che la colonna precedeva all’esterno, e che il colloquio familiare della conversazione assidua con Dio istruiva, all’interno, su ogni cosa.
Ma evidentemente, da uomo avveduto, che stava trattando con un ascoltatore orgoglioso, lo pregò di un aiuto per poterglielo dare: cercava in lui una guida per il viaggio, per potergli essere guida alla vita.
E agì in modo che l’ascoltatore superbo tanto più si offrisse alla voce che lo attirava verso beni migliori quanto più si sentiva considerato necessario; ma proprio nello stimarsi come colui che precede chi lo esorta, di fatto obbediva alle sue parole.
Diverso è il modo di ammonire gli ostinati e gli incostanti.
Ai primi bisogna dire che essi si stimano più di quello che sono e perciò non acconsentono ai consigli altrui; i secondi bisogna convincerli che poiché si disprezzano e non hanno alcuna considerazione di sé, i loro pensieri mancano di fermezza e così mutano il loro giudizio a seconda dei momenti.
A quelli bisogna dire che se non si stimassero migliori degli altri, non posporrebbero i consigli di tutti alla propria decisione; a questi bisogna dire che se fissassero comunque l’attenzione del proprio animo a ciò che sono, il vento dell’instabilità non li trascinerebbe per tanta diversità di posizioni.
A quelli è detto per mezzo di Paolo: Non siate prudenti presso voi stessi ( Rm 12,6 ).
Al contrario, questi si sentono dire: Non facciamoci portare in giro da ogni vento di dottrina ( Ef 4,14 ).
Di quelli, per mezzo di Salomone è detto: Mangeranno il frutto della loro via e si sazieranno dei loro consigli ( Pr 1,31 ).
Di questi, ancora lo stesso scrive: Il cuore degli stolti sarà mutevole ( Pr 15,7 ).
Infatti il cuore dei sapienti è sempre uguale a se stesso, perché mentre riposa su persuasioni rette è costante nel bene operare.
Ma il cuore degli stolti è mutevole perché mostrandosi vario nell’instabilità, non rimane mai ciò che è stato prima.
E poiché certi vizi, come ne generano altri da se stessi così da altri nascono, è importantissimo sapere che tanto più riusciamo a toglierli, attraverso la correzione, quanto più asciughiamo la fonte stessa della loro amarezza.
E in effetti, l’ostinazione è generata dalla superbia, l’incostanza dalla leggerezza.
Perciò bisogna ammonire gli ostinati a riconoscere l’orgoglio del proprio pensiero e ad applicarsi per vincere se stessi, perché mentre all’esterno rifiutano con disprezzo di lasciarsi vincere dai giusti consigli di altri, interiormente non siano tenuti prigionieri dalla superbia.
Bisogna ammonirli a considerare che il Figlio dell’uomo, che ha sempre una sola volontà col Padre, per offrirci l’esempio di come spezzare la nostra volontà, dice: Non cerco la mia volontà ma la volontà del Padre che mi ha mandato ( Gv 5,30 ).
Egli che, per meglio raccomandare la grazia di questa virtù, affermò che l’avrebbe conservata nell’ultimo giudizio, dicendo: Io non posso fare nulla da me stesso, ma come ascolto giudico ( Gv 5,30 ).
Dunque, con quale coscienza l’uomo disdegna di sottostare alla volontà altrui, quando il Figlio di Dio, e dell’uomo, venuto a manifestare la gloria della sua potenza, afferma di non giudicare da se stesso?
Al contrario, bisogna ammonire gli incostanti a rafforzare la loro mente con la fermezza.
Infatti essi inaridiscono in sé i frutti della mutevolezza, se prima strappano dal cuore la radice della leggerezza, perché si costruisce un edificio stabile quando si provvede prima un luogo solido in cui porre le fondamenta.
Pertanto, se prima non si provvede a togliere la leggerezza dalla mente, non si vince per nulla l’incostanza del pensiero.
Paolo mostra di essere stato alieno da costoro, quando dice: Ho forse usato della leggerezza?
Oppure penso secondo la carne così che in me ci siano il si e il no? ( 2 Cor 1,17 ).
Come se dicesse apertamente: Non sono mosso dal vento della instabilità perché non soggiaccio al vizio della leggerezza.
Diverso è il modo di ammonire i golosi e i temperanti.
Infatti nei primi il vizio è accompagnato dall’eccesso del parlare, dalla leggerezza dell’operare e dalla lussuria; agli altri si unisce spesso l’impazienza e spesso anche la superbia.
Infatti, se la loquacità smodata non rapisse i golosi, quel ricco di cui si dice che banchettava splendidamente ogni giorno non sarebbe stato arso più gravemente nella lingua.
Infatti dice: Padre Abramo, abbi pietà di me e manda Lazzaro a bagnare la punta del suo dito nell’acqua, per dare sollievo alla mia lingua, perché sono tormentato in questa fiamma ( Lc 16,24 ).
Con queste parole, certamente si mostra che banchettando ogni giorno, aveva peccato più frequentemente con la lingua, egli che pur ardendo tutto cercava refrigerio soprattutto per essa.
E ancora l’autorità della Sacra Scrittura attesta che la leggerezza dell’operare segue immediatamente i golosi, dicendo: Il popolo si sedette per mangiare e bere, e si alzò per divertirsi ( Es 32,6 ).
E spesso la voracità trascina costoro fino alla lussuria, perché quando il ventre si distende nella sazietà, si eccitano gli stimoli della libidine.
Perciò all’astuto nemico, che apri la sensualità del primo uomo alla bramosia del frutto e la strinse poi col laccio del peccato, è detto dalla voce divina: Striscerai sul petto e sul ventre ( cf. Gen 3,14 ), come se gli venisse detto apertamente: dominerai suoi cuori umani coi pensieri cattivi e la golosità.
Che poi la lussuria tenga dietro ai golosi, lo attesta il profeta, che mentre racconta ciò che è manifesto denuncia ciò che è nascosto, dicendo: Il principe dei cuochi distrusse le mura di Gerusalemme ( cf. 2 Re 25,10 LXX ).
Infatti il principe dei cuochi è il ventre, al quale si presta gran cura da parte dei cuochi, perché possa riempirsi di cibi nel piacere.
Le mura di Gerusalemme poi, sono le virtù dell’anima innalzate verso il desiderio della pace celeste.
Pertanto il principe dei cuochi abbatte le mura di Gerusalemme, perché mentre il ventre si distende per la ingordigia, le virtù dell’anima vengono distrutte dalla lussuria.
Al contrario, se per lo più, la impazienza non scuotesse le menti dei temperanti dalla loro tranquillità, Pietro non direbbe: Sforzatevi di unire la virtù alla vostra fede, e alla virtù la scienza e alla scienza la temperanza; per aggiungere subito oculatamente: e alla temperanza la pazienza ( 2 Pt 1,5 ).
Ammonì cioè i temperanti ad avere quella pazienza che sapeva mancare loro.
E ancora: se la colpa della superbia non trapassasse i pensieri dei temperanti, Paolo non avrebbe detto affatto: Chi non mangia non giudichi chi mangia ( Rm 14,3 ).
E poi, parlando ad altri nel restringere il campo dei precetti per coloro che si gloriavano per la virtù dell’astinenza, aggiunse: Tutte cose che possiedono certo un aspetto di sapienza nella loro religiosità umiltà e austerità del corpo, ma non hanno alcun valore contro la soddisfazione della carne ( Col 2,23 ).
In ciò va notato che nella sua argomentazione, il predicatore egregio accosta alla scrupolosità un certo aspetto di umiltà, poiché quando il corpo viene indebolito più del necessario dall’astinenza, si manifesta esteriormente umiltà, ma proprio per questa umiltà si insuperbisce gravemente nell’intimo.
E se non fosse vero che l’animo talvolta si gonfia d’orgoglio per la virtù dell’astinenza, il fariseo non avrebbe enumerato con diligente presunzione questa virtù fra i suoi grandi meriti, dicendo: Digiuno due volte la settimana ( Lc 18,12 ).
Pertanto bisogna ammonire i golosi che, mentre sono dediti al piacere dei cibi, non si facciano trafiggere dalla spada della lussuria, e vedano con quanta forza, attraverso il mangiare, li insidiano la loquacità e la leggerezza della mente, affinché mentre servono con la mollezza il ventre non si trovino crudelmente stretti nei lacci dei vizi.
Infatti, tanto più ci si allontana dal secondo genitore quanto più, col tendere la mano ad uso smodato del cibo, si ripete la caduta del primo genitore.
Ma al contrario, bisogna ammonire i temperanti a fare molta attenzione che, mentre fuggono il vizio della gola, non si generino, quasi dalla stessa virtù, vizi ancora peggiori; così che mentre macerano la carne, lo spirito erompa nell’impazienza.
Poiché la vittoria sulla carne non costituisce più una virtù, se lo spirito si lascia vincere dall’ira.
Ma talvolta, quando il cuore dei temperanti riesce a trattenersi dall’ira, lo coglie come una gioia insolita che lo corrompe, e il bene della astinenza si perde quanto meno si custodisce dai vizi spirituali.
Perciò giustamente è detto per mezzo del profeta: Nei giorni dei vostri digiuni si manifestano le vostre volontà ( cf. Is 58,3 - LXX ).
E poco dopo: Voi digiunate nelle liti e nelle risse e fate a pugni ( cf. Is 58,4 ).
La volontà si riferisce alla gioia e il pugno all’ira.
Invano dunque si prostra il corpo con l’astinenza, se il cuore, abbandonato a moti disordinati, si dissipa nei vizi.
E ancora, bisogna ammonire i temperanti a custodire la loro astinenza sempre intatta, senza credere mai che essa rappresenti una virtù eccelsa presso il Giudice occulto, perché se si dovesse credere che in essa ci sia gran merito, il cuore non si esalti nell’orgoglio.
Perciò infatti è detto per mezzo del profeta: È forse questo il digiuno che ho scelto?
Spezza invece il tuo pane a chi ha fame e conduci a casa tua i pellegrini bisognosi ( Is 58,5.7 ).
In ciò dunque bisogna considerare come viene stimata piccola la virtù dell’astinenza, che non si raccomanda se non per la presenza di altre virtù.
Perciò Gioele dice: Santificate il digiuno ( Gio 1,14 ).
Infatti, santificare il digiuno significa mostrare a Dio una astinenza del corpo resa degna per l’aggiunta di altre virtù.
Bisogna ammonire i temperanti a tenere presente che essi offrono un’astinenza gradita a Dio solo quando i cibi che sottraggono al proprio nutrimento li distribuiscono ai bisognosi.
Bisogna sapientemente ascoltare ciò che il Signore rimprovera, per mezzo del profeta, dicendo: Quando digiunavate e piangevate, il quinto e il settimo mese, per questi settant’anni, forse facevate un digiuno per me?
E quando avete mangiato e bevuto, non avete mangiato forse per voi stessi e bevuto per voi stessi? ( Zc 7,5s ).
Infatti non si digiuna per Dio ma per sé, quando ciò che in certi tempi si sottrae al ventre, non lo si distribuisce ai bisognosi, ma lo si custodisce per offrirlo di nuovo al ventre in altri momenti.
E così, affinché la golosità non faccia decadere gli uni dalla stabilità dello spirito, e la mortificazione della carne non faccia inciampare gli altri con l’orgoglio, ascoltino i golosi dalla bocca della Verità: Badate a voi stessi, che i vostri cuori non si appesantiscano nella crapula e nell’ubriachezza e nelle preoccupazioni di questo mondo ( Lc 21,34 ).
E quindi aggiunge a ciò l’utile timore: E sopravvenga improvviso su di voi quel giorno.
Infatti sopravverrà come un laccio su tutti coloro che siedono sulla faccia di tutta la terra ( Lc 21,35 ).
E i temperanti ascoltino: Non ciò che entra nella bocca corrompe l’uomo, ma ciò che esce dalla bocca corrompe l’uomo ( Mt 15,11 ).
Ascoltino i golosi: Il cibo è per il ventre e il ventre è per i cibi: ma Dio distruggerà questi e quello ( 1 Cor 6,13 ).
E ancora: Non in gozzoviglie e ubriachezze ( Rm 13,13 ).
E ancora: Il cibo non ci raccomanda a Dio ( 1 Cor 8,8 ).
Ascoltino i temperanti: Perché tutto è puro per i puri; ma per i corrotti e gli infedeli niente è puro ( Tt 1,15 ).
Ascoltino i golosi: Loro dio è il ventre e la loro gloria in ciò che è la loro vergogna ( Fil 3,19 ).
Ascoltino i temperanti: Alcuni si allontaneranno dalla fede ( 1 Tm 4,1 ); e poco dopo: Alcuni proibiscono di sposarsi, vogliono che ci si astenga dai cibi, che Dio ha creato perché siano presi con rendimento di grazie dai fedeli e da coloro che hanno conosciuto la verità ( 1 Tm 4,3 ).
Ascoltino i golosi: È bene non mangiare carne e non bere vino, né ciò, per cui il tuo fratello si scandalizza ( Rm 14,21 ).
Ascoltino i temperanti: Prendi un poco di vino per via dello stomaco e delle tue frequenti debolezze ( 1 Tm 5,23 ).
Ciò perché gli uni non imparino a non desiderare disordinatamente i cibi della carne e gli altri non osino condannare ciò che essi non desiderano e tuttavia è stato creato da Dio.
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