Antropologia
1) Studio dell'uomo, delle sue caratteristiche e del suo comportamento
a. culturale, quella che studia la mentalità delle diverse comunità etniche o di diversi gruppi sociali
a. criminale, scienza che studia i comportamenti criminali in relazione ai tratti somatici, alla conformazione cerebrale e alle caratteristiche psicologiche del delinquente
È la dottrina dell'uomo, cioè il modo di vederlo e di considerarlo in sé.
Aristotele fu il primo ad usare la parola anthropòlogos nell'Etica a Nicomaco per parlare dell'uomo ( Et. Nic. 4,8 ).
Il termine antropologia fu poi usato per la prima volta sugli inizi del secolo XVI da M. Hundt, maestro a Lipsia, in uno scritto sul corpo.
Il terreno in cui si muoveva allora l'antropologia era la fisiologia, la psicologia e la morale, ma un po' alla volta, prevalse una trattazione puramente biologica dell'uomo.
Di grande importanza per il futuro dell'antropologia è stata la distinzione introdotta dal filosofo tedesco W. Dilthey ( 1833-1911 ) tra scienze della natura e scienze dello spirito, come anche la necessità di seguire metodi differenti nelle une e nelle altre.
Le scienze della natura perseguono una visione generalizzata e rispondono ad un'intento nomotetico.
Le scienze dello spirito seguono una tendenza individualista e rispondono ad un intento idiografico.
Stando così le cose, le affermazioni delle prime non sono trasferibili alle affermazioni delle seconde.
Tra le scienze dello spirito, va collocata l'antropologia il cui metodo non può essere quello delle scienze della natura, in quanto l'uomo non è un dato oggettivabile, nè può essere analizzato in un modo oggettivante.
Certe proprietà specifiche dell'essere umano, come la libertà e la responsabilità sfuggono ai modi della conoscenza esatta e non sono accessibili al sondaggio dell'osservazione empirica.
Kant mise già in evidenza nella sua Critica della ragion pratica l'impossibilità di studiare l'uomo come se si trattasse di una cosa.
Da Dilthey fino ai nostri giorni, il primo principio dell'antropologia è il seguente: l'uomo non può essere " spiegato " ( spiegare qualcosa nel senso di dedurlo causalmente ), ma soltanto " conosciuto ".
L'antropologia riflette su tutto quello che si riferisce all'uomo.
Perciò, se vogliamo creare una scienza dell'uomo, occorre cercare l'integrazione di molte scienze e non solo della neurologia e della psicologia, come è indicato da E. Fromm.
Gli sforzi attuali di approccio all'uomo possono articolarsi, secondo la felice classificazione di Ruiz de la Peña, attorno a tre nodi di problemi.
Il primo può essere formulato in questo modo: l'essere umano è una realtà soggettiva e personale non riducibile al mondo delle cose?
O è, invece, una realtà oggettiva onnicomprensiva?
Le filosofie esistenzialiste si muovono nel terreno della soggettività e dell'esistenza, mentre lo strutturalismo e il neopositivismo collocano l'uomo nel mondo degli oggetti.
Il secondo punto di discussione è questo: se l'uomo debba essere considerato come una specie zoologica, o se invece, si differenzia qualitativamente dalla specie animale.
Certi autori che andavano per la maggiore negli anni Settanta, optavano per una nuova antropologia che si riduceva a biologia.
Per esempio: J. Monod e E. Morin.
Come reazione a questo riduzionismo biologista o genetico, sorse una nuova corrente ( antropobiologia ), rappresentata tra gli altri da A. Portmann.
Questa non limita il suo interesse alla dimostrazione di alcuni fatti ontogenetici, ma si occupa in profondità del significato antropologico di tali fatti.
Si tratta di integrare, e non accontentarsi di considerare isolatamente l'aspetto biologico e quello storico-spirituale dell'uomo, prendendo coscienza che l'uomo, pure essendo bìos, è un essere che supera il bìos ed è aperto alla storicità.
Come fa notare H. Thielicke, l'immagine dell'uomo nella sua totalità, nella pienezza dei suoi rapporti vitali sul piano del corpo e dello spirito, tutto questo, e non i condizionamenti genetici, costituisce " la realtà orientatrice determinante secondo Portmann ".
Il terzo punto del dibattito è quello che si aggira attorno al rapporto mente-cervello.
Si può impostare in questi termini:
la mente è sottoposta al cervello?
Dipende da esso e si riduce ad esso?
In altre parole: gli eventi mentali sono prodotti dai fatti neurologici fino al punto che si trova in essi la loro spiegazione?
A queste domande, risponde affermativamente il determinismo neurofisiologico.
Secando, invece, un'altra tendenza, la mente ed il cervello si differenziano e la mente ha un netto ascendente sul cervello.
* * *
Tra tutte le scienze umane, l'antropologia è la disciplina che ha studiato il fatto culturale in modo più esteso e più profondo.
Se si ritracciano gli sviluppi dell'antropologia, balzano con chiarezza la realtà e il concetto stesso di cultura.
L'antropologia, o la scienza dell'uomo, risale lontano nella storia intellettuale dell'umanità che da sempre è stata interessata ad osservare i gruppi nelle loro straordinarie diversità.
Erodoto ( 484-425 a.C. ) faceva già dell'antropologia avanti lettera, quando descriveva gli usi, i costumi, la lingua, le leggi, le credenze dei popoli stranieri alla Grecia.
Alcuni fanno risalire la parola antropologia ad Aristotele, ma sembra più probabile che i tre termini " antropologia ", " etnologia " e " etnografia " siano apparsi nelle lingue europee tra il 1785 e il 1815.
Di fatto, è nel secolo XIX che l'antropologia si è costituita come disciplina grazie ai ricercatori britannici, tedeschi e americani.
Le idee evoluzioniste, relativiste e comparativiste dell'epoca hanno segnato molti dei primi lavori.
Ma l'antropologia diventa poi più critica, si diversifica in molte scuole, ed è oggi la disciplina impegnata nella ricerca di convergenze metodologiche che possano mostrare in contemporanea la varietà delle culture storiche e l'universalità della civilizzazione umana.
Il moltiplicarsi degli appellativi sta a sottolineare il destino contrastato di questa scienza da un secolo: etnologia, etnografia, antropologia fisica, antropologia sociale, antropologia culturale, antropologia strutturale.
Distinguiamo, per prima cosa, l'" antropologia fisica " dagli altri rami dell'antropologia: si tratta dello studio degli aspetti corporei, morfologici e fisiologici degli individui e dei gruppi umani, secondo la loro localizzazione geografica e climatica, la loro storia naturale, le loro consuetudini alimentari, la loro età, il loro sesso, la loro eredità.
Considerata per molto tempo un ramo scientifico separato, l'antropologia fisica è ora messa in relazione con i comportamenti, la psicologia, le strutture sociali e la cultura dei gruppi umani.
Questo significa che lo sviluppo fisico, sociale e culturale dell'essere umano è oggi percepito meglio in tutte le sue interdipendenze, anche se l'antropologia fisica si giustifica ancora come metodo distinto.
È a questo livello che l'antropologia si è profondamente diversificata, prima di orientarsi verso un movimento di sintesi che continua sempre tra gli esponenti di due principali tendenze: l'antropologia culturale e l'antropologia sociale.
I rapporti tra loro rimangono ancora laboriosi.
Così lo indica Paul Mercier: " L'antropologia sociale e l'antropologia culturale costituiscono una casa comune per molte scuole di pensiero.
Le diverse stanze di questa casa comunicano male e talvolta non comunicano affatto.
Coloro che vi abitano non si mettono d'accordo per dire: questa è la facciata, questa è la stanza principale ": 1968.
Esaminiamo separatamente i due approcci, culturale e sociale, dell'antropologia.
Il primo ha per centro la considerazione dei modelli culturali, il secondo ha per centro l'analisi delle strutture sociali.
L'antropologia culturale è rappresentata da grandi nomi quali quelli degli Americani Alfred Louis Kroeber ( 1876-1960 ) e Bronislaw Malinowski ( 1884-1942 ) che esercitarono un'influenza preponderante soprattutto tra gli antropologi americani.
Una delle migliori esposizioni del metodo culturale è quella di A.L. Kroeber e del suo collega Clyde Kluckhohn.
Tracciamone le linee essenziali.
L'oggetto dell'antropologia secondo Kroeber e Kluckhohn ( 1952 ) è lo studio della cultura analizzata partendo dai modelli tipici di comportamento di un gruppo umano.
La cultura è l'insieme dei comportamenti appresi e trasmessi in un gruppo; ma non basta osservare i comportamenti: bisogna proseguire la ricerca fino a scoprire i modelli delle condotte, i codici, le regole di comportamento che rivelano " le tendenze verso l'uniformità nelle parole, nelle azioni, nella creazione dei gruppi umani ".
Il metodo di analisi culturale si apparenta alla psicologia tedesca della " Gestalt " ( la forma ) o alla storia culturale.
I tratti culturali più semplici da osservare in un gruppo corrispondono ai modi concreti di vestirsi, di alimentarsi, di lavorare, di conversare.
Ad un livello più complesso, si trovano la lingua, le tecniche, l'organizzazione sociale, le leggi, la filosofia, la religione, le arti.
Alcuni dei tratti culturali godono di una grande stabilità e persistono attraverso i cambiamenti che impone la storia: la lingua, l'alfabeto, il senso del diritto, la religione, il monoteismo ne sono esempi noti.
Il processo di deriva che colpisce le culture tocca inizialmente gli elementi particolari ed esterni che caratterizzano i modi di vita, ma i modelli culturali d'insieme resistono di più ai cambiamenti e non si trasformano che lentamente, tendendo, in generale, a ritrovare una nuova stabilità.
I modelli culturali obbediscono alla logica interna d'ogni gruppo umano che vive in una data epoca.
La cultura non è determinata dall'esterno, anche se bisogna riconoscere i condizionamenti che provengono dalla biologia, dalla geografia, dalla psicologia ed anche i particolari tratti di personalità dei membri del gruppo.
L'unità d'osservazione dell'antropologia culturale si è notevolmente allargata dal tempo dei precursori che limitavano i loro studi alle società dette primitive.
Oggi l'unità culturale, considerata dall'antropologia, dipende dal livello d'analisi che intende abbracciare.
Può trattarsi della cultura occidentale greco-romana, della cultura della Foresta Nera del 1900, ecc.
Compete all'antropologia giustificare, più oggettivamente possibile, l'area socio-culturale dei suoi studi.
L'obbiettivo dell'antropologia culturale consiste dunque nello scoprire le caratteristiche dei gruppi umani analizzando i loro modelli tipici di comportamento, distinguendo i loro tratti primari o secondari al fine di comprendere la stabilità, l'evoluzione e i mutamenti di una configurazione culturale, frutto di un'esperienza collettiva unica.
I modelli di comportamento caratteristici di un gruppo umano sono appresi per mezzo di simboli, sono trasmessi da una generazione all'altra come portatori di valori e ispiratori di opere immateriali e materiali.
Provenendo dall'azione umana, i modelli di comportamento costituiscono contemporaneamente un quadro che condiziona l'azione futura dei membri di un gruppo.
Gli elementi descrittivi forniti precedentemente permettono di comprendere meglio la definizione della cultura, spesso citata, di Kroeber e Kluckhohn ( 1952 ) ed elaborata dopo l'esame di centinaia di definizioni ch'essi avevano pazientemente collezionato ed analizzato: " La cultura consiste in schemi, espliciti o impliciti, di e per il comportamento, acquisiti e trasmessi con la mediazione di simboli: essi costituiscono la realizzazione distintiva di gruppi umani, incluse le loro espressioni in artefatti; il nucleo essenziale della cultura è costituito da idee tradizionali ( cioè storicamente derivate e selezionate ) e specialmente dai valori connessi: i sistemi culturali possono essere considerati, da una parte, come prodotti dell'azione e, dall'altra, come elementi condizionanti l'azione futura ".
Altri rappresentanti noti dell'antropologia culturale americana sono spesso citati come, ad esempio, Ruth Benedict ( 1934 ), Melville J. Herskovits ( 1955 ).
Ricordiamo soprattutto Bronislaw Malinowski, il cui articolo classico sulla cultura ( 1931 ) ha influenzato in maniera duratura la sociologia culturale.
La scuola avversaria - la parola non è troppo forte - parte da una prospettiva tutta diversa: quella delle strutture sociali.
Il nome più citato è quello dell'antropologo britannico Alfred R. Radcliffe-Brown ( 1881-1955 ), seguito da numerosi antropologi inglesi e dalla maggior parte dei sociologi americani.
La scuola inglese conta molti antropologi rinomati: M. Fortes, J. Goody, J. Middleton, M. Douglas, S.F. Nadel, in particolare, Edward Evans-Pritchard, professore a Oxford, il cui lavoro postumo ritraccia la storia del pensiero antropologico ( 1981 ).
Ma è Radcliffe-Brown che ha formulato meglio gli orientamenti caratteristici dell'antropologia sociale.
Per Radcliffe-Brown ( 1952 ) l'oggetto dell'antropologia è l'analisi della struttura sociale, cioè la rete delle relazioni sociali che compone i gruppi umani, le classi, i ruoli sociali.
L'antropologia, secondo questa scuola, non è prima di tutto lo studio della cultura; Radcliffe-Brown stesso è arrivato fino ad evitare la parola cultura, anche se effettivamente tratta della cultura indirettamente attraverso un'altra terminologia, per esempio, quando riconosce il ruolo dei " costumi sociali ", le " regole di condotta ", i " valori ed interessi " e i " modelli di comportamento nei rapporti sociali ": 1952.
L'antropologia sociale, senza negare il ruolo della cultura, subordina, tuttavia, l'elemento culturale alla struttura sociale, mentre è il contrario che si verifica nell'antropologia culturale, nella quale la struttura sociale è subordinata al dato primo della cultura.
L'antropologia sociale si fonda sull'analogia biologica per discernere le società nella loro morfologia ( le reti di relazioni ) come nella loro fisiologia ( il sistema di funzionamento dei rapporti sociali ).
Diamo alcuni esempi di relazioni sociali osservate: i rapporti padre-figlio, venditore-compratore, padrone-servitore.
I sistemi di parentela offrono il campo di osservazione ideale per scoprire le relazioni sociali nella loro complessità e nella loro interdipendenza.
L'antropologia sociale, ai suoi inizi, si limitava all'osservazione delle società semplici o primitive, ma progressivamente ha orientato la sua attenzione al di là degli " isolati primitivi " per interessarsi ad insiemi sempre più vasti: villaggi, paesi, imperi.
Radcliffe-Brown ammette che l'antropologo può studiare sia un villaggio cinese sia una parte della Cina o l'impero britannico, come esempi di società.
La questione sta nel reperire il sistema strutturale, cioè la rete dei rapporti sociali che collegano tra loro le persone, i gruppi e i popoli sotto osservazione.
Le due tesi, precedentemente esposte, sono oggi raramente sostenute nel loro tenore originale ed esclusivo, ma meritano d'essere ricordate perché sottintendono ancora concezioni complementari della cultura, intesa sia come " modelli di comportamento ", sia come " strutturazione dei rapporti sociali ".
In ogni caso, le discussioni si sono calmate dopo che il Presidente degli antropologi americani, A.L. Kroeber, e il Presidente dei sociologi americani, Talcott Parsons, hanno congiuntamente firmato una dichiarazione d'intesa nel 1958: A. Kroeber and Talcott Parsons 1958.
Dopo più di mezzo secolo di aspre polemiche, gli antropologi delle diverse obbedienze tendono ora ad attenuare le loro differenze per sottolineare la complementarità dei loro approcci.
Le culture e le strutture sociali, in conclusione, non si comprendono che nella reciprocità dei loro dinamismi.
Tutti, praticamente, riconoscono l'utilità di studiare i modelli culturali che sono alla base delle strutture sociali, delle famiglie, dei villaggi, delle tribù, delle caste, delle città, delle regioni.
La cultura s'incarna nelle diverse istituzioni sociali e le istituzioni, a loro volta, sono rivelatrici e creatrici di cultura.
R.W. Firth ( 1951 ) ha bene espresso la complementarità dei due punti di vista: " Se la società è vista come una organizzazione di individui che hanno un proprio stile di vita, la cultura è precisamente questo modo di vita.
Se la società è vista come un insieme di relazioni sociali, allora la cultura è il contenuto di queste relazioni.
La società accentua la componente umana, l'insieme delle persone e le loro reciproche relazioni.
La cultura insiste sulla componente delle risorse accumulate, immateriali o materiali, che il gruppo riceve in eredità, che utilizza, trasforma, arricchisce e trasmette ".
In altri termini, cultura e struttura sociale non possono esistere indipendentemente l'una dall'altra in una società umana, perché esse sono mutualmente dipendenti, e manifestano insieme i comportamenti degli individui e il dinamismo del sistema sociale.
L'uomo, come animale sociale e creatore di simboli, non può essere ridotto ad uno schema di analisi parziale.
L'antropologo deve prestare uguale attenzione ai modelli culturali e alle strutture sociali.
Ciò che è in causa, è l'interpretazione dei rapporti tra la cultura e le istituzioni.
Claude Levi-Strauss ha descritto bene i punti di vista che si affrontano: " L'uomo può essere definito come animale che fabbrica degli utensili o come animale sociale.
Se lo si considera come animale che fabbrica degli utensili si parte dagli utensili e si va verso le istituzioni in quanto utensili che rendono possibili le relazioni sociali.
È l'antropologia culturale.
Se lo si considera come animale sociale, si parte dalle relazioni sociali per raggiungere gli utensili e la cultura, nel senso ampio del termine, in quanto mezzo attraverso il quale si mantengono le relazioni sociali ": J. Poirier 1968, p. 882.
Questa apertura alla totalità del fatto sociale ha favorito una interdisciplinarietà dell'antropologia, come già aveva lasciato intravvedere il metodo comprensivo di Marcel Mauss ( 1872-1950 ), fondatore dell'Istituto di Etnologia dell'Università di Parigi, che cercava di studiare le società umane nell'integralità del loro sistema sociale e culturale e della loro storia: cioè rispettando il fenomeno sociale totale nelle sue componenti geografiche, economiche, politiche, estetiche, religiose.
In questo spirito, gli antropologi attingono, ormai, alla linguistica, alla paleontologia, alla preistoria, alla biologia, alla psicologia, alla psicanalisi, all'estetica, alla storia delle religioni, all'ecologia, i punti di vista che permettono di cogliere meglio il segreto delle culture.
L'antropologia, in questo modo, si sviluppa come una etno-storia, una etno-psicologia, una etno-linguistica, una etno-economia, una etno-scienza, una etno-medicina, ecc.
La convergenza delle scienze è venuta ad allargare, talvolta in maniera sorprendente, la nostra comprensione dell'antropologia.
Le ricerche in biologia, per esempio, fanno apparire una diversificazione quasi contemporanea del patrimonio genetico dei popoli e delle loro lingue.
Come osserva Luca Cavalli-Sforza ( 1966 ), " i geni, le popolazioni e le lingue sembrano essersi diversificati simultaneamente, durante migrazioni cominciate probabilmente in Africa, passando dopo in Asia, poi in Europa, e nel Nuovo Mondo e nel Pacifico ".
Tra gli sviluppi particolarmente significativi, menzioniamo la scuola di antropologia psicologica che concentra le sue ricerche sulla cultura e la personalità, nella linea delle esplorazioni di Ruth Benedict, di Margaret Mead, di Ralph Linton, di Edward Sapir, di Abraham Kardiner, di Clyde Kluckhohn.
La " personalità di base ", secondo Kardiner, o " i modelli di cultura " ( patterns of culture ) di Ruth Benedict ( 1934 ) ne sono delle caratteristiche illustrazioni.
I tratti di personalità che emergono come più comuni in una società rivelano a che punto le persone si formino attraverso configurazioni culturali tipiche, i cui valori, credenze e norme socializzano il bambino dalla più tenera età e condizionano la personalità di base di una società.
Nuove prospettive si sono dunque aperte all'antropologia con l'analisi estesa ai fenomeni psicologici, economici, religiosi, ecologici, tecnici, geografici, biologici.
Sia la complessità come la continuità dei dati antropologici sono messe in luce e conducono ad ulteriori interrogativi sulla condizione sociale degli esseri umani.
Un nuovo punto di vista è offerto dall'antropologia strutturale, rappresentata, come è noto, da Claude Lévi-Strauss in Francia, che cerca di sintetizzare e superare gli approcci di Kroeber e di Radcliffe-Brown, ponendosi il problema del " senso " delle culture e del significato latente delle realtà socio-culturali.
La linguistica strutturale gli permette di analizzare le forme di comunicazione rivelatrici di una cultura ed egli si chiede se non esista una struttura mentale universalmente valida per tutta l'umanità.
Due tipi di analisi illustrano il suo metodo: l'esame semantico dei vincoli di parentela e quello dei miti.
Le strutture di parentela, egli osserva, rappresentano un modo di comunicazione per gli individui, le famiglie e la società.
Il divieto dell'incesto, per esempio, stabilisce delle regole precise concernenti lo scambio dei congiunti.
Questo equivale ad un modo particolare di comunicare tra parenti.
Ciò che qui bisogna notare è meno il ruolo attribuito ad un sesso o all'altro, che lo sforzo semantico per comprendere il senso di un modo di comportamento collettivo.
Altro esempio, l'analisi dei miti, il cui significato inconscio non deriva, secondo il suo pensiero, da un preteso " pensiero prelogico ", ma piuttosto da un sistema di espressione sociologico, culturale, cosmologico, a base di opposizioni binarie ( acqua-fuoco, silenzio-rumore, cotto-crudo ) o di regole codificate, di cui l'antropologo deve decifrare gli elementi significativi, come in uno spartito musicale: musica e miti sono, d'altra parte, dei " congegni per eliminare il tempo " che permettono di superare " l'antinomia del tempo storico " e del permanere delle società.
L'antropologo si fa analista e, egli osserva, " c'è già della psicanalisi nei miti ": La potière jalouse, Paris, 1986.
Queste teorie hanno suscitato un ampio dibattito in Europa e negli Stati Uniti ed hanno incontrato obiezioni soprattutto per il fatto che Lévi-Strauss sembra trascurare troppo l'individuo libero in seno al dinamismo sociale e minimizzare il ruolo creativo della storia, come gli ha rimproverato Jean-Paul Sartre.
Il suo intellettualismo e il suo entusiasmo per l'" Uomo " non gli fanno forse trascurare " tutti gli uomini ", come nota Clifford Geertz: 1973, cap. 13?
Non è questo il luogo per inoltrarci nella discussione; ci basti sottolineare i tentativi fatti dall'antropologia moderna per approfondire il significato del fatto culturale.
Secondo gli strutturalisti, l'antropologo, quando osserva una società, deve scoprire " come questa cosa parli " e cogliere il senso che gli uomini inconsciamente danno alla loro vita in comune.
Compito sovrumano, si dirà, ma la vivacità dei dibattiti provocati dai seguaci di un'antropologia comprensiva, guidata in Francia da un Lévi-Strauss o un André Leroi-Gourhan, etnologo della preistoria, o un Clifford Geertz negli Stati Uniti, dimostra un'intenzione che certamente si rivelerà feconda: quella di approfondire, evitando ogni riduzionismo ed ogni falsa speculazione, ciò che significa, al di là delle apparenze, la cultura umana nella storia delle società.
Una antropologia integrale nascerà in un avvenire che possiamo prevedere?
La questione ha almeno il merito di essere stata posta con insistenza da una nuova generazione di antropologi.
All'inizio del secolo, le teorie universalistiche erano state scartate dai rappresentanti di un'antropologia relativista, monografica, storicista, influenzata da quel pioniere, d'altra parte molto fecondo, che fu Franz Boas ( 1858-1942 ), un americano di origine tedesca.
Ma oggi, con un ritorno paradossale delle cose, la tesi dell'unità del genere umano ritorna attuale.
Essa era già stata postulata da Edward Tylor ( 1832-1917 ) nella sua celebre definizione di cultura del 1871.
Per questo autore inglese bisogna " considerare il genere umano come naturalmente omogeneo, anche se posto a livelli diversi di civilizzazione ".
Questo approccio universale ha fatto strada e suscita, in antropologia e in sociologia, una copiosa letteratura che permette ora di meglio percepire i rapporti che esistono tra la molteplicità delle forme culturali e la cultura umana semplicemente detta.
Lévi-Strauss lo spiega così: " Ciò che si chiama una cultura è un frammento di umanità che, dal punto di vista della ricerca in corso e della scala a cui è riportata, presenta, in rapporto al resto dell'umanità, delle discontinuità significative ": 1958; sull'opera di Lévi-Strauss, vedere M. Hénaff, 1991.
Seguendo questo orientamento, l'antropologia diventa una disciplina essenzialmente aperta alla comprensione del fatto culturale, concepito come l'espressione di un progresso sempre incompiuto dell'uomo.
Questo atteggiamento è stato reso possibile da un'interiorizzazione dell'analisi antropologica, che non cerca più di " spiegare " le culture con fattori estrinseci, ma che preferibilmente si dedica a " comprendere " dall'interno la cultura come la più alta creazione di un gruppo.
L'antropologo cerca di cogliere il significato che riveste una cultura viva partendo dal punto di vista dei membri di una società.
Questa prospettiva, come ha efficacemente notato Clifford Geertz, apre un orizzonte nuovo all'antropologia.
Questa vede l'uomo essenzialmente come un animale creatore di simboli e ricercatore di significati: " Il bisogno di trovare un senso all'esperienza, di darle ordine e forma, è con evidenza altrettanto imperioso e pressante di quanto lo siano le necessità biologiche più familiari ".
È attraverso i simboli, l'arte, la religione, l'ideologia che l'uomo esplora il significato della vita e del mondo.
Geertz conclude che si sbaglierebbe se si cercasse d'interpretare l'arte e la religione diversamente da " uno sforzo per dare orientamento ad un essere che non può vivere in un mondo che non è capace di comprendere ".
La cultura non è il frutto di determinismi più o meno inconsci, è il dinamismo stesso dell'umanizzazione dell'uomo da parte dell'uomo: " Senza l'uomo non c'è cultura; ma è vero anche e significativo dire: senza cultura non c'è l'uomo ": C. Geertz, 1973, pp. 5, 140.
È questa la posizione sviluppata da Giovanni Paolo II davanti all'unesco il 2 giugno 1980; egli ha riassunto il suo discorso con queste parole: " Sì, l'avvenire dell'uomo dipende dalla cultura ".
L'« antropologia teologica » è la concezione dell'uomo quale essa emerge dalla Rivelazione, a riguardo della sua origine, della sua costituzione interna e del suo fine ultimo.
Indica il complesso sistematico delle affermazioni teologiche sull'uomo, o la riflessione articolata metodicamente riguardo al mistero dell'uomo alla luce della fede cristiana, come è stata espressa nelle varie tradizioni bibliche e nella storia della teologia.
La configurazione dell'antropologia teologica come disciplina con identità propria all'interno della teologia è relativamente recente: data dal secolo XIX.
Nella Bibbia, per esempio, non troviamo nulla che assomigli all'attuale trattato teologico sull'uomo, quantunque appaiano dati sufficienti che ci permettono di parlare di una concezione biblica sull'uomo che si distingue nettamente da altre concezioni religiose o filosofiche.
L'elemento distintivo va cercato nella visuale in cui si muovono gli autori biblici: la fede in JHWH e la fede in Gesù di Nazaret.
L'uomo è pensato nel suo rapporto con Dio e nel suo inserimento nella storia di Dio.
Nella pluralità di visuali sull'uomo che emergono o che sono soggiacenti nei testi biblici, ci sono alcune idee che sono condivise da quanti vivono l'esperienza della fede giudeo-cristiana.
La prima e più importante è questa: l'uomo è " immagine di Dio ".
Ciò comporta il fatto di riconoscere l'uomo come creatura e come con-creatore, come anche la netta distinzione tra Dio e l'uomo e la stretta comunione fra entrambi.
La seconda idea, che deriva dalla prima, è la situazione privilegiata dell'uomo nel cosmo.
Grazie alla posizione del tutto singolare, l'uomo riceve da Dio il comando di soggiogare la terra ( cf Gen 1,28 ).
Ciò vuol dire: liberarsi dal destino fatale di " madre natura " e giungere ad una fruizione umana ed umanizzante della natura liberata dalla sua mitizzazione e dal suo incantesimo.
La terza idea si riferisce all'unità psicofisica dell'uomo: questa è attestata ed espressa in forma quasi unanime tanto nell'Antico Testamento che nel Nuovo.
Questa idea si scontra frontalmente con l'antropologia dualista greca.
I primi tentativi di sistematizzazione appaiono nella teologia patristica, come per esempio, nel trattato De anima di Tertulliano.
La riflessione teologica sull'uomo, intesa come discorso strutturato, sorge inizialmente come uno sviluppo del racconto della creazione.
Così, il pensiero antropologico sistematico deriva e si nutre di esegesi.
Lo sforzo per chiarire l'immagine cristiana dell'uomo si compie, a sua volta, nel dialogo con le grandi antropologie pre-cristiane.
Durante il Medioevo, i contenuti propri dell'antropologia non sono riuniti in un trattato speciale, ma sono piuttosto sparsi nei vari trattati.
L'Età Moderna rappresenta il vertice dell'autocomprensione dell'uomo come soggetto.
Ciò nonostante, la teologia cattolice non riesce in questo periodo a sviluppare un'antropologia " sulla base di un principio originale che corrisponda all'autoconoscenza già raggiunta dell'uomo come soggetto " ( Rahner ).
Ciò avviene quando entra nella riflessione cristiana la svolta antropologica che assume dialetticamente i due poli della rivelazione: Dio e l'uomo, superando così tanto la riduzione antropologica ( teologia-antropologia ), portata avanti con Feuerbach, quanto il radicalismo teologico ( Dio come negazione dell'uomo ) sostenuto da Barth.
L'attuale antropologia, la cui sintesi armonica si può trovare nel Vaticano II ( cf GS ), si svolge in un dialogo critico e fecondo con le varie antropologie, assumendo, da una parte, i nuovi contributi scientifici riguardanti l'uomo, e mettendo in questione, d'altra parte, l'immagine unidimensionale e riduttiva che frequentemente offrono sul dato umano, come anche il carattere chiuso ed assoluto che si suole dare alla concezione " scientifica " dell'uomo.
L'antropologia teologica è oggi specialmente critica con la concezione strumentale dell'uomo presentata dalla tecnologia.
Secondo questa, il criterio per valutare l'uomo è la sua utilità nel campo della produzione ed il profitto che rende a servizio della società tecnificata in cui l'homo faber si converte in homo fabricatus.
Di fronte ad un simile degrado dell'uomo, l'antropologia teologica, che si ispira alla tradizione biblica e patristica, afferma il valore assoluto ed inalienabile dell'essere umano.
Per il fatto stesso, e di fronte ai vari anti-umanesimi, la antropologia teologica afferma l'uomo come soggetto con una propria identità, non riducibile al mondo inanimato, vegetale o animale, e in dialogo personale con Dio alla cui vita egli partecipa e nella cui orbita privilegiata egli si incontra.
Questo è il senso profondo soggiacente nella presentazione biblica dell'uomo come " immagine di Dio ".
L'antropologia teologica mette anche in guardia, di fronte al tanto decantato ed esaltato " umanesimo cristiano ", a cui dicono di ispirarsi progetti o programmi politici, sociali o culturali: il più delle volte, ciò che si nasconde dietro di ciò non è altro che una difesa dell'immagine borghese e classista dell'uomo.
L'antropologia teologica si può definire come lo studio del fenomeno umano alla luce e sotto la guida della Parola di Dio, nella cornice generale di una visione cristiana del mondo.
L'uomo nel suo legame essenziale al mistero di Dio è il contenuto specifico dell'antropologia teologica.
È di fronte a Dio che l'uomo scopre il mistero della sua origine e il significato della propria vita e del proprio destino.
Il rapporto tra Dio e l'uomo è mediato e reso possibile da Gesù Cristo.
Di fronte a Dio l'uomo conosce se stesso innanzi tutto come creatura.
La sua creaturalità ha da una parte un risvolto negativo, perché significa finitudine, fragilità e anche peccaminosità; ma dall'altra ha un risvolto positivo, perché significa riferimento a Dio, al suo essere soprannaturale; diversamente da tutte le altre creature, poi l'uomo si riconosce fatto ad immagine e somiglianza di Dio.
Né l'età patristica né la teologia medievale avevano un trattato di antropologia:
i Padri della Chiesa parlavano dell'uomo commentando i racconti della creazione e della caduta;
i teologi medievali affrontavano invece disparate questioni sulla creazione del mondo materiale, sulla natura e sulla struttura dell'uomo, sullo stato dell'uomo precedente il peccato originale.
Attorno al 1680 nacque il trattato De Gratia, fondato sul magistero del Concilio di Trento, e prese forma nel clima delle controversie con i protestanti.
Nell'arco evolutivo della storia il termine "grazia" assume una serie di significati stratificati:
in Sant'Agostino essa è intesa come un aiuto divino dato gratuitamente all'uomo peccatore, per essere perdonato, risanato e salvato;
in epoca medievale è intesa come dono aggiunto da Dio alla natura umana, che ne viene arricchita senza esserne snaturata ( estrinsecismo )
la grazia è comunque un dono increato dello Spirito Santo.
Alla fine del XIX secolo si formò il trattato De Deo creante et elevante, articolato in tre parti:
la creazione del mondo, degli uomini, degli angeli;
l'uomo nella condizione originaria e i doni ricevuti da Dio: naturali, preternaturali, soprannaturali;
la caduta.
* * *
La fede cristiana predica un Dio il cui segreto è costituito da un « progetto-uomo ».
Dalla sua rivelazione deriva un'« antropologia » e una « sociologia », vale a dire un'idea di uomo e di società conformi al progetto.
Dimmi chi è il tuo Dio - si potrebbe dire ai credenti - e ti dirò qual è la società che costruisci, e per quale uomo.
Fino a un passato molto recente la chiesa cattolica ha elaborato il suo sapere sull'uomo in dipendenza dal Vangelo, ma in antitesi alle moderne antropologie.
Sciolto l'abbraccio stretto in epoca di cristianità, la chiesa e il mondo moderno hanno cominciato ad esistere da estranei l'uno all'altra.
Hanno brandito come un'arma la reciproca autonomia, tanto sul piano pratico che su quello dottrinale, utilizzandola a scopi polemici.
Nei trattati tradizionali di teologia il pensiero dei fondatori delle moderne concezioni antropologiche - da Marx a Sartre, da Feuerbach a Freud - viene citato sotto la voce « Adversarii »; lo si riporta solo per confutarlo e sottolineare la distanza incolmabile che lo separa dall'antropologia cristiana.
Il distanziamento dalle antropologie della nostra epoca era funzionale alla prassi dei rapporti chiesa-mondo.
Finché la chiesa continuò a vagheggiare come ideale di questo rapporto la situazione di cristianità e a nutrire nostalgie restaurative, era impensabile qualsiasi incontro con concezioni dell'uomo diverse da quelle che avevano preso forma nella teologia scolastica.
E le differenze ideologiche, a loro volta, servivano a giustificare e a rafforzare la prassi della reciproca estraneità.
Il grande rinnovamento del Concilio Vaticano II ha il suo baricentro non in un aggiornamento dottrinale, bensì nel diverso modo scelto dalla chiesa di rapportarsi al mondo.
I cristiani hanno riscoperto che la vita e l'insegnamento di Gesù li sfida a uscire dal salotto buono che si erano scelti a dimora, per muovere in direzione del mondo, accettato come "altro" rispetto alla chiesa.
Si sentono chiamati a rinunziare alle sicurezze del sistema ideologico-dottrinale in cui si erano chiusi, per riacquistare così un tratto dello spirito d'infanzia: la temerarietà del bambino che non è mai così sicuro come nel pericolo.
La trasformazione dei rapporti della chiesa col mondo contemporaneo - tematizzata dalla costituzione pastorale Gaudium et Spes - ha un'incidenza decisiva sul rinnovamento dell'antropologia cristiana.
Questa non appare più come un sistema chiuso da contrapporre ad altri.
Se il suo punto di riferimento costitutivo resta il Cristo, primo uomo della nuova creazione, quale lo testimonia la Sacra Scrittura e lo trasmette la tradizione vivente della comunità cristiana, l'antropologia cristiana non ignora tuttavia la crisi spirituale dell'uomo, diventato enigma a se stesso.
I credenti non vivono nell'isola dei beati, al riparo dalle tempeste; sono anch'essi investiti dalla crisi di un ordine metafisico assoluto, che è caratteristica dell'autocomprensione dell'uomo moderno.
Il Concilio non ha indotto la chiesa, in nome di un malinteso dialogo, a indossare il manto del filosofo e a parlare come maestra di una saggezza umana.
La chiesa conciliare si è presentata nel mondo come chiesa, nella consapevolezza che ciò che la costituisce tale non è né un'ideologia unica, né una prassi omogenea di tutti i suoi membri, bensì la fede comune in Gesù Cristo.
Da questa fede la chiesa attinge ciò che può illuminare il mistero dell'uomo ( « Cristo, che è il nuovo Adamo, proprio rivelando il mistero del Padre e del suo amore svela anche pienamente l'uomo all'uomo e gli fa nota la sua altissima vocazione »: GS 22 ).
Avendo scelto come suo terreno di competenza quello della salvezza escatologica, la chiesa può condividere sinceramente la fatica di autocomprensione dell'uomo contemporaneo, senza rinunciare alle proprie certezze di fede e al gioioso annuncio di esse.
Questa svolta nell'atteggiamento di fondo nei confronti del mondo moderno e dei suoi tentativi di capire l'uomo è chiaramente leggibile nel paragrafo della Gaudium et Spes che introduce la parte del documento che può essere considerata un sunto di antropologia cristiana: « Credenti e non credenti sono pressoché concordi nel ritenere che tutto quanto esiste sulla terra debba essere riferito all'uomo come a suo centro e a suo vertice.
Ma che cos'è l'uomo?
Molte opinioni egli ha espresso ed esprime sul suo conto, opinioni varie ed anche contrarie, perché spesso o si esalta così da fare di sè una regola assoluta, o si abbassa fino alla disperazione, finendo in tal modo nel dubbio e nell'angoscia.
Queste difficoltà la chiesa le sente profondamente e ad esse può dare una risposta che le viene dall'insegnamento della divina rivelazione, risposta che descrive la vera condizione dell'uomo, dà una ragione delle sue miserie, e insieme aiuta a riconoscere giustamente la sua dignità e vocazione» ( GS 12 ).
L'antropologia cristiana non è dunque un letto di contenzione in cui debba essere legato quel pazzo furente che è l'uomo moderno.
Certo, essa è critica nei confronti di ogni progetto antropologico e sociale riduttivo.
Tutte le ideologie, infatti, usano in qualche maniera i famigerati metodi di Procuste.
Il mitico "antropologo" aveva una sua ideale misura d'uomo e pretendeva che tutti quelli in cui s'imbatteva vi corrispondessero; perciò segava i più lunghi e stirava i più corti.
Un'ideologia taglia via all'uomo la dimensione spirituale, un'altra assolutizza la sua storicità.
La fede cristiana, indirizzando verso il Cristo, protesta contro tutte le mutilazioni e deformazioni antropologiche.
Tuttavia l'atteggiamento fondamentale del credente in Cristo nei confronti dei vari tentativi di comprendere e di modificare la situazione dell'uomo nel mondo non è la diffidenza o la polemica.
L'antropologia cristiana può, senza tradire se stessa, assimilare gli elementi essenziali che strutturano la moderna autocomprensione dell'uomo.
Li ritroviamo infatti nell'insegnamento antropologico del Vaticano II, in particolare nel già citato documento sulla Chiesa nel mondo contemporaneo.
Ci limitiamo qui a evocare in maniera schematica, quasi per tratti stenografici, le coordinate essenziali di tale disegno antropologico.
La chiave di volta della concezione cristiana dell'uomo è la categoria di persona.
In quanto persona, l'uomo è un essere conscio di sé, che dispone di se stesso e si costruisce progressivamente, prendendo posizione con opzioni libere.
Secondo l'antropologia cristiana l'uomo si costituisce persona quando si apre all'altro essere umano, ma soprattutto grazie al dialogo con Dio.
La nozione di persona libera e dialogante nasce nel cristianesimo in dipendenza dall'esperienza della storia della salvezza.
Questa non è una serie di eventi che l'umanità subisca come un soggetto inerte, bensì lo sviluppo dell'impegno con cui l'uomo risponde all'appello di Dio; essa implica perciò l'accettazione o il rifiuto di un ruolo, l'aprirsi o il chiudersi alla comunione.
In secondo luogo, l'uomo nella visione cristiana si realizza come tale sviluppando la dimensione sociale-comunitaria.
La storia della salvezza tende verso una meta di unità di tutti gli uomini.
Il compito fondamentale delle comunità cristiane nel mondo si qualifica come creazione di luoghi di incontro e di reciprocità, così da essere per tutti gli uomini un'indicazione di esistenza.
Infine, come terza dimensione dell'antropologia cristiana, accenniamo alla storicità.
Anche la teologia partecipa all'orientamento attuale comune a tutte le antropologie di riflettere sull'uomo sotto il profilo del divenire.
A ciò che le altre conoscenze antropologiche sanno sul divenire umano la fede cristiana aggiunge il senso ultimo di questo divenire: la salvezza.
Più che qualsiasi altra antropologia quella cristiana può puntare sul futuro, dal momento che la storia ha preso un'accelerazione escatologica.
La nostra identità sta davanti a noi, nel nostro futuro, non alle nostre spalle, perché Gesù Cristo è l'uomo del futuro assoluto: « Fin d'ora siamo figli di Dio; e ciò che noi saremo non è stato ancora manifestato.
Ma sappiamo che quando « ciò sarà manifestato saremo simili a lui, perché lo vedremo come egli è » ( 1 Gv 3,2 ).
L'antropologia cristiana proposta dal Concilio Vaticano II non si pone in rottura con la comprensione dell'uomo tradizionalmente propria del cristianesimo.
Essa è piuttosto un tentativo di ricomprensione del messaggio di Gesù in dialogo con le concezioni antropologiche moderne, in un interscambio che comporta una reciproca fecondazione.
La visione cristiana dell'uomo ha una sua incidenza ovunque sia in gioco l'umanità dell'uomo.
Limitiamo qui il nostro interesse all'impatto dell'antropologia cristiana sui problemi della salute.
Un primo nodo è costituito dal significato e valore del corpo per il cristiano.
La sensibilità generale attribuisce oggi una singolare importanza alla vita corporale.
Questa concezione implica il rifiuto di quel dualismo tradizionale che contrappone la vita del corpo a quella dell'anima.
Nell'opinione comune tale rappresentazione dell'uomo è considerata tipica del cristianesimo, tanto che anche i più informati saranno sorpresi scorrendo gli studi degli esegeti dai quali risulta che questo dualismo è in realtà estraneo alla Bibbia.
La mentalità ebraica fa ricorso alla coppia di concetti dialettici « Carne » e « spirito », senza tuttavia contrapporli come due principi autonomi.
Come il termine « carne » può indicare l'uomo intero, così anche « spirito » può significare il vivente concreto.
« Carne » mette in risalto l'aspetto della caducità e della precarietà dell'uomo, mentre lo « spirito » ne sottolinea l'elemento vitale.
Ovvero, in termini morali, la situazione dell'uomo abbandonato al proprio egoismo e al peccato, e quella dell'uomo sotto la mozione dello Spirito di Dio.
Il dualismo che vede nel corpo la pura materialità e nell'anima il principio spirituale eterno è in realtà di origine platonica.
Grazie agli asceti - più che ai teologi, ispirati dall'ilemorfismo aristotelico-tomista -, tale dualismo è passato in tutta una tradizione cristiana, tanto da essere volgarmente identificato col cristianesimo stesso.
In polemica con lo spiritualismo dualista il pensiero moderno ha voluto ritrovare l'unità dell'uomo reale.
Di qui l'importanza attribuita oggi alla fenomenologia del corpo.
Il soggetto umano - la persona - si apre al mondo per il tramite del corpo.
La corporeità, come momento essenziale del soggetto, è la mediazione che rende il soggetto spirituale presente al mondo oggettivo e alla soggettività delle altre persone umane.
La svolta antropologica che ha attribuito al corpo il posto i centrale nella concezione dell'uomo ha avuto degli esiti negativi, se considerati con sensibilità cristiana.
Il più sovente essa ha condotto a un crasso materialismo, che si è espresso nella priorità data alla vita vegetativa e sensitiva, nel consumismo, nell'idolatria del corpo.
Un seguito ancor più fatale è stato l'imprigionamento dell'uomo in un orizzonte immanentistico.
L'incapacità di considerare altre forme di esistenza oltre a quella corporea porta ad aggrapparsi in modo ansioso alla vita.
Possiamo ancora sorridere di fronte alle misure cautelative dei ricchi americani che fanno congelare il proprio corpo in attesa di essere riportati in vita da futuri miracoli della medicina; dobbiamo invece seriamente preoccuparci quando consideriamo i danni psicologici causati dalla rimozione delle immagini della morte.
Secondo alcuni psicologi questa rimozione sarebbe all'origine di diffusi comportamenti nevrotici.
La rivalutazione del corpo da parte delle antropologie moderne non ha mancato di suscitare una certa ostilità da parte cristiana, specialmente in considerazione delle riduzioni antropologiche cui ha; dato luogo.
È possibile tuttavia considerare questo dato antropologico come un elemento legittimo della visione cristiana dell'uomo, consono all'antropologia biblica.
La sua prima funzione può essere quella di correggere deformazioni occasionalmente infiltratesi nella dottrina e nella prassi cristiane.
Il cristianesimo ha amato sottolineare la relatività nel tempo dell'esistenza umana in quanto esistenza terrena, caduca e precaria come il corpo dell'uomo.
Di conseguenza la vita del corpo ha subito una certa svalutazione.
Un pessimismo di tipo ascetico si è risolto! anch'esso in un sospetto pregiudiziale nei confronti del corpo.
In alcune correnti spirituali questa svalutazione è degenerata in un vero e proprio disprezzo del corpo e delle sue attività, in particolare della sessualità.
La dottrina ufficiale ha sempre condannato gli estremismi ( come l'automutilazione di Origene ); in pratica però la diffidenza nei confronti del corpo è stato l'atteggiamento prevalente nel cristianesimo.
Oggi lo sbilanciamento spiritualista può essere riequilibrato grazie alle categorie personaliste.
La considerazione di cui ha sempre goduto lo spirito umano si riflette sul corpo, che non è la prigione dell'anima, bensì la persona nella sua condizione mondana.
Il corpo partecipa quindi della sacralità riconosciuta alla persona umana, che per il cristiano è « immagine di Dio ».
Il frutto più vistoso di questa rivalutazione dell'uomo nella sua condizione corporea è la crescita del rispetto per la vita.
Troppo spesso in passato, anche in regime di cristianità e in culture informate da principi cristiani, la vita fisica è stata vilipesa.
Basti pensare alla tortura giudiziaria, alle mutilazioni inflitte come castigo, alla stessa pena di morte.
Nel campo dell'ascetica cristiana è stata favorita una spiritualità della malattia di tipo dolorista.
Si è parlato della malattia come di uno stato particolare che favorisce la purificazione dell'anima, l'espiazione delle colpe, l'acquisizione dei meriti.
In alcuni casi estremi si è giunti a parlare di una « vocazione alla malattia », o addirittura del « privilegio » di essere malati.
Un'antropologia più equilibrata insegna oggi al cristiano a navigare tra i due scogli del disprezzo della vita corporea e della sua assolutizzazione materialista.
La vita terrena non è solo una tappa contingente nel cammino verso l'aldilà; essa è un dono di Dio di cui l'uomo ha la gestione.
È tradizionale nel comune linguaggio religioso parlare della vita come dono di Dio.
L'espressione è impiegata per lo più in modo restrittivo.
Qualificando la vita come dono si intende affermare che Dio ne è padrone e solo lui può riprendersela: l'uomo non può disporre arbitrariamente della propria vita.
All'espressione può essere attribuito un senso molto più ampio.
Il dono della vita acquista tutto il suo valore quando lo consideriamo nel contesto di quella che K. Barth chiama « l'etica dell'obbedienza ».
Nell'esistenza umana come tale è implicito il comandamento di vivere.
Dio creatore ordina all'uomo di onorare la vita - la propria come quella degli altri uomini - come un bene che viene da lui.
Approvando la vita, volendola, l'uomo obbedisce a Dio.
Volere la vita equivale alla volontà di essere in salute.
La salute di cui qui è questione non si riduce a quell'equilibrio organico e al connesso senso di pienezza e benessere che sono talvolta oggetto di un culto quasi idolatrico.
L'igienismo è una caricatura della salute in senso antropologico.
Se la salute coincide con la forza di essere uomo, il malato, anche gravemente colpito, può voler essere in salute, senza per questo farsi illusione sul proprio stato.
Voler la salute significa voler essere uomo sino alla fine ( appare qui la possibilità di fondare su questo diritto della persona la limitazione delle terapie di rianimazione, quando queste si risolvessero in un accanimento terapeutico che espropria l'uomo della dignità nel morire ).
Su questa concezione della salute si fonda quella che K. Barth chiama « la regola fondamentale dell'etica della malattia »: « esigere che il paziente si riferisca continuamente, come tutti quelli che l'accostano, non alla sua malattia, ma alla sua salute e alla sua volontà di ritrovarla ».
In una società che ha perduto il senso del sacro, questo principio etico ci sembra difendere la densità religiosa del fatto stesso di vivere, meglio che un richiamo formale al « carattere sacro » della vita.
L'opzione cristiana per la vita, intesa come volontà e forza di essere uomo, ha anche una dimensione sociale.
Al vecchio principio: « Mens sana in corpore sano » bisogna aggiungere: « in societate sana ».
Abbiamo preso coscienza infatti che bisogna promuovere non solo tutto l'uomo, ma anche tutti gli uomini, se non vogliamo cadere in uria raffinata barbarie.
Tutta la medicina sociale e preventiva trova perciò la più ampia approvazione da parte dell'antropologia cristiana.
I cristiani possono con tranquilla coscienza far proprio il partito preso per la salute e la vita.
Esso non è una filiazione dello spirito pagano, bensì la comprensione più adeguata, con il contributo della moderna antropologia, di che cosa comporta la sequela di Colui che « passò facendo del bene e guarendo » ( cfr. At 10,38 ).
Magistero |
|
Discorso Giovanni Paolo II | 4-1-1986 |
L'antropologia di San Tommaso unisce sempre strettamente la considerazione della "natura" e quella della "persona", in modo tale che la natura fonda i valori oggettivi della persona, e questa dà un significato di concretezza ai valori universali della natura. | |
Commissione Biblica - Che cosa è l'uomo? | 30-9-2019 |
Un itinerario di antropologia biblica | |
Concilio Ecumenico Vaticano II |
|
Cristo, l'uomo nuovo | GS 22 |
Suo studio, da organizzarsi come sussidio all'apostolato dei laici | AA 32 |
Rinnovamento Catechesi |
|
La catechesi parla di un "uomo nuovo" | 91 |
La catechesi sul peccato, alla luce della vocazione soprannaturale dell'uomo | 93 |
Un'attenzione particolare ai temi riguardanti la famiglia | 98 |
La catechesi interpretai segni dei tempi | 129 |
Compendio della dottrina sociale |
|
Dottrina sociale e antropologia cristiana |
9 |
Genesi e antropologia cristiana | 37 |
Evangelizzazione e ordine antropologico | 66 |
Gaudium et spes e visione antropologica | 96 |
Antropologia, maschile e femminile | 146 |
Contratto sociale e antropologia falsa | 149 |
Giustizia e antropologia cristiana | 202 |
Antropologia e unioni omosessuali | 228 |
Ordine antropologico e fertilità femminile | 233 |
Lavoro e fondamento antropologico | 322 |
Antropologia cristiana e lavoro | 522 |
Antropologia e inculturazione della fede | 523 |
Antropologia cristiana e persona | 527 |
Antropologia cristiana e discernimento | 527 |
Agire dei laici e realtà antropologica | 543 |
Antropologia e forme culturali storiche | 558 |