La città di Dio |
Come ho stabilito nel libro precedente, questo, che è l'ultimo di tutta l'opera, tratterà l'argomento della felicità eterna della città di Dio, la quale non ha avuto l'appellativo d'eterna a causa di una lunga successione di tempo per indefiniti periodi, che comunque avrebbe avuto fine, ma perché, come è scritto nel Vangelo: Del suo regno non si avrà la fine. ( Lc 1,33 )
E non è che in essa si manifesti l'apparenza della perennità col cessare di alcuni di tali periodi e col subentrare di altri, come in un albero che si riveste di fronde in continuazione può sembrare che persista il medesimo colore verde mentre, scomparendo e cadendo le foglie, le altre che spuntano conservano l'apparenza della ombrosità.
Nella città di Dio invece tutti i cittadini saranno immortali perché gli uomini conseguiranno ciò che gli angeli santi non hanno mai perduto.
Lo porrà in atto Dio sommamente onnipotente suo fondatore.
L'ha promesso e non può mentire e per coloro, ai quali offriva di ciò una garanzia, ha posto in atto molti eventi promessi e non promessi.
Egli infatti all'origine ha creato il mondo, provvisto di esseri visibili e intelligibili e tutti buoni.
In esso nulla ha stabilito di più perfetto degli esseri spirituali, ai quali ha dato l'intelligenza, che ha reso abili a conoscerlo nella sua trascendenza e idonei a possederlo e ha riunito in una società che consideriamo la santa città dell'alto.
In essa l'essere, da cui sono conservati nell'esistenza e resi felici, è per loro Dio stesso come vita e sostentamento comune.
E ha conferito a questa creatura ragionevole il libero arbitrio in modo che essa, se voleva, poteva abbandonare Dio, sua felicità, con immediata successione della infelicità.
Ed egli, pur nella prescienza che alcuni angeli, mediante l'arroganza, con cui pretendevano di essere autosufficienti alla propria felicità, sarebbero divenuti rinunziatari di un bene così grande, non tolse loro questa facoltà perché giudicò che era di maggior potere e bontà trarre il bene dal male che non permettere il male.
Ma il male non vi sarebbe se, peccando, non lo avesse operato per sé la natura stessa, soggetta al divenire, sebbene buona e ideata da Dio, Bene sommo e non soggetto al divenire, che ha creato buone tutte le cose.
E proprio dall'attestato di questo suo peccato la natura si rende cosciente d'essere stata creata buona; se non fosse anch'essa un bene grande, sebbene non eguale al Creatore, l'abbandonare Dio come sua luce non potrebbe essere il suo male. Infatti la cecità è un male dell'occhio e proprio questo male dimostra che l'occhio è stato creato per vedere la luce e perciò proprio da questo suo male si ravvisa come il più nobile di tutti gli altri organi l'organo percipiente la luce, poiché il male di essere privo della luce non ha altra provenienza.
Allo stesso modo una natura, che si allietava in Dio, fa intendere che era stata creata sommamente buona proprio da questo suo male, per cui è infelice, appunto perché non si allieta in Dio.
Egli ha punito la volontaria defezione degli angeli con la giustissima pena di una eterna afflizione e agli altri che erano rimasti fedeli, affinché fossero certi della propria fedeltà senza fine, diede, per così dire, il premio di tale fedeltà.
Ed Egli ha creato l'uomo, anche lui capace di bene mediante il libero arbitrio, quantunque fosse un essere animato sulla terra, ma degno del cielo se rimaneva unito al suo Creatore, ed egualmente, se lo avesse abbandonato, della infelicità che sarebbe sopraggiunta quale sarebbe convenuta a siffatta natura.
E sebbene avesse egualmente avuto prescienza che avrebbe peccato con la trasgressione della legge di Dio mediante la defezione da lui, neanche a lui sottrasse il potere del libero arbitrio perché con un medesimo atto previde il bene che Egli avrebbe operato dal male di lui.
Ed Egli dalla discendenza soggetta a morire, debitamente e giustamente condannata, raduna con la sua grazia un grande popolo per riparare e rinnovare con esso la parte di angeli che è caduta, sicché la diletta città dell'alto non è privata del numero dei suoi cittadini, che anzi forse è allietata da un numero più abbondante.
Molte azioni certamente sono compiute dai cattivi contro la volontà di Dio, ma Egli è di tanta sapienza e potere che tutti gli avvenimenti, che sembrano contrari alla sua volontà, tendono a quegli scopi e fini che Egli ha previsto come buoni e giusti.
Perciò quando si dice che Dio ha mutato la volontà, sicché, ad esempio, si rende sdegnato verso coloro con i quali era indulgente, sono essi che sono cambiati, non lui, e in un certo senso lo trovano mutato nelle avversità che subiscono.
Allo stesso modo cambia il sole per gli occhi contusi e in qualche modo si rende da blando irritante, da dilettevole sgradito, sebbene in sé rimanga quel che era.
Si considera volontà di Dio anche quella che Egli pone in atto nel cuore di coloro che obbediscono ai suoi comandamenti, e di essa dice l'Apostolo: È Dio che opera in voi anche il volere, ( Fil 2,13 ) come si considera giustizia di Dio non solo quella per cui Egli è considerato giusto, ma anche quella che Egli pone in atto nell'uomo che da lui viene reso giusto. ( Fil 3,9-10 )
Così si considera sua anche la legge che invece è degli uomini, ma data da lui perché erano uomini coloro ai quali Gesù disse: Nella vostra Legge è stato scritto, ( Gv 8,17 ) sebbene in un altro passo leggiamo: La legge del suo Dio è nel suo cuore. ( Sal 37,31 )
Secondo questa volontà, che Dio opera negli uomini, si dice che Egli vuole non ciò che vuole ma ciò di cui rende volenti i suoi, come si considera che Egli ha conosciuto ciò che ha fatto conoscere da coloro da cui era ignorato.
Infatti dalle parole dell'Apostolo: Ora poi conoscendo Dio, anzi essendo conosciuti da Dio, ( Gal 4,9 ) non è consentito dedurre che Dio abbia conosciuto allora quelli che erano conosciuti prima della creazione del mondo, ( 1 Pt 1,20 ) ma è stato detto che li ha conosciuti quando ha fatto sì che fosse conosciuto.
Ricordo di aver discusso di questi modi di parlare nei libri precedenti.1
Dunque secondo questa volontà, per cui noi diciamo che Dio vuole quello che fa in modo che vogliano coloro che ignorano il futuro, Dio vuole molte cose ma non le attua.
I suoi santi chiedono che si avverino molti eventi ispirati da lui con una volontà santa, però non si avverano come essi con fede e devozione pregano per determinate persone ed Egli non pone in atto ciò che chiedono nella preghiera, sebbene nello Spirito Santo ha suscitato in essi questa volontà di pregare.
Perciò quando i santi chiedono e pregano che ognuno sia salvo, possiamo dire con quel modo figurato di esprimersi: "Dio vuole e non fa", per dire che Egli vuole perché attua che costoro chiedano.
Però in virtù della sua volontà, che è eterna unitamente alla sua prescienza, ha già posto in atto, in cielo e sulla terra, tutti gli eventi che ha voluto, non solo passati o presenti, ma anche futuri. ( Sal 114,3 )
Nondimeno, prima che giunga il tempo in cui Egli vuole che si avveri l'evento, che prima di tutti i tempi ha preordinato nella sua prescienza, noi diciamo: "Avverrà quando Dio vorrà".
Però se ignoriamo non solo il tempo in cui avverrà, ma anche se avverrà, diciamo: "Avverrà se Dio vorrà", non perché Dio avrà un nuovo atto di volontà che non aveva, ma perché allora avverrà quel che dall'eternità è stato preordinato nella sua volontà non soggetta al divenire.
Perciò, per passare sopra a molti altri eventi, come ora notiamo che in Cristo si è adempiuta la promessa fatta ad Abramo: Nella tua discendenza saranno benedetti tutti i popoli, ( Gen 22,18 ) così si adempirà ciò che alla medesima discendenza ha promesso con le parole del profeta: Risorgeranno coloro che erano nei sepolcri, ( Is 26,19 ) e con queste altre: Vi saranno un cielo nuovo e una terra nuova e non si ricorderanno più dei passati e la vecchia terra non verrà più loro in mente, ma troveranno in essa gioia e giubilo.
Ecco, io faccio di Gerusalemme un giubilo e del mio popolo una gioia e salterò di giubilo in Gerusalemme e gioirò nel mio popolo e non si udrà più in essa una voce di pianto. ( Is 65,17-19 )
Ha preannunziato l'evento mediante un altro profeta con parole rivolte a lui: In quel tempo avrà la salvezza tutto il tuo popolo, che sarà trovato scritto nel libro, e molti di coloro che dormono nella polvere della terra ( o come molti hanno tradotto: in un mucchio2 ) risorgeranno, gli uni alla vita eterna e gli altri alla vergogna e all'infamia eterna. ( Dn 12,1-2 )
In un altro passo del medesimo profeta si ha: I santi dell'Altissimo riceveranno il regno e lo possederanno per sempre, oltre il tempo, ( Dn 7,18 ) e poco dopo dice: Il suo regno è eterno. ( Dn 7,27 )
Altri eventi, attinenti all'argomento, che ho allegato nel libro ventesimo3 o che non ho allegato, ma sono riferiti in quella profezia, si avvereranno anch'essi, come si sono avverati questi, che gli infedeli non pensavano si avverassero.
Ha preannunziato gli uni e gli altri, ha predetto che si avvereranno gli uni e gli altri il medesimo Dio, di cui gli dèi dei pagani hanno orrore, anche per la testimonianza di Porfirio, il più illustre filosofo dei pagani.4
Ma naturalmente vi sono individui, letterati e filosofi, che sono in opposizione al prestigio di sì grande autorevolezza, la quale ha volto tutte le categorie di persone a credere e sperare nella risurrezione, come aveva predetto tanto tempo prima.
A costoro sembra di ragionare con finezza contro la risurrezione dei corpi e di poter citare quel che è riferito nel terzo libro su Lo Stato di Cicerone.
Difatti nell'affermare che Ercole e Romolo da uomini erano diventati dèi, dice: Non i loro corpi sono stati elevati perché la natura non tollererebbe che ciò che è della terra non rimanga se non nella terra.5
Questo è il grande criterio dei filosofi, dei cui pensieri il Signore conosce che sono privi di significato. ( Sal 94,11 )
Se fossimo soltanto anima, cioè spirito senza corpo, e avendo dimora in cielo non conoscessimo gli esseri animati della terra e ci si dicesse che in futuro avverrà che saremo congiunti con vincolo mirabile ad animare corpi terrestri, ragioneremmo molto più attendibilmente se ci rifiutassimo di crederlo e dicessimo che la natura non tollera che un essere incorporeo sia avvinto da un legame corporeo.
E tuttavia la terra è piena di anime che vivificano le parti terrestri di un corpo, congiunte fra di loro in modo mirabile e influenti l'una sull'altra.
Perché dunque nella volontà di Dio, che ha creato questo essere animato, un corpo terrestre non potrà essere sublimato a un corpo celeste, se l'anima spirituale, più nobile di ogni corpo e quindi anche di un corpo celeste, ha potuto essere unita a un corpo terrestre?
Forseché un pezzetto di terra, tanto meschino, ha potuto avere in sé un essere più nobile di un corpo celeste, in modo da avere la conoscenza e la vita, e il cielo rifiuterà di accoglierlo, pur dotato di conoscenza e vita, o non lo potrà conservare se accolto, quando esso conosce e vive mediante un essere migliore di ogni corpo celeste?
Ma ora non avviene perché non è ancora il tempo in cui ha voluto che avvenisse colui che ha creato, molto più mirabilmente di quel che dai pagani non è ammesso, quel che ora è divenuto usuale alla nostra esperienza.
Perché non ammiriamo di più che le anime spirituali, più nobili di un corpo celeste, sono unite ai corpi terrestri, anziché ammirare che i corpi, sebbene terrestri, sono elevati a dimore, sebbene celesti, tuttavia corporee?
La ragione è che siamo abituati a percepire questo stato e questo siamo; non siamo ancora quello e non l'abbiamo ancora percepito.
Adottando un criterio assennato si rinviene che è di una operazione divina più mirabile congiungere in qualche modo esseri corporei a incorporei che unire corpi a corpi, sebbene diversi perché gli uni sono celesti, gli altri terrestri.
Però questo sarebbe stato incredibile una volta; ma ora il mondo ha creduto che il corpo terrestre del Cristo è stato elevato al cielo.
Individui dotti e ignoranti, esclusi pochissimi istupiditi, tanto dotti che ignoranti, hanno creduto la risurrezione della carne e l'ascensione nelle dimore celesti.
Se hanno creduto una cosa credibile, riflettano quanto sono stolti quelli che non credono; se invece è stata creduta una cosa incredibile, anche questo è incredibile, che sia stato creduto ciò che è incredibile.
Dunque il medesimo Dio, prima che uno dei due eventi si avverasse, ha predetto che si sarebbero avverati tutti e due questi eventi incredibili, cioè la risurrezione del nostro corpo nell'eternità e che il mondo avrebbe creduto una cosa così incredibile. ( Mt 16,21; Mt 26,13 )
Costatiamo che uno dei due eventi incredibili si è già avverato, cioè che il mondo avrebbe creduto ciò che era incredibile.
Non v'è ragione dunque di dubitare che si avveri anche l'altro, che il mondo ha ritenuto incredibile, come si è avverato ciò che è stato egualmente incredibile, cioè che il mondo credesse una cosa tanto incredibile.
Difatti nella sacra Scrittura, mediante la quale il mondo ha creduto, è stato predetto l'uno e l'altro evento incredibile, uno che costatiamo, l'altro che crediamo.
E il modo stesso, col quale il mondo ha creduto, se vi si riflette attentamente, appare più incredibile.
Cristo, con le reti della fede, sul mare di questo mondo, ha mandato pochissimi pescatori, non istruiti nelle discipline liberali e inoltre, per quanto attiene agli insegnamenti dei pagani, del tutto incolti, non acculturati nella grammatica, non muniti nella dialettica, non ampollosi nella retorica, eppure ha preso molti pesci di ogni specie e tanto più degni di meraviglia quanto più rari e perfino gli stessi filosofi.
Se fa piacere, anzi perché deve far piacere, a questi due fatti incredibili aggiungiamone un terzo.
Dunque sono tre i fatti incredibili che tuttavia sono avvenuti.
È incredibile che Cristo sia risorto nella carne e che con la carne sia salito in cielo; è incredibile che il mondo abbia creduto una cosa tanto incredibile; è incredibile che uomini di bassa estrazione, senza mezzi, pochissimi, illetterati abbiano potuto rendere attendibile con tanta evidenza al mondo e in esso anche ai dotti una cosa tanto incredibile.
I pagani, con i quali stiamo dibattendo, non vogliono credere al primo di questi tre fatti incredibili; sono costretti a costatare il secondo, ma non riscontrano come sia avvenuto se non credono al terzo.
In tutto il mondo si annunzia e si crede alla risurrezione di Cristo e alla sua ascensione al cielo con la carne in cui è risorto; se non è credibile, perché è stato ormai creduto in tutto il mondo?
Se molti, famosi, altolocati, dotti avessero detto di averla vista e si fossero impegnati a divulgare quel che avevano visto, non sarebbe da meravigliarsi se il mondo avesse creduto, anzi sarebbe difficile non voler credere ad essi.
Se invece, come è accaduto, il mondo ha creduto a pochi, ignoti, di bassa estrazione, ignoranti che dicevano e scrivevano di aver visto la risurrezione, perché i pochi ostinatissimi, che sono rimasti, non credono ancora al mondo che ormai crede?
E il mondo ha creduto appunto a un piccolo numero di uomini ignoti, di bassa estrazione, illetterati perché attraverso testimoni così poco attendibili la divinità molto più mirabilmente si manifestò con evidenza.
Infatti i linguaggi fautori d'evidenza che usavano furono fatti meravigliosi, non parole.
Coloro i quali non avevano visto che il Cristo era risorto con la carne e che con essa era salito al cielo credevano a quelli i quali narravano di averlo visto, non solo perché parlavano ma anche perché operavano stupendi prodigi.
Difatti all'improvviso udivano parlare miracolosamente le lingue di tutti i popoli individui che sapevano intenditori di una sola lingua, al massimo di due. ( At 2,4-12 )
Vedevano che uno storpio dal grembo della madre, a una loro parola nel nome di Cristo, dopo quarant'anni si era alzato in piedi pienamente guarito, ( At 3,1-11 ) che i fazzoletti tolti via dal loro corpo servivano a guarire gli infermi.
Vedevano che gli innumerevoli individui, afflitti da varie malattie, posti in fila sulla via, in cui stavano per sopraggiungere gli Apostoli, affinché si riflettesse su di essi l'ombra di loro che passavano, spesso ricevevano immediatamente la guarigione. ( At 5,15 )
Scorgevano anche molte altre opere stupende da loro compiute nel nome di Cristo e infine anche la risurrezione dai morti. ( At 20,9-12 )
Se ammettono che tali fatti sono avvenuti come sono stati tramandati, ecco che a quei tre incredibili ne aggiungiamo tanti altri.
Perciò, affinché sia creduto un solo avvenimento incredibile, relativo alla risurrezione della carne e ascensione al cielo, raccogliamo valide testimonianze di molti fatti incredibili e ancora non induciamo a credere coloro che per spaventosa durezza non credono.
Se poi non credono che per mezzo degli Apostoli di Cristo sono stati operati quei miracoli affinché si credesse a loro, che annunziavano la sua risurrezione e ascensione al cielo, a noi basta soltanto questo grande miracolo: che senza miracoli il mondo l'ha creduto.
Riportiamo a questo punto anche ciò che per Cicerone è degno di meraviglia sulla creduta divinità di Romolo.
In Romolo, egli dice, desta soprattutto meraviglia il fatto che gli altri, di cui si tramanda che da uomini sono divenuti dèi, vissero in periodi meno civili in modo che il pensiero era più disposto al mito, poiché gli individui ignoranti erano facilmente spinti a credere; notiamo invece che l'età di Romolo, a meno di sei secoli addietro, fu caratterizzata da cultura ed erudizione già progredite, essendo stato eliminato del tutto un antico pregiudizio proveniente dalla condizione incivile degli uomini.6
E poco dopo, in relazione all'argomento in parola, così parla sempre di Romolo: Da ciò si può arguire che Omero visse moltissimi anni prima di Romolo sicché, essendo progrediti nella cultura uomini e tempi, v'era appena un qualche spazio per favoleggiare.
Difatti l'antichità ha accolto favole formulate talora anche grossolanamente; questa età invece, già acculturata, prevalentemente con la satira ha respinto tutto ciò che non può avvenire.7
Uno del numero degli uomini più dotti e il più eloquente di tutti, Marco Tullio Cicerone, afferma appunto che la divinità di Romolo fu creduta come fatto prodigioso perché i tempi erano progrediti nella cultura in modo da non ammettere la menzogna delle favole.
Ma chi ha creduto Romolo un dio se non Roma, ancora piccola e agli inizi?
In seguito ai posteri era stato necessario mantenere quel che avevano ricevuto dagli antenati, affinché assieme a questa superstizione, succhiata, per così dire, con il latte della madre, la città crescesse a un dominio così esteso.
Così da questa sua sovranità, come da un luogo più alto, poteva irrorare di questa sua credenza anche gli altri popoli sui quali dominava, non perché credessero ma affinché parlassero di Romolo come di un dio.
Non dovevano, cioè, ingiuriare la città, cui erano sottomessi, nel suo fondatore, non attribuendogli un appellativo riconosciutogli da Roma che lo aveva creduto non per amore di questo errore, ma tuttavia per un errore suggerito dall'amore.
Invece, sebbene Cristo sia fondatore dell'eterna città del cielo, tuttavia essa non l'ha creduto Dio perché è stata fondata da lui, ma si deve costruirla appunto perché crede.
Roma, già costruita e consacrata, ha adorato il suo fondatore in un tempio; questa Gerusalemme invece, per essere costruita e consacrata, ha posto sul fondamento della fede Cristo Dio suo fondatore.
Quella amandolo l'ha creduto un dio, questa credendolo Dio l'ha amato.
Come dunque si avverò prima che Roma amò e poi che della persona amata, ormai agevolmente, credette anche un falso bene; così si avverò prima che la Gerusalemme terrena credette affinché con la retta fede non amasse alla cieca ciò che è falso, ma ciò che è vero.
A parte dunque tanti grandi miracoli, i quali hanno convinto che Cristo è Dio, si ebbero prima anche le profezie d'ispirazione divina, assolutamente degne di fede, di cui non si crede, come credettero i nostri padri, che devono adempiersi in lui, ma si dimostra che si sono già adempiute; di Romolo invece, circa l'evento che ha fondato Roma e ha regnato in essa, si ascolta e si legge che è avvenuto, non che è stato profetato prima che avvenisse.
In quanto poi al fatto che è stato accolto fra gli dèi, i loro libri fanno capire che è creduto, non affermano che è avvenuto.8
Difatti non si dimostra con indicazioni di eventi prodigiosi che ciò è realmente accaduto.
Anche la celebre lupa allattante, che sembrerebbe un grande portento, quale attinenza o autorevolezza ha per dimostrarlo un dio?9
E sebbene la celebre lupa senza dubbio non fu una prostituta ma un animale, quantunque sia stata in comune per i gemelli, tuttavia il suo fratello non è considerato un dio.
E chi è stato interdetto di dichiarare dèi Romolo o Ercole o altre simili personalità e ha preferito morire anziché non dichiararlo?
Oppure qualche popolo onorerebbe fra i suoi dèi Romolo, se non lo costringesse la paura del nome romano?
Chi potrebbe invece calcolare quanti hanno preferito essere uccisi con grande, disumana spietatezza anziché negare che Cristo è Dio?
Quindi il timore, sia pure di una leggera indignazione, costringeva alcune città soggette al diritto romano a onorare Romolo come un dio.
Invece la paura, non tanto di un leggero sdegno dell'animo, ma di grandi e varie pene e della morte stessa, che più delle altre si paventa, non ha potuto distogliere un grande numero di martiri, fra tutti i popoli della terra, dall'onorare ma anche dal professare Cristo come Dio.
E in quel tempo la città di Dio, sebbene fosse esule in cammino sulla terra e avesse schiere di grandi popoli, non combatté per la salvezza nel tempo contro i propri persecutori pagani, ma piuttosto, per raggiungere la salvezza eterna, non oppose resistenza.
Venivano incatenati, imprigionati, flagellati, torturati, bruciati, sbranati e crescevano di numero.
Per loro combattere per la salvezza era lo stesso che disprezzare la salvezza per amore del Salvatore.
So che nell'opera su Lo Stato di Cicerone, nel terzo libro, se non sbaglio, si tratta dialogicamente che da un'ottima amministrazione civile s'imprende la guerra soltanto per la fedeltà e la salvezza.
In un passo, mostrando che cosa intende per salvezza o a quale salvezza vuole che si pensi, dice: Da queste pene, che anche i più ingenui sentono, cioè la fame, l'esilio, il carcere, le verghe, spesso i privati cittadini sfuggono per il sopraggiungere inatteso della morte; per gli enti politici invece la morte stessa, che sembra garantire gli individui dalla pena, è una pena.
L'ente politico infatti dev'essere organizzato in modo tale da essere perpetuo.
Quindi non si ha la morte naturale dello Stato come dell'uomo, per il quale la morte non solo è inevitabile, ma spesso auspicabile.
Invece un'entità politica, quando viene soppressa, è distrutta, annientata; è come se, in certo senso, tanto per paragonare le piccole cose alle grandi, tutto questo mondo scomparisse e precipitasse nel nulla.10
Cicerone ha espresso questo pensiero appunto perché con i platonici ritiene che il mondo non avrà fine. È evidente dunque la sua opinione che dal governo dello Stato sia intrapresa la guerra per quella salvezza per cui lo Stato persiste nel tempo, pur nel morire e nascere degli individui, come è perenne l'ombrosità dell'olivo, dell'alloro e di alberi consimili attraverso il cadere e il rispuntare delle foglie.
La morte infatti, come egli si esprime, è una pena non dei singoli individui, ma di tutto lo Stato e invece spesso libera dalla pena gli individui.
Perciò a buon diritto si pone il problema se fece bene Sagunto quando preferì la sua distruzione anziché violare la fedeltà con cui era legata allo stesso Stato romano e per questa sua determinazione è lodata da tutti i cittadini dello Stato terreno.
Però io non vedo in qual modo potessero essere ottemperanti di quella teoria, con cui si afferma che si deve intraprendere la guerra soltanto o per la fedeltà o per la salvezza; infatti nel caso che questi due valori s'incontrassero in uno e medesimo pericolo, in modo che non si può ottenere l'uno senza la perdita dell'altro, non si dice quale dei due sia da preferire.
Se Sagunto avesse preferito la salvezza, si doveva dai suoi cittadini rinunziare alla fedeltà; se da mantenere la fedeltà, era da lasciar perdere la salvezza, come difatti è avvenuto.11
La salvezza della città di Dio è tale che si può mantenere o piuttosto raggiungere assieme alla fede e mediante la fede, sicché perduta la fede non si può giungere ad essa.
Questa riflessione di un cuore assai forte e paziente ha fruttato tanti grandi martiri, di tal fatta che neanche uno solo ne ebbe o poté averne Romolo, quando fu creduto un dio.
Ma è davvero ridicolo fare riferimento alla divinità di Romolo, quando parliamo di Cristo.
Romolo è esistito circa seicento anni prima di Cicerone e si afferma che quell'età era già evoluta nella cultura,12 sicché avrebbe rifiutato tutto ciò che era inattendibile.
A più forte ragione dunque, dopo seicento anni, al tempo dello stesso Cicerone, e soprattutto in seguito, sotto Augusto e Tiberio, in tempi certamente molto più addottrinati, l'intelligenza umana non avrebbe potuto accettare e, rifiutando di ascoltare e di accogliere, avrebbe rifiutato come inattendibile la risurrezione della carne di Cristo e la sua ascesa al cielo, se non l'avessero mostrata come attendibile e realmente avvenuta la testimonianza divina della verità e la verità della testimonianza divina e insieme gli attestanti criteri dei miracoli.
Avvenne così che, malgrado il timore e le idee contrarie di tante e così crudeli persecuzioni, la risurrezione e l'immortalità della carne, che precede nel Cristo e seguirà negli altri fuori del tempo, fosse creduta con fede invitta, annunziata con coraggio e seminata nel mondo per germogliare più fecondamente nel sangue dei martiri.
Si leggevano infatti precorritrici predizioni dei Profeti, avvenivano contemporaneamente gli straordinari esempi di virtù e si rendeva consona al modo di vivere una verità nuova, non contraria alla ragione finché il mondo, che perseguitava con furore, seguì nella fede.
Perché, obiettano, quei miracoli che andate dicendo siano avvenuti, ora non avvengono più?13
Potrei rispondere che sono stati necessari prima che il mondo credesse, affinché il mondo credesse.
Chi per credere va ancora in cerca di prodigi, è egli stesso un prodigio perché non crede, mentre il mondo crede.
Però lo dicono affinché si creda che quei miracoli non sono avvenuti.
Come si spiega dunque che con tanta fede si canta da ogni parte che Cristo è stato elevato al cielo con la carne?
Come si spiega che in tempi addottrinati, i quali rifiutano tutto ciò che è inattendibile, il mondo ha creduto senza miracoli a fatti incredibili perché troppo meravigliosi?
Diranno forse che sono stati credibili e perciò sono stati creduti?
E allora perché essi non credono?
È quindi molto semplice il nostro dilemma: o da un fatto incredibile, perché fuori dell'esperienza, hanno suscitato la fede altri fatti incredibili, che tuttavia avvenivano ed erano nell'esperienza; ovvero un fatto così credibile, da non aver bisogno di miracoli per essere evidenziato, confuta l'eccessiva mancanza di fede di costoro.
Direi questo per ribattere i più sciocchi.
Difatti non possiamo negare che sono avvenuti molti miracoli, i quali dimostrerebbero quell'unico grande salvifico miracolo, per cui Cristo è salito al cielo con la carne con cui era risorto.
È stato tutto scritto nei medesimi libri assolutamente veri: i fatti che sono avvenuti e per quale verità da credere sono avvenuti.
Essi furono palesi per suscitare la fede; essi molto più evidentemente sono palesi mediante la fede che hanno suscitato.
Sono letti fra i popoli affinché siano creduti, ma non si leggerebbero fra i popoli se non fossero creduti.
Difatti anche al presente avvengono miracoli nel suo nome, sia mediante i sacramenti, sia attraverso le preghiere e il culto dei santi, ma non sono divulgati con la medesima notorietà al punto da avere una fama come quella. Il canone della sacra Scrittura, che doveva essere autenticato, fa in modo che quelli siano annunziati dovunque e siano impressi nel ricordo di tutti i popoli.
Questi altri invece, dovunque avvengano, sono conosciuti appena da tutta una città o in qualsiasi località di individui che vivono insieme.
Spesso infatti anche in quel luogo li conoscono pochissimi, mentre i più li ignorano, soprattutto se la città è molto grande; e quando sono narrati ad altri, in altre parti, non li sostiene una grande autorità, in modo che siano creduti senza difficoltà e incertezza, sebbene siano comunicati da cristiani a cristiani.
Il miracolo che avvenne a Milano, mentre vi risiedevo, quando un cieco riacquistò la vista, poté giungere alla conoscenza di molti perché la città era grande, vi risiedeva allora l'Imperatore e il fatto avvenne alla presenza di una grande folla che era accorsa per vedere i corpi dei martiri Gervasio e Protasio, che erano rimasti nascosti e del tutto ignoti.
Erano stati scoperti perché svelati in sogno al vescovo Ambrogio e in quel luogo il cieco, fugate le tenebre di prima, rivide la luce.14
Invece a Cartagine soltanto pochissimi conoscono la guarigione che si verificò in Innocenzo, già avvocato alla viceprefettura; fummo presenti e lo costatammo con i nostri occhi.
Egli, siccome con tutta la sua famiglia era molto devoto, aveva accolto me e il mio confratello Alipio, non ancora chierici ma già servi di Dio, che provenivamo da oltre il mare e avevamo preso alloggio presso di lui.
Era curato dai medici per le emorroidi, che aveva numerose e aggrovigliate nella parte posteriore e più bassa del busto.
I medici lo avevano già operato ed eseguivano con unguenti le rimanenti operazioni della propria professione.
Nell'intervento aveva sofferto prolungati e forti dolori.
Ma fra le molte una di quelle varici era sfuggita ai medici che non la ravvisarono, sebbene avrebbero dovuto inciderla col ferro chirurgico.
Quindi essendo tutte guarite quelle che i medici già incise curavano, era rimasta quella sola e le si applicava inutilmente la cura.
Innocenzo, stimando ingiustificate quelle dilazioni e temendo di essere operato un'altra volta, perdette il controllo.
Infatti lo aveva preavvertito il medico di casa che gli altri non avevano convocato quando fu inciso la prima volta, affinché vedesse almeno come operavano.
Innocenzo adirato lo aveva cacciato di casa e a stento ve lo aveva riammesso.
Disse: "Mi opererete un'altra volta? Dovrò andare incontro alle previsioni di colui che non avete voluto presente?".
E quelli continuavano a beffare il medico inesperto e a calmare con buone parole e con promesse la paura dell'uomo.
Passarono molti altri giorni e non serviva a nulla quel che si faceva.
Comunque i medici persistevano nella loro promessa che avrebbero guarito la varice non con lo strumento chirurgico ma con gli impiastri.
Invitarono anche un altro medico, ormai anziano, molto celebrato nella tecnica chirurgica, Ammonio, che era ancora in vita.
Egli, esaminata la parte, promise con attenzione alla loro diligenza e competenza il medesimo buon esito come gli altri.
Tranquillizzato dalla sua autorità, con fine umorismo si burlò, come se fosse già guarito, del suo medico di casa che aveva previsto un altro taglio.
Che dire di più? Passarono tanti giorni inutilmente, sicché i medici, stanchi e sfiduciati, confessarono che poteva guarire soltanto con un intervento.
Si spaventò, divenne pallido, sconvolto dallo spavento e appena si riprese e poté parlare, comandò ai medici di andarsene e di non farsi più vedere da lui.
Spossato dalle lacrime e costretto da quella ineluttabilità non gli venne in mente altro che rivolgersi a un certo Alessandrino, che allora era considerato un chirurgo molto efficiente, affinché egli facesse quel che adirato non voleva fosse fatto dagli altri.
Ma dopo che questi venne e da esperto osservò nelle cicatrici l'opera dei medici, adempiendo un dovere di persona perbene, convinse l'individuo che essi piuttosto, i quali si erano tanto impegnati per lui, come egli poteva costatare con ammirazione, godessero del risultato della sua guarigione.
Aggiunse che davvero, se non veniva operato, non poteva guarire e che ripugnava molto al suo temperamento strappare, per quel poco che rimaneva, l'onore di un lavoro così eccellente ad uomini, dei quali notava con ammirazione nelle sue cicatrici l'opera professionalmente molto valida, l'impegno, l'accuratezza.
I medici riebbero la sua fiducia e si venne all'accordo che alla presenza dello stesso Alessandrino essi aprissero con lo strumento chirurgico la varice che ormai, col consenso di tutti, si riteneva inguaribile in altro modo.
L'intervento fu rimandato al giorno dopo.
Ma quando i medici se ne andarono, dalla grande angoscia del padrone si manifestò in quella casa un dolore così forte che a stento da noi si reprimeva il pianto come per un decesso.
Lo visitavano quotidianamente uomini di santa vita: Saturnino di beata memoria, allora vescovo di Uzalis, il prete Guloso e i diaconi della chiesa di Cartagine.
Fra di essi vi era anche Aurelio, il solo rimasto in vita, oggi vescovo, da nominarsi con noi col dovuto rispetto.
Ricordando le meraviglie delle opere di Dio ho spesso parlato con lui di questo fatto e ho riscontrato che egli ricordava assai bene ciò che sto richiamando alla memoria.
Mentre essi, come erano soliti, la sera precedente erano in visita da lui, li pregò con lacrime struggenti che alla mattina seguente si degnassero di essere presenti al suo funerale anziché al suo dolore.
L'aveva infatti assalito una paura così grande a causa delle precedenti sofferenze che non dubitava di dover morire fra le mani dei medici.
I chierici lo consolarono e lo esortarono ad avere fiducia in Dio e ad accettare virilmente la sua volontà.
Poi andammo a pregare e lì, mentre al solito piegavamo i ginocchi e ci prostravamo a terra, egli si gettò giù come se fosse stato prosternato dalla violenta spinta di qualcuno e cominciò a pregare.
Chi potrebbe esprimere a parole con quali gesti, con quanta passione, con quale sentimento, con quale fiume di lacrime, con quali gemiti e singulti che scuotevano tutto il suo corpo e ne impedivano quasi il respiro?
Non sapevo se gli altri stessero pregando o se la loro attenzione fosse rivolta a questi particolari.
Io certamente non riuscivo a pregare; dissi soltanto dentro di me queste brevi parole: "O Signore, quali preghiere dei tuoi figli esaudisci, se non esaudisci queste?".
Mi sembrava infatti che non potesse avvenire altro se non che egli spirasse pregando.
Ci alzammo e, ricevuta la benedizione del vescovo, ci allontanammo, mentre Innocenzo pregava che la mattina seguente fossero presenti, ed essi lo esortavano che si facesse coraggio.
Spuntò il giorno temuto, erano presenti i servi di Dio, come avevano promesso, entrarono i medici, furono preparati gli strumenti che la circostanza richiedeva, furono tirati fuori i tremendi ferri chirurgici nello sbalordimento e ansia di tutti.
Mentre quelli che hanno maggiore influenza cercano di lenire la sua mancanza di coraggio con parole di conforto, il corpo viene disposto sul lettuccio a portata della mano del chirurgo, si sciolgono i nodi delle fasciature, viene scoperta la parte, il medico guarda e cerca, armato e intento, la varice da recidere.
Esplora con gli occhi, palpa con le dita, si adopera poi in tutti i modi: trova una solidissima cicatrice.
La grande gioia, la lode e il ringraziamento a Dio onnipotente e misericordioso che sgorgò dalla bocca di tutti con accenti di giubilo soffusi di lacrime non sono da affidare alle mie parole; vi si pensi e non se ne parli.
Sempre a Cartagine Innocenza, donna molto pia, di nobile famiglia, aveva un tumore alla mammella, male, come dicono i medici, non curabile con medicine.
Quindi o si suole recidere e asportare dal corpo la parte in cui si forma, ovvero, affinché l'individuo viva un po' più a lungo, anche se la morte seguirà quantunque più tardi, si deve smettere, secondo l'opinione di Ippocrate, come dicono, qualsiasi cura.15
Lei aveva ricevuto questo consiglio da un medico esperto in materia e grande amico di casa e s'era raccomandata soltanto a Dio con la preghiera.
All'avvicinarsi della Pasqua fu avvertita in sogno che qualsiasi donna battezzata venisse per prima incontro a lei, mentre guardava verso il battistero dalla parte delle donne, le segnasse la parte col segno di Cristo.
Lo fece e la guarigione seguì immediatamente.
Il medico, il quale le aveva prescritto di non usare alcun trattamento se voleva vivere un po' più a lungo, avendola in seguito visitata e costatando completamente guarita la cliente, che precedentemente con una visita aveva accertato affetta da quel male, le chiese con impeto quale cura avesse usato.
Desiderava, per quanto è dato di capire, conoscere il farmaco con cui veniva disdetta la prescrizione di Ippocrate.
Quando seppe da lei quel che era avvenuto, si narra che con l'accento e l'atteggiamento dell'insolente, al punto che lei temette che dicesse qualche parola offensiva contro Cristo, abbia risposto con religiosa cortesia: "Pensavo che mi avresti detto qualcosa di grande".
E poiché la donna rabbrividiva, aggiunse: "Che grande miracolo ha fatto il Cristo a sanare un tumore, lui che ha risuscitato un morto di quattro giorni?" ( Gv 11,39-44 )
Avendo io udito questo e avendo appreso con risentimento che era rimasto celato un così grande miracolo, avvenuto in quella grande città e su di una persona tutt'altro che sconosciuta, decisi di ammonirla in merito e quasi di rimproverarla.
Avendomi risposto che lei non ne aveva taciuto, chiesi alle nobildonne che eventualmente accoglieva a casa come molto amiche se ne sapevano qualcosa.
Mi risposero che non sapevano proprio niente.
Le dissi allora: " Ecco come parli; anche queste donne, che ti sono unite con tanta intimità, non ti hanno udito parlare".
E poiché le proposi un breve questionario, feci in modo che narrasse tutto per ordine, come era avvenuto, alle altre che ascoltarono, ammirarono molto e diedero gloria a Dio.
È avvenuto anche nella medesima città che un medico, malato di gotta, avendo dato il proprio nome per il battesimo, prima che fosse battezzato, gli fu ingiunto in sogno da fanciulli negri riccioluti, in cui ravvisò i demoni, di non farsi battezzare entro l'anno.
Non avendo ubbidito loro, provò un dolore lancinante, quale mai aveva provato, perché gli calpestarono i piedi e a più forte ragione, sconfiggendoli, non differì di purificarsi nel lavacro di rigenerazione, come aveva promesso.
Ma nel battesimo fu libero non solo dal dolore da cui, oltre il consueto, era tormenatato, ma anche dalla gotta e in seguito, sebbene poi vivesse a lungo, non ebbe più dolore ai piedi.
Ma chi lo sapeva? Io tuttavia ne sono a conoscenza e pochissimi fratelli ai quali poté giungere la notizia.
Un attore a riposo di Curubi, mentre veniva battezzato, è stato guarito non solo dalla paralisi, ma anche da un'informe ernia scrotale e, libero dall'uno e dall'altro fastidio, come se non avesse avuto alcun male, risalì dal fonte battesimale.
Chi conosce il fatto se non Curubi e pochi altri che hanno potuto sentirne parlare?
Noi, quando lo abbiamo saputo, dietro ordine del santo vescovo Aurelio l'abbiamo fatto venire a Cartagine, sebbene ne avessimo sentito parlare da alcuni, della cui attendibilità non potremmo dubitare.
Esperio, ex tribuno della plebe e nostro concittadino, possiede nel territorio di Fussala una tenuta che ha nome Zubedi.
Avendo costatato che la sua casa, con disagio degli animali e degli schiavi, subiva l'influsso malefico degli spiriti cattivi, pregò i nostri presbiteri, dato che io ero assente, che qualcuno di loro si recasse sul posto affinché il diavolo si arrendesse alle sue preghiere.
Uno vi andò, vi offrì il sacrificio del corpo di Cristo pregando con tutta la devozione possibile che cessasse quella vessazione; per la bontà di Dio cessò all'istante.
Esperio aveva avuto da un suo amico un po' di terra santa, recata da Gerusalemme, dove il Cristo sepolto era risorto al terzo giorno; la teneva esposta nella sua camera da letto per non subire anch'egli il fastidio.
Ma appena la sua casa fu liberata da quella molestia, pensava che cosa fare di quella terra che per rispetto non voleva tenere più a lungo nella sua camera da letto.
Per caso avvenne che io e un mio collega ora defunto, Massimino, vescovo di Siniti, ci trovassimo nei pressi.
Esperio pregò che andassimo da lui e vi andammo.
Dopo aver riferito tutto, ci chiese anche che fosse conservata sottoterra quel po' di terra e vi fosse costruito un luogo di preghiera, in cui i cristiani potessero radunarsi per celebrare il culto di Dio.
Non ci rifiutammo e fu fatto. V'era in quel luogo un giovane di campagna paralitico.
Venuto a conoscenza del fatto, chiese ai suoi genitori che lo conducessero senza indugio in quel luogo santo.
Essendovi stato condotto, pregò e, subito guarito, si allontanò dal posto con i propri piedi.
Si chiama Vittoriana una casa di campagna che dista da Ippona meno di trenta miglia.
Vi è in essa una cappella dedicata ai martiri di Milano Protasio e Gervasio.
Vi fu portato un giovanetto il quale, mentre verso la mezza estate lavava un cavallo nella corrente di un fiume, fu invaso da un demonio.
Mentre, vicino alla morte o assai simile a un morto, giaceva sul pavimento, la padrona del locale, come di consueto, vi entrò per i canti e le preghiere della sera insieme alle domestiche e ad alcune religiose e cominciarono a cantare gli inni.
Il demonio fu come colpito e scosso da quel canto e con un terribile brontolio, non osando o non riuscendo a smuovere l'altare, vi si era avvinghiato come se vi fosse legato o incatenato e, supplicando con grande lamento che gli si perdonasse, confessò dove, quando e come aveva invaso il giovanetto.
Infine dichiarando che voleva uscire, nominava le singole parti di lui che nell'uscire minacciava di asportare e, pronunziando queste parole, si distaccò dal ragazzo.
Ma un suo occhio, riversatosi sulla guancia, pendeva con una piccola vena come da una radice interna e l'intera sua cornea, che era leggermente nera, era divenuta bianca.
A quella vista i presenti, dato che erano accorsi anche altri, attirati dalle sue grida, e si erano tutti inginocchiati nella preghiera per lui, sebbene fossero contenti che fosse tornato all'uso della ragione, rattristati tuttavia per il suo occhio, dicevano che bisognava cercare un medico.
Allora il marito della sorella, che l'aveva condotto in quel posto, disse: "Dio, che ha allontanato il demonio, può anche, per le preghiere dei suoi santi, restituirgli la vista".
E lì, come poté, dopo averlo rimesso al suo posto, legò con un fazzoletto l'occhio riversato fuori e penzolante e ritenne di doverlo slegare soltanto dopo sette giorni.
Avendo così fatto, lo trovò sanissimo.
In quel luogo furono guariti altri, di cui sarebbe lungo parlare.
So che una ragazza d'Ippona, essendosi segnata con l'olio, in cui un sacerdote, mentre pregava per lei, aveva fatto cadere delle lacrime, fu immediatamente libera dal demonio.
So anche che un vescovo ha pregato una sola volta per un giovinetto che non conosceva e questi fu immediatamente libero dal demonio.
V'era l'anziano Fiorenzo della nostra Ippona, uomo devoto e povero che si sostentava col mestiere di rammendatore.
Aveva perduto il ferraiuolo e non aveva denaro per ricomprarlo.
Nella cappella dei Venti Martiri, la cui devozione è molto diffusa nel nostro popolo,16 pregò a voce alta per avere roba da indossare.
L'udirono alcuni ragazzi che per caso si trovavano là a deriderlo, e mentre si allontanava, lo seguivano prendendolo in giro come se dai martiri avesse chiesto cinquanta spiccioli per comprarsi un vestito.
Ma egli camminando in silenzio vide un grosso pesce fuori dell'acqua che guizzava sulla spiaggia e col benevolo aiuto di quei ragazzi lo catturò e, denunziando quel che era avvenuto, lo vendette per trecento spiccioli a un cuoco, di nome Cattoso, buon cristiano, per la cottura adatta a conservare.
Contava di acquistare con quel denaro la lana affinché la moglie, secondo la propria abilità, eseguisse per lui qualche capo da indossare.
Ma il cuoco, spaccando il pesce, trovò nello stomaco un anello d'oro e subito, mosso da compassione e intimorito da un senso religioso, lo restituì all'uomo dicendo: "Ecco come i Venti Martiri ti hanno fatto avere un vestito".
Dal vescovo Preietto veniva portata alle Acque Tibilitane una reliquia del gloriosissimo martire Stefano in mezzo a una grande folla che accompagnava e veniva incontro.
In quell'occasione una cieca pregò di essere guidata al vescovo, offrì i fiori che portava, li riprese, li avvicinò agli occhi e istantaneamente vide.
Nello sbalordimento dei presenti procedeva a passo di danza, percorrendo la via senza più chiedere la guida.
La reliquia è stata riposta nella cittadella di Siniti che è vicina alla colonia d'Ippona.
Lucillo, vescovo della medesima località, la portava in processione in mezzo al popolo che precedeva e seguiva.
Una fistola, che lo affliggeva da molto tempo e che attendeva l'intervento di un medico, suo grande amico, all'improvviso fu guarita nel trasporto di quel sacro peso; difatti in seguito non la riscontrò più nel suo corpo.
Eucario è un sacerdote proveniente dalla Spagna e risiede a Calama.
Da tempo era afflitto da calcolosi; fu guarito mediante la reliquia del martire Stefano che il vescovo Possidio trasportò dove abitava.
Il medesimo sacerdote fu colpito da un male molto grave e giaceva come morto sicché gli stavano già legando i pollici.
Egli risuscitò per l'intercessione del martire suddetto quando gli fu riportata a casa, dal luogo ove era la reliquia del santo, la tunica e posta sopra il suo corpo disteso.
V'era un uomo, uno dei principali del suo ceto, di nome Marziale, già avanzato in età e fortemente renitente alla religione cristiana.
Aveva una figlia credente e il genero che si era battezzato in quell'anno.
Essendosi ammalato, poiché essi con molte accorate lacrime lo supplicavano di farsi cristiano, rifiutò decisamente e con grande sdegno li respinse.
Il genero decise di andare alla cappella di santo Stefano e lì pregare fino al possibile per lui, affinché il Signore gli concedesse la buona coscienza di non tardare nel credere in Cristo.
Lo fece con grande lamento e pianto e sinceramente con ardente sentimento di pietà, poi nell'allontanarsi prese dall'altare una parte dei fiori che era a portata ed essendo già buio, glieli pose vicino alla testa e si dormì.
Ed ecco prima dell'alba Marziale grida affinché si corra dal vescovo, che allora per caso era con me ad Ippona.
Avendo udito che era assente, chiese che venissero i sacerdoti.
Vennero, disse di credere e con meraviglia e gioia di tutti fu battezzato.
Finché visse ebbe sulle labbra questa invocazione: "Cristo, accogli il mio spirito".
Eppure non sapeva che furono queste le ultime parole di santo Stefano mentre veniva lapidato dai Giudei. ( At 7,59 )
Anche per lui furono le ultime. Poco dopo infatti spirò.
Sempre a Calama per intercessione del martire Stefano furono guariti dalla gotta due cittadini e uno straniero: i cittadini completamente; lo straniero udì in visione che cosa doveva usare quando soffriva e appena fatto ciò, il dolore scomparve immediatamente.
Auduro è il nome di una tenuta, in cui v'è una chiesa e in essa la reliquia del martire Stefano.
Buoi, che trainavano un carro agricolo, uscendo di carreggiata, con le ruote schiacciarono un bambino che stava giocando nell'aia ed egli immediatamente spirò spasimando.
La madre, trattolo fuori, lo pose davanti alla reliquia e non soltanto tornò in vita, ma apparve del tutto incolume.
Poiché una religiosa in un possedimento vicino, che si denomina Caspaliana, era affetta da un male senza speranza, una sua tunica fu portata all'altare del Santo.
Prima che fosse ricondotta, la religiosa morì.
I suoi genitori però coprirono il cadavere con la tunica suddetta e lei riprese a respirare e fu guarita.
Presso Ippona un tale della Siria, chiamato Basso, davanti alla reliquia del martire Stefano pregava per la figlia ammalata in pericolo di vita e aveva portato con sé un vestito di lei, quando all'improvviso dalla casa accorsero i servi per avvertirlo che era morta.
Però mentre egli pregava furono fermati dagli amici di lui i quali proibirono di dirglielo affinché non piangesse alla vista di tutti.
Essendo tornato a casa che risuonava già dei pianti dei familiari e avendo steso la veste, che aveva fra mano, sopra la figlia, ella fu resa alla vita.
Ancora ad Ippona il figlio di un certo Ireneo, esattore delle imposte, morì di malattia.
Mentre il corpo giaceva esanime e si preparava il funerale da persone che piangevano per lo strazio, uno degli amici, fra le parole di conforto degli altri, suggerì che il corpo fosse unto con l'olio del santo martire.
Si fece così e il morto tornò in vita.
Sempre ad Ippona l'ex tribuno della plebe Eleusino pose sopra l'altare dei martiri, che si ha in un suo possedimento nel sobborgo, il figliolino morto in seguito ad una malattia e dopo una preghiera, che ivi rivolse con molte lacrime, lo risollevò tornato in vita.
Che fare? Sollecita l'impegnativo intento di questa opera a non ricordare a questo punto tutti i fatti che conosco.
Senza dubbio molti dei nostri, quando leggeranno queste pagine, si addoloreranno che ne abbia omessi molti che assieme a me certamente conoscono.
Li prego fin d'ora di perdonare e di riflettere che sarebbe una fatica molto prolungata fare ciò che al momento l'obbligo dell'opera intrapresa mi costringe a non fare.
Se infatti volessi soltanto riferire, per non parlare degli altri, i miracoli delle guarigioni che per l'intercessione di questo martire, cioè del glorioso Stefano, sono avvenuti nella colonia di Calama e nella nostra, ci sarebbe da compilare moltissimi libri.
Tuttavia non potranno essere messi insieme tutti, ma soltanto quelli sui quali sono state consegnate le redazioni per essere lette nelle adunanze.
Abbiamo desiderato che questo avvenisse quando abbiamo notato che segni, eguali agli antichi, della potenza di Dio sono in gran numero anche ai nostri tempi e che non debbono andare perduti per la conoscenza di molti.
Non sono ancora passati due anni da quando ad Ippona Regia è stata costruita questa cappella e sebbene, e questo è per noi assolutamente certo, non siano state molte le redazioni dei fatti avvenuti per prodigio, quelle che sono state consegnate erano giunte all'incirca a settanta, quando ho scritto queste pagine.
A Calama poi, in cui si è avuta la prima cappella e avvengono più spesso, superano di molto il numero.
Abbiamo saputo che anche a Uzali, colonia vicina a Utica, sono avvenuti molti miracoli per l'intercessione del martire Stefano e molto prima che nella nostra città fosse stata dal vescovo Evodio organizzata la devozione per lui.
Però in essa l'uso di consegnare le redazioni non v'è o meglio non v'è mai stato, poiché probabilmente ora ha già avuto inizio.
Quando poco tempo addietro sono stato là, esortai, per desiderio del vescovo stesso, la nobildonna Petronia, guarita miracolosamente da una grave, prolungata infermità, per la quale erano stati insufficienti tutti i ritrovati dei medici, a compilare la redazione da leggere al popolo.
Ed ella eseguì con solerte obbedienza.
In essa inserì un episodio che non posso passare sotto silenzio, sebbene sia incalzato a volgermi in fretta a quegli argomenti che svolgono questa opera.
Scrisse che da un giudeo era stata convinta ad introdurre un anello in un cordone di capelli intrecciati da avvincere sotto le vesti, al nudo.
L'anello doveva avere sotto la gemma una pietra trovata nei reni di un bue.
Fasciata da quell'aggeggio, quasi fosse un medicamento, s'incamminava verso la chiesa del santo martire.
Ma partita da Cartagine, pernottò in un suo possedimento posto sulla sponda del fiume Bagrada.
Alzatasi per continuare il viaggio, vide quell'anello caduto davanti ai suoi piedi e meravigliata tentò di sciogliere la cintura di capelli, in cui era stato inserito.
Avendola trovata legata con nodi solidissimi, pensò che l'anello si fosse spezzato e scivolato via.
Essendo stato trovato anch'esso intatto, suppose di aver ricevuto da un così grande miracolo in certo senso la garanzia della futura guarigione e, sciogliendo quella fasciatura, la gettò nel fiume assieme all'anello.
Non credono a questo fatto coloro i quali non credono che anche il Signore Gesù è stato messo al mondo attraverso l'utero intatto della vergine Madre e che è entrato a porte chiuse nel luogo dov'erano i discepoli.
Però su questo miracolo s'informino direttamente e, se accerteranno che è vero, credano anche a quelli.
Petronia è una donna illustre, nata da nobili, sposata con un nobile, vive a Cartagine; una città importante, una personalità importante non permettono che il fatto rimanga celato a coloro che se ne informano.
Evidentemente il martire, per la cui intercessione è stata guarita, credette nel Figlio di colei che rimase vergine, credette in colui che entrò a porte chiuse nel luogo dov'erano i discepoli; infine, e proprio per questo vengono da noi espressi questi concetti, credette in colui che salì al cielo con la carne con cui era risorto.
Quindi per la sua intercessione avvengono così grandi miracoli perché per questa fede ha dato la propria vita.
Avvengono dunque anche ai nostri tempi molti miracoli operati sempre da Dio per la mediazione di chi vuole e come vuole ed Egli ha operato anche quelli che conosciamo dalla Scrittura.
Questi però non sono noti allo stesso modo e non sono pigiati come ghiaia della memoria da una frequente lettura affinché non sfuggano al pensiero.
Infatti dove si ha l'attenzione, che attualmente ha cominciato a manifestarsi anche dalle nostre parti, di leggere al popolo le redazioni di coloro che ottengono guarigioni, i presenti ascoltano una sola volta e molti non sono presenti.
Quindi anche quelli che furono presenti dopo alcuni giorni non ricordano quel che hanno udito e difficilmente si trova qualcuno di essi che riferisca ciò che ha udito a chi sa che non era presente.
Un solo miracolo è avvenuto dalle nostre parti, non più grande di quelli che ho ricordato, ma così celebre e famoso al punto da farmi ritenere che non vi sia alcuno degli abitanti d'Ippona che o non l'abbia visto o non ne abbia sentito parlare, e non v'è alcuno che per un qualsiasi motivo l'abbia potuto dimenticare.
Dieci fratelli, di cui sette maschi e tre femmine, di Cesarea di Cappadocia, non di bassa estrazione fra i loro concittadini, in seguito alla maledizione della madre, che fu lasciata sola dopo la recente morte del loro padre e sopportò con grande amarezza il torto da loro ricevuto, furono puniti per volere di Dio di una pena tale che erano orribilmente scossi dal tremore delle membra.
Non sopportando in simile sgradevole aspetto gli sguardi dei propri concittadini, andavano girovagando per quasi tutto il mondo romano in qualsiasi direzione sembrasse opportuno all'uno e all'altro.
Due di essi, un fratello e una sorella, Paolo e Palladia, vennero anche dalle nostre parti, perché conosciuti in molti altri luoghi in quanto la condizione infelice ne spargeva la voce.17
Vennero una quindicina di giorni prima della Pasqua, frequentavano la chiesa in cui era la reliquia del martire Stefano, pregando affinché alfine Dio fosse benigno con loro e restituisse la salute di una volta.
E lì e dovunque andavano attraevano l'attenzione della cittadinanza.
Alcuni che li avevano visti altrove e conoscevano la causa del loro tremore la indicavano ad altri, a chiunque potevano.
Arrivò la Pasqua e il giorno stesso di domenica, alla mattina, quando già un popolo numeroso era presente, il giovane pregando afferrava l'inferriata dell'edicola, in cui era la reliquia del martire.
All'improvviso si sdraiò a terra e rimase disteso proprio come chi dorme, non tremando però come era solito anche nel sonno.
Nello stupore dei presenti, dei quali gli uni tremavano, gli altri compiangevano, poiché alcuni volevano rialzarlo, altri lo impedirono e dissero che preferibilmente si doveva attendere il normale svolgimento.
Ed egli all'improvviso si alzò e non tremava più perché era guarito ed era in piedi incolume fissando quelli che lo fissavano: chi in quel momento si trattenne dal lodare Dio?
La chiesa si riempì delle voci di coloro che gridavano manifestando la propria gioia.
Di lì si venne di corsa da me, dove sedevo pronto a comparire in pubblico; si precipitarono l'uno dopo l'altro, quello dietro per riferire la medesima cosa di quello davanti.
Mentre io gioisco e in me ringrazio Dio, anch'egli entra con molti altri, si prostra alle mie ginocchia, si rialza per un mio bacio.
Avanzammo verso il popolo, la chiesa era piena e risuonava di voci di gioia, poiché nessuno taceva e dall'una e dall'altra parte gridavano: "Grazie a Dio, lodi a Dio".
Salutai il popolo e di nuovo gridavano con voce più fervorosa le medesime acclamazioni.
Ottenuto finalmente il silenzio, furono letti i testi liturgici della sacra Scrittura.
Quando si giunse al momento della mia omelia, espressi pochi concetti relativi al giorno di festa e alla pienezza di quella gioia.18
Preferii che non ascoltassero ma intuissero nell'opera divina una determinata eloquenza di Dio.
L'uomo pranzò con noi e ci narrò con precisione tutta la storia della disgrazia sua, dei fratelli e della madre.
Il giorno seguente dopo la omelia promisi che all'indomani sarebbe stata letta la redazione del suddetto racconto a me consegnata.19
Poiché questo doveva avvenire al terzo giorno dalla domenica di Pasqua, feci stare in piedi i due fratelli, mentre si leggeva la loro redazione, sui gradini del coro, da cui in una posizione più alta io parlavo.
Tutto il popolo dell'uno e dell'altro sesso osservava l'uno che rimaneva in piedi senza movimento anormale, l'altra che aveva convulsioni in tutto il corpo.
E coloro che non conoscevano il fratello scorgevano nella sorella quel che per la bontà di Dio era avvenuto in lui.
Vedevano di che rallegrarsi per lui, che cosa chiedere nella preghiera per lei.
Letta frattanto la loro redazione, ordinai che i due si allontanassero dalla vista del popolo20 e cominciavo a esporre un po' più diligentemente il caso, quando all'improvviso, mentre parlavo, dalla cappella del martire si odono altre voci di un altro rendimento di grazie.
I miei uditori si voltarono da quella parte e cominciarono ad accorrere.21
La giovane infatti, appena scesa dai gradini, sui quali stava in piedi, si era diretta verso il santo martire per pregare.
Appena toccò l'inferriata, dopo essere caduta in coma come il fratello, si levò in piedi guarita.
Mentre chiedevamo che cosa era avvenuto, per cui si era levato quel festoso schiamazzo, i presenti entrarono con lei nella basilica per accompagnarla guarita dalla cappella del martire.
Si levò allora dall'uno e dall'altro sesso un grido di ammirazione così potente da sembrare che la voce, unita al pianto senza interruzione, non potesse aver termine.
Fu condotta in quel posto in cui poco prima era stata in piedi tremante.
Esultavano che era simile al fratello, poiché erano rimasti afflitti che era rimasta dissimile, e facevano notare che non erano state innalzate preghiere per lei, eppure la volontà che le precorreva fu così presto esaudita.
Esultavano nella lode di Dio senza parole, ma con un frastuono così grande che le nostre orecchie potevano appena sopportare.
E che cosa v'era nel cuore di coloro che esultavano se non la fede di Cristo, per la quale era stato versato il sangue di Stefano?
Che cosa dimostrano i miracoli se non la fede con cui si annunzia che Cristo è risorto nella carne ed è salito al cielo con la carne?
I martiri stessi furono martiri di questa fede, cioè testimoni di questa fede.
Offrendo la testimonianza di questa fede sopportarono con coraggio un mondo assai nemico e crudele e lo vinsero non con la resistenza ma con la morte.
Per questa fede sono morti coloro che dal Signore possono ottenere miracoli poiché sono stati uccisi per il suo nome.
Per questa fede si rivelò la loro ammirevole sopportazione del male, affinché con i miracoli seguisse il grande dominio sul male.
Se infatti la risurrezione della carne per l'eternità o non ha preceduto in Cristo o non avverrà come è preannunziata da Cristo o come è stata preannunziata dai Profeti, dai quali il Cristo è stato preannunziato, non si spiegherebbe perché abbiano tanto potere i morti che sono stati uccisi per quella fede con cui si annunzia la futura risurrezione.
Infatti Dio da se stesso può compiere i miracoli nell'ammirabile modo con cui nell'eternità opera le realtà nel tempo, ovvero li compie mediante i suoi ministri; e quelli che compie mediante i suoi ministri può compierli mediante le anime dei martiri, come mediante uomini ancora in vita, ovvero mediante gli angeli, ai quali ordina fuori del tempo, fuori dello spazio, fuori del divenire, sicché i miracoli, che si dicono compiuti mediante i martiri, sono compiuti perché essi pregano e intercedono, non perché li operano.
Però tanto gli uni in un modo come gli altri in un altro, che in nessun modo si possono comprendere dai mortali, dimostrano quella fede, in cui si annunzia la risurrezione della carne nell'eternità.
A questo punto i pagani diranno che anche i loro dèi hanno compiuto alcuni fatti ammirevoli.
Bene, ciò significa che cominciano a confrontare i loro dèi con gli uomini morti di noi cristiani.
Ovvero vorranno dire forse che anche essi hanno dèi desunti da uomini morti, come Ercole e Romolo, e molti altri che suppongono accolti nel numero degli dèi?
Ma per noi i martiri non sono dèi perché riconosciamo un unico Dio nostro e dei martiri.
E tuttavia i miracoli, che si dicono compiuti nei loro templi, in nessun modo si devono confrontare con i miracoli che si compiono nei luoghi consacrati ai nostri martiri.
E se alcuni sembrano simili, come i maghi del faraone sono stati superati da Mosè, ( Es 7,22; Es 8,3.14 ) così i loro dèi sono superati dai nostri martiri.
Quelli li compirono i demoni con la presunzione di un'infame superbia con cui vollero essere i loro dèi; compiono invece questi miracoli i martiri, o meglio Dio mediante la loro intercessione e preghiera, affinché se ne avvantaggi la fede, con cui crediamo che essi non sono i nostri dèi, ma che hanno in comune con noi un solo Dio.
Poi i pagani a simili dèi hanno costruito templi, eretto altari, istituito sacerdoti e offerto sacrifici.
Noi invece ai nostri martiri fabbrichiamo non templi come a dèi, ma monumenti sepolcrali come ad uomini, la cui anima vive presso Dio e in essi non erigiamo altari per offrirvi sacrifici ai martiri, ma all'unico Dio dei martiri e nostro.
E durante il sacrificio sono nominati secondo il proprio ruolo e ordine, come uomini di Dio che hanno vinto il mondo nel rendere testimonianza, ma non a loro è rivolta la preghiera del sacerdote che offre il sacrificio.
E sebbene offra nel luogo a loro consacrato, offre il sacrificio a Dio, non a loro perché è sacerdote di Dio, non loro.
E il sacrificio stesso è il corpo di Cristo che non si offre a loro, perché lo sono anche essi.
A quali operatori di miracoli si deve dunque preferibilmente credere?
A quelli che vogliono essere considerati dèi da coloro per cui li compiono, ovvero a quelli che compiono tutto ciò che di miracoloso compiono, affinché si creda in Dio che è anche il Cristo?
A coloro i quali hanno voluto che perfino i propri delitti fossero oggetto di culto, ovvero a quelli i quali vogliono che neanche le loro opere lodevoli siano oggetto di culto, ma il tutto, per cui meritano veramente la lode, si volga a gloria di colui in cui meritano la lode?
Difatti nel Signore meritano lode le loro anime. ( Sal 34,3 )
Crediamo dunque a coloro e che annunziano delle verità e che compiono dei miracoli.
Per annunziare le verità hanno sofferto la morte e per questo possono compiere miracoli.
Fra quelle verità la principale è che Cristo è risorto dalla morte e per primo ha mostrato nella sua carne l'immortalità della risurrezione e ha promesso che essa si realizzerà in noi o al principio di un mondo nuovo o alla fine di questo.
Indice |
1 |
Vedi sopra 11,8; Sopra 14,11; Sopra 15,25.5 |
2 | Trad. di Teodozione sul libro di Daniele |
3 | Vedi sopra 20,21ss |
4 | Vedi sopra 19,23,1; Sopra 20,24,1; Infra 25 |
5 | Cicerone, De rep. 3, fr. 40 |
6 | Cicerone, De rep. 2, 10, 18 |
7 | Cicerone, De rep. 2, 10, 19 |
8 | Livio, Ab Urbe cond. 1, 16, 4-8 |
9 | Livio, Ab Urbe cond. 1, 4, 6-7 |
10 | Cicerone, De rep. 3, 23.34 |
11 | Vedi sopra 3,20 |
12 | Cicerone, De rep. 2, 10, 18-19 |
13 | Celso in Origene, C. Cels. 1, 68 |
14 | Agostino,
Conf. 9, 7, 16; Ambrogio, Ep. 46 (Maur. 85): Opera omnia di sant'Ambrogio, Città Nuova, vol. XX |
15 | Ippocrate, Aphor. 6, 38 |
16 | Serm. 325: NBA, XXXIII |
17 | Serm. 324: NBA, XXXIII |
18 | Serm. 320: NBA, XXXIII |
19 | Serm. 321: NBA, XXXIII |
20 | Serm. 322: NBA, XXXIII |
21 | Serm. 323: NBA, XXXIII |