Lettere |
Promemoria. Consenzio al mio signore Agostino santo e in eterno degno d'essere
Circa sedici anni fa mi procurai i libri delle Confessioni e molti altri, piuttosto per un colpevole desiderio di possederli che non per una buona e lodevole brama d'istruirmi, ma finora li ho tenuti in mio possesso, - per così dire - come suggellati, essendo io oppresso da un incredibile torpore.
Solo da pochissimo tempo ho cominciato a leggerli e vi trovo, espressi in modo perfetto, concetti alla ricerca dei quali mi affaticavo arrovellandomi il cervello; e, riconoscendo - come se mi fossero mostrate dipinte - molte idee dei miei pensieri, comincio a rendermi conto che, nell'apprendere anche tutto il resto che desidero sapere, non è il maestro che mi manca ma sono io che mi sottraggo al maestro.1
Per confessarlo dunque schiettamente al cospetto del Signore, circa quattro anni fa, prima cioè che io pensassi d'incontrare la Santità tua, avevo letto non più di due o tre pagine del primo libro delle Confessioni ma, come la Paternità tua suole paragonare lo spirito di tutti gli uomini superficiali agli occhi cisposi,2 colpito vivamente dal bagliore insopportabile delle tue idee, poiché in esse non scoprii nulla di piacevole e tenero che curasse le ferite dei miei occhi, tornai subito nelle tenebre della mia ignoranza, che mi sono gradite, ed evitai non solo quei libri ma anche gli altri con maggiore precauzione che non il sangue della vipera.3
Poiché ero preso da un sì grande e sì mortale disgusto che, a eccezione dei Libri canonici - che me li aveva resi venerabili la rinomanza di cui godono - il mio stomaco malato provava addirittura nausea per i libri di tutti i commentatori.
Per lo stile chiaro ed elegante mi piaceva solo Lattanzio; tuttavia a causa dell'ardente mia passione per l'indolenza, dopo averlo letto una sola volta, lo gettai via con tutti gli altri e poiché, a causa della mia inconcepibile antipatia per la lettura, la salvezza dell'anima mia restava oppressa sotto il peso d'una specie di malattia del sonno, per tanti anni a mala pena con grande svogliatezza ho dato una scorsa, una o due volte, alle Scritture canoniche.
Tuttavia, sebbene io fossi totalmente in preda all'apatia, se per caso tra i servi di Cristo si poneva - come suole accadere - qualche problema su argomenti di teologia in mia presenza, io ero solo tra coloro che l'Apostolo descrive in una lettera ( 1 Tm 1,7 ) e pretendevo d'essere maestro della Legge senza capire né quel che dicevo né quel che davo per sicuro.
Ma qualunque argomento mi pareva più giusto io mi sforzavo di sostenerlo con parole insignificanti.
Fu così che, per amore non del sapere ma della giustizia naturale, mi lasciai anche trascinare contro il prete Leonzio, di santa memoria, e combatterlo con spirito polemico a proposito di quella questione che fu risolta con una decisione della Santità tua, questione a proposito della quale mi parve ch'egli avesse un'opinione sbagliata; subito acceso dal desiderio di gareggiare con lui e, ammirando la fama della Santità tua e ardente dell'amore di conoscere la verità, scrissi quelle pagine in cui molte idee furono condannate, poche elogiate.
Tuttavia fu - a mio parere - per disposizione di Dio che tutti quei fatti avvenissero sia perché io scrivessi, sia perché scrivessi in modo biasimevole.
Infatti la preoccupazione che allora mi spinse a scrivere fu tale che, avendo sotto gli occhi la solitudine delle Baleari, ove assai raramente avviene d'incontrare un cristiano, non dico istruito, ma anche animato dalla fede, desideravo, non per amore del sapere, che io rigettavo assolutamente sapendo che implica enormi sforzi, bensì per amore della fede cattolica, la cui ignoranza è causa della morte spirituale, desideravo - dico - arrivare alla conoscenza semplice ma profonda della verità senza dovermi applicare assiduamente alla lettura né a far opera di critica.
Questo mio desiderio si sarebbe forse potuto realizzare, se avessi potuto ascoltare persone sapienti discutere qualcuna delle questioni su cui particolarmente avevo dei dubbi, o se mi fossi imbattuto in coloro che li avessero uditi; avrei forse anche accettato un piccolo sforzo di leggere, qualora mi fossero stati forniti dei libri adatti a risolvere con precisione le difficoltà che in particolare imbarazzavano il mio pensiero.
In effetti, nell'incerta speranza di trovarne la soluzione io rifiutavo la fatica certa di ricercarla. 4
Dopo aver dunque rigettato completamente gli scritti di tutti i sapienti, andavo rimuginando nel mio spirito questioni tanto importanti e tanto difficili, e nemmeno adesso è possibile trovare in queste isole alcuno - non dico che insegni le verità difficili e renda chiare quelle oscure, ma che almeno capisca quelle facili e prenda in considerazione quelle chiare - il mio animo fu afflitto da una malattia tanto maligna e funesta, che l'eccessiva paura di leggere produsse in me un'eccessiva audacia di scrivere.
Per conseguenza, provvedendo ai miei interessi a rovescio, preferii comporre due ridicoli volumi anziché leggere attentamente molte ammirevoli opere di tanti altri scrittori.
M'è parso quindi opportuno di pubblicare tutti i miei pensieri mettendo, per così dire, in iscritto una specie di discussione tra due avversari, affinché il convulso conflitto del mio cuore fosse fatto conoscere per mezzo di una lettera e venisse placato dalla bontà della tua dottrina.
Ma ciò non poteva effettuarsi in nessun altro modo che per mezzo d'una lettera.
Confesso infatti che, se in qualche modo avessi creduto di poter aver la gioia di vedere di persona con questi miei occhi di carne la Paternità tua, di certo non mi sarei affaticato giammai a scrivere nenie tanto verbose.
Ma poiché io ero venuto in queste isole con l'intenzione o con il desiderio di passarvi senza gloria tutto il tempo della mia vita nella tranquillità e nella pigrizia, come desidero ardentemente ancora adesso, non potevo manifestare a te, mio medico, l'intimo languore delle mie febbri, se non affidando a una lettera la funzione delle parole.
Ma se anche nei miei scritti non si fosse trovato assolutamente nulla che potesse piacere o [ almeno nulla che potesse ] dispiacere, in nessun modo la mia ritrosia mi avrebbe permesso di affrettarmi a venire alla tua presenza, poiché io sono tanto debole e ansioso di carattere che, se mi si vuol credere, arrossisco più per le lodi che per i rimproveri.
Ora invece, per disposizione e per decisione di Cristo, è avvenuto che la Paternità tua m'inviasse una lettera meravigliosamente moderata, per mano di latori qualificati.
Se infatti i tuoi diaconi Massimiano e Caprario, che venerano il mio signore e onorano te, non mi avessero fatto pressione con gli sproni impellenti della loro carità, la mia indolenza, per quanto allettata dai dolci incitamenti dei tuoi scritti, non avrebbe mai preferito, nemmeno per un istante, un tepido desiderio d'imparare all'ardente mia passione per la tranquillità.
Se infatti quel giovane della commedia di Terenzio,5 irritato contro la cortigiana che aveva messo alla porta l'amante, 6 non poteva allontanarsi dall'amata nemmeno per un istante, quantunque forzato dagli insulti che l'avevano offeso, tanto che gli pareva di compiere una prodezza facendo ricorso a tutta l'energia del suo coraggio rimanendo per soli tre giorni privo della prostituta che l'aveva offeso, quanto più io, le cui viscere bruciano di un fuoco forse più ardente per la mia tranquillità la quale, più che ogni altra cosa, non mi ha dato mai il minimo dispiacere ma sempre mi ha attirato dolcemente con la voluttà della solitudine ch'essa mi procurava; di questa tranquillità non avrei voluto restare privo nemmeno pochi giorni, se il Signore e conducente che guida il suo cocchio circondato da molte decine di migliaia7 con il suo morso nascosto non avesse tormentato - come si dice - la bocca del nostro spirito.8
Venni dunque da te o piuttosto fui trascinato verso di te dal morso del Signore ( Sal 32,9 ) malgrado la mia riluttanza; con molte conversazioni mettesti a nudo il mio modo di pensare e le mie idee, con molte discussioni curasti le occulte ferite del mio cuore.
Tu vedesti l'anima mia piena d'illusioni ( Sal 38,8 ) e volesti amputare come una cancrena le mie false opinioni usando - per quanto t'era possibile - non solo gli strumenti assai affilati dei tuoi argomenti ma anche i cauteri brucianti 9 delle tue ammonizioni e i calmanti assai dolci delle tue esortazioni.
Tuttavia, poiché, mentre mi spingevi ad applicarmi alla lettura e spesso mi chiedevi se avevo letto attentamente i libri che tu stesso mi avevi dato da leggere, come i medici spingono i malati a mangiare i cibi di cui sentono nausea, per la vergogna di me stesso mi sentii costretto ad assaggiare appena molto pochi passi delle tue lettere. 10
Erano già cominciati a dispiacermi gli effetti dannosi della mia inedia, quand'ecco all'improvviso mi capitò di sentirmi legato d'un grande affetto spirituale con un santo e venerabile uomo; avvinto a lui da familiarità, esaminando tutti i suoi sentimenti, riconobbi e amai in lui più fortemente il mio vizio.
In effetti mi rallegravo con me stesso d'aver trovato in lui una persona di grande autorità e merito un mio rivale che sospirava d'amare come me la medesima tranquillità; la mia coscienza però era lusingata da una falsa gioia al punto che, paragonando l'albero buono a nulla ( Mt 7,17 ) - ch'ero io - con quell'altro albero fruttifero ( Mt 7,17; 2 Re 3,19 ) ch'era il mio amico, mi rallegravo d'aver trovato qualcosa di somigliante alla mia sterilità.
Mi vantavo infatti della somiglianza del fogliame senza osservare quanti frutti di virtù facevano piegare quell'albero florido sotto il loro peso.
Poiché dunque mi appoggiavo con tutte le forze della mia debolezza verso quel sant'uomo, respingevo tutte le medicine che tu mi offrivi, rifiutavo tutte le pozioni che cercavi di farmi inghiottire. In effetti la cosa più piacevole, impregnata d'una dolcezza allettante, superiore ad ogni altra cosa, mi pareva quella di poter ascoltare sempre dalla bocca di quel mio amico, ottimo cristiano, lodare la mia passione, e il fatto che le parole di quel venerabile uomo riecheggiavano ciò che il mio cuore esecrabile andava di continuo rimuginando.
Con simili discorsi ci grattavamo l'un l'altro il nostro prurito dicendo che non c'era nulla di più inutile e dannoso che applicarsi alla ricerca scientifica, chiedendoci se per un cristiano ci fosse qualcosa di tanto dannoso quanto la preoccupazione così futile come la brama d'una vanagloria talmente enorme per la quale, corrotto dai vizi dei farisei, aspira con smisurata vanagloria a essere chiamato maestro degli uomini ( Mt 23,7 ) e, accecato forse dalla luce della propria intelligenza, si sforza tuttavia di attrarre altri nella fossa ( Mt 15,14; Qo 10,8 ) ove cadranno senza dubbio tutti, mentre la Scrittura dichiara in particolare che ci sono misteri insondabili che non si devono assolutamente indagare, ( Sir 3,22 ) e chi fruga minuziosamente tra le siepi verrà morso da una serpe. ( Qo 10,8 )
Che c'è di più pericoloso per un uomo il quale, pur potendo arrivare alla vita [ eterna ] senza percorrere tante vie tortuose d'un sapere inutile, spinto tuttavia dall'insano stimolo d'una curiosità illecita, intraprende un lungo e difficile viaggio per vie tortuose e intricate, dal quale nessuno è potuto ancora uscire senza danno?
Quale altro risultato ottenne infatti Origene, il più grande di tutti gli esegeti, con la potenza del suo lavoro indefesso, se non quello di trascurare, per colpa della sua lunga ricerca scientifica, la salvezza del Verbo, il quale è vicino a noi e risiede nel nostro cuore? ( Gv 1,14; Rm 10,8 )
Gli accadde così ciò che accade agli accorti studiosi della grazia; con quanto maggiore zelo e fatica essi ricercarono la sapienza, tanto più si allontanarono da essa.
Se infatti la passione per la scienza non l'avesse spinto a cercare di esplorare i campi vietati [ della teologia ] nei quali si smarrì, avrebbe potuto meritare di certo la gloria del martirio; ma poiché, mentre andava vagando, era caduto nella fossa d'una dottrina insensata, ( Qo 10,8 ) inevitabilmente avvenne che, divenuto vecchio e assai dotto, rifiutò il premio del martirio che aveva tanto desiderato quando era un ragazzo ignorante.
Qual maestro della Legge si applicherà dunque allo studio della scienza [ teologica ] con più energia, con più competenza, con più diligenza, con più perspicacia e prudenza di quella di Origene, oppure chi, immaginando che una vana curiosità trovi la salvezza con una laboriosa investigazione, sfuggirà con sapienza alla morte cui andò incontro Origene con la sua insipienza?
Potremmo passare in rassegna tutti gli altri esegeti per quanto grandi e cattolici si voglia, ma tuttavia sarebbe difficile non scoprire alcune macchie d'errori nell'insieme delle loro opere sia pure bellissime.
Così ad esempio anche se diremo che il vescovo Agostino scrive cose irreprensibili, tuttavia non sappiamo quale giudizio delle sue opere daranno i posteri.
Nessuno infatti condannò tutti gli autori di eresie e in particolare Origene, quando era ancora in vita, eppure non c'è dubbio ch'egli fu condannato solo duecento o più anni dopo.
Nei lacci di siffatti argomenti mi teneva impigliato la mia accidia, con siffatte considerazioni mi somministrava incitamenti all'ardente mio amore per essa.
Nel frattempo leggevo, sì, ma controvoglia, gli scritti che avevo ricevuto e, come il suddetto giovane della commedia,11 sebbene tenessi stretta nel cuore la mia amata, tuttavia con passi ognora diversi mi allontanavo stoltamente dalla strada indicata nella lettura che avevo intrapreso a percorrere.
Mentre attraversavo i campi ripieni di frutti del mio santo padre, il mio spirito, confuso, restava abbagliato dalla varietà dei frutti del tuo insegnamento ed esalava solo l'ardente desiderio della sua neghittosità fino a quando, colpito di nuovo dall'enorme forza della mia passione, tornai a passi svelti alla mia svogliatezza e mi affrettai ad abbracciare più fortemente la mia tranquillità con una corsa tanto veloce, che pensai di andarla a cercare fino in Oriente, intraprendendo un viaggio così lungo e faticoso.
Questo era infatti ciò che mi aveva consigliato il mio caro amico e rivale, ma accorgendoci che la potente mano del Signore si opponeva ai nostri desideri e ai nostri sforzi, mi trovai, non so come, distolto dal progetto del viaggio che avevo già intrapreso e fui richiamato alla mia propria casa con l'intenzione, anzi col fermo proposito di leggere, ma senza fatica, solamente i Libri canonici e d'altro canto di rinunziare - se fosse stato possibile - ai miei scritti, anche a quelli che avessero la forma di lettere familiari.
Questo proposito lo mantenni diligentemente - a dire il vero - solo per un breve tempo, e lessi le Scritture canoniche ma senza intaccare mai la mia passione da me coltivata per l'apatia.
Ma allo stesso modo che ci fa bene di privarci per un po' di tempo di ciò che ci piace allo scopo di bramarlo con più ardore con la forza di un rinnovato desiderio, così anch'io interrompevo il piacere del dolce far nulla applicandomi alla lettura per brevissimi e rari periodi di tempo.
Nello stesso lasso di tempo, per ordine del Signore, si avverarono presso di noi dei miracoli.
Poiché questi miracoli me li riferì il beato presule, il vescovo Severo, fratello della Paternità tua, con tutti gli altri che vi erano stati presenti, con tutta l'energia della sua carità egli interruppe il mio progetto e, al fine di scrivere lui stesso una lettera contenente il racconto ordinato del fatto avvenuto, prese da me in prestito solo le parole.
In conseguenza di ciò crebbe in me più forte la volontà di trasgredire la norma ( Rm 2,23 ) che m'ero imposta e, per aiutare la mia debole memoria con la lettura, sia pur lenta e poco entusiastica ma tuttavia fresca, delle Scritture canoniche, decisi di offrire al nostro governatore delle armi contro i Giudei che ci opprimevano con i loro attacchi, a patto però che il mio nome venisse assolutamente taciuto ai funzionari statali.
Stavo dettando questi miei pensieri e avevo in animo di manifestarti per intero non solo il traviamento della mia volontà e l'incostanza delle mie idee, gli assalti dei miei peccati, ma anche le vicende fortuite del mio destino, lo svolgimento della mia vita, l'apatia per la lettura e la temerità dei miei scritti, quando all'improvviso il messaggero con viva insistenza mi costrinse a troncare subito la lettera.
Interrompendo quindi il filo assai lungo di questa mia missiva, per il fatto che mi sento obbligato a interromperla, restringerò tutto il mio pensiero nei modi di brevi espressioni e ti fo sapere d'aver voluto intimare guerra12 alla mia pigrizia ma, impugnando temerariamente le armi contro la mia snervante padrona, sono riuscito solo, come il famoso Ercole reso smidollato, a restare sottomesso, in modo più oppressivo e più vergognoso, alla mia Onfale. 13
Infine, come se fossi rimasto inebetito da un colpo di sandalo,14 ho piegato il capo sotto le sue sferze seducenti di modo che, a guisa d'uno schiavo ostinato, la servo tanto più miserevolmente e più indecorosamente, quanto più la paura sottomette i vinti ai vincitori orgogliosi.
D'altra parte la mia abituale mania di scrivere mi ha spinto a trattare non so quali argomenti assai numerosi; se fosse stato possibile, avrei voluto che quegli scritti arrivassero tutti ad essere esaminati dalla Paternità tua.
Ora però ho trattenuto presso di me tutti gli altri scritti e ti ho inviato dodici testi contro i Giudei e una sola lettera recentemente inviata da me al beatissimo vostro fratello, il vescovo Patroclo; una volta che, dopo averla letta, la venerabile Paternità tua avrà preso conoscenza delle idee e dei termini con cui sono espresse, possa porgere l'amorevolissima sua mano della sua bontà e della sua protezione al suo bambino che segue il babbo con passi più brevi, 15 e voglia portare sulle vigorose spalle delle tue preghiere la debolezza del suo puerile cinguettare, perché non cada del tutto.
Ciononostante avrei voluto farti recapitare in particolare, anche se incompiute, le opere che oso scrivere contro gli argomenti dei pelagiani, qualora mi si fosse presentata l'occasione di un messaggero talmente qualificato da assumersi una certa quale responsabilità di conversare e discutere ogni cosa con te.
L'anno scorso, infatti, ci è giunta la lettera speditaci dal vescovo di Roma, Zosimo, di santa memoria, nella quale, dopo aver sottomesso a un esame rigoroso le tesi di Pelagio e Celestio, ne viene mostrato il veleno micidiale affinché venga schivato.
Dopo averla letta, sebbene fossi imbarazzato a causa delle numerose preoccupazioni del mondo, tuttavia, infiammato dalla mia abituale passione dello scrivere, mi sono messo ora a comporre quasi il quarto libro, pur osservando fedelmente la norma della mia neghittosità, poiché conservo presso di me, persino sigillate, quasi tutte le opere che ho scritto contro Pelagio.
Ho aggiunto anche un argomento assai valido su cui, meglio che su ogni altro, si basa la mia pigrizia: quello di convincermi di non dover leggere alcuna di quelle opere prima di non avere io stesso composto qualche scritto; per conseguenza ho un'incredibile paura che per caso, a causa di questo aberrante mio criterio, la foga del mio pensiero si diriga in modo distorto e non colpisca il bersaglio.
Se però si può credere agli scrittori che, a somiglianza dei genitori, abbracciano con la più grande tenerezza i loro figli, quali che siano, anche se storpi e deformi, io m'immagino di mettere al mondo un Achille, e invece agli altri presenterò solo un Tersite. 16
Ricordati sempre di me; ti auguro d'essere felice con l'aiuto di Cristo, o mio santo signore e beatissimo padre.
Indice |
1 | Cicero, Planc. 36, 89 |
2 | Ep. 120,1; 119,1.2; 205,1 |
3 | Orazio, Carm. 1, 8, 9-10 |
4 | Terent., Hec. 17 |
5 | Terent., Eun. 222 ss |
6 | Confess. 3,2,2 |
7 | Lactant., Div. instit. 7, 3, 6; AUG., Enarr. in Sal. 67, 24 |
8 | Ovid., Heroid. 4, 45-46 |
9 | Ps. Aug., Serm. 301, 5 |
10 | Cicero, Cluent. 26, 72 |
11 | Terent., Eun. 222 ss |
12 | Orat., Serm. 1, 5, 8 |
13 | Terent., Eun. 1026-1028 |
14 | Terent., Eun. 1028 |
15 | Verg., Aen. 2, 724 |
16 | Ovid., Pont. 3, 9, 9-12; Iuven. 8, 269-271 |