Protreptico ai Greci |
Clemente non nacque cristiano.
Egli È un Convertito; ci si può domandare che cosa lo abbia Spinto alla conversione - se, come per Giustino, la superiorità della morale evangelica, o, come per Taziano, la semplicità delle Sacre Scritture.
Ogni ipotesi è destinata a rimaner tale, giacché né egli né altri ci ha lasciato alcun accenno che possa gettar luce su quel momento decisivo della sua vita.
Ma c'è un'opera di Clemente che potrebbe avere un'importanza singolare al riguardo, se considerata nella tormentata umanità ch'è nascosta sotto la costruzione polemica e la trascinante foga della vittoriosa affermazione, più che negli elementi, e nei materiali, di cui la polemica è intessuta e su cui sorge l'edificio nuovo della fede.
Quest'opera, infatti, noi vogliamo parlare, com'è chiaro, del Protreptico
È un invito alla conversione: e ci si può legittimamente domandare se essa non sia, nella sua più intima essenza, il dramma di un'anima, e perciò, per noi, il documento di un'anima, che cerca Dio, e lo trova, attraverso esperienze interiori e crisi e dubbi e superamenti, nella conquistata fede di Cristo.
Il fatto che egli invita a non discutere nei riguardi del problema se si debba coltivare Dio o no, alla stessa guisa che si discute quando si tratta dei piccoli problemi della vita, non vuol dire che egli sia arrivato alla fede senz'averci pensato sopra e averne discusso a lungo con se stesso: tutt'altro.
Il consiglio che dà agli uomini sembra essere l'epilogo della sua esperienza di convertito.
La fede innata, che egli, facendosi consigliere agli uomini, invita a interrogare, come testimone attendibile, tratto dall'intimo essere di ciascuno, è la scoperta che egli ha fatto in se stesso, dopo il fallimento di ogni anteriore esperienza di pensiero e di dubbio.
Ragioni intellettuali, oltre che morali, si debbono cercare al fondo della sua conversione.
Quella religione politeistica, contro la quale Clemente appunta le armi dell'ironia e dello scherno, è stata anche la sua religione; quelle pratiche dei misteri, nelle quali egli si indugia con particolare insistenza, per metterne in luce i ripugnanti particolari, sono state - tuttavia - i mezzi coi quali egli stesso ha cercato, inutilmente, la sua unione con la divinità.
Quella filosofia pagana, la naturalistica, e l'altra, più vera, di Socrate e di Platone, di cui rivela, per la prima, l'errore fondamentale, per l'altra, l'insufficienza, sono state le tappe attraverso le quali egli stesso è passato nel suo graduale perfezionamento, fino al raggiungimento della suprema verità.
Quelle obiezioni che egli si muove e quelle resistenze - come quella della consuetudine, contro la quale combatte lungamente - che egli polemicamente si pone innanzi, sono quelle stesse che egli ha trovato nel suo spirito, lungo il cammino verso la verità, e che ha, alla fine, superato e vinto egli stesso.
Intesa così, quest'opera acquista un nuovo, particolare significato.
Noi non conosciamo la data della conversione, né se il Protreptico sia stato scritto a poca distanza di tempo da essa; certo è che l'opera sembra portar viva l'eco di esperienze passate e recenti, ed essere piena ancora dell'ardore di lotte da poco sostenute.
La fiamma di un nuovo amore, nato in questa temperie di lotte e di vittoria, percorre e scalda quest'opera: quello stesso del Logos di Dio, del Signore "che compassiona, esorta, ammonisce, salva, custodisce", l'amore di chi, per dirla con Paolo, "non considera sua preda" la salvezza che egli ha raggiunto.
Nessuna prova esterna vi è, che valga a precisare con sufficiente esattezza la cronologia del Protreptico; le stesse prove interne - se ve ne sono - non possono essere usate che con molta larghezza e in via di semplice ipotesi.
Né giova il confronto con gli scritti apologetici del tempo, anch'essi, del resto, non databili con precisione, dato il carattere di tale genere di scritti, che ripetono i medesimi motivi e temi ed esempi, senza che sia possibile precisare la natura dei rapporti e ricondurre ad un'unica fonte i tratti più o meno comuni a tali scritti.
Rilevo nelle note un buon numero di confronti, taluni anche sintomatici, tra il Protreptico e, per esempio, l'Ottavio di Minucio Felice e altri scritti apologetici; ma è un terreno quanto mai sdrucciolevole, e il limitarsi a rilevarli, senza tentare di trarne conclusioni, non è soltanto, naturalmente, una misura di prudenza.
Una cronologia generalmente ammessa pone per il Protreptico come terminus ante quem il 202; io tenderei a portare indietro questa data, prendendo come termine di riferimento il 197, l'anno delle persecuzioni, di cui l'Apologetico di Tertulliano riflette tutta la ferocia e, d'altra parte, tutta la nobiltà generosa dei Cristiani, mentre nel Protreptico non v'è - o non v'è quasi alcun accenno a persecuzioni.
Contentarsi bisogna di queste date, alquanto vaghe.
In compenso potremo considerare con maggiore sicurezza le condizioni spirituali del tempo, e le condizioni della Chiesa, e la figura di Clemente, nel suo tempo.
Nel secondo secolo il Cristianesimo era diventato potente; non era più una minoranza debole e negletta, ma rappresentava una forza considerevole, che si imponeva all'attenzione di tutti.
Si poteva disprezzare questa nuova religione, dar credito alle più strane dicerie sul suo conto, lanciarle le accuse più gravi, ma ignorarla e trascurarla non era più possibile.
E affluivano proseliti ad essa, non solo dalle infime classi, quegli schiavi quelle donnette quei pezzenti sui quali si ferma lo scherno sprezzante di Celso, ma uomini delle classi colte si volgevano con interesse curioso a questa religione per conoscerne i segreti e il carattere, se non, come spesso accadeva, per combatterla o per farsene seguaci.
S'aprivano così al Cristianesimo nuove e imprevedute zone di diffusione e di conquista; la filosofia pagana, specialmente attraverso talune sue scuole, veniva a contatto della nuova religione, e ne studiava la sostanza di pensiero e il tormento dei problemi, ch'erano i suoi medesimi problemi.
Il Cristianesimo, a questo contatto, veniva ad affinare le sue armi di persuasione e di propaganda, e a farsi, per dir cosi, filosofia; un problema nuovo veniva inevitabilmente a porsi, quello dei rapporti dell'antico col nuovo.
Doveva buttarsi via tutto quello che proveniva dall'antico? o era possibile conciliare l'antico pensiero con la nuova religione? ( È noto come risposero alla domanda parecchi pensatori cristiani, in particolar modo Clemente: non era da buttar via quello che di buono era nell'antica filosofia; scintille del Verbo erano balenate anche ai filosofi pagani; il Cristianesimo non era che il frutto maturo, il coronamento della filosofia pagana ).
V'era presso i pagani un pubblico di fedeli, seguaci della religione per tradizione o per abitudine, e un pubblico più ristretto, di uomini di pensiero, educati alle scuole dei filosofi.
Né diversamente presso i cristiani, accanto ai seguaci dalla fede schietta e ingenua, erano quelli che portavano con sé l'eredità insopprimibile del pensiero pagano assorbito nelle scuole dei filosofi, e particolarmente queste condizioni pare si trovassero ad Alessandria, dove il Didaskaleion di Clemente appare un vigoroso centro intellettuale; e v'erano anche delle zone grige di convertiti a metà, non ancora staccatisi interamente dalle vecchie abitudini e incapaci di farsi un'anima interamente nuova.
La lotta ingaggiata dal Cristianesimo doveva tener conto di questa diversità di esigenze, in relazione al diverso carattere degli avversari: e se le armi della polemica contro la concezione popolare degli dei, aguzzate cinque secoli prima da Platone e riprese dai Cinici, valevano per il pubblico più largo, non più erano buone - per esempio - per uomini che, come Celso, non consideravano dei le statue, ma solo "Theon anathemata", e non credevano ai miti e alle leggende popolari e poetiche.
La religione dei misteri aveva trovato nel secondo secolo condizioni favorevoli di ripresa, e pareva appagare, non solo nelle classi popolari, ma anche negli uomini di pensiero, l'innato bisogno di elevazione verso il divino e di comunione col dio.
La battaglia contro il politeismo e l'idolatria non poteva dirsi completamente vinta, a causa della persistenza di essi, che attraverso le varie forme dell'arte e le manifestazioni della vita religiosa, riempivano ancora ogni atto della vita dell'uomo comune, e dell'uomo che, anche senza essere un filosofo, si elevava sulla comune per educazione letteraria e abitudine di pensiero.
La Chiesa doveva ancora lottare per la sua affermazione: occorreva vincere le ultime resistenze passive, rappresentate dalla tradizione; occorreva mostrare alle classi colte dei pagani, ai pensatori che alla conquista di Dio erano mossi con la stessa guida presa da Clemente - Platone -, la necessità di superare il punto raggiunto da questa guida, e indicare il mezzo che solo poteva dare la rivelazione di Dio: Cristo.
Nel secondo secolo, verso la fine, era cessata negli ambienti cristiani la preoccupazione derivante dalla credenza nella prossima fine del mondo, e appariva sempre più chiara la missione del Verbo filantropo: quella di dare a tutte le genti la luce della verità e il dono della salvezza.
Il problema che si affacciava agli spiriti più nobili e alle menti più chiare era quello della conversione di tutta l'umanità: compito arduo e grande, per il quale occorreva la fede più ardua e più grande.
In quest'ambiente, e mossa da questi bisogni e volta a questi scopi, nasceva l'opera che della conciliazione dell'antico col nuovo, intesa come superamento dell'antico nella conquista della vera scienza rivelata dal Cristianesimo, rappresenta il frutto più conscio, e che del senso di questa divina missione, illuminatrice e salvatrice, è tutta piena nel vasto Èmpito delle ispirate esortazioni - il Protreptico di Clemente Alessandrino.
Interessante sarebbe potere inserire il Protreptico nel contrasto vivo, delle polemiche che si agitavano in quel tempo tra i sostenitori dell'antica religione e i banditori della nuova.
Purtroppo la nostra conoscenza degli scritti rappresentanti la "reazione pagana" dei primi secoli non è molto ricca, ma vi è un'opera pressoché contemporanea del Protreptico ( pare sia stata composta verso il 178 ) la quale è molto significativa a tale proposito, perché illumina i rapporti e le posizioni del Cristianesimo e del paganesimo, in quel conflitto di credenze e di idee che invase nel secondo secolo anche il campo del pensiero; essa è il Discorso Vero di Celso.
Sebbene non si possa pensare a una diretta polemica di Clemente con Celso, il fatto stesso che il Discorso Vero esprime l'atteggiamento del pensiero pagano nei riguardi del Cristianesimo, e riassume le obiezioni e le reazioni che sorgevano nel campo pagano verso la nuova religione, e la difesa che esso opponeva agli attacchi del Cristianesimo - può servire a far riconoscere alcuni degli obiettivi polemici dello scrittore cristiano, che altrimenti non apparirebbero in questa luce.
È significativo intanto che alcune citazioni, da Eraclito e da Platone, ricorrano in tutti e due gli scrittori, in Celso e in Clemente: segno di quella utilizzazione che, a diverso fine, si faceva indifferentemente da pensatori pagani e da pensatori cristiani, della antica filosofia greca, se non di imprecisabili rapporti concreti tra i due scritti, in gran parte di ispirazione platonica - giova dire - tutti e due.
Sarebbe lungo analizzare i punti di incontro delle due opposte correnti.
Molti degli atteggiamenti polemici s'indovinano facilmente anche senza poterne addurre le prove.
Doveva essere - per esempio -, ed era, facile negli ambienti pagani confondere la religione del Cristianesimo con le religioni dei misteri ( Eleusi, Mitra, eccetera ), e prendere la figura di Cristo come quella di un impostore; orbene, il Protreptico di Clemente è concepito nella sua sostanza come contrapposizione del Cristianesimo - come religione che attua la comunione con Dio - alla religione dei misteri, che tale comunione si proponevano di attuare, ma che erano lontani dal realizzare.
In questa religione dei misteri Clemente non vede che impostura e opera di demoni, e a tipica figura di impostore prende il fondatore dei misteri, Orfeo; ma più grande della stessa leggenda di Orfeo egli considera la realtà di Cristo, confrontata sul fondamento della interpretazione allegorica dell'azione trascinatrice del primo.
Il Discorso Vero di Celso contiene un passo in cui sono opposti a Cristo, come più degni degli onori divini, se non Eracle ed Asclepio, almeno Orfeo "che ebbe spirito pio e morì anche lui di morte violenta" ( e Anassarco ed Epitteto ).
Agli attacchi dei Cristiani contro la idolatria ( in Clemente essi hanno una parte notevolissima ), Celso oppone, da una parte, l'esempio di popoli, come gli Sciti e i Persiani ( esempi noti anche a Clemente ), che ebbero una concezione non diversa da quella dei Cristiani, nei riguardi delle immagini degli dei; dall'altra, una concezione diversa dalla popolare, sul valore e sul significato delle statue degli dei.
Uno degli argomenti a cui ricorrevano i pagani per sostenere la causa della loro religione, era la necessità, il dovere che tutti hanno di seguire la religione dei padri, quella che Clemente chiama "la consuetudine" ( "sunetheia" ).
Si spiega cosi come in parecchi degli scrittori cristiani di questo tempo Tertulliano, Minucio Felice, Clemente Alessandrino - appaiano attacchi contro questa difesa del paganesimo; e il tono con cui essi muovono a questo attacco, armati delle armi dell'ironia o del semplice buon senso ( Tertulliano dice, in sostanza: "però quando vi fa comodo, dalle usanze dei padri vi allontanate volentieri"; e Clemente, giocando sul significato di "sunéteia": "e allora perché non continuate a seguire in tutto l'abitudine, e a nutrirvi sempre di latte, come foste abituati da bambini?", mostra chiaramente che essi avevano di fronte considerazioni di carattere popolare, una forma passiva di resistenza, più che una salda opposizione di pensiero.
Celso ripresenta questo motivo, e gli dà una base di argomentazioni filosofiche; a queste argomentazioni risponderà, ponendosi sullo stesso terreno, Origene, il grande discepolo di Clemente.
Mi sembra difficile che Clemente abbia mirato al Discorso Vero di Celso.
Il Protreptico di Clemente, cosi inserito, per quanto era possibile, nel contrasto delle polemiche del tempo, appare un libro vivo, il cui interesse è anche di portata storica, documentaria, e non un libro retorico, sia pure di una retorica volta alla propaganda e alla edificazione.
Sotto la veste dell'acceso e commosso banditore della verità, dell'erudito largo di notizie e di citazioni, è nascosto il pensatore e il polemista, che, se per gli scopi del suo scritto non mette in luce gli obiettivi polemici, non perciò se li nasconde o li ignora.
Ma se il Protreptico ha anche questa sostanza polemica, non perciò si può dire che esso sia, nel senso che si dà alla parola, un libro polemico, un'apologia, del tipo di quelle di altri scrittori, anteriori o contemporanei a Clemente.
Il Protreptico di Clemente è stato infatti avvicinato agli scritti degli Apologeti del secondo secolo, ai quali lo ricondurrebbe il carattere della polemica contro il paganesimo e la presenza di motivi e di argomenti polemici comuni.
È stata cosi riconosciuta nel Protreptico una parte ( che, tolto il capitolo introduttivo, comprenderebbe i primi sette capitoli ) di preciso carattere apologetico, e una che costituirebbe il protreptico vero e proprio, dal capitolo ottavo fino alla fine.
In realtà, una simile distinzione dello scritto riguarda quasi unicamente la materia, ma non lo spirito dell'opera: e non diversamente deve dirsi della definizione di esso e del suo accostamento a un determinato genere di scritti.
Chi legge le Apologie di Giustino, di Taziano, di Teofilo di Antiochia, di Tertulliano, di Minucio Felice, di Atenagora, e le confronta col Protreptico di Clemente, non può effettivamente non rilevare in essi il ricorrere frequente, e perfino fastidioso, di esempi comuni alle une e all'altro, di citazioni, di spunti, perfino di atteggiamenti o ironici o indignati, formanti quasi una materia comune senza preciso segno di individuabile originalità.
Ma questa materia può essere riempita di uno spirito diverso nei vari scrittori: e se - per esempio - in Tertulliano la dimostrazione dell'origine umana delle divinità dei pagani e l'attacco contro l'idolatria servono a difendere i Cristiani dall'accusa di non sacrificare e di non rendere culto agli imperatori e di non seguire la religione tradizionale - in Clemente i medesimi motivi polemici servono a mostrare, in quel mondo pagano di idee e di costumi, la mancanza di quel divino a cui la sua anima aspira e che ha trovato nella nuova religione, che si contrappone nettamente e completamente all'antica.
L'elemento negativo ( apologetico ) e l'elemento positivo ( protreptico ) non sono perciò assolutamente separabili in Clemente: ma l'uno, l'elemento apologetico, - a parte ogni ragione pratica che poté consigliarne l'ampiezza di svolgimento - è dialetticamente in servizio dell'altro; e non è che la forma negativa dell'esortazione, che, mentre invita alla salvezza, mostra l'errore che bisogna superare per giungere a quella.
"Apotr‚pousai" ( dall'inganno dannoso ) e "protrépousai" ( verso la salvezza ) egli chiama, al principio del capitolo 8, le scritture dei Profeti: e potrebbe dirsi del suo scritto, che nell'abbandono delle vecchie credenze trova le premesse della rinnovata giovinezza degli spiriti.
Il primo capitolo termina con l'esortazione a cercare Cristo, perché Cristo è il solo mezzo per giungere alla contemplazione di Dio.
E il secondo capitolo comincia con l'esortazione a non cercare gli empi santuari e gli oracoli; e continua, fino alla fine del capitolo quarto, col mostrare, in un lungo esame, la ciurmeria dei misteri che ignorano il vero Dio, e l'errore delle credenze religiose che divinizzano dei semplici uomini, e l'indegnità di questi dei, che non sono in realtà che demoni inumani, e la stoltezza della idolatria; e conclude, nella forma caratteristica dello stile protreptico, con queste parole: "Non vi è dunque che un solo rifugio per chi vuole giungere alle porte della salvezza, e questo è la divina sapienza.
Nei capitoli che seguono Clemente esamina la falsità delle opinioni dei filosofi, che divinizzano la materia, e distingue da essi Platone, in compagnia del quale va alla ricerca di Dio, e sceglie dagli scritti di alcuni altri filosofi dei tratti che essi scrissero a ispirazione di Dio ( e che bastano per la conoscenza di Lui a chi è in grado, anche in piccola misura - di investigare la verità ) - e dagli scritti di alcuni poeti, che riconobbero l'errore e testimoniarono la verità, perché ebbero alcune scintille del Verbo, e cosi mostrarono chiaro a tutti che chi fa o dice qualche cosa senza il Verbo è come coloro che si sforzano di camminare senza piedi.
Passa cosi, col capitolo ottavo, alle scritture dei profeti "che distolgono dall'errore ed esortano alla salvezza", e indica nell'assomigliarsi a Dio per quanto è possibile, la pietà, e in Dio il maestro adatto, come colui che ha il potere di realizzare nell'uomo questa rassomiglianza ( capitolo 9 ).
Attacca poi l'ultima posizione, l'ultima resistenza ( passiva ), dei non credenti: la consuetudine ( capitolo 10 ) e con ragionamenti e dimostrazioni, in cui ritornano motivi della polemica antipagana, incomincia la serie delle esortazioni alla conoscenza di Dio e alla salvezza, per giungere alle quali Cristo è il nostro " compagno di lotta": esortazioni che si fanno sempre più suadenti e appassionate - sia che rievochi il beneficio divino ( capitolo 11 ), o che faccia balenare dinanzi agli occhi degli ascoltatori la visione dei misteri del Verbo ( capitolo 12 ), fino all'ispirato invito alla iniziazione nei misteri veramente santi, dietro l'esempio di lui, che "alla luce delle fiaccole ha la contemplazione dei cieli e di Dio, e diventa santo mediante l'iniziazione, facendo da ierofante il Signore, che segna del suo sigillo il myste e lo illumina e lo consegna al Padre, perché sia custodito in eterno".
Appare da questo semplice schema l'unità dell'opera, che tra l'esortazione iniziale a cercare Cristo e quella finale al battesimo, ha come suo centro la contrapposizione tra i due mezzi per giungere alla contemplazione di Dio: quello pagano ( i misteri ) e quello cristiano ( Cristo ).
Certo, qualche cosa esce fuori da questa lineare figurazione, e supera i confini dello schema logico: né ciò può minimamente sorprendere in uno scrittore come Clemente, che non poteva restare insensibile, data la sua formazione di cultura, agli allettamenti della erudizione ( se pure egli sembri lavorare non direttamente sui testi degli autori che cita, ma su compilazioni generali e florilegi ) e al desiderio di porre in servizio della polemica antipagana le sue conoscenze speciali ( egli fu forse iniziato ai misteri, ma non è necessario supporlo per spiegare la larghezza dei riferimenti che egli dà su di essi ).
Ma l'opera non resta perciò meno una, né meno resta, essenzialmente e soprattutto, un "protreptico", per lo spirito che la informa e che dà un suo speciale significato alla parte apologetica, come anche per la tecnica della composizione, coi suoi caratteristici tratti conclusivi, esortativi, da premesse in forma ipotetica, e la stessa tessitura di citazioni che spesso preparano le conclusioni o le confortano.
A riconoscere questa tecnica, questo stile protreptico, giova, più che l'aiuto dei pochi frammenti del Protreptico di Aristotele, il confronto con quello, simile anche nella struttura al clementino, di Giamblico.
Una antitesi fondamentale costituisce il centro logico del Protreptico di Clemente, quella tra "anaph‚resthai eis th‚on" e "Ipoph‚resthai eis anthropon", come ha osservato il Festugière; antitesi che trova espressione anche nella sopradetta contrapposizione tra i misteri pagani che restano nella sfera umana, e il mistero cristiano che è segnato della presenza del divino.
Per tale antitesi l'unità dell'opera di Clemente acquista un carattere di chiara interiorità.
È probabile che le condizioni spirituali, religiose, dei tempi abbiano contribuito a dare al problema religioso in Clemente questa particolare impostazione, ma certamente sono da riconoscere, anche in essa, come in tanti particolari, influssi platonici.
Il platonismo di Clemente appare cosi non frammentario, né esteriore, ma interiore e fondamentale, nel senso che da esso Clemente è salito alla conoscenza di Dio, e ha visto illuminata nel suo profondo la rivelazione della eterna verità, di Dio, la quale doveva essergli data dalla fede.
Poiché "Dio nessuno conobbe, se non il Figlio e colui al quale il Figlio Lo abbia rivelato".
Il Protreptico è generalmente considerato come la prima opera di quella trilogia che, nella sistemazione degli scritti di Clemente fatta dagli studiosi, comprende insieme con esso il Pedagogo e gli Stromati.
A questo disegno trilogico sembra alludere chiaramente Clemente stesso, quando nel primo capitolo del primo libro del Pedagogo parla di un "l¢gos protreptic¢s", di un "l¢gos paidagog¢s" e di un "l¢gos didascalic¢s", in cui il L¢gos, pur essendo uno, si divide, e sotto le cui forme, nell'ordine in cui esse si seguono, opera sugli uomini.
Resta dubbio se gli Stromati rappresentino la terza parte della trilogia, o solo una introduzione alla terza parte che non sarebbe stata mai scritta, oppure siano del tutto indipendenti dal disegno trilogico; ma sulla posizione del Protreptico rispetto al Pedagogo v'è consenso pressoché generale.
Anche ammessa la priorità del Protreptico, per la quale mancano però esplicite indicazioni di prova, bisogna dire tuttavia che quando Clemente scriveva il Protreptico nessuna idea di un simile sviluppo dell'opera e di un simile collegamento di essa con altre opere, era nella sua mente; e il Protreptico è un'opera in sé conclusa, che non presuppone necessariamente ulteriori svolgimenti e approfondimenti particolari.
Giova confrontare a questo scopo l'introduzione al Pedagogo, nella quale è fatta la distinzione del Logos sopra riferita, e indicata, per dir cosi, la successione cronologica in cui appaiono le sue tre forme, con un passo del Protreptico, in cui l'apparizione del Logos è distinta nei tre momenti di "demiourg¢s", di did scalos e di the¢s, largitori, il primo del vivere, mediante la creazione, il secondo del ben vivere, il terzo della vita eterna.
Il Logos s'identifica qui col Dio creatore e salvatore; e nello stesso capitolo, poco prima, aveva parlato del Logos di Dio, il Signore, che "compassiona, educa, esorta, ammonisce, salva, custodisce".
Qui il "l¢gos paidagogic¢s" ( se anche non voglia dir nulla la priorità dell'azione educativa sulla esortativa ) non è distinto dal "l¢gos protreptic¢s", come è fatto invece nell'introduzione del Pedagogo.
Vi sono inoltre nel Protreptico temi di carattere propriamente "pedagogico" - come quello relativo all'usanza di tenere nelle camere da letto quadri con figure oscene, e di fare imprimere nei castoni degli anelli, per servirsene come sigillo, immagini lascive - che appariranno trattati anche nel Pedagogo, con quella minore ampiezza, che era richiesta dalla maggiore ampiezza della trattazione precedente.
Ciò confermerebbe quello che sopra ho detto, che la inserzione del Protreptico in un piano organico di ripartizione trilogica è posteriore alla sua composizione.
Nella prima opera il Logos è protreptico e, insieme, pedagogo e maestro.
La distinzione programmatica dei compiti del Logos appartiene ai tempi della composizione del Pedagogo; e diciamo ai tempi, perché è verosimile che la introduzione del Pedagogo sia stata scritta quando la composizione di quest'opera era, se non terminata, certo, in gran parte, compiuta.
In questi ultimi anni il rinnovato esame portato sulle opere del primo Aristotele, e le scoperte fatte in questo campo dallo Jaeger e, con vastità e penetrazione maggiori, dal Bignone, hanno posto su un terreno di concretezza il problema dei rapporti tra una delle opere più significative di quel periodo dell'antico filosofo - il Protreptico - e l'opera del filosofo cristiano che ne riproduce il titolo.
Doveva infatti apparire sempre più probabile che Clemente - ammiratore, studioso, seguace di Platone - fosse attratto anche verso le opere del discepolo di Platone, che dell'insegnamento del Maestro mostravano le tracce e i segni inconfondibili d'ascensione d'anima e di pensiero.
La presenza, poi, di un tratto assai sintomatico, per il fatto di trovarsi anche in altri testi, che dal Protreptico aristotelico certamente derivano, e cioè nel Protreptico di Giamblico e nell'Ortensio di Cicerone, è stata una prova della fondatezza di tali rapporti, che occorreva precisare nella loro natura, ma che non potevano in alcun modo negarsi.
Questo tratto rivelatore è l'immagine del supplizio dei pirati etruschi, a proposito della quale il Bignone osservò che, se essa dimostrava in Clemente la conoscenza del Protreptico di Aristotele, probabilmente altri punti di contatto si sarebbero dovuti scoprire tra l'opera dello scrittore cristiano e quella scritta dal primo Aristotele.
Di estendere l'esame per trovare altre tracce di rapporti e altri punti di contatto tra i due scritti si propose Giuseppe Lazzati; il quale non si limitò a Clemente, ma Basilio, Atenagora, Agostino, Sinesio eccetera, formarono oggetto del suo studio.
La conclusione del Lazzati è che Clemente non solo conobbe il Protreptico aristotelico, ma scrisse il suo Protreptico in costante riferimento polemico a quello scritto: ed è conclusione forse eccessiva, nella forma, almeno, in cui è formulata, e allo stato della nostra conoscenza dell'opera aristotelica.
Giacché, se il paragone dei predoni etruschi può ritenersi derivato direttamente dal Protreptico aristotelico, per quelle ragioni a cui sopra ho accennato - nonostante che esso ricorra in altri scritti, oltre quelli di carattere protreptico, legati all'opera aristotelica, e in Clemente stesso serva a illustrare un rapporto diverso ( anima e corpo in Aristotele; idolatri e statue in Clemente ), e sia riferito come espressione proverbiale, comune - la stessa cosa non si può dire di molti dei nuovi rapporti messi in luce dal Lazzati, e di altri che si potrebbero aggiungere a quelli da lui considerati.
Io non ripresenterò qui le osservazioni fatte al lavoro del Lazzati, del resto ricco di pregi, da quanti si sono occupati di esso, dal Mariotti - per esempio - e dal Festugière.
Uno degli argomenti a cui ricorre il Lazzati per dimostrare l'intenzione polemica di Clemente nei riguardi del Protreptico aristotelico è che, mentre Aristotele si rivolge ai giovani, Clemente si rivolge ai vecchi, quasi per mostrare che tutti, giovani e vecchi, sono chiamati alla conoscenza di Dio, a differenza della "phr¢nesis", il cui acquisto era raccomandato dal filosofo pagano soltanto ai giovani.
In realtà non si capisce perché il Protreptico clementino dovrebbe pensarsi destinato a un uditorio formato di vecchi; da chi intende in questo modo il passo di Clemente in cui si parla agli uditori come a delle persone già vecchie, giunte al tramonto della vita, non si è osservato che la vecchiaia di cui si parla in quel passo è una vecchiaia, non individuale ma "etnica": vecchi sono gli Elleni, come l'Elicona e il Citerone, come i loro dei, come tutto il loro mondo di leggende e di miti.
È una vecchiaia da intendere in senso proprio non più che la giovinezza, a cui gli uomini debbono tornare, per potere entrare nel regno di Dio.
Eliminata, perché troppo vaga, o troppo poco provata, la maggior parte degli altri rapporti supposti dal Lazzati, non resterebbe - a parte, naturalmente, il paragone dei predoni etruschi - che il tratto che si riferisce al concetto di "oike¡a aret‚", e non solo al concetto, ma anche al paragone dei cavalli e dei buoi.
Concetto, senza dubbio, tipicamente aristotelico, ma di quei concetti che, nonostante la presenza del sintomatico paragone, potevano diffondersi come materia comune, senza necessario riferimento all'opera originale; e ad ogni modo non è abbastanza perché si possa concludere molto più di quello che concludeva il Bignone: che cioè Clemente conobbe il Protreptico di Aristotele e lo ebbe in qualche modo presente nello scrivere il suo discorso esortatorio, che con quello ha in comune la materia di taluni temi e argomenti.
Ma se dalla considerazione di somiglianze formali e perciò più sintomatiche, passiamo a quella di rapporti di contenuto, vedremo estendersi il campo della ricerca, anche se da essa non debbano venire modificati i risultati già acquisiti.
Un motivo, per esempio, che indirettamente, e in una luce polemica, ci ricondurrebbe al Protreptico di Aristotele è quello ( ma il Lazzati non vi si ferma a questo scopo ) delle condizioni migliori in cui l'uomo può filosofare ( o, per Clemente, muovere alla conoscenza di Dio ): la ricchezza, la nobiltà eccetera.
Aristotele dedicava perciò il suo protreptico al ricco principe Temisone, considerando le ricchezze come aiuto al filosofare; e polemizzando con Aristotele, Cratete pensava di scrivere un protreptico a Filisco calzolaio, sicuro che questi ne avrebbe tratto maggiore guadagno per il filosofare, che colui al quale aveva dedicato il suo Protreptico Aristotele; ed Epicuro nell'epistola a Meneceo invitava a filosofare i giovani e i vecchi, i ricchi e i poveri ( anche Orazio, ep. II, 24 e seguenti ).
Orbene, Clemente dice che "a chi vuole giungere alla conoscenza di Dio non è di impedimento la mancanza di cultura né la povertà né l'oscurità del nome né la miseria".
Ma è chiaro che, nonostante l'apparente posizione polemica dei due atteggiamenti, questi possono considerarsi indipendenti l'uno dall'altro; e che, se mai, la contrapposizione è nelle due diverse, opposte concezioni di vita dei pagani e dei cristiani, come mostra anche il biasimo che fa Celso al Cristianesimo, di rivolgersi a degli ignoranti, a dei pezzenti, a degli schiavi.
Un altro punto sul quale il Lazzati non si ferma è quello in cui Clemente polemizza contro quei pensatori, che, pure "avendo compreso che l'uomo è meravigliosamente fatto per la contemplazione del cielo", si volgono ad adorare le cose che sono nel cielo: punto che richiama evidentemente quel passo del Protreptico di Giamblico, che il Jaeger considerò come derivante dal Protreptico aristotelico - nel quale è citata l'opinione di Pitagora che considera propria della natura dell'uomo la contemplazione del cielo, e quella di Anassagora, che lo scopo della vita umana fa consistere "nel contemplare il cielo, e gli astri del cielo, il sole e la luna ".
Ma anche di questo punto si ha da dire quello che si è detto per l'altro, esaminato sopra: che, cioè, tali confronti non varrebbero a denunciare una precisa, diretta opposizione polemica: sebbene l'ultimo punto - come la connessione col precedente argomento ( che si può ricondurre al Protreptico aristotelico ) farebbe supporre - sembri avere di mira più che altro la teologia astrale del primo Aristotele.
Clemente nel suo Protreptico raccolse e fuse in una sola voce le voci esortatrici del Signore, di Giovanni, dei Profeti, di Paolo; e a questa voce nuova diede forma e modi del modello antico, che aveva accolto un'altra voce famosa, la quale aveva segnato una data significativa dello spirito greco, e, attraverso il tramite di chi in Roma ne aveva raccolto lo spirito e l'esempio, doveva giungere, precorritrice e suaditrice, ad Agostino.
In questa fusione di antico e di nuovo nell'opera di Clemente non è tanto da vedere un segno dell'eclettismo della sua forma di pensiero, né il risultato della sua educazione letteraria, quanto l'espressione di quella stessa armonia ed equilibrio di spirito, che determinò la sua posizione di cristiano nei confronti del sapere greco: per tale armonia ed equilibrio di spirito, l'opera di Clemente - con tutto ciò che essa ha di originale e perfino, direi, di barbarico, nello stile, e di arditamente nuovo in certi atteggiamenti di pensiero - si pone nel solco luminoso della grande tradizione ellenica.
Il Protreptico di Clemente è scritto con intendimenti artistici.
Era ciò, come il Bignone ha osservato, nella tradizione dei "l¢ogoi protreptico¡" ma, a prescindere dall'esempio della tradizione, la particolare destinazione dello scritto, dedicato al pubblico e non a sfere determinate di esso ( è chiaro che non poteva pensarsi destinato alla scuola, il cui pubblico deve supporsi in massima parte formato di credenti ), e la concezione che Clemente aveva dei rapporti tra il Cristianesimo e la cultura profana - concezione liberale, conciliativa, e non intransigente, come quella di Taziano e di Tertulliano - dovevano fare apparire agli occhi di Clemente un'opera come quella che egli si proponeva di scrivere, come un campo adatto per far prova dinanzi al pubblico dei Greci, di quelle eleganze e di quegli artifici appresi alle scuole dei Greci.
Già il principio del discorso presenta il tipo caratteristico di periodare per "kola" corrispondenti, ed è stato analizzato dal Norden, che lo ha distinto nei suoi simmetrici membretti.
Il periodo muove spesso per rotti asindeti, rapidamente seguentisi; e non v'è pagina, quasi, che non offra esempi di brillanti antitesi, di giuochi di parole, di effetti di assonanze, e talvolta di rime.
Si direbbe che talora il periodo si svolga secondo una linea musicale, e che un ritmo musicale - che spesso non è che un giuoco di assonanze - regoli, e quasi faccia sorgere, le immagini, e perfino le idee, più che esserne queste suscitatrici e regolatrici.
Si veda, per esempio, il principio dell'ultimo capitolo, dove l'immagine della "pag¡s par suggerita dalla parola "ap gei" precedente.
Le citazioni frequenti, dalle Scritture e da scrittori profani, e l'uso non raro di un modo di espressione in cui è facile riconoscere echi e reminiscenze, formali e letterarie, delle une e degli altri, danno alla composizione un'apparenza di mosaico.
La sintassi acquista anche in conseguenza di ciò un'andatura spezzata, e lo stile una impronta "letteraria", che può anche, talora, suonar falsa, e che certamente rivela, insieme con l'artificio, l'influsso di una abitudine di cultura, diventata quasi vita di pensiero e modo di concepire e di esprimersi.
Le allusioni, spesso anche difficili a cogliere, colorano, qua e là, l'espressione di un'ironia sottile, che nasce da impreveduti accostamenti e imprevedute conclusioni da premesse, logiche o di fatto, accettate nel giuoco polemico.
Vi è anche una forma particolare di simbolismo, per cui sono tolte dal mondo greco figure note ( Tiresia, Ulisse ), e sono fatte partecipi, quasi persone operanti e non soltanto freddi simboli, del dramma dialettico che si rappresenta e si vive.
Né mancano i "pezzi a effetto", come la viva narrazione dell'episodio di Eunomo e della cicala pitica, e la colorita "‚kprasis" dei sacerdoti di Cibele; né le allocuzioni piene di pathos, come quella all'imperatore Adriano e quella all'indovino Tiresia.
Si avrebbe torto di vedere in queste allocuzioni solo un mezzo retorico di rappresentazione efficace, come nelle antitesi solo un procedimento stilistico.
Il pensiero si semplifica in formule; l'antitesi è nella realtà del pensiero, nelle concezioni, nelle anime; sale dal fondo delle cose per trovare nella parola l'espressione che ne fissa e ne chiarifica i termini.
E le allocuzioni sono spesso espressione di una commossa partecipazione, di quel senso nuovo - anche se anteriore al Cristianesimo - di solidarietà umana, che creò la forma oratoria della omelia e trovò nella forma della epistola un mezzo di più efficace contatto di anime: specialmente quando la finzione letteraria con la quale Clemente si fa presenti alla fantasia uomini del passato e figure mitologiche, cede il posto alla realtà, e il piccolo uditorio si allarga a una cerchia più vasta, fino a comprendere tutta l'umanità, alla quale l'oratore offre il dono della salvezza.
Per questi atteggiamenti oratori e per l'abbondanza di certi svolgimenti e per certe abitudini stilistiche e certa cura di partizioni logiche del discorso, e uso di preterizioni e altre maniere retoriche - Clemente può apparire, magari frequentemente, schiavo della educazione retorica; ma "retore" non è mai: la sostanza di pensiero di cui tutta l'opera è intessuta, e la sincerità dei sentimenti e del sentimento della sua missione, viste nel clima del tempo, fervido di lotte e di speranze immortali, collocano la figura di Clemente scrittore in una posizione che sfugge a ogni classificazione del genere.
È stato, in particolare, da tutti messo in rilievo l'uso frequente in tutto il Protreptico, del linguaggio dei misteri.
Bisogna dire, e risulta da quello che finì qui ho detto, che l'uso di questo linguaggio non è affatto esteriore, non è sovrapposto, ma nasce dalla stessa concezione che è al fondo dell'opera di Clemente.
Il Cristianesimo è concepito da Clemente come una forma di iniziazione, mirante, come le iniziazioni ai misteri, a una suprema epoptia, alla contemplazione di Dio.
Le immagini, così, e le formule che esprimono nei misteri pagani le varie fasi del rito e le impressioni dei mysti passano ad esprimere per una voluta contrapposizione di cose le corrispondenti fasi e impressioni del mistero cristiano ( " Oh misteri veramente santi! O luce pura! Alla luce delle fiaccole contemplo i cieli e Dio, eccetera" ).
E accanto a questo uso del linguaggio mistico, passa nell'espressione del mistero cristiano una corrispondente "mitologia": di fronte alle baccanti, sorelle di Semele, le figlie di Dio, le belle agnelle; e di fronte alle orge pagane, il coro dei giusti, gli angeli, i profeti, le vergini; di fronte al Citerone, il monte amato da Dio.
Ma l'espressione di questi momenti supremi, ineffabili, che trascendono l'attività conoscitiva, di queste ascensioni d'anima verso le verità eterne, fatta mediante il linguaggio dei misteri, indipendentemente dalla accennata idea di contrapposizione polemica, ha ancora l'origine profonda in Platone, nel Platone del Fedro e del Convito, che considerava la filosofia stessa come una specie di iniziazione; e il Cristianesimo è per Clemente la filosofia più alta, e più vera, la sola che possa dare effettivamente la contemplazione di Dio.
Una figura parietale del cimitero di San Callisto - del terzo secolo all'incirca - rappresenta Orfeo che ammansa le fiere: simbolo del Cristo, che con la dolcezza del Verbo, ammansa quelle fiere più selvagge di tutte che sono gli uomini.
La figura sembra illustrare quel passo di Clemente in cui la potenza del Nuovo Canto, del Cristo, è assomigliata a quella di Orfeo e considerata superiore ad essa: e potrebbe essere presa a simbolo di tutto il Protreptico, della sua missione incantatrice della selvatichezza ( della ignoranza, cioè, e delle false credenze ) e trascinatrice delle anime verso gli alti termini della eterna salute.
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