Teologia dei Padri |
Per qual motivo mai, ci si chiede, Dio si è umiliato a tal segno, che la fede rimane sconcertata di fronte al fatto che egli, benché non possa esser posseduto né compreso dalla ragione e non si diano parole all'altezza di descriverlo, giacché trascende ogni definizione e ogni limite, venga poi a mischiarsi con l'involucro meschino e volgare della natura umana, al punto da far apparire le sue sublimi e celesti opere come vili anch'esse, in seguito ad una mescolanza così disdicevole?
Non ci manca certo la risposta che conviene a Dio.
Tu vuoi sapere il motivo per il quale Dio è nato fra gli uomini?
Ebbene, se tu eliminassi dalla vita i benefici che hai ricevuto da Dio, non potresti certo più indicare le cose attraverso le quali riconosci Dio.
Noi riconosciamo la sua opera, infatti, proprio per il tramite di quei benefici di cui veniamo gratificati: è osservando ciò che accade, appunto, che noi individuiamo la natura di chi compie l'opera.
Se, adunque, l'indizio e la manifestazione tipica della natura divina sono rappresentati dalla benevolenza di Dio nei confronti degli uomini, ecco che tu hai la risposta che chiedevi, il motivo, cioè, in base al quale Dio è venuto fra gli uomini.
La nostra natura, infatti, afflitta com'era da una malattia, aveva bisogno di un medico.
L'uomo, che era caduto, aveva bisogno di chi lo rimettesse in piedi.
Chi aveva perduto la vita, aveva bisogno di chi la vita gli restituisse.
Occorreva, a chi aveva smesso di compiere il bene, qualcuno che sulla via del bene lo riconducesse.
Invocava la luce, chi era prigioniero delle tenebre.
Il detenuto aveva bisogno di chi lo liberasse, l'incatenato di chi lo sciogliesse, lo schiavo di chi lo affrancasse.
Ora, sono forse questi dei motivi futili e inadeguati perché Dio se ne sentisse stimolato a discendere in mezzo all'umanità, afflitta in questo modo dall'infelicità e dalla miseria?
Gregorio di Nissa, Grande Catechesi, 14-15
Vedendo il mondo sconvolto dal timore, Dio mette in opera il suo amore per chiamarlo, la sua grazia per invitarlo, la sua tenerezza per stringerlo a sé.
Ecco perché provoca il diluvio, per purificare la terra che si ostinava nel male; chiama Noè a generare un mondo nuovo, lo incoraggia con dolci parole, gli dà la sua fiducia e la sua familiarità, lo istruisce paternamente sul presente e nella sua bontà lo conforta riguardo al futuro.
Piuttosto che limitarsi a dare degli ordini, partecipa alla sua fatica, chiudendo nell'arca tutte le specie viventi, perché, in questa amicizia con l'uomo, l'amore distrugga il timore servile e nell'amore reciproco si conservi ciò che la comune fatica aveva salvato.
Sempre per amore, Dio chiama Abramo da un popolo pagano, gli dà un nome più grande, lo costituisce padre dei credenti.
Ancora, lo accompagna per la via, lo custodisce fra gli stranieri, lo colma di ricchezze, lo fa vittorioso, lo assicura con le sue promesse, lo sottrae alle ingiustizie, gli si fa sentire vicino chiedendogli ospitalità, gli dona miracolosamente il figlio non più atteso.
E questo perché Abramo, ricolmato da tanti beni, attratto dall'immensa dolcezza dell'amore divino, impari ad adorare Dio non più nel timore, ma nell'amore.
Per amore, Dio, in un sogno, consola Giacobbe in fuga.
Al suo ritorno lo provoca a combattimento costringendolo a lottare corpo a corpo con lui, per insegnargli ad amare, non già temere, quel Dio che pure aveva preso l'iniziativa della lotta.
Per amore, Dio chiama Mosè annunciandosi come il Dio dei suoi padri e gli parla con tenerezza paterna per invitarlo a farsi liberatore del suo popolo …
Attraverso tutti questi avvenimenti, la fiamma della carità divina ha acceso il cuore dell'uomo, l'ebbrezza dell'amore di Dio si è trasfusa nella sensibilità umana.
Allora gli uomini, feriti e inebriati, hanno cominciato a desiderare di vedere Dio con gli occhi del corpo.
Ma quel Dio che il mondo non può contenere, come può essere raggiunto dalla debole vista umana?
La legge dell'amore non bada a quello che avverrà, non bada a quello che deve o che può fare.
L'amore non soppesa le ragioni, non sa fare calcoli, non conosce limiti.
L'amore non trae motivo di consolazione dall'impossibilità, non cerca ripieghi nella difficoltà.
Chi ama, se non può giungere a ciò che desidera, viene ucciso dal suo stesso amore: perché l'amore va dove è attratto, non dove sarebbe logico andare.
L'amore genera il desiderio, cresce sempre più di intensità e tende a ciò che non gli è ancora concesso.
E questo non è ancora tutto: l'amore non sopporta di non vedere ciò che ama.
I santi hanno considerato poca cosa quello che avevano ottenuto, fin tanto che non potevano vedere Dio …
Per questo Mosè ha l'audacia di dire: Se ho trovato grazia davanti a te, mostrami il tuo volto ( Es 33,13 ).
E il salmista: Mostraci il tuo volto ( Sal 80,4 ).
Anche gli idoli dei pagani sono nati da questa esigenza: vedere con gli occhi ciò che, sia pure errando, si adora.
Pietro Crisologo, Sermoni, 147
Colui che possiede l'amore cristiano, obbedisca ai comandamenti di Cristo.
Chi potrà mai spiegare in che consiste il vincolo dell'amore di Dio?
Chi sarà in grado di illustrare esaurientemente la sua bellezza e la sua intensità?
Ineffabile è il vertice a cui ci eleva: l'amore ci unisce a Dio, l'amore copre il gran numero dei peccati ( 1 Pt 4,8 ), tutto soffre l'amore, tutto sopporta; nulla di vile né di altezzoso è compatibile con l'amore.
L'amore non suscita divisioni, l'amore non si ribella, l'amore opera sempre con la massima concordia; è attraverso l'amore che tutti gli eletti di Dio sono stati condotti alla perfezione e, quando non è presente l'amore, nulla al Signore è gradito.
Egli ci ha tratto a sé con amore e Gesù Cristo Signor nostro, in virtù della carità che ebbe per noi, docile alla volontà di Dio, diede il suo sangue per il nostro sangue, la sua carne per la nostra carne, la sua anima per la nostra anima.
Considerate quanto sia grande e meraviglioso l'amore, o carissimi, e come sia impossibile spiegarlo esaurientemente.
Chi è in grado di perseverare in esso, se non colui che Dio ha scelto?
Preghiamo e supplichiamo, dunque, la sua misericordia, di poter vivere in questo amore, al sicuro da ogni umano condizionamento, in assoluta perfezione.
Tutte le generazioni, da Adamo sino ad oggi, sono passate; chi, tuttavia, in virtù della grazia di Dio, abbia conseguito la perfezione della carità, ha ottenuto il posto riservato alle anime devote: noi lo vedremo, perciò, allorché apparirà il regno di Cristo.
Sta infatti scritto: Entrate appena un poco nelle vostre stanze, finché si dilegui la mia collera e il mio furore: io mi ricorderò, poi, del giorno buono e vi farò risorgere dalla tomba ( Is 26,20; Ez 37,12 ).
Noi siamo beati, o carissimi, se ci manteniamo fedeli alle leggi di Dio, vivendo nella concordia e nell'amore: la carità cancellerà, in questo modo, i nostri peccati.
Sta infatti scritto: Beati coloro ai quali furono rimesse le iniquità, i cui peccati furono cancellati.
Beato l'uomo al quale il Signore non imputò colpa e sulla cui bocca non v'è inganno ( Sal 32,1-2 ).
Questa è la beatitudine che godono coloro che Dio ha eletto, per opera di Gesù Cristo nostro Signore, a cui sia gloria nei secoli dei secoli. Amen.
Clemente di Roma, Lettera ai Corinti, 49-50
Si è manifestato l'amore di Dio per noi ( 1 Gv 4,9 ): così san Giovanni ci invita ad amare Dio.
Ma potremmo amarlo, se egli non ci avesse amati per primo?
Se siamo stati lenti ad amarlo, sforziamoci di non esserlo nel ricambiare il suo amore.
Ci ha amati per primo: noi invece non siamo capaci di amare così.
Ci ha amati mentre eravamo peccatori, ma ha distrutto il nostro peccato; ci ha voluto bene mentre eravamo lontani da lui, ma non ci ha radunati insieme perché continuassimo a peccare; ci ha amati quando eravamo nella malattia, ma è venuto a noi per guarirci.
Sì, Dio è amore. L'amore di Dio per noi si è manifestato in questo: Dio ha mandato il suo unico Figlio nel mondo, perché possiamo vivere per mezzo di lui ( 1 Gv 4,8-9 ).
Il Signore stesso l'ha detto: Nessuno ha un amore più grande di chi dà la vita per i suoi amici ( Gv 15,13 ), e la prova dell'amore di Cristo per noi sta proprio nel fatto che egli è morto per noi.
E quale prova abbiamo dell'amore del Padre nei nostri riguardi?
Ecco: ha mandato il suo Figlio unico a morire per noi, come dice l'apostolo Paolo: Egli che non ha risparmiato il proprio Figlio, ma lo ha consegnato per noi, come non ci darà anche tutto il resto insieme con lui? ( Rm 8,32 ).
Cristo è consegnato alla morte dal Padre, ed è consegnato da Giuda; non sembra quasi lo stesso gesto?
Giuda è traditore: è dunque traditore anche Dio Padre? Certamente no, mi dirai.
Eppure non sono io che affermo una cosa del genere, ma san Paolo: Lui che non ha risparmiato il proprio Figlio, ma lo ha consegnato alla morte per tutti noi: il Padre l'ha consegnato e lui stesso si è consegnato.
É ancora l'apostolo che dichiara: Mi ha amato e ha dato se stesso per me ( Gal 2,20 ).
Ma allora, se il Padre ha consegnato alla morte suo Figlio e il Figlio si è consegnato da sé, che cosa ha fatto Giuda?
Una consegna è stata fatta dal Padre, una consegna dal Figlio, una consegna da Giuda: è sempre il medesimo gesto.
Che cosa dunque distingue il Padre che abbandona alla morte il Figlio, il Figlio che si dà volontariamente e il discepolo Giuda che consegna il Maestro?
Ecco: il Padre e il Figlio hanno fatto tutto questo per amore, mentre Giuda l'ha fatto per tradimento.
Vedete perciò che bisogna considerare non quello che l'uomo fa, ma lo spirito e l'intenzione con cui lo fa …
Anche se si tratta di una stessa azione, quando la misuriamo dalla diversità delle intenzioni, troviamo materia per amare e condannare, per lodare o detestare.
Sì, questo è l'immenso valore della carità: essa è l'unica che permette di distinguere, l'unica che permette di misurare le azioni umane.
Eccoti dunque una brevissima norma che compendia tutto: ama e fa' quel che vuoi.
Se taci, taci per amore; se parli, parla per amore; se correggi, correggi per amore; se perdoni, perdona per amore.
L'amore affondi come una radice nel tuo cuore: da questa radice non può nascere se non il bene.
Agostino, Commento all'epistola di Giovanni ai Parti, 7,7-8
Sono certo che né la morte né la vita né gli angeli né i principati né le potestà né il presente né il futuro né l'altezza né la profondità né qualsiasi altra delle cose create potrà mai separarci dall'amore di Dio che è in Cristo Gesù, Signore nostro ( Rm 8,38-39 ).
Che parole grandiose! Noi, però, non siamo all'altezza di comprenderle pienamente giacché non possediamo un amore così grande …
Qual è il significato di queste parole?
A che cosa serve - intende dire Paolo - parlare delle cose presenti e dei mali legati a questa vita?
Anche se uno parlasse delle realtà future, di cose come la vita e la morte, di virtù come gli angeli e gli arcangeli e, insomma, di ogni altra creatura celeste; ebbene, tutto questo mi parrebbe ben poco, a confronto dell'amore di Cristo.
Neppure se mi venisse minacciata la morte, quella futura ed eterna, perché io mi separi da Cristo, o, al contrario, mi fosse promessa la vita eterna: in nessun caso accetterei lo scambio.
A che scopo vieni a parlarmi dei re di questa terra o dei consoli, di questo o di quel potente?
Si trattasse pure di angeli o di tutte le cose presenti e future, tutto mi sembrerebbe piccolo, sulla terra come nel cielo, sotto terra come al di sopra dei cieli, a paragone di quell'amore.
Poi, come se quanto avesse detto fino a quel momento non dimostrasse a sufficienza il suo amore per Cristo, Paolo aggiunse ancora: Né qualsiasi altra delle cose create ( Rm 8,39 ), volendo intendere, con ciò, che, anche in presenza delle altre cose create, sia quelle visibili che quelle spirituali, nulla avrebbe mai potuto sottrargli quell'amore.
Paolo, d'altronde, non diceva queste cose perché gli angeli o le altre potestà realmente lo tentavano: non sia mai!
Egli intendeva soltanto dimostrare, ricorrendo anche all'iperbole, il suo amore nei confronti del Cristo.
Non è, infatti, che Paolo amasse Cristo in considerazione di tutto ciò che a Cristo apparteneva; anche le altre cose, al contrario, egli le amava in nome di Cristo e a lui soltanto guardava.
Una cosa sola temeva: di esser separato da quell'amore.
Questa prospettiva, infatti, era per lui più spaventosa della geenna e, pertanto, il perseverare nell'amore di Cristo rappresentava un obiettivo più desiderabile del regno stesso di Dio.
Che cosa ci meriteremmo, allora, noi, che mentre Paolo di fronte all'amore di Cristo disprezzava anche i beni celesti, anteponiamo a Cristo anche le cose che sono nel fango e nella melma?
E mentre quello, in nome di questo amore, non avrebbe esitato a gettarsi nell'inferno e a rinunciare al regno dei cieli, se entrambe le cose gli fossero state proposte; noi, invece, non riusciamo a distaccarci neppure da questa vita presente?
Non siamo forse degni dei calzari ( Mt 3,11 ) di costui che tanto ci sovrasta per grandezza d'animo?
Paolo ritiene che neppure il regno dei cieli valga qualcosa rispetto a Cristo; noi, al contrario, mentre disprezziamo Cristo, nutriamo però una grande considerazione verso il suo regno.
Volesse il cielo, anzi, che fosse davvero così; neppure questo, invece, è vero giacché, dopo aver messo da parte il regno che ci è stato promesso, rincorriamo ogni giorno sogni e fantasmi.
Dio però, buono e dolcissimo com'è, cerca di realizzare comunque il suo scopo e, come un padre premuroso nei confronti di un figlio che malvolentieri accetti un dialogo costante con lui, ci attrae sapientemente a sé nei modi più diversi.
Giacché, infatti, non nutriamo la dovuta considerazione verso il suo amore, Dio ci offre molte altre occasioni per tenerci uniti a sé.
Noi, tuttavia, continuiamo a fare a modo nostro e ci comportiamo come bambini che giocano.
Non così, invece, Paolo. Egli infatti, alla stregua d'un fanciullo di nobili sentimenti che nutre uno spontaneo amore verso il padre, desidera anche lui di stare soltanto accanto al padre, senza curarsi d'altro.
Paolo, anzi, ama Dio più di come un figlio potrebbe amare il proprio padre.
Egli, infatti, non stima allo stesso modo il padre e ciò che appartiene a lui, ma, dal momento che la sua premura si rivolge unicamente alla persona del padre, tutto il resto per lui non ha alcuna importanza.
Preferirebbe, anzi, esser castigato e flagellato assieme a lui, piuttosto che, dopo esserne stato separato, vivere nei piaceri.
Giovanni Crisostomo, Commento alla lettera ai Romani, 15,5
Chi accetta di soffrire per amore di Dio, soffre per la propria salvezza; e ancora, chi muore per la propria salvezza, affronta la morte per amore del Signore.
Egli infatti, che era la Vita, ha sofferto, ha voluto soffrire, perché noi vivessimo in virtù della sua passione.
Perché mi chiamate: Signore, Signore!, egli dice, e poi non fate quello che dico? ( Lc 6,46 ).
Quel popolo, infatti, che mi ama a parole, ma con il cuore è lontano dal Signore ( Is 29,13 ), è un altro popolo che ad altri rivolge il suo ossequio, dopo esservisi spontaneamente prostituito.
Tutti coloro, invece, che osservano i comandamenti del Salvatore, qualsiasi azione compiano, sono dei « martiri », cioè dei « testimoni » che mettono in pratica la sua volontà: non soltanto costoro nominano il Signore, ma nel medesimo istante rendono testimonianza a colui in nome del quale essi sono persuasi d'aver crocifisso la carne con le sue passioni e le sue concupiscenze.
Se viviamo per opera dello spirito, come scrive l'Apostolo, camminiamo anche secondo lo spirito ( Gal 5,24-25 ).
E ancora: Chi semina nella sua carne, dalla carne mieterà la corruzione; chi invece semina nello spirito, dallo spirito mieterà la vita eterna ( Gal 6,8 ).
Miseri gli uomini ai quali la testimonianza resa al Signore attraverso il sangue appare soltanto come una morte atroce!
Non si rendono conto come questo passaggio per la morte altro non sia che il principio della vita vera; non vogliono sentir parlare delle ricompense che attendono, al di là della morte, coloro che abbiano vissuto santamente né dei supplizi, per contro, preparati per chi si sia comportato con ingiustizia e dissolutamente.
Né intendo riferirmi soltanto a quanto si legge nelle nostre Scritture ( i cui insegnamenti, infatti, nella loro quasi totalità, inducono ad agire nel modo che noi riteniamo giusto ); ma taluni, peraltro, non vogliono prestare ascolto neppure agli insegnamenti provenienti da rappresentanti della loro stessa cultura.
Scrive, infatti, la pitagorica Teano: « Se l'anima non fosse immortale, per gli iniqui che, dopo aver commesso ogni sorta di nefandezze, alla fine muoiono, la vita sarebbe un continuo banchetto e la morte un guadagno ».
E Platone nel Fedone: « Se la morte fosse la totale dissoluzione … », con tutto ciò che segue.
Non si deve perciò ritenere, secondo l'affermazione di Telefio in Eschilo, che « sia chiara e netta la via che conduce agli inferi »: le vie, al contrario, sono molte, come molti sono i peccati che vi ci sospingono.
Aristofane, motteggiando, evidentemente, questi spostati senza fede, dice: « Datevi da fare, uomini dall'oscura vita, simili a una generazione di foglie, sciocchi, simulacri di cera, genìa inconsistente e vana, uccelli implumi che vivono un sol giorno » ( da Gli uccelli ).
Ed Epicarmo: « Uomini del genere? Palloni gonfiati! ».
Ci dice poi il Salvatore: Lo spirito è pronto, ma la carne è debole ( Mt 26,41 ), poiché, come spiega l'Apostolo, le aspirazioni della carne sono nemiche di Dio, non essendo sottomesse alla sua legge né, anzi, potendo mai esserlo.
Chi vive secondo la carne, perciò, non può piacere a Dio ( Rm 8,7-8 ).
E più oltre, approfondendo il concetto affinché qualcuno in mala fede, come Marcione, non pervenga alla conclusione che la creatura è cattiva, l'Apostolo soggiunge: Se invece Cristo è in voi, il corpo, certo, è morto a causa del peccato, ma lo spirito vive in grazia della giustizia ( Rm 8,10 ).
E ancora: Se vivete secondo la carne, morirete; se, invece, per mezzo dello spirito, fate morire le azioni del corpo, vivrete ( Rm 8,13 ) …
Stimo, infatti, che le sofferenze del tempo presente non possano essere paragonate alla gloria futura che si rivelerà in noi ( Rm 8,18 ) …
Se dunque soffriamo, è per essere poi glorificati, come coeredi di Cristo ( Rm 8,17 ) …
Sappiamo del resto che ogni cosa concorre al bene di coloro che amano Dio, di coloro che, secondo il suo disegno, sono chiamati.
Poiché coloro che egli ha conosciuti in antecedenza, li ha pure predestinati ad essere conformi all'immagine del suo Figlio, affinché il suo Figlio sia il primogenito fra tutti i redenti.
E quelli che ha predestinati, li ha pure chiamati; e quelli che ha chiamati, li ha pure giustificati; e quelli che ha giustificati li ha infine glorificati ( Rm 8,28-30 ).
Puoi osservare come, in nome dell'amore, venga raccomandato il martirio.
Se, infatti, acconsenti ad essere un martire nella prospettiva della ricompensa futura, ascolta ancora: In speranza infatti noi siamo stati salvati.
Ora, il vedere ciò che si spera, non è più speranza: chi spera ancora, infatti, ciò che già vede?
Ma se noi speriamo ciò che non vediamo, è per mezzo dello spirito di sopportazione che noi l'aspettiamo ( Rm 8,24-25 ).
Ma, se anche siete costretti a soffrire per la giustizia, scrive Pietro, beati voi!
Non abbiate di loro alcun timore e non siate spaventati, ma santificate nei vostri cuori il Cristo Signore, sempre pronti a rispondere, ma con dolcezza e riguardo, a chiunque vi domandi ragione della speranza che è nei vostri cuori.
Abbiate sempre una buona coscienza, affinché siano coperti di confusione, proprio in ciò di cui vi calunniano, come foste dei malfattori, coloro che si prendono gioco della vostra buona condotta in Cristo.
É meglio soffrire, infatti, se questa è la volontà di Dio, facendo il bene piuttosto che il male ( 1 Pt 3,14-17 ).
E se qualcuno, amante dei cavilli, chiedesse: « Ma come potrà mai accadere che la carne, debole com'è, possa resistere alla tentazione del potere e della ricchezza? », ebbene, costui sappia che, confidando nel Signore Iddio onnipotente e riponendo la nostra fiducia in lui, saremo in grado di contrastare efficacemente le potestà delle tenebre e la morte.
Se tu allora chiamerai, dice il profeta, il Signore risponderà: Eccomi ( Is 58,9 ).
Ecco l'invincibile Salvatore, che ci difende.
Non vi sembri strana, avverte Pietro, la prova del fuoco sorta contro di voi, per vostro esperimento, come se vi capitasse qualcosa di nuovo; ma anzi rallegratevi per la parte che voi venite a prendere alle sofferenze di Cristo, affinché, quando apparirà la sua gloria, anche voi possiate esultare e gioire.
Se venite insultati a causa del nome di Cristo, voi siete felici, perché lo spirito di gloria, che è lo spirito di Dio, riposa in voi ( 1 Pt 4,12-14 ).
E ancora è scritto: Per te tutto il giorno siamo mandati a morte, stimati come pecore da macello.
Ma superiamo ogni prova nel nome di colui che ci ha donato il suo amore ( Rm 8,36-37 ).
Alcuni filosofi indiani si rivolsero con queste parole ad Alessandro il Macedone: « Potrai allontanare i nostri corpi da questo luogo, ma non potrai costringere le nostre anime a compiere ciò che contrasta con la nostra volontà.
Il fuoco è per gli uomini il più atroce dei supplizi, è vero; noi, però, lo disprezziamo » …
Paolo soggiunge: Io credo che Dio abbia destinato noi apostoli ad essere come gli ultimi degli uomini, come dei condannati a morte, dal momento che siamo diventati lo spettacolo del mondo, degli angeli e degli uomini …
Fino a questo momento noi soffriamo la fame, la sete, la nudità; siamo schiaffeggiati e non abbiamo ove poterci stabilire; ci affanniamo a lavorare con le nostre mani; se insultati, benediciamo; se perseguitati, sopportiamo; se diffamati, esortiamo con bontà: siamo diventati come la spazzatura del mondo ( 1 Cor 4,9-13 ).
In termini analoghi si esprime anche Platone nella Repubblica: « Il giusto, anche se venga torturato, anche se gli siano cavati tutt'e due gli occhi, sarà beato ».
Il saggio, perciò, non riporrà giammai il fine supremo in questa vita, bensì nella beatitudine eterna e nella regale amicizia con Dio: anche se qualcuno lo insulterà e lo caccerà in esilio e gli confischerà i suoi beni e, infine, lo condannerà a morte, egli non potrà mai essere privato della libertà né, soprattutto, dell'amore verso Dio.
La carità tutto tollera e tutto sopporta ( 1 Cor 13,7 ), persuasa com'è del fatto che sia la divina provvidenza a governare opportunamente ogni cosa.
Vi supplico, dunque, raccomanda l'Apostolo, siate miei imitatori! ( 1 Cor 4,16 ).
Clemente Alessandrino, Stromata, 4, 43,2ss
L'incarnazione del nostro Salvatore costituisce l'attestato più eloquente della sua premura nei confronti degli uomini.
Non è il cielo, infatti, né la terra, né il mare, né l'aria, né il sole, né la luna, non sono le stelle né tutte le opere della creazione, visibili e invisibili, chiamate all'esistenza da una semplice parola o, meglio, dalla sua volontà manifestata attraverso la parola; non è tutto questo, dicevo, che dimostra adeguatamente l'immensa bontà del Salvatore, quanto piuttosto il fatto che lo stesso unigenito Figlio di Dio ( che possedeva la natura divina [ Fil 2,6 ], splendore della sua gloria e impronta della sua sostanza [ Eb 1,3 ], che esisteva fin dal principio, e si trovava presso Dio, ed era egli stesso Dio e da lui è stata creata ogni cosa [ Gv 1,1-3 ] ) assunse l'aspetto d'uno schiavo ( Fil 2,7 ) per somigliare all'uomo e assumerne la sembianza esteriore, per mostrarsi sulla terra e vivere in mezzo agli uomini, per prendere su di sé le nostre infermità e sostenere i nostri mali.
Paolo ha identificato questa clamorosa prova dell'amore di Dio verso gli uomini ed è per questo che la proclama, dicendo: Dio rende testimonianza del suo amore nei nostri confronti proprio nel fatto che, mentre noi eravamo ancora dei peccatori, Cristo è morto per noi ( Rm 5,8 ).
E ancora: Egli, che non ha risparmiato il proprio Figlio, ma l'ha sacrificato, anzi, per tutti noi, come potrà non esser disposto ad accordarci qualunque altra cosa insieme con lui? ( Rm 8,32 ).
Anche il divino Giovanni, da parte sua, concorda con le asserzioni di Paolo: Dio, infatti, ha talmente amato il mondo, scrive, da sacrificare il suo Figlio unigenito, affinché ognuno che abbia fede in lui non perisca, ma ottenga invece la vita eterna ( Gv 3,16 ).
Dio, pertanto, non si prende semplicemente cura degli uomini, ma, nel far questo, egli li ama davvero.
Quest'amore, poi, è talmente grande, da aver indotto Dio a stabilire come nostro medico e Salvatore il suo Figlio unigenito, a lui consustanziale, generato prima dell'aurora, con il concorso del quale creò il mondo, e a donarci, per mezzo suo, il privilegio dell'adozione a figli di Dio.
Il Creatore, infatti, vedendo l'umanità prostituirsi spontaneamente allo spietato tiranno e precipitare nel baratro dei delitti e, nello stesso tempo, violare temerariamente le leggi della natura, mentre l'universo manifestava e proclamava con ogni evidenza il Creatore; vedendo tutto questo e, insieme, rendendosi conto che non potevano esser richiamati sulla retta via coloro che non avevano ormai più alcuna capacità di reagire, il Creatore, con sapienza e giustizia, intervenne a beneficio della nostra salvezza.
Egli, infatti, non volle donarci la libertà servendosi semplicemente della propria onnipotenza, né d'altronde gli piacque manifestare nei confronti dell'avversario del genere umano soltanto misericordia, affinché quello non chiamasse ingiusta questa misericordia; il Salvatore, al contrario, preferisce tracciare una strada ricolma d'amore e degnamente adorna di giustizia.
Unendo perciò a sé la natura umana già sconfitta, la sospinge nuovamente in battaglia e, per compensarla della disfatta subita, la mette in condizione di sbaragliare colui che una volta l'aveva indegnamente vinta, abbattendo la tirannide di chi ci aveva sottoposto al suo triste servizio e riconquistando l'antica libertà.
Teodoreto di Ciro, La provvidenza divina, 10
Cristo venne nella nostra miseria.
Ebbe fame, ebbe sete, si stancò, dormì.
Compì miracoli, sopportò mali, fu flagellato, fu incoronato di spine, offeso con sputi, colpito da schiaffi, fu affisso al legno, ferito dalla lancia, posto nel sepolcro … ma al terzo giorno risorse, alla fine del travaglio, alla morte della morte.
Ti ha mostrato ciò che devi sapere se vuoi essere beato: qui infatti non lo puoi essere.
In questa vita non puoi essere beato: nessuno lo può.
Cerchi un bene? Ma questa terra non è il posto del bene che cerchi.
Cosa cerchi? La vita beata. Ma non è qui.
Se cercassi l'oro in un posto ove non c'è, chi sa che non c'è non ti direbbe forse: perché scavi?
Perché smuovi la terra? Fai una fossa per scendervi dentro, non per trovar qualche cosa.
E tu cosa risponderesti? Cerco l'oro.
E quegli non ti direbbe: Ciò che cerchi è qualcosa che non esiste, ma: Non è dove la cerchi.
Così anche quando tu dici: voglio essere beato, cerchi una cosa buona, ma non è qui.
Se Cristo l'ha avuta quaggiù, l'avrai anche tu.
Osserva perciò quello che egli ha trovato nel posto della tua morte: venendo da un altro posto, cosa ha trovato quaggiù, se non ciò che vi è in abbondanza?
Ha mangiato con te ciò che abbonda nella tua miserabile dispensa.
Ha bevuto l'aceto, ha ricevuto del fiele.
Ecco cosa ha trovato nella tua dispensa.
Ma egli ti invita alla sua grande cena, al banchetto del cielo, alla mensa degli angeli, ove egli stesso è pane.
É disceso, ha trovato nella tua dispensa questi mali, eppure non ha disdegnato tale tua mensa e ti ha promesso la sua.
Cosa ci dice infatti? Credete, credete che un giorno verrete alla mia ricca mensa, perché non ho disdegnato la vostra mensa miserabile.
Si è preso il tuo male; non ti darà il tuo bene? Certo te lo darà.
Ci ha promesso la sua vita, ma è incredibile ciò che ha fatto: ci ha regalato prima la sua morte.
Come dicesse: vi invito alla mia vita, dove nessuno muore e vi è veramente la vita beata, dove il cibo non si guasta ma dona energie che più non si affievoliscono.
Ecco: vi invito al regno degli angeli, all'amicizia del Padre e dello Spirito Santo, al banchetto eterno, alla mia fraternità; e infine, a me stesso, alla mia vita io vi invito.
Non volete credere che vi darò la mia vita? Ne avete il pegno: la mia morte.
Ora dunque che viviamo in questa carne corruttibile, moriremo con Cristo imitandone il comportamento, e amando la giustizia viviamo con Cristo.
Non otterremo la vita beata se non andremo da colui che è venuto da noi e non staremo con colui che è morto per noi.
Agostino, Discorsi, 231
Tutto abbiamo in Cristo. Ogni anima si avvicini a lui, sia che si senta sfinita per i peccati carnali o inchiodata dalle brame terrene, sia che, per quanto proficiente con la continua meditazione, si ritrovi ancora imperfetta oppure sia già in qualche modo perfetta per le molte virtù: tutto è nelle mani del Signore e tutto è per noi Cristo.
Se desideri curare la tua ferita, egli è il medico; se bruci di febbre, egli è la sorgente ristoratrice; se sei oppresso dalle colpe, egli è la giustizia; se hai bisogno di aiuto, egli è la forza; se temi la morte, egli è la vita; se desideri il cielo, egli è la via; se fuggi le tenebre, egli è la luce; se hai bisogno di alimento, egli è cibo.
Gustate e vedete come il Signore è soave: beato l'uomo che spera in lui ( Sal 34,9 ).
Ambrogio, La verginità, 16
Dalla Scrittura veniamo a sapere che Dio ama tutte le cose che esistono e nulla disprezza di quanto ha creato; se, infatti, egli ne odiasse qualcuna, non l'avrebbe chiamata all'esistenza ( Sap 11,24 ).
In seguito, leggiamo ancora: Tu risparmi tutte le cose poiché ognuna di esse è tua, o Amico della vita.
Il tuo soffio incorruttibile, infatti, palpita in tutte le cose.
Poco per volta, inoltre, tu castighi coloro che cadono in fallo e li ammonisci ricordando i loro peccati ( Sap 11,26; Sap 12,1-2 ).
Orbene, in qual modo noi potremmo allora affermare che Dio non si cura del movimento del cielo e di tutto l'universo, mentre, senza interesse alcuno per l'immensa terra, governerebbe solo il nostro destino di uomini?
Eppure, nelle preghiere, noi diciamo: La terra è ricolma della misericordia del Signore ( Sal 33,5 ); o ancora: La misericordia del Signore si estende a ogni creatura ( Sap 18,13 ), mentre egli, nella sua bontà, fa sorgere il suo sole sui cattivi e sui buoni, piovere sui giusti come sugli iniqui ( Mt 5,45 ).
Essendo figli suoi, d'altronde, il Signore ci esorta altresì a coltivare la medesima disposizione, insegnandoci a estendere quanto più è possibile i nostri benefici verso gli uomini tutti.
A detta della Scrittura, egli è salvatore di tutti gli uomini, ancorché in primo luogo dei credenti ( 1 Tm 4,10 ), mentre il suo Cristo è vittima espiatrice per i nostri peccati; né, tuttavia, unicamente per i nostri, quanto piuttosto per quelli del mondo intero ( 1 Gv 2,2 ).
Origene, Contro Celso, 4,28
L'anima mia si strugge per la tua salvezza ( Sal 119,81 ), vale a dire nell'attesa della tua salvezza.
Buono è questo « consumarsi »: infatti rivela il desiderio del bene, certo non ancora raggiunto, ma appassionatamente bramato.
Dall'origine del genere umano fino alla fine dei secoli chi, tra quelli che in ogni tempo vissero, vivono e vivranno, dice queste parole se non la stirpe eletta, il sacerdozio regale, la nazione santa, il popolo d'acquisizione che desidera Cristo?
Testimone ne è il santo vegliardo Simeone che, ricevendo il Cristo bambino tra le braccia, disse: Ora, Signore, puoi lasciare che il tuo servo se ne vada in pace secondo la tua parola, poiché i miei occhi hanno contemplato la tua salvezza ( Lc 2,29-30 ).
Infatti gli era stato rivelato dallo Spirito Santo che non sarebbe morto prima d'aver visto il Cristo del Signore ( Lc 2,26 ).
Come il desiderio di questo vegliardo, tale si deve credere sia stato quello di tutti i santi delle epoche precedenti.
Anche il Signore stesso dice ai discepoli: Molti profeti e re vollero vedere ciò che voi vedete e non lo videro; udire ciò che voi udite e non lo udirono ( Mt 13,17 ), perché si riconosca anche la voce di tutto l'antico Israele nelle parole: L'anima mia si strugge per la tua salvezza.
Dunque mai nel passato si spense questo desiderio dei santi, né al presente si placa nel corpo di Cristo, che è la Chiesa, fino alla consumazione dei secoli, fin quando verrà il Desiderato di tutte le nazioni ( Ag 2,8 ), promesso dal profeta.
Per questo l'apostolo Paolo dice: Ormai sta pronta per me la corona della giustizia, che il Signore, giusto giudice, darà in quel giorno a me, e non soltanto a me, ma a tutti coloro che amano la sua manifestazione ( 2 Tm 4,8 ).
Il desiderio di cui ora parliamo sgorga dall'amore della manifestazione di Cristo; proprio riferendosi ad essa, Paolo ancora dice: Quando comparirà Cristo, che è la nostra vita, allora anche voi apparirete con lui nella gloria ( Col 3,4 ).
Nei primi tempi della Chiesa, che precedevano il parto della Vergine, vi furono santi che desideravano l'incarnazione del Verbo; nei tempi attuali, dopo l'Ascensione, si trovano santi che attendono con desiderio la venuta di Cristo come giudice dei vivi e dei morti.
Dall'inizio fino alla fine dei tempi, questo desiderio della Chiesa non si è mai placato un istante, se non quando il Verbo, fattosi uomo, dimorò sulla terra in compagnia dei suoi discepoli.
Perciò, nelle parole del salmo, si sente la voce di tutto il corpo di Cristo, che geme in questa vita: « L'anima mia si strugge per la tua salvezza, ma spero nella tua parola ».
Questa parola è la promessa.
Ed è questa la speranza che fa aspettare nella pazienza ciò che i credenti ancora non vedono.
Agostino, Esposizioni sui salmi
Quando sarò levato in alto da terra, tutto attirerò a me ( Gv 12,32 ).
Cos'è questo « tutto », se non tutto ciò da cui il diavolo è stato cacciato fuori?
Cristo non ha detto: tutti, ma « tutto », perché la fede non è di tutti.
Questa parola non si riferisce quindi alla totalità degli uomini, ma all'integrità della creatura: spirito, anima e corpo; cioè, quel che ci fa intendere, quel che ci fa vivere, quel che ci fa visibili e sensibili.
In altre parole, colui che ha detto: Non un capello del vostro capo andrà perduto ( Lc 21,18 ), tutto attira a sé.
Se invece vogliamo interpretare « tutto » come riferito agli stessi uomini, allora si deve intendere che con quella parola si indicano tutti i predestinati alla salvezza.
In questo senso il Signore dice che di tutti questi nessuno perirà, come prima aveva detto parlando delle sue pecore ( Gv 10,28 ).
Oppure egli ha voluto intendere tutte le specie di uomini, di tutte le lingue, di tutte le età, senza distinzione di grado o di onori, di ingegno o di talento, di professione o di arte, al di là di qualsiasi altra distinzione che, al di fuori del peccato, possa esser fatta tra gli uomini, dai più illustri ai più umili, dal re sino al mendico.
« Tutto » egli dice « attirerò a me », in quanto io sono il loro capo ed essi le mie membra.
Agostino, Commento al Vangelo di san Giovanni, 52,11
La pratica della sapienza cristiana non sta nell'abbondanza delle parole, nella sublimità dei ragionamenti, nel desiderio di ricevere lode e gloria, ma nella vera e volontaria umiltà che il Signore Gesù Cristo dal seno materno fino al supplizio della croce ha scelto e insegnato con pienezza di forza.
Un giorno, come narra l'evangelista, i discepoli discutendo sulla loro grandezza chiesero a Gesù: « Chi dunque è il più grande nel regno dei cieli? ». Gesù allora chiamò a sé un fanciullo, lo pose in mezzo a loro e disse: « In verità vi dico: se non vi convertirete e diverrete come i fanciulli, non entrerete nel Regno dei cieli.
Chi dunque diventerà piccolo come questo fanciullo, sarà il più grande nel Regno dei cieli » ( Mt 18,1-4 ).
Cristo ama l'infanzia che egli stesso ha assunto nell'anima e nel corpo …
Ad essa orienta la condotta degli adulti e ad essa riconduce gli anziani.
Inculca i sentimenti dell'infanzia in coloro che innalza al regno eterno.
Ma per divenire capaci di comprendere come giungere a una conversione così ammirabile, come trasformarci per ritrovare un atteggiamento da fanciulli, ascoltiamo san Paolo che dice: « Non comportatevi da bambini nel giudicare, siate fanciulli quanto a malizia, ma adulti nei giudizi » ( 1 Cor 14,20 ).
Non si tratta dunque di tornare ai giochi infantili, né ai modi impacciati dei primi anni; ma dall'infanzia dobbiamo prendere quello che si addice agli anni della maturità, cioè il rapido placarsi delle agitazioni interiori, il pronto ritorno alla calma, la perfetta dimenticanza delle offese, l'assoluta indifferenza agli onori, la socievolezza, l'innato senso dell'uguaglianza umana …
E l'umiltà che il Salvatore bambino ci ha insegnato quando fu adorato dai magi.
Per mostrarci la gloria che preparava ai suoi imitatori ha consacrato il martirio dei bambini suoi coetanei: nati a Betlemme come Cristo, sono stati associati a lui per l'età e la passione.
I fedeli amino dunque l'umiltà e allontanino ogni forma di orgoglio, ognuno preferisca il prossimo a se stesso e non si cerchi l'utile proprio ma quello altrui ( 1 Cor 10,24 ).
Così, quando tutti traboccheranno di sentimenti di benevolenza scomparirà completamente il veleno dell'invidia, perché chiunque si esalta sarà umiliato e chi si umilia sarà esaltato ( Lc 14,11 ).
Lo attesta lo stesso Gesù Cristo nostro Signore, lui, che con il Padre e lo Spirito Santo vive e regna nei secoli dei secoli. Amen.
Leone Magno, Sermone, 7
Quando lo splendore della nuova stella condusse i tre magi ad adorare Gesù, essi lo videro non comandare ai demoni, risuscitare i morti, ridonare ai ciechi la vista, ai zoppi il passo saldo o la parola ai muti: lo videro come bambino silenzioso, quieto, tutto abbandonato alle cure della madre: in lui non appariva certo nessun segno di potestà, ma si rivelava un grande prodigio di umiltà.
L'aspetto stesso della sacra infanzia, a cui si era adattato Dio, il Figlio di Dio, poneva davanti agli occhi ciò che un giorno egli avrebbe predicato alle orecchie, e ciò che ancora il suono della voce non annunziava, già l'effetto della vista lo insegnava.
Tutta infatti l'azione vittoriosa del Salvatore, che sconfisse il diavolo e il mondo, cominciò con l'umiltà e si compì nell'umiltà.
Egli iniziò i suoi giorni, da lui stesso predisposti, nella persecuzione, e nella persecuzione li finì; né all'infante mancò la sopportazione delle sofferenze né al futuro sofferente mancò la mansuetudine infantile, perché l'unigenito Figlio di Dio, umiliando la sua maestà, accettò di nascere come uomo e di essere ucciso dagli uomini.
Così dunque l'onnipotente Iddio rese buona, col privilegio della sua umiltà, la nostra causa di per sé perduta; egli distrusse la morte con l'autore della morte, precisamente non sottraendosi a tutto ciò cui i persecutori lo sottoposero, ma tollerando con mitezza e soavità, per obbedienza al Padre, le crudeltà di quelli che in lui infierirono.
Quanto dunque conviene che siamo umili, quanto si addice che siamo pazienti noi, che se incontriamo qualche sofferenza non dobbiamo mai sopportarla se non a nostro buon merito!
Chi infatti si glorierà di avere il cuore casto o essere mondo dal peccato? ( Pr 20,9 ).
San Giovanni dice: Se diciamo di non aver peccato, inganniamo noi stessi e la verità non è in noi ( 1 Gv 1,8 ); chi si troverà tanto immune da colpa che in lui la giustizia non abbia nulla da condannare né la misericordia da perdonare?
Perciò tutta la saggezza della vita cristiana, carissimi, non consiste nelle molte chiacchiere, non nelle dispute sottili e neppure nella brama di lode e gloria, ma nell'umiltà vera, voluta, che il Signore Gesù Cristo scelse, dal grembo della madre fino al supplizio della croce, preferendola a ogni prestigio, e che a noi insegnò.
Quando infatti i suoi discepoli discutevano fra di loro, come ci dice l'evangelista, chi fosse maggiore nel regno dei cieli, egli chiamò un fanciullo, e lo pose in mezzo ad essi e disse: In verità vi dico, se non vi convertirete e non diverrete come fanciulli non entrerete nel regno dei cieli.
Colui dunque che si renderà piccolo come questo fanciullo, sarà il più grande nel regno dei cieli ( Mt 18,1; Mc 9,33-37; Lc 9,44-48 ).
Cristo ama la fanciullezza, che all'inizio accettò nell'anima e nel corpo.
Cristo ama la fanciullezza, maestra d'umiltà, norma d'innocenza, modello di mansuetudine.
Cristo ama la fanciullezza, verso la quale orienta il comportamento degli adulti e che fa abbracciare agli uomini nella loro tarda età.
Sul suo stesso esempio, egli umilia coloro che poi innalza al regno eterno.
Leone Magno, Sermoni, 37, 2-3
Vogliamo accogliere tranquillamente in noi i raggi benefici e salvifici del veramente buono e misericordioso Cristo e tramite essi lasciarci guidare in alto verso le sue azioni di grazia divina!
Non è un segno della sua ineffabile bontà, superiore a ogni concetto, che egli dà l'essere a tutto quanto esiste e tutto ha richiamato all'esistenza e che egli, secondo la sua volontà, tutto si assimila e tutto, secondo la capacità di ciascheduno, rende a lui partecipe?
Come nel caso che egli persino gli apostati circonda di amore e si adopera per i suoi diletti che sono affondati nella miseria e li prega di non disprezzarlo e li tollera nonostante le loro lamentele senza fondamento e anzi li scusa?
E ancora più quando promette loro di servire e a quelli che sono lontani subito a un loro avvicinamento si affretta, con loro si incontra e abbracciandoli corpo a corpo li bacia e nessun rimprovero solleva sul loro passato, ma solo amore ha per il presente e prepara un banchetto e chiama i suoi amici, i buoni naturalmente, perché la sua casa sia piena di pura gioia?
Pseudo-Dionigi Areopagita, I nomi divini, 1
Il mondo, pieno d'ogni varietà, è simile a un uomo ricco che possieda case splendide e grandi, oro e argento, insieme a svariate proprietà e a una numerosissima servitù.
Costui, però, colpito da dolorose infermità, viene assistito da tutti i suoi parenti, che, nonostante le ingenti ricchezze, nulla possono per guarirlo dalla malattia.
Non diversamente, nessun contributo terreno, sia che provenga da parte dei fratelli, sia che venga attuato con il ricorso alle ricchezze o alla forza o a qualsiasi altro dei beni succitati, non è in grado di strappare al peccato quell'anima che vi sia immersa e non possegga più una chiara coscienza della realtà; soltanto l'intervento di Cristo, invece, riesce a risanare sia l'anima che il corpo.
Liberati, dunque, da tutti gli affanni di questa vita, rivolgiamoci al Signore, invocandolo notte e giorno.
Questo mondo visibile, infatti, e la pace che vi si trova, quanto più sembrano recar conforto al corpo, tanto più aspramente irritano le ferite dell'anima, rendendo più acuta la sua pena.
Pseudo-Macario, Omelie spirituali, 45, 3
Nessuno può gettare altro fondamento oltre quello che è stato già posto ( 1 Cor 3,11 ).
Edifichiamo, allora, su questo fondamento, rimanendo uniti ad esso come il tralcio alla vite; nessun ostacolo s'interponga fra noi e Cristo: se qualcosa ci separa da lui, infatti, subito periamo.
Il ramo riceve il proprio nutrimento dal tronco al quale è unito, così come un edificio continua a sorreggersi finché rimane compatto: qualora si divida internamente, invece, è destinato a crollare, rimanendo privato di qualsiasi sostegno.
Non accontentiamoci, dunque, d'una generica adesione al Cristo, ma anzi restiamo intimamente uniti a lui, giacché, nel momento in cui ce ne separiamo, siamo condannati alla morte.
Coloro che si allontaneranno da te, infatti, periranno ( Sal 73,27 ).
Uniamoci perciò intimamente a lui per mezzo delle nostre opere; dice, infatti, il Signore: Chi osserva i miei comandamenti rimane in me ( Gv 14,21 ).
Attraverso molti esempi, poi, ci viene mostrato il modello di questa unione.
Considera, dunque: il Signore è il capo, noi, invece, siamo il corpo; c'è forse posto, fra il capo e il corpo, per uno spazio intermedio che non servirebbe assolutamente a nulla?
Il Signore è il fondamento, noi siamo l'edificio; egli è la vite, noi i tralci; egli lo sposo, noi la sposa; lui il pastore, noialtri le pecore; lui la via, noi coloro che camminano lungo di essa; noi, ancora, siamo il tempio, mentre il Signore è colui che vi dimora; egli è il primogenito, noi siamo i fratelli; egli è l'erede, noi i coeredi; egli la vita, noi i viventi; lui la risurrezione, noi i risorti; lui la luce, noi coloro che ne sono illuminati.
Tutti questi esempi mostrano la realizzazione di un'unità, senza consentire il benché minimo ostacolo che ne comprometta l'integrità.
Colui che si separa anche soltanto un poco, infatti, in seguito, proseguendo lungo questa china, si ritroverà assai lontano.
Anche solo una piccola ferita di spada è sufficiente al corpo perché muoia; una lieve crepatura basta a provocare il crollo d'un edificio; il ramo, strappato appena un poco dal suo tronco, rimane senza vita.
Il « poco », perciò, in questo caso, non è affatto poco, ma è anzi, per così dire, tutto.
Allorché, dunque, indulgiamo a qualche peccato o ci sentiamo indolenti, non lasciamoci andare neppure un poco: quel poco, infatti, diviene ben presto molto.
Se, ad esempio, non ci preoccupiamo di un vestito che comincia a scucirsi, questo finirà con lo strapparsi dappertutto; se nessuno si dà pensiero anche di poche tegole del tetto che sono precipitate, la casa intera, alla fine, crollerà.
Riflettiamo, allora, su tutto ciò e non consideriamo cose da nulla i piccoli difetti, se non vogliamo incorrere nei grandi.
Giovanni Crisostomo, Omelie sulla prima lettera ai Corinti, 8,4
Anche se non vi fosse stata nessuna antecedente testimonianza su Cristo e la Chiesa, chi non sarà mosso a credere che lo splendore divino ha improvvisamente illuminato la stirpe umana, quando noi vediamo che, abbandonati i falsi dèi, ridotti in pezzi i loro simulacri, abbattuti i templi o adibiti ad altri usi, estirpati tanti vani riti dalla consuetudine umana per quanto tenace, da tutti viene invocato l'unico vero Iddio?
E vediamo che tutto ciò è avvenuto per opera di un solo uomo, pur disprezzato, preso, legato, flagellato, percosso, torturato, crocifisso e ucciso dagli altri uomini.
vediamo che i suoi discepoli, da lui eletti a diffondere la sua dottrina tra i semplici e gli ignoranti, tra i pescatori e i pubblicani, annunziarono la sua risurrezione e la sua ascensione, sostenendo di averle constatate con i propri occhi, e che, ripieni di Spirito Santo, annunziarono questa buona novella in tutte le lingue, che pur non avevano imparato.
Di coloro che udirono, alcuni credettero, altri non credettero e si opposero ferocemente alla loro predicazione.
E vediamo che i fedeli hanno combattuto fino alla morte per la verità, non restituendo il male, ma sopportandolo; non uccidendo, ma morendo hanno vinto: in tal modo a questa religione si è convertito il mondo, a questa buona novella si sono rivolti i cuori dei mortali, degli uomini e delle donne, dei piccoli e dei grandi, dei dotti e degli ignoranti, dei sapienti e dei semplici, dei potenti e dei deboli, dei nobili e dei meschini, degli alti e degli umili.
In questo modo crebbe la Chiesa diffusasi fra tutte le genti, tanto che nessuna setta perversa, nessun genere di errore si innalza contro la fede cattolica, tanto da mostrarsi contrario alla verità cristiana, e non affettando e bramando di gloriarsi del nome di Cristo: e certo non sarebbe loro permesso di pullulare sulla terra se la loro stessa contestazione non fosse uno stimolo alla retta dottrina.
Agostino, La fede in ciò che non si vede, 7,10
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