Gli stati di vita del cristiano

Indice

L'essenza della chiamata

Terza parte: La chiamata

La chiamata è non solo ciò che sta alla base dello stato di vita cristiano come un presupposto, essa è la quintessenza dello stato e della vita cristiana in quanto tali.

L'ubi consistam di Cristo era il volere del Padre, l'ubi consistam del cristiano è lo stare nella volontà del Padre rivelata sempre nuovamente nella chiamata ad opera della parola di verità del Figlio.

Questo ubi consistam fonda allo stesso tempo lo stato e la vita, tanto per Cristo come per il cristiano; stare nella volontà del Padre significa vita.

« Io so che il suo comandamento è vita eterna » ( Gv 12,50 ).

Il comandamento che di volta in volta giunge al singolo e che per lui diventa udibile è la norma ultima del suo essere e dover essere.

Poiché però esso è chiamata del Dio vivo, il quale in quanto persona è sempre più che una legge astratta e una regola universalmente valida, la chiamata proferita qui ed ora soltanto qui ed ora la si può udire e di conseguenza seguire.

Con ciò è detto che non c'è alcuna dottrina dello stato e della via cristiana che prescinda dalla concreta chiamata, che la dimentichi o addirittura la escluda.

Questa verità per lungo tempo non è stata sufficientemente presa in considerazione.

Si partiva tranquillamente dal presupposto che indipendente da questa chiamata c'è uno schema universalmente valido di progresso cristiano verso la perfezione, una specie di scala del giusto comportamento, una lezione da studiare che già in anticipo sarebbe dominabile con lo sguardo, anche se apprendibile solo un poco per volta.

Di questa schematica della « salita verso Dio » vive quasi tutta la dottrina cristiana della perfezione della tarda antichità e del Medioevo, ed è propriamente solo il libro degli Esercizi di S. Ignazio di Loyola che nel ritorno al Vangelo porta alla luce una nuova ma decisiva dimensione, opera una rivoluzione la cui piena portata non è stata del tutto riconosciuta in ogni suo aspetto.

Superando la vecchia schematica della vita spirituale, Ignazio ha posto la considerazione della vita di Gesù sotto il segno di una presa in considerazione della sua chiamata ( el Llamamiento del Rey, Nr. 91 ), che determina il contenuto della sua immagine di Cristo.

Egli ha poi coerentemente sollecitato quelli che contemplano la vita di Gesù a farlo non in una contemplazione teoretica, ma in modo che la concreta parola del Padre venga percepita in ogni nuova situazione in maniera rispettivamente nuova; la grazia da implorare ovunque è quella di « non essere sordi alla sua chiamata, ma pronti e diligenti a compiere la sua santissima volontà » ( ibid., 91 ).

Il contemplante deve di conseguenza « contemplando contemporaneamente la sua vita cominciare a investigare e chiedere nella preghiera in quale vita o stato ( vida o estado ) sua divina Maestà vuole servirsi di noi » ( Nr. 135 ), « affinché possiamo raggiungere la perfezione in qualsiasi stato o vita Dio nostro Signore ci proporrà di eleggere » ( ibid. ).

La chiamata risuonante personalmente e individualmente nella contemplazione in silenzioso ascolto della parola di Dio sta poi alla base non solo della giusta direzione del cammino cristiano, ma espressamente del suo « stato », che viene visto come identico a « vita », dove « stato » si concretizza, a partire dall'universale stato cristiano all'interno della « santa Madre, la Chiesa gerarchica » ( 170 ), in differenziato stato di vita come stato sacerdotale, stato dei consigli, stato matrimoniale ( 171 ) e ancora più strettamente come il concreto stare qui o là all'interno di questo stato ( 172ss ).

In questa triplice graduazione della chiamata allo stato nella Chiesa, allo stato intraecclesiale e infine ad una concreta posizione all'interno di questo stato di vita scelto si mostra qualcosa come una analogia della chiamata, che chiamando dapprima il cristiano a uscire dal mondo fa di lui un cristiano, poi in una nuova chiamata singolare, seconda e posteriore, lo trasferisce in un determinato stato di vita, per donargli infine durevolmente col concreto qui ed ora della chiamata una vita cristiana in questo stato.

La dottrina della chiamata diventa così indispensabile completamento di una dottrina degli stati di vita cristiani.

Potrebbe sembrare in un primo momento che essa si contrapponga alla dottrina dello stato di vita come la parte soggettiva a quella oggettiva.

Ma quanto appena detto mostra che questa demarcazione non è tracciabile, giacché la chiamata di Dio crea già il rispettivo « stare » del cristiano ed è la sostanza di questo stare stesso.

Essendo così lo stato di vita da prendere in considerazione in maniera ancora una volta nuova a partire dalla chiamata, si delineano innumerevoli nuove domande e aspetti finora poco presi in considerazione, che devono esser approfonditi con cura, poiché sono di natura complessa ma anche gravida di conseguenze.

1 - La chiamata divina

La rivelazione cristiana non concerne in primo luogo il vedere, bensì l'udire.

Sebbene non venga escluso il paragone del senso della vista, giacché noi ora « vediamo come in uno specchio, in maniera confusa » ( 1 Cor 13,12 ), la sapienza che appare è « specchio e immagine » dei belli divini ( Sap 7,26 ) e Cristo è « immagine del Dio invisibile » ( Col 1,15 ), vale a dire che quando vediamo lui, vediamo il Padre ( Gv 14,9 ), tuttavia prevale di gran lunga nella Rivelazione il paragone del senso dell'udito, poiché la seconda persona della Trinità è soprattutto una « parola » ( Gv 1,1 ) che risuona, e la fede in Lui ha origine dall'udire ( Rm 10,17 ).

L'udire la Parola non è affatto semplicemente un surrogato provvisorio della visione ancora mancante quaggiù sulla terra - come tutta la teologia spirituale e mistica fino ad Ignazio, premendo sulla visione, più o meno fortemente insinua -, ma piuttosto la permanente espressione del fatto che Dio non è e non sarà mai semplice « oggetto »

Alla conoscenza, bensì l'infinitamente sovrana maestà personale una e trina, che si rivela come vuole e a chi vuole.

Il fatto che Dio parla a noi nella sua personale Parola è più di quanto noi avremmo potuto vedere di Lui: il fatto che noi veniamo degnati della sua Parola è la grazia delle grazie, che ci eleva a partner di un dialogo divino, ultimamente trinitario.

Il fatto che la Parola di Dio viene indirizzata a noi è la più alta consacrazione e il più grande onore che il Dio personale poteva dimostrarci, poiché presuppone che Dio ci ritiene capaci, a motivo della sua Grazia, di comprendere la sua Parola, di possedere lo Spirito, « che scruta ogni cosa, anche le profondità di Dio », « lo Spirito che viene da Dio, per conoscere tutto ciò che Dio ci ha donato » ( 1 Cor 2,10-12 ).

Così enorme è questo avvenimento, che la creatura interpellata da Dio dovrebbe dimenticare tutti i propri desideri e le proprie aspirazioni, anche quelli di « felicità » e di « vedere Dio », per chiedere oramai soltanto, « dopo essere stata gettata a terra all'udire la voce », sul duro suolo del suo essere, tremante: « Signore, che vuoi che io faccia? » ( At 9,4; At 22,10 ).

Ma colui che è stato buttato a terra dal peso di questa voce impetuosa viene da essa rimesso in piedi.

Dio, quando parla, vuole un partner.

Lo vuole capace di stare in piedi dinnanzi alla sua voce e di rispondere.

« Io caddi con la faccia a terra, e udii la voce di uno che parlava.

Mi disse: Figlio dell'uomo, alzati, ti voglio parlare.

Ciò detto, uno spirito entrò in me, mi fece alzare in piedi e io ascoltai colui che mi parlava » ( Ez 1,28-2,2 ).

Dio desidera, se parla personalmente, essere anche personalmente ascoltato; egli desidera, se pronuncia nel mondo la sua Parola personale, riascoltarla non come una morta eco, ma personalmente dalla sua creatura, in uno scambio che è un autentico dialogo, un dialogo che certo può venir condotto solo in base all'unità del Verbo divino, che media fra il Padre e noi.

Ma come la Parola personale proviene dal Padre e tuttavia non è il Padre, ma soltanto lo rivela, così la creatura non può restituire al Padre questa Parola che ha ricevuto, se non pronunciandosi in essa, o meglio lasciandosi pronunciare da essa.

Una prima volta il Padre ha parlato allorché creò il mondo.

Egli infatti lo ha creato senza eccezioni « per mezzo del Verbo » ( Gv 1,3 ), in esso e per esso ( Col 1,16 ).

Egli lo creò con una settuplice parola, che sei volte risuonò e il cui settimo suono è il tacere ( Gen 1-2,4 ).

All'interno di questa « chiamata ad esistere delle cose che ancora non esistono » ( Rm 4,17 ) ogni essere, ricevendo il proprio nome, diventa ciò che è.

Così Dio chiama il cielo ( Is 48,13 ), chiama la terra ( Sal 50,1 ), chiama l'acqua ( Am 5,8 ), chiama le stelle ( Sal 147,4 ), chiama la luce, « che gli obbedisce con tremore » ( Bar 3,33 ).

La creazione è la prima ekkiesìa, la prima chiamata all'essere dal nulla e dal caos.

« Egli sostiene tutto con la potenza della sua parola » ( Eb 1,3 ).

« Perché Dio non ha creato la morte, e non gode per la rovina dei viventi.

Egli infatti ha creato tutto per l'esistenza, e le creature del mondo esistono per la salvezza » ( Sap 1,13-14 ).

Essere e salvezza esse possiedono, però, solo nel Verbo della sapienza, « che si estende con forza da un capo all'altro e governa il tutto nel migliore dei modi » ( Sap 8,1 ).

« A Te servono tutte le creature, poiché Tu dicesti e tutte le cose furono fatte, mandasti il tuo spirito e furono costruite.

Nessuno può resistere alla tua voce » ( Gdt 16,14 ).

E tuttavia questa voce è solo la voce della creazione, effetto della quale sono l'essere e le leggi del mondo naturale.

« Le opere del Signore sono state formate dalla sua parola » ( Sir 42,15 ).

Questa Parola non abbisogna ancora di separarsi da Dio, per far divenire il mondo.

Essa « rimanendo in se stessa crea tutto » ( Sap 7,27 ), e basta una conclusione per salire dall'opera al creatore.

« Difatti dalla grandezza e bellezza delle creature per analogia si conosce il loro creatore » ( Sap 13,5 ).

Nel volgersi personale di Dio alla sua creatura spirituale, l'uomo, la Parola di Dio è emanata una seconda volta e diviene con ciò intima autoespressione di Dio.

In un nuovo atto di gratuito amore Dio elegge la sua creatura alla partecipazione ai suoi personali beni divini.

Questa volta si tratta di un'entrata della Parola divina nella creatura stessa, per grazia soprannaturale; si tratta di un divino scambio, al di là di ogni perfezione della creazione.

« Se anche uno fosse il più perfetto tra gli uomini, mancandogli la Tua sapienza, sarebbe stimato un nulla » ( Sap 9,6 ).

Solo offrendosi nella preghiera l'uomo può riceverla: « Dammi la sapienza, che siede in trono accanto a Te!

Non mi escludere dal numero dei tuoi figli! » ( Sap 9,4 ).

« Attraverso le età, entrando nelle anime sante, essa forma amici di Dio e profeti » ( Sap 7,27 ).

Questo nuovo venir interpellati da Dio è libera elezione, grazia dell'amicizia e allo stesso tempo missione profetica.

È talmente libera elezione, che questo nuovo atto di Dio rimane fondamentalmente indipendente da quello naturale, che cioè dai presupposti puramente naturali non si può leggere o prevedere ne l'esistenza ne il carattere di questa nuova chiamata.

Talmente poco la natura tutta della creatura è da considerare come il punto di origine della chiamata della grazia, che essa è per così dire soltanto materiale indifferente per questo scopo.

Quanto alla natura due uomini potrebbero essere della stessa essenza, e tuttavia l'uno viene scelto e l'altro no.

« Due uomini saranno nel campo: l'uno sarà preso, e l'altro lasciato. Due donne macineranno alla mola: una sarà presa e l'altra lasciata » ( Mt 24,40-41 ).

« Quindi non dipende dalla volontà ne dagli sforzi dell'uomo, ma da Dio che usa misericordia » ( Rm 9,16 ): « Come sta scritto: ho amato Giacobbe e ho rifiutato Esaù » ( Rm 9,13 ).

Nell'udire e seguire una chiamata divina i test degli psicologi non hanno voce in capitolo.

Pietro era per natura una canna sbattuta dal vento; nessuno avrebbe potuto indovinare dall'analisi del suo carattere che la sua vocazione fosse quella di costituire la roccia della Chiesa.

Ma Gesù gli comunica la nuova chiamata e gli dà un nome nuovo, un nuovo essere e un nuovo poter fare: « Tu sei Simone, il figlio di Giovanni; ti chiamerai Cefa, che significa roccia » ( Gv 1,42 ).

La domanda retrospettiva sulle attitudini e le inclinazioni naturali non è per nessun cristiano, anzi per nessun uomo in generale, ciò che è ultimamente determinante per conoscere la personale volontà d'amore di Dio e la sua missione.

Ultimamente ciò che decide circa il proprio destino è la « santa chiamata » ( 2 Tm 1,9 ) che Dio dalla sua insondabile libertà fa giungere ad ognuno e alla quale, non appena viene percepita, tutta la natura del chiamato deve servire.

Talvolta, come per caso, la chiamata può corrispondere alle inclinazioni e aspettative naturali dell'uomo.

Parimenti può però essere che essa appaia in parte o anche totalmente contrapposta a queste inclinazioni e aspettative, che essa costituisca uno stato di traverso nei confronti della natura, che l'uomo, come accadde per la maggior parte dei profeti, si spaventi davanti alla missione, poiché riconosce la completa inadeguatezza delle sue forze per il nuovo compito.

Chi mai potrebbe avere già inclinazione naturale alla croce?

Mosè viene chiamato dal cespuglio rovente e risponde: « Eccomi ».

Con questa risposta egli resta impegnato, entra all'interno del sacro cerchio della missione.

« Ora va'! Io ti mando dal Faraone. Fa' uscire il mio popolo Israele dall'Egitto! »

Subito allora la domanda stupita: « Chi sono io per andare dal Faraone e per fare uscire dall'Egitto gli Israeliti? »

E il Signore: « Io sarò con te ».

Ed Egli rafforza questo con la promessa di segni miracolosi e con la rivelazione del Suo nome divino.

Poiché Mosè richiede più assicurazioni, ottiene tre segni ulteriori: il bastone che si muta in serpente, la mano infetta dalla lebbra e l'acqua che diventa sangue.

Ma convinto della sua non idoneità, egli continua a rifiutare la missione: « Ma no, Signore! Io non sono un uomo che sa parlare bene; non lo sono mai stato prima e neppure da quando tu hai cominciato a parlare al tuo servo, ma sono impacciato di bocca e di lingua ».

Il Signore replica: « Chi ha dato una bocca all'uomo? Chi lo rende muto o sordo, veggente o cieco?

Non sono forse io, il Signore? Ora va'! Io sarò con la tua bocca e ti insegnerò quello che dovrai dire ».

Ma quello si oppone: « No, Signore, manda chi vuoi ».

Per questo ostinato rifiuto « il Signore si accese d'ira » e stabilì Aronne al posto di Mosè come parlatore davanti al popolo ( Es 3-4 ).

Così col suo riflettere sul suo essere in grado e non essere in grado Mosè ha perso una parte della sua missione cedendola al suo fratello, allo stesso modo in cui più tardi col suo riflettere sui confini della misericordia di Dio nella sua missione vide questa sua missione ulteriormente accorciata, e non poté introdurre il popolo nella terra promessa.

Se egli tuttavia divenne un condottiero nato, questo perché « la sapienza entrò nell'anima di un servo del Signore » e « sciolse la lingua dei muti e degli infanti » ( Sap 10,16-21 ), come il libro della Sapienza racconta espressamente di Mosè.

La stessa incongruenza tra natura e missione si ripete per le vocazioni dei profeti.

Geremia di fronte alla chiamata alla missione comincia a balbettare come un bambino: « A, a, a, vedi. Signore, io non so parlare, sono ancora così giovane! »

Il Signore replica: « Non dire: sono ancora giovane. Va' dove io ti mando.

Annuncia ciò che io ti dico. Non temerli, perché io sono con te per proteggerti » ( Ger 1,6-8 ).

E allorché il sacerdote Amasia mette in dubbio l'idoneità di Amos al ministero profetico, questi gli da ragione per quanto concerne le sue attitudini naturali: « Io non sono né profeta, né figlio di profeti, ma sono un pastore e raccoglitore di sicomori.

Ma il Signore mi ha preso da dietro il gregge, e il Signore mi ha ordinato: Va', profetizza al mio popolo Israele » ( Am 7,14-15 ).

Le chiamate e le elezioni da parte di Dio arrivano come un fulmine a ciel sereno.

Samuele impiega lungo tempo per capire che è realmente Dio che lo chiama ( 1 Sam 3 ), Saul trova l'elezione a re mentre è alla ricerca delle sue asine ( 1 Sam 9 ), Davide viene portato via dalle sue pecore per ricevere l'unzione regale ( 1 Sam 16,11 ).

Mentre ara senza pensare a nulla, a Eliseo viene gettato sopra un mantello ( 1 Re 19,19 ).

Nelle sue vocazioni più importanti Dio ci tiene a che venga chiaramente posta in luce non solo la comune indegnità, ma la inadeguatezza per natura del chiamato.

Egli sceglie chi vuole, e colui che viene scelto, se assume su di sé la missione, è come una nuova creazione dal nulla operata dal Signore.

Quanto più un chiamato è contrassegnato dalla vocazione divina, tanto più necessario è il suo assenso alla vocazione.

Per il sì della sua elezione Dio ha bisogno del sì di risposta dell'uomo scelto dall'elezione di Dio.

Si tratta infatti della trasmissione all'uomo della parola personale di Dio stesso, ed essa può venir ricevuta solo nella piena responsabilità.

Che la risposta sia così recalcitrante come nel caso di Mosè, che essa avvenga in maniera aperta e generosa come per Isaia ( « Io udii la voce dell'Onnipotente che diceva: Chi manderò? Chi andrà per noi? Ed io risposi: Eccomi, manda me! », Is 6,8 ) o in maniera travolgente come per Geremia, sempre deve venir raggiunto il sì dell'uomo, prima che l'ufficio venga caricato sulle spalle dell'uomo eletto, come « peso divino ».

C'è anche la fuga davanti alla chiamata del Signore: « La parola del Signore fu rivolta a Giona, figlio di Amittai: Alzati, va', a Ninive, la grande città, e là predica ( … )

Giona però si mise in cammino per fuggire a Tarsis, lontano dal Signore.

Scese a Giaffa, dove trovò una nave diretta a Tarsis.

Pagato il prezzo del trasporto, s'imbarcò con loro per Tarsis, per fuggire lontano dal Signore » ( Gn 1,1-3 ).

E solo dopo che la chiamata del Signore lo raggiunge negli inferi del ventre della balena e l'ineludibilità della scelta affiora al cuore del fuggiasco, egli dà il suo assenso e ottiene in una seconda chiamata la conferma della prima: « Fu rivolta a Giona una seconda volta questa parola del Signore: Alzati, va' a Ninive, la grande città, e annunzia loro quanto ti ho detto.

Giona si alzò e andò a Ninive, secondo la parola del Signore » ( Gn 3,1-3 ).

L'assunzione della missione può giungere fino alla responsabilità garante in rappresentanza per coloro a cui viene rivolto l'annuncio: ?4 Figlio dell'uomo, ti ho posto come sentinella per la casa d'Israele.

Quando sentirai dalla mia bocca una parola, tu dovrai avvertirli da parte mia.

Se io dico al malvagio: Tu morirai! e tu non lo avverti e non parli perché il malvagio desista dalla sua condotta perversa e viva, egli, il malvagio, morirà per la sua iniquità, ma della sua morte io chiederò conto a te » ( Ez 3,17-18 ).

Così pesa anche su Paolo la pesante mano del Signore: « Guai a me se non annunciassi il vangelo! Se lo faccio di mia iniziativa! ho diritto al compenso; ma se non lo faccio di mia iniziativa, è un incarico che mi è stato affidato » ( 1 Cor 9,16-18 ).

La missione esige il sì dell'uomo; un atto non meno importante dell'atto di Dio che chiama l'eletto.

Un sì che richiede un'altrettanto incondizionata dedizione alla chiamata, quanto incondizionata e vincolante è la chiamata indirizzata all'eletto.

Ma le due parole, quella di Dio e quella dell'uomo, non devono stare l'una di fronte all'altra ad uguale titolo; piuttosto si richiede all'uomo soltanto che accetti la chiamata e la missione, e quindi che si unisca umilmente al compimento dell'eterno sì di Dio nei suoi confronti.

La risposta deve sorgere e tramontare nella parola della vocazione e formare insieme con essa un'unità indissolubile.1

L'atto umano della scelta della professione non deve esser altro che il riconoscimento della scelta che Dio ha già disposto.

In questo senso parla Ignazio di elezione ( elecciòn ), in modo che non è nemmeno né cessano distinguere quest'atto unitario in un atto divino e un atto umano.

L'unica preoccupazione è per l'uomo quella di scegliere quello che Dio ha scelto per lui, e che egli sia messo in grado di poter riconoscere la scelta divina e in quanto conosciuta ratificarla.

Umana « perfezione » non viene di conseguenza propriamente tematizzata, ma si esaurisce per Ignazio nei due concetti di « disposizione » ( Eserc. Nr 1,20 ecc. ) e di « indifferenza » ( Nr 23,179 ecc. ), che insieme esprimono l'imperturbabile disponibilità dell'anima ad abbracciare la volontà divina, in qualunque forma si possa manifestare.

La consegna della volontà umana alla divina volontà di scelta è l'offerta della libertà personale e la rinuncia ad essa, in quanto questa viene presentata o è presente come una grandezza speciale esistente accanto a quella divina: « Prendi, Signore, e ricevi tutta la mia libertà » ( Eserc. Nr 234 ), affinché questa viva soltanto di quella divina, affinché non abbia più altro oggetto che la stessa divina libertà di scelta.

Nel non voler attuare la possibilità umana di libertà come una possibilità autonoma, separata rispetto a Dio, nel perfetto legame d'obbedienza a chiamata, grazia e missione viene vista la più alta possibilità ( Chance ) di ottenere in Dio parte alla libertà assoluta.

L'identificazione dell'io con la missione ottenuta da Dio è l'atto del credere perfetto e quindi l'unità della nostra opera e dell'opera di Dio in noi ( Gv 6,28-29 ).

È allo stesso tempo ciò che il Signore chiama « la Verità » e ciò che egli equipara alla vera libertà: « Se custodirete la mia parola, sarete veramente miei discepoli; allora conoscerete la verità, e la verità vi farà liberi » ( Gv 8,31-32 ).

Come la verità di Cristo consiste in questo, che egli non cerca se stesso, ma la gloria di colui che lo ha mandato ( « Chi cerca la gloria di colui che lo ha mandato è veritiero, e in lui non c'è ingiustizia », Gv 7,18 ), così anche la libertà di Cristo consiste in questo, che egli con la sua obbedienza partecipa all'onnipotenza e libertà del Padre.

« Ciò che questi fa, lo fa in ugual maniera anche il Figlio » ( Gv 5,19 ).

E chi con la sua obbedienza. alla missione partecipa a questa verità e libertà di Dio, ha parte alla scelta, alla disposizione e provvidenza di Dio stesso.

Egli non sta più davanti a Dio come uno che gli presenta preghiere pensate da lui, ma il suo pregare e domandare è inserito nel piano ( Ratschiuss ) di Dio.

Domandare nella preghiera e venir esauditi non stanno più l'uno di fronte all'altro come una parola del mondo e una parola di Dio, ma nella preghiera stessa è già racchiuso il venire esauditi, poiché essa è presa all'interno dell'unica volontà di Dio ( Mc 11,24; Gv 5,15 ).

La parola umana è inclusa dalla scelta della volontà di Dio in Cristo all'interno del dialogo trinitario tra Padre e Figlio nello Spirito Santo: « Padre, ti ringrazio che Tu mi hai esaudito. Io sapevo certamente che Tu sempre mi esaudisci » ( Gv 11,41 ).

« Qualunque cosa chiederete nel nome mio, la farò, perché il Padre sia glorificato nel Figlio.

Tutto quello che mi chiederete nel mio nome, io lo farò » ( Gv 14,13-14 ).

Ma proprio qui diventa chiaro che la consegna della scelta umana alla chiamata divina non significa affatto l'estinzione della funzione creaturale in favore di quella divina.

L'atto dell'obbedienza non è una quietistica rinuncia al proprio essere di creatura, e l'atto dell'amore di Dio non è una sopraffazione dell'indipendenza del suo amato.

Se è vero che « Dio è tutto » ( Sir 43,27 ), che Dio deve diventare « tutto in tutti » ( 1 Cor 15,28 ), che quindi ogni libertà deve entrare all'interno della libertà divina, ogni scelta deve essere coesecuzione della scelta divina, non c'è però d'altra parte più profonda libertà umana che questa scelta, non c'è indipendenza più grande che la partecipazione all'autonomia divina.

Niente rende l'uomo più autonomo che la missione divina, che egli assume su di sé in libera obbedienza e con piena responsabilità.

« Infatti quanto più un ente sta vicino a Dio, tanto più similmente si rispecchia in esso la dignità divina.

Rientra però nella dignità divina il fatto che egli tutto muove, inclina e sostiene, mentre egli stesso però non è da nessun altro mosso, inclinato e sostenuto.

Vale allora che quanto più un ente sta vicino a Dio, tanto meno viene da lui inclinato, ma è invece tanto più capace di inclinarsi da sé » ( S. Tommaso, De Ver., q 22 a 4c ).

Il paradosso di questa autosufficienza all'interno della scelta divina si risolve ultimamente solo nel mistero dell'amore trinitario fra Padre e Figlio, che fa sorgere e consistere, nell'unità dello Spirito Santo, l'unità della volontà divina nella vera reciprocità dello scambio, una reciprocità che non sopraffa la libertà personale del Figlio ( sebbene il Padre sia l'immagine originaria e il Figlio la copia ).

Infatti come il Figlio si lascia determinare dalla scelta del Padre e « può fare solo ciò che vede fare dal Padre » ( Gv 5,19 ), così il Padre viene però colpito talmente da questa obbedienza d'amore, che egli da parte sua si lascia determinare dalla volontà del Figlio e « ascolta sempre » ( Gv 11,42 ) il suo « Io voglio » ( Gv 17,24 ).

Il mistero della reciproca determinazione di Padre e Figlio nello Spirito è accessibile soltanto nell'amore; non ha niente a che vedere con la teoria neoplatonica dell'adeguazione della volontà contingente e finita al decreto immutabile dell' « essere assoluto ».

Questa soluzione filosofica pre-cristiana può soddisfare solo finché il finito viene pensato come qualcosa che sta di fronte ad un assoluto immutabile, e indifferenza non può essere nient'altro che rassegnato lasciarsi attuare ad opera di ciò che dall'eternità è stato immutabilmente stabilito.

Su questo piano l'unica via d'uscita potrebbe essere quella di una mistica panteizzante in cui il finito rinuncia alla sua volontà propria per sprofondare nell'abisso della « divinità priva di essere e di volontà ».

Qualcosa di questo rapporto filosofico verso Dio è inconsapevolmente rimasto vivo nella storia della spiritualità cristiana.

Esso viene superato solo laddove a motivo della missione trinitaria del Figlio l'unità d'essenza della volontà divina viene riconosciuta come conciliabile con l'autonomia ( Selbstàndigkeit ) dei personali portatori.

Scelta, chiamata e missione da parte del Padre, obbedienza e assunzione dell'incarico da parte del Figlio sono in Dio un avvenimento eterno, che parte dall'unità del loro conoscere e volere, si compie all'interno di questa unità e in questa unità fa ritorno.

Ma l'unità non impedisce che l'adempimento di questa missione d'amore rimanga un avvenimento eternamente attuale.

A questo avvenimento prende parte chiunque nel mondo viene eletto, chiamato e inviato da Dio in Cristo.

Per questo l'obbedienza di fede cristiana rimane sempre, anche sulle « vette della mistica », nella massima unione della volontà divina con quella creaturale, un dialogo vivo, drammatico: chiamata d'amore di Dio e risposta d'amore della creatura a partire dall'energia d'amore della chiamata stessa, ma non senza vera e permanente partecipazione di tutta la libertà creaturale alla risposta e all'esecuzione del compito della vocazione.

Solo così la creatura perviene alla sua intera verità cristiana.

Poiché la chiamata come manifestazione della scelta di Dio per la creatura rimane qualcosa di attuale, un avvenimento, essa mantiene nella vita cristiana anche il suo posto storicamente constatabile.

Essa non è un tono universalmente diffuso, una musica delle sfere celesti, che non potrebbe affatto esser compresa dall'uomo come un avvenimento ben preciso, ma si manifesta invece con tutte le caratteristiche di un evento storico.

Essa incontra i profeti mentre pascolano il bestiame, gli apostoli mentre rassettano le reti.

Levi mentre siede al banco delle imposte.

Essa è precisamente delimitabile nello spazio e nel tempo, anche se è la manifestazione di una scelta divina avvenuta dall'eternità e per l'eternità.

E questa unica chiamata storica può di nuovo dispiegarsi in una serie di atti storici che in connessione tra loro rappresentano la storia di una vocazione: nell'atto della elezione oggettiva di colui che più tardi sarà chiamato, al momento dell'entrata in questo mondo, forse nell'atto di una « pre-chiamata », di una ancora indeterminata intuizione di un'elezione, nell'atto della chiamata che prende a parte, attraverso la quale il chiamato viene messo a disposizione per la missione, nell'atto della missione stessa, in cui la chiamata ( Ruf ) diventa vocazione ( Be-ruf ) assunta, e infine nelle chiamate che sempre nuovamente giungono all'interno di questa missione e che conducono a determinate svolte e articolazioni della vita di missione.

Il chiamato è dall'eternità, « da prima della fondazione del mondo », predestinato alla sua chiamata dalla scelta di Dio ( Ef 1,4-5 ), e « quelli che egli ha predestinato, li ha anche chiamati » ( Rm 8,30 ).

Questa eterna predestinazione si presenta nel tempo come elezione e selezione ( segregatio ) sin dal seno materno.

Può essere un atto puramente divino che rimane invisibile, come quello avvenuto per Geremia, che lo ha « consacrato nel seno materno e posto come profeta per le nazioni » ( Ger 1,5 ), per Paolo, « scelto sin dal seno materno e chiamato con la Sua grazia » ( Gal 1,15 ); può essere un atto manifestato sin dall'inizio con segni, come nella storia della nascita di Giacobbe ( Gen 25 ) e in quella di Giovanni Battista, che « fu ripieno di Spirito Santo fin dal seno materno » ( Lc 1,15 ) con un segno sperimentabile per la madre.

Così anche Cristo stesso è « chiamato sin dal seno materno » ( Is 49,1-5 ) ed eletto in anticipo come Messia nel segno della nascita verginale: « Colui che nascerà sarà dunque santo e chiamato Figlio di Dio » ( Lc 1,55 ).

Può essere infine una segregazione che avviene con la messa da parte di uomini che in una profetica unità della loro scelta con l'eterna scelta di Dio consacrano alla vocazione il bambino che sta per venire, così come Sansone è « un nazireo sin dal seno materno » ( Gdc 16,17 ) e come Anna offre in anticipo il suo futuro figlio « al Signore, consacrato per tutti i giorni della sua vita » ( 1 Sam 1,11 ).

Questa assunzione della scelta umana all'interno del primo atto di scelta divina continuerà nella Chiesa non soltanto per il fatto che genitori credenti talvolta destineranno in anticipo il Figlio atteso al servizio divino, ma ancor più per il fatto che la preghiera e il sacrificio di genitori, avi e parenti spirituali stanno all'origine e cooperano essi stessi al sorgere di una vocazione, in maniera invisibile per gli occhi del mondo, ma spesso sufficientemente visibile per gli occhi della fede.

E questo mistero semirivelato apre lo sguardo più a fondo nel mistero velato che la Chiesa come tale con la sua offerta, la sua preghiera e il suo sacrificio, diventa causa concomitante della chiamata che ha luogo in essa.

La comunione di coloro che dipendono da Dio e che hanno unito la loro volontà alla volontà di Dio, viene inafferrabilmente trasferita nel punto di origine delle vie e scelte di Dio, per partecipare alla sapienza che Dio « creò prima dei secoli, fin da principio, e che ha consistenza per tutta l'eternità » ( Sir 24,9 ), alla Parola che « è uscita dalla bocca dell'Altissimo » ( Sir 24,3 ).

Il primo arrivo della chiamata non è necessariamente identico con il momento della definitiva missione.

Può essere che un giovane venga più volte svegliato dal « sonno », come il giovane Samuele, e solo a poco a poco impari, forse grazie agli insegnamenti di uno che già è stato chiamato, come rispondere al Signore.

Così Elia dice a Samuele: « Torna a dormire, e se ti si chiamerà ancora rispondi: Parla, Signore, perché il tuo servo ti ascolta » ( 1 Sam 3,9 ).

Così anche l'unzione del primo re d'Israele non coincide con la sua entrata in carica nell'ufficio.

Così gli Apostoli vengono dapprima introdotti in una comunità di vita col Signore, per crescere poi a poco a poco incontro alla loro missione.

Così in maniera esemplare Paolo viene colpito dalla chiamata di Dio sulla via di Damasco, ma ottiene solo la promessa della futura missione, non già essa stessa.

Paolo, colpito dalla chiamata del tutto personale di Dio, alla sua domanda: « Signore, che vuoi che io faccia? » viene dapprima rinviato alla Chiesa: « Alzati e va' in città. Là ti verrà detto quello che devi fare » ( At 9,6 ).

Dal sì di Paolo alla chiamata fino al suo sì alla missione c'è ancora una lunga strada, riempita dalla preoccupazione di riflettere su quanto accaduto, di ricollegarsi alla tradizione ecclesiale ( At 9,26 ), di ottenere un'approvazione ecclesiale alla sua missione ( Gal 2,2 ), soprattutto però una strada di silenzio e di raccoglimento, allorché egli se ne va « in Arabia, e solo dopo » ritorna « di nuovo a Damasco, per tre anni » ( Gal 1,17 ).

L'ora della missione scocca solo allorché nella comunità di Antiochia profeti e dottori « celebrano il servizio divino e digiunano », e oramai parla lo Spirito Santo: « Riservate per me Barnaba e Paolo per la missione alla quale io li ho chiamati » ( At 13,1-2 ).

In tal modo la missione ai gentili di Paolo diventa allo stesso tempo una missione divina e una missione ecclesiale.

L'incontro sulla via di Damasco è un incontro col Figlio di Dio, che gli permette di recuperare il rapporto di vita col Signore che hanno avuto gli altri apostoli: « Da ultimo apparve anche a me, come a un aborto » ( 1 Cor 15,8 ).

La missione di Antiochia è invece il conferimento dello Spirito Santo, nel quale solo avvengono le missioni.

Qui diventa chiaro che anche il Signore, che fu eletto dall'eternità e dall'eternità ha anche pronunciato il suo sì alla missione, solo in un'ora storica della sua esistenza terrena fu incaricato della missione: non già all'età di dodici anni, allorché si manifestò la sua coscienza dell'elezione, bensì al momento del battesimo nel Giordano, allorché lo Spirito discende dal Padre su di lui, affinché egli d'ora in poi « ripieno di Spirito Santo » ( Lc 4,1 ) percorra le vie della sua missione.

E solo dopo che egli ha subito la Passione e lo Spirito Santo comincia ad essere inviato dal Risorto ( « ma se io vado, lo manderò a voi », Gv 16,17 ), ottengono anche i discepoli la loro missione definitiva: « Come il Padre mi ha mandato, così io mando voi ( … ) Ricevete lo Spirito Santo » ( Gv 20,21-22 ).

Ogni missione, ogni insediamento in uno stato e una forma di vita ecclesiale prenderà le mosse d'ora in avanti da questo stesso Spirito ( 1 Cor 12,4-11; 2 Tm 1,6s ).

Ma l'atto della missione, che all'interno della vita del chiamato è un determinato momento storico, è solo il punto di partenza della conduzione ad opera dello Spirito Santo che ora continua.

Tutto ciò che il chiamato intraprende nella sua missione dev'essere espressione di questa missione e perciò avvenire sotto la conduzione e dietro consiglio dello Spirito Santo.

Così è già nell'Antico Testamento: « Chi ha conosciuto il tuo pensiero, se tu non gli hai concesso la sapienza e non gli hai inviato il tuo santo spirito dall'alto? » ( Sap 9,17 ).

Così è nel Nuovo Testamento, allorché Paolo riceve dallo Spirito Santo l'indicazione di quali vie deve percorrere: « Inviati dallo Spirito Santo, essi discesero a Seleucia e di qui salparono verso Cipro » ( At 13,4 ).

« Attraversarono quindi la Frigia e la regione della Galazia, avendo lo Spirito Santo vietato loro di predicare la parola nella provincia di Asia » ( At 16,6 ).

È questo Spirito che conduce Paolo alla Passione, senza lasciargli intravvedere di ciò che avverrà niente più che uno sfumato abbozzo: « Ed ecco ora, avvinto dallo Spirito, io vado a Gerusalemme, senza sapere ciò che là mi accadrà.

So solo che lo Spirito Santo in ogni città mi attesta che mi attendono catene e tribolazioni » ( At 20,22-23 ).

E sebbene alcuni discepoli « mossi dallo Spirito, lo consigliavano di non andare a Gerusalemme » ( At 21,4 ), Paolo non si lascia sviare dalla pista tracciatagli personalmente dallo Spirito, la quale lo conduce al sacrificio insieme col Signore, che sigillerà la sua missione.

Chi è entrato una volta nella vocazione con un pieno « sì » non verrà più mollato dallo Spirito.

È come se Dio assumesse la garanzia per il chiamato.

Non ci sarà praticamente nessuna missione che in qualche momento, forse per lunghi tratti, non venga sentita come troppo pesante per spalle umane, come semplice richiesta esagerata.

Può essere la missione di Giobbe, che nella sua notte di passione giunge sino ai confini della bestemmia: « Egli mi ha gettato nel fango! ( … ) Ti sei mutato in Satana nei miei confronti! » ( Gb 30,19-21 ).

Poiché, però, all'inizio della notte ha dato il suo assenso, proprio nella notte non può decadere dalla missione e ottiene alla fine la lode di Dio: « Il mio servo Giobbe pregherà per voi ( … ) perché non avete detto di me cose rette come il mio servo Giobbe » ( Gb 42,8 ).

Può essere la missione di Geremia, che nella notte dell'amarezza e dell'abbandono si adira con Dio: « Mi hai riempito di sdegno! Tu sei diventato per me un torrente infido, dalle acque incostanti » ( Ger 15,17-18 ), e che con un delicato rimprovero viene ricondotto da Dio nel giusto servizio: « Se tu ritornerai di nuovo ad un'altra mentalità, potrai di nuovo servirmi » ( Ger 15,19 ).

Può essere la stanchezza e la sazietà di Elia, che nel deserto si siede sotto un ginepro e « non gli resta che il desiderio di morire » - « Ora basta, Signore! Prendi la mia vita, perché io non sono migliore dei miei padri! » -, ma con il cibo inviato dal Signore già il mattino dopo « cammina per quaranta giorni e quaranta notti fino al monte di Dio, l'Oreb » ( 1 Re 19,4-8 ).

Può essere anche il dubbio dell' « amico dello sposo », allorché nella notte del carcere non vede più la sua propria missione: « Sei tu colui che deve venire, o dobbiamo aspettarne un altro? » ( Mt 11,3 ), e che il Signore per questa domanda elogia davanti alle folle come colui che è ancor più che un profeta.

Tutti questi sono racchiusi nel mistero della notte della missione, nella quale anche il Figlio di Dio è stato inviato dal Padre - « Padre, se è possibile, fa' che questo calice passi da me! » ( Mt 26,39 ) -, quella notte che è solo la profondità della missione, quel tremante « no » che è solo la conseguenza dell'intrepido « sì » che il Dio che chiama ha udito e ha racchiuso nel suo possesso, affinché alla missione, anche nello spezzarsi dell'umano vaso contenitore, non accada alcun male.

Una volta realmente pronunciato il sì alla missione, colui che l'ha scelta entra nella sua missione come, per così dire, in uno stato definitivo, dal quale Dio - se egli stesso non vuole uscirvi - non lo lascerà più evadere.

« Io dono loro la vita eterna; per l'eternità non andranno mai perdute, e nessuno le rapirà dalla mia mano.

Il Padre mio che me le ha date è più grande di tutti e nessuno può rapirle dalla mano del Padre mio.

Io e il Padre siamo una cosa sola » ( Gv 10,28-29 ).

In questa unità tra Padre e Figlio entra l'eletto che accetta la sua missione.

In questo diventa chiaro che il Figlio « chiama per nome le sue pecore », per poi come « la via » ( Gv 14,6 ) « camminare davanti a loro » ( Gv 10,4 ), cosicché « nessuno viene al Padre se non attraverso di me » ( Gv 14,6 ).

Ma le pecore che egli chiama sono però rispettivamente pecore del Padre; è lui che le ha donate al Figlio ( Gv 10,28 ).

Le missioni, tanto più le vocazioni qualitative nella Chiesa, provengono dal Padre: « Nessuno può venire a me, se non lo attira il Padre » ( Gv 6,44 ).

« Nessuno può venire a me, se non gli è concesso dal Padre mio » ( Gv 6,65 ).

Il Figlio è cioè, come sempre, la mediazione della chiamata del Padre, quando egli convoca a sé gli Apostoli; ed egli è, « quando chiama a sé quelli che egli stesso ha voluto » ( Mc 3,13 ), la rivelazione della libera volontà di scelta del Padre.

Il volere del Figlio non è il volere del condottiero che secondo il proprio arbitrio arruola soldati per le sue campagne militari, ma è invece una volontà obbediente, che si accontenta di quello che il Padre ha trovato per lui e si preoccupa di quelli che gli sono stati affidati: « Essi erano tuoi e tu li hai dati a me; essi hanno osservato la tua parola ( … )

Non prego per il mondo, ma prego per coloro che tu mi hai dato, perché sono tuoi » ( Gv 17,6.9 ).

La protezione che il Figlio come buon pastore esercita su di essi, è per rappresentanza: « Finché ero con loro, li ho conservati e custoditi nel tuo nome » ( Gv 17,12 ).

Entrando nella Passione, il Figlio li riconsegna al Padre, affinché Egli assuma la loro protezione durante il tempo della Passione: « Ora io vengo a Te ( … ) Non chiedo che Tu li tolga dal mondo, ma che li custodisca dal maligno » ( Gv 17,13-15 ).

E solo a motivo della Redenzione, che pure è volontà e incarico del Padre ( 2 Cor 5,19 ), il Figlio può prendere con sé nella gloria quelli che gli sono stati affidati: « Padre, voglio che anche quelli che mi hai dato siano con me là dove sono io, affinché vedano la mia gloria » ( Gv 17,24 ).

E come non è affare del Figlio assegnare « i posti alla mia destra e alla mia sinistra », che appartengono a coloro « per i quali sono stati destinati dal Padre mio » ( Mt 20,23 ), così pure non è affare suo acquistarsi più operai di quanti il Padre gli ha dato.

Di fronte alla scarsità di operai chiamati egli rinvia piuttosto alla preghiera al Padre suo: « La messe è molta, ma gli operai sono pochi. Pregate perciò il padrone della messe, affinché mandi operai nella sua messe » ( Mt 9,37-38 ).

Questa preghiera va incontro alle preoccupazioni del Padre stesso, poiché « il Padre cerca tali adoratori », che « adorino in Spirito e verità » ( Gv 4,23 ), egli li cerca apertamente, per condurli all'unico adoratore vero, il suo Figlio.

La chiamata proviene dal Padre e conduce il chiamato al figlio, il quale è dall'eternità il Chiamato dal Padre.

Quando il Figlio nel mondo chiama gli eletti, lo fa nella sua funzione di rivelatore della chiamata del Padre.

Il Padre pone i chiamati all'interno dell'unità dell'unica ed eterna chiamata, in base all'unica scelta d'amore del Padre, con la quale egli sceglie il Figlio.

Questa scelta viene confermata sul Figlio dal Padre, dall'alto, con la missione al momento del battesimo.

In questa conferma proveniente dall'alto ogni inviato riceve la sua missione.

E se il chiamato cerca nello stesso Spirito di contribuire a dar forma all'opera del Figlio nel mondo e su questa via ottiene ora anche lo Spirito spirato dal Figlio e parte come inviato ( " Ecco, io mando voi ", Mt 10,16 ), ecco allora che questa missione filiale nello Spirito Santo è partecipazione al mistero del filioque, nel quale il Figlio spira il suo Spirito al Padre di ritorno: « Padre, nelle tue mani rimetto il mio Spirito » ( Lc 23,46 ); « ed egli rese il suo Spirito » ( Gv 19,30 ).

Per quanto la via sulla quale il Figlio « dal mondo ritorna al Padre » ( Gv 16,28 ) possa condurre anche in mezzo ai « lupi » ( Mt 10,16 ), anzi « attraverso le profondità dell'abisso » ( Sir 24,5 ) e l'estremo abbandono da parte del Padre ( Mt 27,46 ), essa è però sempre la via del Figlio verso il Padre, che dal Padre solo viene determinata e dal Figlio viene percorsa sotto la conduzione dello Spirito: « Nessuno mi strappa la mia vita, ma io la offro da me stesso volontariamente ( … )

Questo è l'incarico che ho ricevuto dal Padre mio » ( Gv 10,18 ), e sulla quale i chiamati nello Spirito del Padre che lo seguono possono essere senza timore: « Quando vi consegneranno nelle loro mani, non preoccupatevi di che cosa dovrete dire, poiché vi sarà suggerito in quell'ora ciò che dovrete dire.

Non siete infatti voi a parlare, ma è lo Spirito del Padre vostro che parla in voi » ( Mt 10,19-20 ).

Ma una volta che il Figlio è tornato al Padre si può parimenti dire che il Figlio distribuisce le missioni ecclesiali ( Ef 4,11 ), come pure che è il Padre che lo fa ( Rm 12,3ss ), rispettivamente sempre nel libero spirare dello Spirito Santo ( 1 Cor 12,4 ).

La chiamata è una chiamata trinitaria, che non solo chiama l'eletto, ma chiama anche ( altri ) a partire dalla sua chiamata.

Indice

1 L'Autore, sfruttando le possibilità offerte dalla lingua tedesca, gioca qui sul rapporto che lega anche a livello fonetico i due termini Wort ( parola ) e Antwort ( risposta ), ( ndt )