La città di Dio |
Molti scrittori hanno formulato, espresso e scritto numerose riflessioni sulla felicità del paradiso terrestre o sullo stesso paradiso terrestre, sulla vita dei progenitori in quel luogo e sul loro peccato e condanna.
Anche nei libri precedenti ho trattato i temi relativi derivandoli dalla lettura di qualche brano della Scrittura o dalla interpretazione che ne ho potuto dare in accordo con la sua autorità.
Se l'argomento si esamina più accuratamente suscita molte e varie discussioni che dovrebbero essere distribuite in più volumi di quanto l'opera e il tempo consentono.
Di tempo non ne ho tanto da soffermarmi in tutte le questioni che individui liberi da occupazioni e meticolosi, più pronti a interrogare che disposti a capire, possono formulare.
Penso di aver fatto già abbastanza con una vasta e assai difficile problematica sull'origine del mondo, dell'anima e del genere umano che ho distribuito in due categorie, una di quelli che vivono secondo l'uomo, l'altra di quelli che vivono secondo Dio.
Anche in senso analogico le chiamo due città, cioè due società umane, di cui una è destinata a regnare eternamente con Dio, l'altra a subire un eterno tormento col diavolo.
Ma questa è la loro finale destinazione di cui si parlerà in seguito.1
Finora ho detto abbastanza della loro origine sia negli angeli, il cui numero ci è ignoto, sia nei due progenitori.
Mi sembra che ormai si deve affrontare il tema della loro evoluzione storica da quando i progenitori hanno iniziato la specie fino a quando gli uomini cesseranno di continuarla.
Il tempo nella sua totalità o meglio la serie dei tempi, in cui gli individui si succedono scomparendo con la morte e sopraggiungendo con la nascita, è l'evoluzione storica delle due città di cui stiamo parlando.
Dai progenitori del genere umano nacque prima Caino che appartiene alla città degli uomini, poi Abele che appartiene alla città di Dio. ( Gen 4,1-2 )
Riscontriamo infatti che in un solo uomo si avvera il pensiero dell'Apostolo che ha detto: Prima non è ciò che è spirituale ma ciò che è animale, in seguito lo spirituale. ( 1 Cor 15,46 )
È necessario dunque che ogni individuo, poiché proviene da una stirpe condannata, dapprima sia cattivo e carnale in Adamo, in seguito, se si rinnoverà rinascendo in Cristo, sarà buono e spirituale.
Ugualmente in tutto l'uman genere, quando all'inizio cominciarono a sviluppare le due città con nascite e morti, prima è nato il cittadino di questo mondo, dopo di lui l'esule in cammino nel mondo e cittadino della città di Dio, perché predestinato ed eletto mediante la grazia, esule quaggiù e cittadino lassù mediante la grazia.
Se si considera in sé anche egli proviene dalla massa che è stata tutta condannata sin dall'inizio.
Però Dio, come un vasaio ( non per sprezzo ma con accortezza l'Apostolo usa questa immagine ), da una medesima massa ha foggiato un vaso per usi rispettabili e un altro per usi ignobili. ( Rm 9,21; Sap 15,7; Sir 33,13-14; Is 45,9; Ger 18,6 )
Prima è stato foggiato il vaso per usi ignobili, poi l'altro per usi rispettabili perché, come ho già detto, in uno stesso uomo prima v'è la forma riprovevole da cui è necessario iniziare ma non rimanervi, poi la forma lodevole a cui avanzando arrivare e una volta giunti rimanervi.
Quindi non ogni uomo cattivo sarà buono, tuttavia non v'è uomo buono che non sia stato cattivo, ma quanto più prestamente un individuo progredisce nel bene, definisce in sé questo traguardo che ha raggiunto e sostituisce più celermente la terminologia del prima con quella del poi.
Si legge nella Scrittura che Caino per primo edificò una città ( Gen 4,17 ) mentre Abele, in quanto esule, non la edificò.
La città degli eletti è in cielo, sebbene si procuri nel mondo i cittadini con i quali è in cammino finché giunga il tempo del suo regno.
Allora radunerà tutti i risorti con il loro corpo, quando sarà loro dato il regno dove regneranno senza limite di tempo con il loro fondatore, il re di tutti i tempi.
Un'ombra e figura profetica di questa città fu in stato di schiavitù sulla terra per simboleggiarla più che per indicarla come presente nel tempo in cui doveva manifestarsi.
Fu considerata anche essa città santa a titolo di figura allegorica e non di verità compiuta come sarà nel futuro.
Di questa figura posta in schiavitù e della libera città che simboleggia l'Apostolo così parla nella Lettera ai Galati: Ditemi, dice, voi che volete essere sotto la legge, non avete udito cosa dice la legge?
Sta scritto infatti che Abramo ebbe due figli, uno dalla schiava e uno dalla donna libera.
Ma quello dalla schiava è nato secondo la carne; quello dalla donna libera in virtù della promessa.
Sono cose dette in allegoria.
Le due donne infatti sono due alleanze, una proveniente dal monte Sinai che genera alla schiavitù ed è Agar ( il Sinai è un monte dell'Arabia ) ed ella si collega alla Gerusalemme che è nel tempo, infatti è schiava assieme ai propri figli.
Al contrario la Gerusalemme di lassù è libera ed è la madre nostra.
È detto infatti nella Scrittura: "Gioisci, o sterile che non partorisci, prorompi in grida di esultanza tu che non soffri nel parto, perché sono molti i figli della donna sola più di colei che ha marito". ( Is 51,1 )
Ora noi, o fratelli, siamo figli della promessa come Isacco.
Ma come allora colui che era nato secondo la carne perseguitava colui che era nato secondo lo spirito, così anche ora.
Ma cosa dice la Scrittura? "Manda via la schiava e suo figlio, perché il figlio della schiava non sarà erede assieme al figlio della libera". ( Gen 21,10 )
Noi invece, o fratelli, non siamo figli della schiava ma della donna libera. Cristo ci ha fatto dono di questa libertà. ( Gal 4,21-31 )
Questo modo d'intendere, derivante dall'autorità dell'Apostolo, ci offre un criterio nell'interpretare la Scrittura dei due Testamenti, l'Antico e il Nuovo.
Una parte della città terrena è divenuta figura di quella celeste, non per simboleggiare se stessa ma l'altra e quindi come schiava.
È stata istituita infatti non per simboleggiare se stessa ma un'altra ed essa stessa è stata indicata allegoricamente mediante un'altra precedente figura simbolica, sebbene fosse essa stessa allegoria.
Infatti Agar schiava di Sara e il figlio sono stati figura di questa figura.
E poiché le ombre dovevano scomparire all'apparire della luce, la libera Sara, che simboleggiava la libera città, sebbene per simboleggiarla con diverso significato le era schiava anche l'ombra dell'altra, disse: Manda via la schiava e suo figlio perché il figlio della schiava non sarà erede assieme a mio figlio Isacco. ( Gen 21,10 )
L'Apostolo ha parafrasato: assieme al figlio della libera.
Troviamo dunque nella città terrena due aspetti, uno che indica la sua presenza nella storia, l'altro che con la sua presenza è subordinato a simboleggiare la città celeste.
La natura pervertita dal peccato genera i cittadini della città terrena, la grazia che libera la natura dal peccato genera i cittadini della città celeste; perciò i primi sono chiamati: vasi d'ira, gli altri: vasi di misericordia. ( Rm 9,22-23 )
Se ne è avuto un simbolo anche nei due figli di Abramo.
L'uno, Ismaele, nacque secondo la carne dalla schiava chiamata Agar, l'altro, Isacco, nacque secondo la promessa dalla libera Sara.
Tutti e due sono della stirpe di Abramo, ma un rapporto che indica esplicitamente la natura ha fatto nascere il primo, invece una promessa che simboleggia la grazia ha concesso l'altro.
In quel caso è presentata una esperienza umana, in questo è segnalato un beneficio divino.
Sara era sterile. Perduta la speranza della prole e desiderando di avere almeno dalla sua schiava ciò che da sé capiva di non potere, la fece fecondare dal marito.
Aveva desiderato invano di avere figli da lui.
Chiese dunque ciò che le era dovuto dal marito usando il proprio diritto nel grembo di un'altra. ( Gen 16,1-3 )
Nacque così Ismaele, come nascono tutti gli uomini, nel congiungimento dei sessi secondo l'ordinaria legge di natura.
È stato detto: secondo la carne ( Gal 4,23 ) non perché questi beni non siano da Dio e non sia Egli a produrli dato che la sua sapienza operatrice si estende, come si legge nella Scrittura, da un confine all'altro con efficienza e ordina tutto con bontà. ( Sap 8,1 )
Siccome però si doveva simboleggiare il dono di Dio che la grazia, anche se non dovuto, avrebbe gratuitamente elargito agli uomini, fu indispensabile che si avesse un figlio nel modo indebito ai procedimenti della natura.
La natura infatti nega i figli a tale congiungimento del maschio e della femmina, quale poteva essere quello di Abramo e Sara, già in età avanzata, con l'aggiunta della sterilità della donna che non fu in grado di partorire neanche quando non mancava l'età alla fecondità, ma la fecondità all'età.
Il fatto che alla natura in quelle condizioni non era dovuto il beneficio della posterità simboleggia che la natura del genere umano pervertita dal peccato, e quindi a giusto titolo condannata, non meritava in seguito la vera felicità.
Giustamente quindi Isacco, nato secondo la promessa, simboleggia i figli della grazia, i cittadini della libera città, associati dalla pace eterna perché con essa non v'è in alcun modo l'amore della personale volontà, ma l'amore che gode del medesimo comune immutevole Bene e fa di molti un cuor solo, cioè concorde nel fine ultimo mediante l'osservanza della carità.
Inoltre la città terrena non sarà eterna perché quando sarà condannata all'estremo supplizio non sarà più una città.
Ha però in questo mondo il suo ideale, della cui partecipazione trae diletto nella misura che se ne può trarre da questi ideali.
E poiché è un ideale che non elimina difficoltà a coloro che lo perseguono, questa città è spesso in sé dilaniata da contestazioni, guerre e battaglie alla ricerca di vittorie che sono apportatrici di morte e certamente di effimera durata.
Infatti, se nel suo interno una razza qualunque insorgerà con la guerra contro un'altra razza, la città si adopera di essere dominatrice dei popoli, sebbene sia prigioniera dei vizi.
Se poi, nel caso che vincesse, si esalta con maggiore orgoglio, diviene anche apportatrice di morte; se invece riflettendo sulla situazione e sugli avvenimenti di ogni giorno si angustia per quelli avversi, che possono accadere, più di quanto si esalti per quelli propizi che l'hanno favorita, la vittoria è soltanto di effimera durata.
Non potrà infatti dominare in permanenza sui popoli che ha assoggettato con la vittoria.
Però non è ragionevole pensare che non sono ideali quelli che ambisce questa città, giacché essa stessa nella categoria delle cose umane è un bene migliore.
Vuole infatti raggiungere una pace a favore di ideali meno nobili e desidera di approdare ad essa con la guerra.
Se vincerà e non vi sarà chi oppone resistenza, ci sarà la pace che non potevano conseguire le razze che si contrastavano e contendevano in una miserabile penuria per beni che non potevano avere in comune.
Guerre tormentose cercano la pace, la raggiunge una vittoria ritenuta dispensiera di fama.
Se sono vincitori coloro che combattevano per una causa più giusta, non si può dubitare che c'è da rallegrarsi per la vittoria e che ne proviene una pace auspicabile.
Sono valori e senza dubbio dono di Dio.
Ma talora messi da parte gli ideali più alti che appartengono alla città di lassù, dove la vittoria sarà stabile nell'eterna e somma pace, si ambiscono gli ideali di quaggiù perché sono ritenuti unici o preferiti a quelli che sono da ritenere più nobili.
In tal caso necessariamente segue la crisi e aumenta se era già in atto.
Il fondatore della città terrena fu il primo fratricida.
Sopraffatto dall'invidia uccise suo fratello, ( Gen 4,8 ) cittadino della città eterna e viandante in questa terra.
Non c'è da meravigliarsi dunque se tanto tempo dopo, nel fondare la città che doveva essere la capitale della città terrena, di cui stiamo parlando, e dominare tanti popoli, si è avuta una fattispecie parallela a questo primo esemplare che i Greci chiamano άρχέτυπος.
Anche in quel luogo, nei termini in cui un loro poeta rammenta quel delitto, le prime mura furono bagnate di sangue fraterno.2
Roma infatti ebbe origine con un fratricidio.
La storia romana narra appunto che Remo fu ucciso da Romolo,3 a parte che costoro erano tutti e due cittadini della città terrena.
Tutti e due attendevano la fama dalla fondazione dello Stato romano, ma insieme non potevano averne ciascuno nelle proporzioni di uno solo.
Chi voleva raggiungere la fama con l'esercizio del potere avrebbe avuto minor potere se la sua autorità fosse diminuita da un compartecipe vivo.
Per avere dunque tutto il potere da solo fu eliminato il compagno e con il delitto aumentò in malvagità il prestigio che senza il delitto sarebbe stato inferiore ma più onesto.
I fratelli Caino e Abele invece non avevano in comune una tale aspirazione ai beni della terra, né invidia l'un contro l'altro e il fratricida non invidiò al fratello che la sua supremazia venisse limitata se dominavano tutti e due.
Abele non esigeva il potere nella città che veniva edificata dal fratello.
C'era soltanto l'invidia diabolica con cui i cattivi invidiano i buoni per l'esclusivo motivo che quelli sono buoni, questi cattivi.
La conquista della bontà non diminuisce affatto se si aggiunge o rimane un compagno, anzi la bontà è una conquista che la personale carità dei compagni raggiunge con estensione pari alla partecipazione.
Non otterrà perciò questa conquista chi non vorrà averla in comune e al contrario la conseguirà tanto più validamente quanto più validamente in quella condizione potrà avere un compagno.
Ciò che è avvenuto fra Remo e Romolo ha mostrato come la città terrena abbia delle scissioni in se stessa.
Invece quel che è avvenuto fra Caino e Abele ha palesato le inimicizie fra le due città, di Dio e degli uomini.
Si oppongono dunque tra sé cattivi e cattivi, così cattivi e buoni, ma non è possibile che buoni e buoni, se sono perfetti, si oppongano gli uni contro gli altri.
Può avvenire che fra coloro i quali fanno progressi, ma non hanno ancora raggiunto la perfezione, uno si opponga all'altro come anche a se stesso perché nel medesimo individuo la carne ha desideri contro lo spirito e lo spirito contro la carne. ( Gal 5,17 )
Quindi il desiderio spirituale può opporsi al carnale di un altro o il desiderio carnale allo spirituale di un altro, come si oppongono fra di sé buoni e cattivi.
Si oppongono fra sé i desideri carnali di due individui buoni, non ancora perfetti, come si oppongono cattivi e cattivi, fino a che la guarigione di coloro che si curano sia guidata alla vittoria finale.
Questa tendenza al male, cioè la disobbedienza di cui abbiamo parlato nel libro decimoquarto, è la pena della prima disobbedienza e quindi non è una condizione naturale ma un pervertimento.
Viene detto perciò ai buoni che traggono profitto e vivono di fede in questo viaggio nell'esilio: Portate l'uno i pesi dell'altro e così adempirete la legge di Cristo; ( Gal 6,2 ) e altrove: Correggete i turbolenti, confortate i paurosi, accogliete i deboli, siate pazienti con tutti, state attenti a non render male per male all'altro; ( 1 Ts 5,14-15 ) e in un altro passo: Se un individuo sarà sorpreso in una colpa, voi che avete lo Spirito, correggetelo con dolcezza, ma sta' all'erta affinché anche tu non cada nella tentazione; ( Gal 6,1 9 e altrove: Il sole non tramonti sopra la vostra ira; ( Ef 4,26 ) nel Vangelo si legge: Se un tuo fratello avrà commesso una colpa contro di te, correggilo fra te e lui soltanto. ( Mt 18,15 )
Sempre riguardo ai peccati, per evitare lo scandalo di molti, dice l'Apostolo; Ammonisci alla presenza di tutti coloro che peccano affinché gli altri ne abbiano timore. ( 1 Tm 5,20 )
Per lo stesso motivo si hanno molte raccomandazioni sul perdono vicendevole e sulla grande attenzione a conservare la pace perché senza di essa non sarà possibile vedere Dio. ( Eb 12,14; Mc 9,49; Rm 12,18 )
In proposito si ha lo sgomento di quel servo quando gli viene ingiunto di restituire il debito di diecimila talenti, che gli erano stati condonati, perché non aveva condonato a un suo conservo il debito di cento denari.
Esposta questa parabola, Gesù soggiunse: Così si comporterà anche con voi il vostro Padre celeste se ciascuno non perdonerà di cuore al proprio fratello. ( Mt 18,23-25 )
In questo modo ottengono la guarigione i cittadini della città di Dio esiliati in questa terra e anelanti alla pace della patria di lassù.
Lo Spirito Santo opera interiormente affinché sia efficace la medicina che si usa in superficie.
Altrimenti anche se Dio stesso, servendosi di una creatura a lui sottomessa, si rivolge, mediante qualsiasi umano aspetto, alle facoltà umane, tanto quelle sensibili come quelle molto simili che funzionano nel sonno, ma non guida stimolandola la coscienza, non giova affatto all'uomo qualsiasi annuncio di verità.
Dio ottiene questi effetti distinguendo i vasi dell'ira da quelli della misericordia ( Rm 9,22-23 ) con una distribuzione arcana, a lui solo nota, ma giusta.
Quando egli viene in aiuto con interventi meravigliosi e segreti, il peccato che risiede nelle nostre membra, ed è pena del peccato, non regna più, come dice l'Apostolo, nel nostro corpo mortale per farci obbedire ai suoi desideri e noi non offriamo più le nostre membra come strumenti di disonestà. ( Rm 6,12-13 )
L'uomo allora si rivolge alla coscienza che con la guida di Dio non consente a se stessa di scegliere il male e da allora essa guida con maggiore serenità al bene.
Poi, effettuata la guarigione e raggiunta l'immortalità, l'uomo senza alcun peccato regnerà nell'eterna pace.
Il mezzo, che ho spiegato come ho potuto, attraverso il quale Dio ha comunicato con Caino nella maniera con cui, mediante una creatura sottomessa, comunicava in forma adeguata con i primi uomini, come fosse loro compagno, a quell'uomo non ha giovato.
Difatti anche dopo l'avvertimento divino ha compiuto il premeditato delitto di uccidere il fratello.
Dio aveva discriminato le offerte di entrambi, accettando quelle di Abele, disdegnando quelle di Caino.
Non è da dubitare che per l'attestato di un qualche segno visibile era possibile conoscere questa distinzione e che Dio aveva così operato perché le opere di lui erano malvagie, quelle del fratello buone.
Se ne rattristò molto Caino e il suo viso rivelò il turbamento.
Si ha nella Scrittura: Il Signore disse a Caino: perché sei diventato triste e il tuo viso è turbato?
Lo sai che, se fai buone offerte ma non distribuisci con onestà, hai commesso peccato?
Sii sereno. Vi sia il suo ritorno in te e tu ne avrai il dominio. ( Gen 4,6-7 )
In questo rimprovero o meglio avvertimento che Dio fece udire a Caino non sono chiari il motivo e il significato della frase: Lo sai che, se fai buone offerte ma non distribuisci con onestà, hai commesso peccato?
L'oscurità ha dato origine a varie interpretazioni, sebbene ogni esegeta della sacra Scrittura tenta di commentarla secondo la regola della fede.
Il sacrificio si offre con onestà quando si offre al vero Dio, al quale soltanto si deve sacrificare.
Ma non si distribuisce con onestà quando non si differenziano con onestà il luogo, il tempo e gli oggetti o anche chi offre e a chi si offre, o anche a chi si distribuisce per vitto ciò che è stato offerto, giacché in questo caso per distribuzione possiamo intendere scelta.
Inoltre si può offrire in un luogo in cui non conviene o ciò che non conviene in quel luogo ma in un altro, o in un tempo in cui non conviene o ciò che non conviene in quel tempo ma in un altro o ciò che non si deve offrire in nessun luogo e tempo o quando l'uomo tiene per sé oggetti della medesima qualità più scelti di quelli che offre a Dio, o se si rende partecipe dell'offerta un individuo di altra religione o è sacrale che non ne sia partecipe.
Non è facile precisare in quale di questi aspetti Caino dispiacque a Dio.
L'apostolo Giovanni, parlando dei due fratelli, dice: Non come Caino che era dal maligno e uccise suo fratello, e perché lo uccise?
Perché le sue opere erano malvagie, quelle del fratello giuste. ( 1 Gv 3,12 )
Dal passo si può intendere che Dio non gradì il suo dono perché proprio con esso distribuiva male, in quanto dava a Dio qualcosa del suo, ma sé a se stesso.
Lo fanno tutti coloro che non adempiono la volontà di Dio ma la propria, cioè non agiscono con un cuore retto ma pervertito.
Offrono tuttavia a Dio un dono con cui pensano di renderselo propizio perché li aiuti non a guarire i loro cattivi desideri ma a soddisfarli.
Ed è proprio della città terrena adorare Dio o gli dèi per governare con il loro aiuto nella vittoria e nella pace terrena non con la liberalità dell'amministrare ma col desiderio di dominare.
I buoni infatti si servono del mondo per godere Dio, i cattivi al contrario pretendono servirsi di Dio per godere il mondo.
Essi però credono che egli esiste e che provvede alle vicende umane.
Sono molto peggiori coloro che negano questa verità.
Caino dopo aver capito che Dio si era volto al sacrificio del fratello e non al suo avrebbe dovuto col pentimento imitare il fratello buono anziché inasprito invidiarlo.
Ma egli s'indignò e il suo viso fu turbato.
Dio riprova più di ogni altro questo peccato, cioè la tristezza per la bontà di un altro, soprattutto se fratello.
Perciò, riprovando questa colpa, chiese: Perché sei diventato triste e il tuo viso è turbato?
Dio vedeva che egli invidiava suo fratello e riprovò il fatto.
Agli uomini, cui è nascosto il cuore dell'altro, poteva esser dubbio e del tutto incerto se con quella tristezza egli deplorava la propria cattiveria perché sapeva che con essa aveva offeso Dio, oppure la bontà del fratello perché questa piacque a Dio quando si volse alla sua offerta.
Dio diede una giustificazione del fatto che aveva ricusato l'offerta di Caino affinché incolpasse giustamente se stesso, anziché ingiustamente il fratello.
E poiché era ingiusto in quanto non distribuiva con onestà, cioè non viveva onestamente, e indegno che la sua offerta fosse accettata, gli fece capire quanto fosse più ingiusto perché odiava il fratello giusto senza motivo.
Tuttavia Dio, per non allontanarlo senza un comando santo, giusto e buono, gli disse: Sii sereno, vi sia il suo ritorno in te e tu ne avrai il dominio.
Il ritorno del fratello? No. Certamente del peccato.
Aveva detto: Hai peccato e ha soggiunto: Sii sereno, vi sia il suo ritorno in te e tu ne avrai il dominio.
Si può interpretare nel senso che il ritorno del peccato deve avvenire nell'uomo stesso in modo che sia consapevole di dover attribuire soltanto a sé il fatto che pecca.
Si hanno infatti il salutare rimedio del pentimento e la conveniente richiesta di perdono se nella frase: il suo ritorno in te non si sottintende che vi sarà ma vi sia, nei termini cioè di un comando e non di un preavviso.
Allora infatti l'uomo dominerà il peccato se non lo prepone a sé con un appiglio ma lo assoggetta col pentimento.
Altrimenti egli sarà schiavo del peccato che lo domina, se lo giustificherà quando avviene.
Ma per peccato si può intendere anche lo stesso desiderio carnale di cui dice l'Apostolo: La carne ha desideri contro lo spirito ( Gal 5,17 ) e fra gli effetti della carne rassegna anche l'invidia da cui Caino era spronato e infiammato all'uccisione del fratello.
In questo senso si può giustamente sottintendere anche che vi sarà, cioè: Vi sarà il suo ritorno in te e tu ne avrai il dominio.
Talora infatti viene eccitata l'attività carnale che l'Apostolo denomina peccato nel passo: Non sono io che faccio il male ma il peccato che risiede in me. ( Rm 7,17 )
Anche i filosofi considerano depravata questa attività dell'anima non nel senso che travolge la coscienza ma che la coscienza deve dominare e contenere dalla immoralità con la ragione.
Quando dunque tale attività sarà stimolata ad agire disonestamente, si rassereni e obbedisca all'Apostolo che dice: Non offrite le vostre membra al peccato come strumenti d'immoralità. ( Rm 6,13 )
Allora rasserenata e sottomessa ritorna alla coscienza affinché la ragione la domini.
Dio lo aveva ingiunto a Caino che ardeva d'invidia contro il fratello e, invece di imitarlo, voleva fosse tolto di mezzo.
Sii sereno, disse, trattieni le tue mani dal delitto, non domini il peccato nel tuo corpo mortale ( Rm 6,12 ) fino ad asservirti ai suoi desideri e non offrire le tue membra al peccato come strumenti d'immoralità.
Si ha il suo ritorno in te se non si favorisce allentando le briglie ma si trattiene arrestandosi.
E tu ne avrai il dominio affinché, quando non gli si permette di essere efficiente all'esterno, si abitui a non subire impulsi anche all'interno mediante l'imperativo della coscienza che regola e dispone al bene.
Nel medesimo Libro sacro è stato detto qualcosa del genere anche della donna quando, dopo il peccato, da Dio, che rivolgeva domande per giudicare, ebbero la sentenza di condanna, il diavolo nel serpente, lei e il marito di persona.
Le disse: Moltiplicherò assai il tuo dolore e il tuo gemito, nel dolore partorirai i figli, e aggiunse: Farai ritorno a tuo marito ed egli ti terrà sottomessa. ( Gen 3,16 )
Quanto è stato detto a Caino del peccato e del depravato desiderio della carne, in questo passo è stato detto della donna che aveva peccato.
Si deve interpretare nel senso che l'uomo, nel dirigere la donna, si deve rassomigliare all'animo che dà direttive alla carne.
Perciò dice l'Apostolo: Chi ama la moglie ama se stesso; nessuno infatti ha mai odiato la propria carne. ( Ef 5,28-29 )
Questi impulsi dunque si devono curare come nostri e non condannare come altrui.
Ma Caino accolse come avversario la raccomandazione di Dio.
Aggravandosi in lui la passione dell'invidia in una insidia uccise il fratello.
Di tal fatta era il fondatore della città terrena.
Potrebbe simboleggiare anche i Giudei dai quali fu ucciso Cristo, pastore delle pecore uomini, di cui era allegoria Abele, pastore delle pecore bestie.
Il fatto rientra appunto in una allegoria profetica.
Per ora mi risparmio dall'esporlo, ma ricordo di aver detto qualcosa in merito nel libro Contro Fausto manicheo.
A questo punto mi sembra opportuno difendere la suddetta narrazione affinché non sembri inattendibile la Scrittura la quale riferisce che da un solo uomo è stata edificata una città in quel tempo in cui, almeno all'apparenza, esistevano sulla terra soltanto quattro uomini o meglio tre dopo che Caino uccise il fratello e cioè il primo uomo padre di tutti, lo stesso Caino e il figlio Enoch da cui la città prese il nome.
Ma coloro che se ne stupiscono non riflettono abbastanza che lo scrittore di questa storia sacra non ritenne necessario nominare tutti gli uomini che esistevano in quel tempo, ma quelli soltanto che richiedeva il disegno dell'opera intrapresa.
L'intenzione dello scrittore, mosso dallo Spirito Santo, fu di giungere, attraverso la successione di determinate generazioni provenienti da un solo uomo, fino ad Abramo e dalla sua discendenza al popolo di Dio.
In esso, distinto dagli altri popoli, dovevano essere prefigurati e preannunziati tutti gli avvenimenti che, nell'afflato dello Spirito, riguardavano l'avvenire della città, il cui regno sarà eterno, e del suo re e fondatore Cristo.
Però non si doveva passar sotto silenzio l'altra umana società, che consideriamo la città terrena, nell'esclusivo intento di farne menzione affinché la città di Dio risplenda anche nel confronto con la sua avversaria.
La sacra Scrittura, nel consegnare alla memoria il numero degli anni che gli uomini di allora vissero, conclude col dire di colui di cui stava parlando: Generò figli e figlie e fu l'età dell'uno o dell'altro di tanti anni e morì. ( Gen 5,4-31 )
Dal fatto che non ci tramanda i nomi dei figli e delle figlie non dobbiamo escludere che in tutti quegli anni, quando nel primo periodo dei tempi gli uomini erano molto longevi, poterono nascere moltissimi individui, dai cui gruppi potevano essere fondate anche moltissime città.
Ma fu opera di Dio, il quale ispirò questi passi della Scrittura, differenziare fin dai primordi le due città distribuendole nelle rispettive discendenze in modo che esse continuassero insieme, da una parte quella degli uomini, cioè di coloro che vivevano secondo l'uomo, dall'altra quella dei figli di Dio, cioè degli uomini che vivevano secondo Dio.
E questo fino al diluvio col quale, com'è narrato, si hanno la separazione e la delimitazione.
Si ha la separazione perché sono rassegnate separatamente le discendenze delle due città, una del fratricida Caino, l'altra del fratello chiamato Set che era nato, anche egli, da Adamo in luogo della vittima del fratricidio.
Si ha una delimitazione perché, traviando i buoni, erano diventati tutti così cattivi da essere sterminati col diluvio, eccetto un solo onesto, Noè, con la moglie, i tre figli e nuore.
Questi otto individui meritarono di sfuggire con l'arca all'ecatombe generale.
Si legge nella Scrittura: Caino si unì a sua moglie che concepì e partorì Enoch ed egli stava edificando una città cui diede il nome del figlio Enoch. ( Gen 4,17 )
Non è indispensabile ammettere che questo fosse il primo figlio dato alla luce.
Né si deve dedurre dall'espressione che egli si unì alla moglie come se si fossero accoppiati per la prima volta.
Anche nei confronti di Adamo, padre di tutti, l'espressione non fu usata soltanto per il tempo in cui fu concepito Caino che, come sembra, fu il primogenito.
Anche per il tempo successivo il medesimo libro della Scrittura dice: Adamo si unì alla moglie Eva, la quale concepì e partorì un figlio e gli diede il nome di Set. ( Gen 4,25 )
Se ne deduce che abitualmente quel libro si esprime in quei termini, anche se non in tutti i casi che vi si leggono di avvenuti concepimenti, ma non soltanto in quei casi in cui i due sessi si uniscono per la prima volta.
E non si attiene a una dimostrazione decisiva, per considerare che Enoch fosse il primogenito, il fatto che la città prese il nome da lui.
Non è eccezione alla regola che per un motivo qualsiasi il padre, pur avendo altri figli, lo amasse più di tutti.
Anche Giuda non era il primogenito, eppure da lui hanno avuto il nome la Giudea e i Giudei.
Ma anche se questo figlio nacque per primo al fondatore della città, non per questo si deve pensare che fu dato alla città il suo nome in occasione della sua nascita.
Anche in quel periodo non si poteva impiantare una città da un solo individuo, perché essa è per essenza una moltitudine di individui uniti da un determinato rapporto sociale.
Ma se la famiglia di quell'uomo cresceva rapidamente nel numero da avere già una sufficiente quantità di popolazione, era possibile che la fondasse e che una volta fondata, le imponesse il nome del primogenito.
Infatti la vita di quegli uomini fu così lunga che quel che visse di meno prima del diluvio, fra i citati col rispettivo numero di anni, giunse ai settecentocinquantatré anni. ( Gen 5,31 )
I più avevano superato i novecento ma nessuno era giunto ai mille.
Non c'è dubbio quindi che il genere umano, attraverso l'età di un solo individuo, poteva aumentare al punto che era possibile fondare non una ma più città.
Lo si può dedurre con grande facilità perché dal solo Abramo, in non molto più di quattrocento anni, si ebbe un gran numero di discendenti della stirpe ebraica che, nell'uscita dall'Egitto, erano, come è riferito, seicentomila individui della gioventù addetta alle armi. ( Es 12,37; Es 38,26; Nm 1,46; Nm 2,11.21; Nm 26,51 )
Sorvoliamo la stirpe degli Idumei non appartenenti al popolo d'Israele, perché discendeva dal fratello Esaù, nipote di Abramo, ( Gen 36 ) e altre stirpi provenienti dalla progenie dello stesso Abramo, sebbene non attraverso la moglie Sara. ( Gen 25,1-4.12-18 )
Indice |
1 | De civ. Dei 19-20 |
2 | Lucano M., Phars. 1, 95 |
3 | Livio, Ab Urbe cond. 1, 7, 2; Dione Cassio, Hist. rom. fr. 4, 13; Diodoro Siculo, Bibl. 8, 4, 4 |