Convegno ecclesiale di Verona |
17 ottobre 2006
L'occasione di riflettere, quale ci viene concessa qui a Verona, sugli ambiti del lavoro e della festa riguarda uno degli aspetti fondamentali della nostra vita.
La nostra vita, il nostro tempo, sono infatti attraversati anche dalle dimensioni del lavoro e della festa.
O dovrebbero esserlo.
Il lavoro e la festa sono infatti modi in cui l'uomo in generale vive, o può vivere, il tempo che lo caratterizza ( allo stesso modo in cui caratteri antropologici fondamentali sono quelli affrontati negli altri ambiti: il carattere dell'affettività, la dimensione della fragilità, il radicamento nella tradizione, la promozione e il riconoscimento della cittadinanza ).
Si tratta però di vedere come vivere il lavoro, come vivere la festa, come vivere il loro rapporto, il loro tempo, nella maniera giusta.
Si tratta di vedere come vivere tutto questo in maniera cristiana.
Ma, più in generale, si tratta di domandarsi che cosa significa oggi « lavoro », qual è oggi il suo senso per la nostra vita, e che spazio c'è oggi per la festa e come essa può essere vissuta.
Si tratta di chiedersi come viene fatta esperienza del lavoro e della festa, cioè del loro specifico tempo, se si vuole pensare in maniera giusta il loro rapporto: se si vuole cogliere in maniera adeguata, vorrei dire, il loro ritmo.
Oggi infatti sembra che questo ritmo sia spezzato, fino a renderlo uniforme, indifferenziato.
Perché il modo in cui ci rapportiamo al mondo attraverso il lavoro è soggetto a radicale trasformazione; perché la festa è trasformata in puro momento d'ozio, spesso vuoto e carico di noia.
Viene meno così la relazione stessa tra lavoro e festa come modo in cui l'uomo può vivere il tempo, può volgersi al mondo, può rapportarsi agli altri uomini, può aprirsi a Dio.
È minata alla base, cioè, la possibilità che l'uomo ha di andare al di là di sé: è messa in questione la sua possibilità di aprirsi al futuro.
E viene così meno la capacità di sperare e di testimoniare la speranza.
Sono queste, dunque, le questioni sulle quali vorrei offrire il mio contributo, introducendo la discussione e i lavori di gruppo.
I temi che svilupperò, in altre parole, vogliono essere solamente uno spunto per gli approfondimenti e per il dibattito successivo.
E in esso, sicuramente, verranno in luce anche altri problemi che non ho qui, certamente, la possibilità di affrontare.
Una cosa, però, desidero ancora mettere in evidenza.
Le questioni che intendo toccare non sono affatto settoriali - non riguardano, cioè, solo il particolare modo dei cristiani di rapportarsi al mondo -, ma concernono tutti.
E sul modo in cui tutti noi, oggi, viviamo la possibilità del lavoro, la possibilità della festa, l'apertura al mondo e al futuro, che nel lavoro e nella festa sono insite, i cristiani sono appunto in grado di dire la loro, in maniera incisiva e forte.
Lo sono più di altri.
A dispetto di quel ruolo d'irrilevanza al quale altri, appunto, li vorrebbero condannare.
Bisogna chiarire, anzitutto, che cosa significa lavorare, a quali trasformazioni del lavoro stiamo oggi assistendo, quale tipo di lavoro viene oggi sperimentato e richiesto, quale impegno lavorativo oggi in molti, troppi casi viene soltanto sperato.
Lo stesso, poi, bisogna fare nel caso della festa.
Sono tre allora, in parallelo, le riflessioni sul lavoro che propongo, ciascuna esemplificata da un'immagine, così come tre saranno quelle relative alla festa.
2.1. Cominciamo con una prima immagine: un'immagine a due facce.
Concerne due tipi di lavoro, incarnati da due persone: l'operaio inserito all'interno di un sistema produttivo e chi è impegnato invece in un lavoro di cura ( anzi: chi considera ogni sua attività, in generale, come una professione, finanche come una vocazione ).
Il primo caso individua un modello lavorativo - che tecnicamente si dice « fordista » - oggi fortemente in crisi: una crisi che coinvolge anche i tentativi di superarlo elaborati dal marxismo ( appunto perché il marxismo considerava questo sistema come il sistema produttivo privilegiato ).
Che cosa caratterizza l'esperienza di lavoro e di vita di questo operaio?
Egli è inserito in un sistema produttivo più grande di lui.
Il suo lavoro è un ingranaggio in una grande catena di montaggio; il suo lavoro, in altre parole, è un mezzo che serve alla realizzazione di certi prodotti e, in definitiva, alla conservazione di una società capitalistica basata sui consumi.
Si comprende, nella misura in cui lo scopo del lavoro dell'operaio è ben oltre l'operaio stesso e la sua specifica attività, il perché della sua insoddisfazione: il perché - si diceva una volta - della sua « alienazione ».
Il tempo della produzione in fabbrica era un tempo sempre uguale, uniforme.
In esso infatti non sempre era chiaro perché, e per ottenere che cosa, l'operaio lavorava.
Diverso, invece, è il modo in cui viene sperimentato il lavoro come professione, come « vocazione » in un senso ampio ( ad esempio nei lavori di cura, ma non solo in questi ).
In questo caso il lavoro non è un mezzo per il raggiungimento di uno scopo che va oltre l'attività lavorativa del singolo, ma è, in sé, esso stesso scopo.
Nel lavoro, infatti, io non solo realizzo qualcosa, ma insieme mi realizzo, sviluppo me stesso, il mio rapporto con le cose e con gli altri.
Non c'è qui un unico sistema produttivo al quale mi devo uniformare con azioni sempre uguali, ma la mia attività risulta creativa, appunto perché si deve adattare a situazioni sempre diverse e, sovente, imprevedibili.
Ho accennato ai cosiddetti lavori di cura, ma potrei riferirmi ugualmente, più in generale, a tutti quei casi in cui la professione si rivela corrispondente a una vera e propria vocazione.
Qui, infatti, non c'è distinzione tra cura di altro e cura di sé, ma la prima finisce anche per produrre, sempre, la seconda.
Dunque: quale lavoro oggi?
Il modello fordista risulta ormai difficilmente applicabile, almeno nelle società occidentali ( si parla infatti, in maniera del tutto generica, di modello postfordista ).
E poi, come fra poco vedremo, esso è tutt'altro che sicuro, tutt'altro che garantito, anche in questa sua forma.
Paradossalmente, però, la crisi del lavoro come puro mezzo può consentire la riscoperta dell'altro tipo di lavoro: la professione nella quale ci si realizza e, nel far ciò, ci si apre a una rete creativa di relazioni.
Emergono così, in questo quadro, nuove modalità di organizzazione, che vanno oltre il modello capitalistico: le forme cooperative, le imprese sociali, le imprese civili.
E si determina altresì la possibilità di declinare al plurale, in una prospettiva comunitaria, la stessa attività lavorativa, in modo tale che il lavoro non si consumi in una chiusa dimensione individuale, ma favorisca la creazione di nuove forme di economia.
Vi è però un problema di fondo che, da una tale prospettiva, deve essere affrontato: è il problema di recuperare il senso del lavoro, il senso, cioè, di quello che risulta un modo privilegiato di vivere il proprio tempo feriale.
Recuperando infatti il senso del lavoro, il fatto che il lavoro stesso ci apre a un contesto ampio di relazioni che lo trascendono, siamo infatti in grado di far risaltare ciò che è al di là del lavoro stesso: il tempo della festa, appunto.
Ma, per ottenere questo, il lavoro certo ci deve essere.
Esso deve risultare, in qualche modo, un lavoro garantito.
Oggi, invece, quali garanzie possiede l'attività lavorativa?
Come può essere promossa?
In altri termini e più in generale: se lavorare è un modo di realizzarsi che è proprio dell'uomo, nel quale egli può trovare senso alla propria vita, allora il lavoro va comunque salvaguardato.
Il lavoro è un diritto, si dice.
Ma lo è poi davvero?
2.2. Ci troviamo di fronte alla seconda immagine, alla seconda coppia di concetti che riguardano il lavoro: il lavoro come diritto e il lavoro come dovere.
Il diritto al lavoro, certo, è affermato fin dall'inizio nella Costituzione italiana, come condizione di cittadinanza.
E il Compendio della dottrina sociale della Chiesa ( nn. 287 e 288 ) dichiara con chiarezza che la « piena occupazione » è « un obiettivo doveroso per ogni ordinamento economico orientato alla giustizia e al bene comune ».
Ma non si tratta solamente di garantire il lavoro garantendo, in tal modo, una base di giustizia: si tratta, anche, di garantire la scelta del lavoro più rispondente alla propria vocazione.
È questo ciò che oggi, anzitutto, chiedono coloro che sono alla ricerca di una prima occupazione: chiedono di lavorare sulla base dei propri interessi e della propria formazione.
Si tratta di una domanda che riguarda la qualità del lavoro, piuttosto che la sua quantità.
Si tratta di una domanda che oggi non sempre trova risposta, soprattutto perché vi è, almeno in Italia, una ormai compiuta separazione fra momento della formazione e momento del lavoro.
Si rischia di considerarli due realtà impermeabili, nonostante tutti gli sforzi che si fanno per metterli in relazione.
La scuola, da una parte, non prepara più, adeguatamente, al lavoro; e il lavoro, soggetto a un'incessante trasformazione, richiede dal canto suo una formazione continua.
In questo quadro di disarticolazione di formazione e lavoro si finisce, dopo un po', per prendere il primo lavoro che capita, magari sperando una migliore opportunità per il futuro.
Il lavoro diventa così puro dovere.
È compiuto per dovere, è sentito come un'imposizione, diventa sempre più gravoso e faticoso, è fatto perciò controvoglia.
Lo vediamo in molti casi.
Ma c'è un altro aspetto, un altro senso del dovere che qui s'incontra, e che viene sovente dimenticato.
Il lavoro è impegnativo non solo perché è faticoso, ma perché può essere fatto bene o male.
C'è anzi quel dovere di far bene il proprio lavoro che è insito in ogni professione e, talvolta, è pure prescritto da ciascuna di esse.
In qualche caso, addirittura, ciò è sancito dai codici di autoregolamentazione che le varie professioni si danno e che, appunto nella misura in cui stabiliscono i doveri di chi opera in quell'ambito professionale, si chiamano « codici deontologici ».
Sono appunto questi doveri legati al far bene il proprio mestiere che oggi, molto spesso, vengono dimenticati.
Ma, più ancora di questi doveri settoriali, deontologici, ci sono altri doveri: doveri al cui rispetto è chiamato chiunque, con il suo lavoro, si rapporti ad altre persone.
Si tratta di obblighi propriamente morali: il rispetto nei confronti dell'altro, la responsabilità che mi posso assumere nei suoi confronti.
Ecco i doveri che vanno al di là di un determinato lavoro, ma che il lavoro stesso, in quanto attività, chiama necessariamente in causa: chiamando in causa ciascuno di noi, in quanto uomo, nella sua specifica responsabilità di fronte agli altri.
Responsabilità, sul piano del lavoro, significa anche responsabilità riguardo all'attuazione delle pari opportunità lavorative.
E qui, di nuovo, il discorso sul lavoro s'incrocia con quello sulla cittadinanza.
Vi sono infatti categorie di cittadini per i quali il diritto al lavoro è messo in questione, come abbiamo visto.
Vi sono persone per le quali l'esercizio stesso di questo diritto è oltremodo difficile: pensiamo al divario nord-sud sul piano dell'occupazione; pensiamo alla questione del lavoro femminile.
Ancora: vi sono uomini e donne, come ad esempio i cittadini extracomunitari, che molto spesso possono ottenere un lavoro solo rinunciando alle tutele normalmente garantite e accettando una condizione di sfruttamento, che trasforma il lavoro, non più regolamentato, in qualcosa d'altro.
Di fronte a tutto questo, certo, i cristiani non possono restare indifferenti.
2.3. Abbiamo parlato di lavoro come mezzo e di lavoro come scopo; di lavoro come diritto e di lavoro come dovere.
Ma hanno senso questi discorsi oggi?
Hanno forse senso in una situazione, come quella italiana, in cui il lavoro, come abbiamo visto, sta subendo una radicale trasformazione, in cui il lavoro sovente manca, in cui viene talora negato come possibilità di realizzazione umana?
Hanno senso in un contesto nel quale, sempre di più, il lavoro è sperimentato nella sua fragilità?
Incontriamo qui, più precisamente, due altre esperienze, quella del lavoro precario e quella del lavoro stabile.
Le possiamo esemplificare, immediatamente, con le figure dell'operatore del call-center e dell'impiegato statale.
Il primo vive in un'insicurezza di fondo, con ritmi molto intensi e condizioni lavorative certo non ottimali, in una situazione che non gli consente di fare progetti e di costruirsi un futuro.
Il secondo rischia a volte di trasformare le tutele in privilegi e di dover fare affidamento solo sul suo senso di responsabilità per giustificare una reale produttività lavorativa.
Certo: oggi il lavoro stabile sembra sempre più un miraggio, e sempre più si diffonde, anche attraverso romanzi e film, il mito del precario ( addirittura canonizzato come San Precario ) che però, così come romanzescamente ci viene proposto, è appunto un mito.
Anche qui, infatti, ci vuole il giusto discernimento e l'opportuno equilibrio nei giudizi.
Si tratta infatti di prendere atto della necessità di corrispondere con la dovuta flessibilità alle attuali trasformazioni del mercato del lavoro e alle mutate esigenze della produzione.
Ma si tratta altresì di non fraintendere ideologicamente, in nessun senso, la flessibilità che oggi viene richiesta.
Flessibilità, infatti, non significa soltanto ed esclusivamente precarietà.
Flessibilità significa anche possibilità di cogliere nuove opportunità lavorative.
In quanto tale non è sinonimo di insicurezza.
Il lavoro che manca, oggi, non è semplicemente lavoro negato.
E come tale non è solamente segno di una mancanza di futuro, che porta inevitabilmente alla disperazione.
Il lavoro che manca, considerato più a fondo, è la messa in discussione del senso stesso della nostra vita; è il rischio che venga meno la nostra capacità di realizzarci in rapporto con gli altri e con il mondo, all'interno di un più ampio contesto temporale caratterizzato dalla scansione di momenti feriali e di momenti di festa.
Se la mancanza di lavoro fosse solo il segnale di un'assenza di futuro, se si dovesse solamente prendere atto che, per noi e per i nostri figli, il lavoro è precario, quando non addirittura manca del tutto, e che perciò esso, invece che occasione di soddisfazione e di realizzazione, è invece fonte inevitabile di insicurezza e di disagio, resterebbe allora un'unica possibilità alternativa: quella, appunto, di rinunciare al lavoro come elemento di realizzazione della vita mia e altrui, di raggiungimento di un'autonomia e di un'autosufficienza economica, capace di fornire un ruolo nella società e di consentire la formazione di una famiglia.
Meglio sarebbe, invece, restare nella propria famiglia d'origine, coltivare altri rapporti altrettanto precari ( ad esempio su di un piano sentimentale ), evitare di crescere.
È il risultato, paradossale, della nostra cultura di stampo illuministico, che è basata sul culto dell'autonomia e che rischia, invece, di renderla impossibile.
È la scelta che fanno, volenti o nolenti, molte persone giovani.
Ma con ciò, nonostante sembri che tutto sia ozio e festa, subentra l'indifferenza e il vuoto, e la speranza, di fatto, viene messa fra parentesi.
Ma com'è vissuta oggi la festa?
Anche in questo caso vorrei mettere in evidenza tre aspetti.
Si tratta della festa come tempo per me e come tempo per altri e per altro, della festa, di nuovo, come diritto e come dovere; della festa come svago, ossia come divagazione e vacanza, e come momento di raccoglimento, di concentrazione.
Anche questi aspetti possiamo collegarli a tre ordini di immagini, a tre tipi di icone.
Prima tuttavia di analizzare i modi della festa e le loro icone vorrei segnalare, come premessa, un punto specifico.
Se è importante, come ha ricordato recentemente Papa Benedetto XVI, che i cristiani si rapportino alle cose del mondo in maniera anzitutto propositiva e non già proibitiva, cogliendo le opportunità e non soltanto i limiti connessi a certi comportamenti, allora la dimensione della festa, in questo quadro, gioca davvero un ruolo decisivo.
I cristiani sono coloro infatti che sanno vivere la festa, che la sanno vivere davvero, e che sono capaci di rapportarsi al creato, di contemplarlo e di goderlo come se esso tutto fosse una festa e un'occasione di festa.
I cristiani, in altre parole, sono coloro che vivono festosamente la festa.
Questo è ciò che possiamo sperimentare, questo è ciò che possiamo comunicare.
3.1. Ma, appunto, in che modo sperimentiamo oggi la festa?
Iniziarne con un primo aspetto della questione: festa intesa come un tempo che mi prendo per me o come un tempo in cui mi dedico ad altro e ad altri.
Pensiamo per esempio al ragazzo, all'adolescente, chiuso nella sua stanza, chiuso in se stesso e al mondo, magari con le cuffie alle orecchie.
E pensiamo invece a chi, nel tempo di festa, nel tempo di vacanza, si dedica a un hobby ( si apre al mondo ), si rende disponibile per la famiglia e per gli amici ( si rivolge agli altri, ad esempio con un'attività di volontariato ), si prende tempo per quell'altro che è Dio ( ad esempio nelle forme di apertura assoluta che sono la preghiera e il culto, il rito e la liturgia ).
Non bisogna considerare in termini soltanto negativi il primo modo d'intendere la festa.
Anzi, esso è ben comprensibile, se viene considerato come la pausa rispetto a un tempo troppo pieno, a un lavoro troppo alienante, a una serie d'impegni troppo gravosi.
Dobbiamo prenderci tempo per noi stessi, ogni tanto, anche se vogliamo continuare a dedicarci agli altri.
Quello animato dall'agape, dall'amore come dono di sé, non può essere un comportamento esclusivo, costante, altrimenti si rischia, alla fine, di non aver più niente da dare.
La pausa, lo stacco, però, non possono a loro volta essere assolutizzati, altrimenti diventano vuoti, senza scopo.
Di più: altrimenti io stesso perdo la mia identità.
La mia identità, infatti, non può prescindere dal rapporto con gli altri, non può non svilupparsi se non in una relazione.
L'aspetto centrale di questo vivere il mio tempo come tempo per gli altri può anche essere sintetizzato in una parola: sovvenire.
« Sovvenire » significa insieme ricordarci degli altri e venire loro incontro.
Significa che qualcosa, da altrove, mi viene incontro e mi muove verso altre relazioni.
Ecco perché diciamo che il ragazzo, nel chiuso della sua cameretta e con le cuffie alle orecchie, è un individuo ancora immaturo: perché non si mette in gioco, perché non vive davvero, in quanto non vive con e per gli altri, in tal modo formando la sua identità; perché in ultima analisi - nonostante l'abbondante tempo vuoto che ha a disposizione - non è in grado neppure di vivere l'esperienza della festa.
La festa infatti non è qualcosa che si consuma.
Nell'attuale società del consumo siamo abituati a rapportarci alle cose, agli uomini, alle esperienze che possiamo fare in termini di consumo e di assimilazione.
Il che significa: siamo abituati a comportarci come se tutto ruotasse intorno a noi stessi e fosse esclusivamente destinato a una nostra fruizione.
Tutto: anche il tempo della festa.
C'è il rischio, insomma, di lavorare per consumare e di consumare per lavorare.
Comprendiamo allora perché è mutato anche il modo di vivere le feste religiose, capiamo perché si è trasformato, ad esempio, il tempo del Natale.
Tutto qui è diventato occasione di shopping, di regali scambiati; il tempo viene soprattutto impiegato a questo scopo; il tempo è ciò che appunto in questo modo viene consumato.
Ed è proprio una tale prospettiva, che ormai si è imposta, che ormai pare condivisa, ciò che fa sì che la festa finisca per configurarsi non solo come un diritto, ma anche come un dovere: il dovere, ad esempio, di divertirsi a tutti i costi.
3.2. Ecco allora emergere altri due aspetti della festa: la festa considerata appunto come un diritto e la festa intesa invece come dovere.
Anche questi modi di vivere la festa devono però essere compresi giustamente.
Il riposo è ormai un diritto acquisito.
Biblicamente, come sappiamo, il modello qui è quello del settimo giorno della creazione.
Ma il diritto al riposo della festa non può essere inteso semplicemente come diritto all'interruzione, come pausa dal lavoro e rispetto al lavoro.
C'è anche questo, certo. E ben comprendiamo le istanze di quei lavoratori - ad esempio le commesse - che si ribellano alla prospettiva di lavorare sette giorni su sette, ma questo è solo un punto di partenza.
Perché lo si può fraintendere; si può ritenere infatti che questa esigenza di rispetto della festa sia dettata soltanto da motivi di comodità.
E ciò accade perché, se si considera la festa unicamente come astensione dal lavoro, la si concepisce solo in termini negativi.
Invece, positivamente, la festa è tempo per: per fare quelle cose che nel tempo ordinario non si riescono a fare; per realizzare ciò in cui la vita quotidiana può trovare il proprio compimento.
In una parola: per rigenerare il proprio spirito e - perché no? - anche il proprio corpo.
Ma, appunto, nella maniera giusta.
La pratica di uno sport, se viene compiuta in modo equilibrato, se cioè non diviene sostitutiva di ogni altra forma di relazione, serve anche a questo.
In quest'ottica positiva può allora essere compreso il senso del precetto di santificare la festa.
Dobbiamo intenderci, però: non si tratta di un mero dovere, di un puro obbligo che si contrappone, con la sua insensata normatività, al diritto che noi abbiamo di disporre del nostro tempo, tanto più se questo è un tempo di festa.
Si tratta invece dell'occasione che ci viene offerta di dare senso, di dare provvisorio compimento allo scorrere del tempo feriale; si tratta di riconoscere che quest'ultimo, il tempo feriale, è un tempo ordinato, un tempo che manca di qualcosa se vuole pienamente realizzarsi e che ci chiama a trasfigurarlo, assumendolo in un'altra ottica, festosa e festiva.
Il precetto insomma - come dice il comandamento: « Ricordati di santificare le feste » - consiste anzitutto nell'invito a ricordare che il tempo non è tutto omogeneo, tutto uguale, e che c'è un tempo santo che ci chiama alla sua santificazione.
3.3. Bisogna dunque intenderci.
La festa è tempo di svago, è, letteralmente, vacanza: tempo vuoto, vacante, rispetto alle incombenze quotidiane.
Si tratta di un tempo che può essere adeguatamente riempito, ad esempio attraverso le varie attività connesse al turismo.
Si apre qui tutta la dimensione di una pastorale del turismo: che risulta attività indispensabile, specialmente in certi luoghi e in certi momenti dell'anno, e che richiede forme di annuncio particolari.
Ma la festa non è solo un'occasione di svago.
Già gli antichi consideravano l'otium non semplicemente come ozio, come inattività, ma come occasione per altre forme di agire.
Più ancora: non tanto come occasione per altre forme di agire, nelle quali sperimentiamo altre possibilità del nostro essere e ci dedichiamo a esse, quanto, anche e soprattutto, come opportunità di ritornare a noi stessi, di evitare la dispersione quotidiana, di recuperare concentrazione e raccoglimento.
Ecco perché, accanto alle vacanze al mare e in montagna, sono dette vacanze anche quelle che si passano nei monasteri.
La festa è infatti il tempo in cui possiamo recuperare il nostro tempo, senza farci assorbire dalle incombenze quotidiane, ma anzi distaccandoci da esse e guardandole con occhio nuovo.
Ce lo ha ricordato proprio di recente in un Angelus di fine agosto ( precisamente del 20 agosto 2006 ) Papa Benedetto.
Ma anche qui bisogna fare attenzione.
Il ritorno a sé ( di agostiniana memoria ), la concentrazione e il raccoglimento che il dì di festa favorisce non possono essere intesi come qualcosa di individuale, di soggettivo.
Anche questo è solo un aspetto parziale della questione.
Infatti il raccoglimento fa sì che colui che si raccoglie in se stesso scopra, proprio in sé, il suo carattere relazionale.
Ma insieme fa sì che egli scopra che questo raccoglimento, questa concentrazione si realizzano nel modo migliore se vengono vissuti insieme con gli altri.
Ecco perché la festa è sempre festa comunitaria e festa della comunità.
Anzi: essa rivela, più precisamente, la comunità in festa.
Ed ecco perché il vero soggetto della festa non sono io, ma siamo noi.
Con tutto il carico di legami, con tutto l'investimento di affettività che questa dimensione comunitaria comporta.
Abbiamo dunque descritto alcuni dei modi in cui possiamo vivere, nel mondo di oggi, il lavoro e la festa.
Abbiamo visto quanti e quali significati possono assumere queste esperienze decisive e centrali.
Il lavoro può configurarsi, ad esempio, come mezzo o come scopo, come diritto o come dovere, come precario o come stabile.
La festa può a sua volta essere intesa come tempo per me o come tempo per altro ( e come tempo per altri ), come diritto, di nuovo, o come dovere ( cioè come precetto ), come opportunità di svago o come occasione di raccoglimento.
E poi abbiamo visto già, seppur implicitamente, in che modo questi aspetti, queste figure del lavoro e della festa s'intrecciano l'una con l'altra, si rimandano reciprocamente.
Ci restano tuttavia alcune cose importanti da fare, come ulteriori tappe della nostra riflessione comune: ci resta da chiarire meglio, esplicitamente, la relazione di lavoro e festa; ci resta da definire cioè il carattere temporale che è proprio di questa relazione; ci resta da avviare, soprattutto, un'ulteriore riflessione, che si svilupperà nel lavoro di gruppo, su quella che può essere, oggi, la specifica proposta cristiana in merito.
Cominciamo con la prima questione: come viene vissuta oggi la relazione di lavoro e festa?
Lo abbiamo in parte già visto: si tratta di una relazione che viene sovente negata.
Si nega cioè che l'uno o l'altro dei due termini, il lavoro o la festa, abbia un'effettiva rilevanza, e che quindi debba davvero rapportarsi all'altro in maniera corretta.
Oggi viviamo infatti in un'epoca in cui molti credono che tutto sia lavoro, e molti altri credono che tutto sia festa.
Ci sono quelli che non smettono mai di lavorare: o perché non possono farne a meno ( in quanto sono costretti, ad esempio, dalle condizioni di flessibilità del lavoro, e dunque una tale situazione è loro imposta ) o perché non vogliono farne a meno ( in quanto sono dominati dalla ricerca del profitto o in quanto non riescono a smettere di lavorare ).
E in parallelo ci sono quelli per cui non solamente la festa è tutto, è un valore sopra ogni cosa, ma per cui in special modo tutto è festa: una festa per lo più senza obblighi, un tempo di disimpegno e di ozio che deve essere lasciato vuoto, e che sovente, proprio in quanto tempo vuoto, pesa.
Non è difficile trovare esempi, in una stessa famiglia, di questi atteggiamenti contrastanti.
Possiamo pensare al padre che fa del lavoro la sua religione ( quanti esempi di questo atteggiamento, qui nel nord-est! ), e che lo fa, almeno così dice, per « lasciare qualcosa » ai figli.
Ma, lavorando senza interruzioni, questo padre i suoi figli non li vede mai, non li vede crescere e così non cresce insieme con loro, e i figli a loro volta sentono la sua assenza.
Perciò, lungi dal costituire un esempio di vita, il modello del « padre indefesso lavoratore » provoca reazioni di rigetto.
I figli rivendicano il loro essere oziosi: tanto non devono lavorare per sopravvivere.
E allora semplicemente godono, e magari sperperano, ciò che il padre ha guadagnato con il suo sacrificio.
Ma ne il padre ne i figli, in verità, sono appagati.
Non tanto perché i secondi distruggono quello che il primo ha costruito e non costruiscono nulla a loro volta, quanto perché il padre, prima o poi, finisce per domandarsi che scopo ha, davvero, tutto il suo lavorare; e perché i figli, pur godendo del benessere accumulato dal padre, sono frustrati, in quanto un tale benessere non è prodotto da loro, non è frutto del loro lavoro.
Parlo di « padri », naturalmente, perché io stesso sono padre.
Ma potrei proporre lo stesso esempio declinato al femminile.
Potrei parlare del lavoro incessante di quelle madri per cui oggi il lavoro, sia fuori casa che dentro casa, è visto come un obbligo indifferenziato, a cui corrispondono le pretese di quei figli per i quali tutto appare dovuto e mai sufficiente.
In ogni caso questi due esempi - esempi di una situazione banale ma oltremodo diffusa nella nostra società, in cui i figli vivono o sono costretti a vivere alle spalle dei genitori - ci mostra due cose.
Ci fa vedere anzitutto quanto sia necessario l'opportuno equilibrio, il giusto discernimento nel rapporto fra lavoro e festa.
Ripeto: lavoro e festa sono ambedue importanti.
Certo, ci sono momenti in cui può anche essere indispensabile dedicarsi totalmente e in maniera assorbente al lavoro, così come, in altri momenti, nei momenti di grazia, tutto nella nostra vita può apparire una festa.
Ma si tratta appunto di momenti, che sono da inserire all'interno di una scansione temporale ben precisa.
È questa la scansione del tempo cristiano. Su cui tornerò fra breve.
La seconda cosa poi che viene messa in luce dal nostro esempio del padre lavoratore e dei figli oziosi - e da quello della madre che cerca di venire incontro, con la sua attività, alle pretese di tutti - è data dall'indicazione di un particolare modo, alquanto diffuso, in cui oggi viene vissuta la relazione fra lavoro e festa.
Si tratta di una relazione, come dicevo, che in fondo viene negata: è una relazione di indifferenza.
E ciò non rischia di accadere solamente per questa relazione, ma per ogni tipo di rapporto che ci può interessare, che ci può coinvolgere.
Oggi, infatti, sembra che tutto quello che possiamo incontrare nella nostra vita sia uguale, prevedibile, sempre già noto.
Ci inducono a crederlo i mezzi di comunicazione di massa, che tutto vogliono esibire e non lasciano spazio per il mistero.
Ecco allora che non ci stupiamo più di nulla, e che nulla è in grado davvero di attirarci.
Insomma: non c'è niente che meriti davvero attenzione, non c'è nessuna cosa che richieda veramente lo sforzo di rapportarci a essa, dal momento che tutto finisce per raccogliere solo disinteresse.
Lo stesso accade, a ben vedere, nel rapporto tra lavoro e festa.
Sempre più, come ho detto, si confondono queste due esperienze.
Sempre più l'una sembra poter fare a meno dell'altra.
Rischiamo di perdere il senso del lavoro e il senso della festa, proprio nella misura in cui perdiamo di vista la loro relazione.
Lo abbiamo appena visto: rischiarne di essere analfabeti in questi due ambiti, e di dover di nuovo imparare che cosa significa davvero lavorare, che cosa significa davvero fare festa.
Dobbiamo allora recuperare, insieme alla loro relazione, il vero e proprio ritmo che scandisce questi due modi del nostro vivere.
In che modo lo possiamo fare? Lo possiamo fare recuperando una specifica concezione del tempo, una concezione che è propriamente cristiana, ma che da tutti può essere condivisa, giacché parlare di ritmo, qui, significa appunto parlare del tempo.
E solo recuperando un'adeguata concezione del tempo può essere eliminato il pericolo dell'indifferenza; solo così può essere dato senso al vivere comune, che rischia altrimenti di essere ridotto a un'unica dimensione.
Il cristiano, infatti, vive in una duplice dimensione temporale: vive un tempo circolare, ciclico, e un tempo lineare, orientato.
Per lui le due immagini temporali offerte dalla tradizione, quella del cerchio e quella della freccia, non sono giustapposte, ma si integrano reciprocamente.
La prima immagine, la prima significazione del tempo, è infatti quella che caratterizza l'anno liturgico, come cammino specifico e ricorrente della vita di una comunità di fede.
Qui, ancora una volta, il protagonista non è l'io, ma il noi.
Ed è in questo ricorso circolare che la festa trova la sua piena collocazione temporale.
Essa è non solo l'apice che interrompe lo scorrere del tempo feriale, ma appunto il compimento di questo tempo, nella correlazione di esodo e di avvento di cui essa è testimonianza.
Una tale concezione del tempo, tuttavia, è inserita per il cristiano ( a differenza di quanto avviene per il greco e anche per l'ebreo, ma soprattutto di quanto accade per il musulmano ) in una dimensione più ampia, anch'essa temporale.
Si tratta del tempo del cammino, del tempo del pellegrinaggio: un cammino che va dalla prima alla seconda venuta del Signore.
È dunque un tempo delimitato ( nella misura in cui collega incarnazione e redenzione ) e, soprattutto, è un tempo lineare, caratterizzato da una ben precisa direzione.
È, ad esempio, il tempo del lavoro, nella misura in cui questo risulta sempre orientato verso uno scopo.
Perciò esso viene sovente simboleggiato da una freccia.
Si tratta però di una freccia, volendo usare ancora questa immagine, che non indica qualcosa che rimane nel suo stesso orizzonte, qualcosa che risulta situato su di un piano orizzontale.
Il cammino temporale trova infatti la sua realizzazione in un evento che non è affatto temporale e che trascende proprio questo orizzonte, mettendolo sotto giudizio.
Ciò che è temporale scopre così il suo nesso profondo con l'eterno.
E il cristiano può guardare al suo tempo anche da straniero, come dice la Prima lettera di Pietro, e non farsi assorbire da esso.
Nell'esperienza cristiana del tempo, insomma, circolo e linea, ritorno ciclico e percorso direzionato non risultano l'un l'altro contrapposti, come alcuni studiosi hanno sostenuto, ma si trovano invece intimamente uniti.
Questo è infatti il carattere specifico del tempo cristiano: il fatto che la ciclicità non è chiusura in sé, non è segno di indifferenza e di disinteresse nei confronti di ciò che in essa non è ricompreso, ma è piuttosto funzione, in quanto tale, di un'effettiva apertura ad altro.
E quest'apertura è appunto resa possibile dall'innesto del tempo circolare entro il tempo lineare.
Ciò rende possibile quella particolare cadenza che è propria del tempo cristiano.
Non si tratta di un tempo sempre uguale, indifferenziato, ma di un tempo di occasioni.
Si tratta di un tempo di attesa di ciò che può accadere da un momento all'altro ( come viene detto nella 1 Ts 5 ).
Si tratta di un tempo differenziato e differenziante, di un tempo di relazione, all'interno del quale possono sempre realizzarsi « piccole risurrezioni ».
Ecco perché proprio questo tempo è il luogo deputato della testimonianza.
Il testimone è colui, infatti, che tiene vive, per sé e per la comunità, le differenze all'interno del tempo.
Il testimone è colui che, nel presente, trova la radice del passato, suo e della sua comunità, e si apre, a partire da qui, al futuro.
Il testimone, in altre parole, è sempre testimone della speranza e nella speranza.
Ecco, allora, che cosa possiamo proporre in sintesi.
Dobbiamo recuperare, nel caso del lavoro e nel caso della festa, i diversi significati che sono propri di questi accadimenti, i diversi modi in cui essi possono essere vissuti, onde evitare l'appiattimento nell'indifferenza e nell'alienazione.
Così facendo, scopriamo il loro legame, il ritmo che li contraddistingue.
Si tratta di un ritmo che ha il suo senso in una specifica concezione del tempo: una concezione del tempo che è propria del cristianesimo, ma che può essere condivisa universalmente.
Ne abbiamo accennato: è la concezione di un tempo capace di operare differenze e di far sperimentare, nel suo alveo, possibilità di senso; è la concezione, per esprimerci in un linguaggio cristiano, nella quale il tempo liturgico, circolare, con la sua specifica idea di festa, è inserito nel cammino del popolo di Dio verso la redenzione.
Ed è appunto all'interno di questa concezione del tempo che possiamo comprendere e mettere in opera le parole chiave che indicano la direzione del nostro convegno: « Testimoni di Gesù risorto, speranza del mondo ».
Concludo. Alla fine di questo percorso, di questa descrizione del lavoro e della festa, e di questa considerazione del tempo, del tempo cristiano, come ambito nel quale può essere sperimentato il senso di ogni nostra attività, feriale e festiva, posso tentare di indicare alcuni spunti per il nostro lavoro comune di questi giorni.
Si tratta di spunti che tengono conto, anche e soprattutto, degli approfondimenti e del dibattito preparatorio compiuto a livello sia diocesano che nazionale.
In particolare vorrei segnalare questi aspetti, sotto forma di domande:
- in che modo la concezione cristiana del tempo può essere concretamente recuperata e messa in opera nell'esperienza quotidiana della testimonianza?
E come la testimonianza può essere assunta come vero trait d'union temporale, nella misura in cui essa si attua nel presente, si ricollega alla tradizione ( Testamentum ) e fa segno verso il futuro?
- In che modo poi, avendolo imparato noi stessi, possiamo a nostra volta insegnare il senso del tempo e il senso della festa, nella misura in cui questa non può essere semplicemente ridotta a « tempo libero »?
In che modo, soprattutto, si può recuperare il senso dell'attività lavorativa, nella complessa situazione italiana che abbiamo descritto?
Come possiamo fare i conti con le fragilità dei rapporti lavorativi e con le richieste di un pieno esercizio della cittadinanza, che alla dimensione del lavoro si ricollega?
- In che modo tutto ciò può essere vissuto non già a livello individuale, ma come esperienza della comunità, e di una comunità consapevole dei legami che la uniscono?
- In che modo nell'esperienza del tempo cristiano, come ritmo di lavoro e di festa, può essere recuperata la gioia della festa, ma anche la gioia del lavoro?
Si badi bene: dico « gioia » e non « piacere ».
Credo infatti che si debba distinguere la nozione di « piacere », come ciò che interviene a interrompere momentaneamente un tempo omogeneo e disorientato, e che viene incontro a un bisogno individuale, da quelle di « gioia » o, anche, di « felicità », le quali si danno in quel tempo che cresce e si alimenta nell'incontro con le differenze.
- In che modo il tempo può essere davvero vissuto come esperienza della relazione fra differenti?
Si tratta di una relazione in cui il legame non viene negato, ma anzi risulta propriamente possibile in virtù delle differenze incarnate da coloro che stanno appunto in questa relazione.
E, in una tale prospettiva, il tempo, inteso come luogo in cui avviene la differenziazione, offre lo sfondo nel quale, in maniera creativa, può realizzarsi sempre e di nuovo l'incontro fra persone, cioè la vera esperienza come esperienza di altro.
- In che modo, infine, questo discorso sul tempo, come orizzonte della scansione di lavoro e festa, può costituire anche lo sfondo per l'esperienza della speranza e per la sua effettiva messa in opera?
Da questo punto di vista, infatti, la speranza è un'apertura al futuro che non si configura in termini generici, ma che si rende disponibile propriamente per un incontro personale: un incontro con altri e con altro.
Il che vuol dire: la speranza stessa si definisce come una relazione non indifferente - cioè affettivamente impegnata - con l'alterità, in grado di dar senso alla vita e d'introdurre differenze nella vita stessa.
Ebbene, se le cose stanno così, come vivere e incarnare oggi questa speranza, nel lavoro e nella festa?
Questi e altri ancora, certamente, sono gli interrogativi che potranno guidare le nostre riflessioni di questi giorni.
Si tratta, lo ripeto, di riflessioni comuni, compiute per uno scopo che è e rimane comune.
Il nostro fine, infatti, è quello non già di fare un convegno sulla speranza, ma di vivere, com'è stato detto, un vero evento di speranza.
Si tratta di un compito che, in quanto lo sperimentiamo come compito comune, si configura tanto come il risultato di un impegnato lavoro quanto come l'occasione di una festa condivisa.
Una festa che tutti insieme, con gioia, siamo chiamati qui a celebrare.
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