Ginevra - Martedì, 10 giugno 1969
Signor Presidente, Signor Direttore Generale, Signori,
È per Noi un onore e una gioia partecipare ufficialmente a questa Assemblea, nell'ora solenne in cui l'Organizzazione Internazionale del Lavoro celebra il cinquantesimo anniversario della sua fondazione.
Perché siamo qui?
Noi non apparteniamo a questo organismo internazionale.
Noi siamo estranei alle questioni specifiche, che trovano qui i loro uffici di studio e le loro sale di delibazione, e la Nostra missione spirituale non intende intervenire al di fuori del proprio dominio.
Se Noi siamo qui, è, Signor Direttore, per rispondere all'invito che voi Ci avete così amabilmente rivolto.
E Noi siamo felici di ringraziarvene pubblicamente, di dirvi come Noi abbiamo apprezzato questo atto così cortese, come Noi ne misuriamo la importanza, e di quale valore Ci appare il suo significato.
2. Senza particolare competenza nelle discussioni tecniche sulla difesa e la promozione del lavoro umano, Noi non siamo tuttavia per nulla estranei a questa grande causa del lavoro, che costituisce la vostra ragion d'essere, e alla quale voi consacrate le vostre energie.
Fin dalla sua prima pagina, la Bibbia di cui Noi siamo il messaggero ci presenta la creazione come originata dal lavoro del Creatore ( cfr. Gen 2,7 ) e affidata al lavoro della creatura, il cui sforzo intelligente deve metterla in valore, perfezionarla per così dire nell'umanizzarla, al suo servizio ( cfr. Gen 1,29 e Populorum progressio, 22 ).
Così il lavoro è, secondo il pensiero divino, l'attività normale dell'uomo ( cfr. Sal 104,23 ed Sir 7,15 ), e rallegrarsi e gioire dei suoi frutti un dono di Dio ( cfr. Qo 5,18 ), giacché ciascuno è naturalmente retribuito secondo le sue opere ( cfr. Sal 62,13 e Sal 128,2; Mt 16,27; 1 Cor 15,58; 2 Ts 3,10 ).
In tutte queste pagine della Bibbia, il lavoro appare come un dato fondamentale della condizione umana, al punto che, divenuto uno di noi ( cfr. Gv 1,14 ), il Figlio di Dio è divenuto anche allo stesso tempo un lavoratore, che si designava naturalmente nel suo ambiente con la professione dei suoi.
Gesù è conosciuto come « il figlio del carpentiere » ( Mt 13,55 ).
Il lavoro dell'uomo acquistava da ciò i più alti titoli di nobiltà che si potessero immaginare, e voi li avete voluti presenti al posto d'onore, nella sede della vostra Organizzazione, con questo mirabile affresco di Maurice Denis consacrato alla dignità del lavoro, dove il Cristo annunzia la Buona Novella ai lavoratori che lo circondano, figli di Dio anch'essi e tutti fratelli.
Se non è compito Nostro evocare la storia, che ha visto nascere e affermarsi la vostra Organizzazione, Noi non possiamo per lo meno passare sotto silenzio, in questo Paese ospitale, l'opera di pionieri come Mons. Mermillod e l'Unione di Friburgo, l'ammirabile esempio dato dall'industriale protestante Daniel Le Grand, e la feconda iniziativa del cattolico Gaspard Decurtins, primo germe di una Conferenza internazionale sul lavoro.
Come potremmo Noi anche dimenticare, Signori, che il vostro primo direttore desiderava, per il 40° anniversario dell'enciclica di Leone XIII sulle condizioni del lavoro, rendere omaggio agli operatori tenaci della giustizia sociale, e tra gli altri quelli che si rifanno all'enciclica Rerum novarum ( citato da A. Le Roy, Catholicisme social et Organisation Internationale du Travail, Park, Spes, 1937, p. 16 ).
E, facendo il bilancio di « Dieci anni di Organizzazione Internazionale del Lavoro », i funzionari dell'organismo Internazionale del Lavoro non esitavano a riconoscerlo: « Il grande movimento nato, nel seno della Chiesa Cattolica, dall'enciclica Rerum novarum, ha provato la sua fecondità » ( Dix ans d'organisation Internationale du Travail, Genève, BIT 1931, p. 461 ).
La simpatia della Chiesa per la vostra Organizzazione, come per il mondo del lavoro, non cessava fin da allora di manifestarsi, e particolarmente nell'enciclica Quadragesimo anno di Pio XI ( Enc. Quadragesimo anno, n. 24, 15 maggio 1931 ), nell'allocuzione di Pio XII al Consiglio d'Amministrazione dell'organismo Internazionale del Lavoro ( Allocuzione del 19 novembre 1954 ), nella enciclica Mater et Magistra di Giovanni XXIII che esprimeva il suo « cordiale apprezzamento per l'OIT … per il suo valido e prezioso contributo alla instaurazione nel mondo di un ordine economico-sociale informato a giustizia ed umanità, nel quale trovano la loro espressione anche le istanze legittime dei lavoratori » ( Enc. Mater et Magistra, n. 103, 15 maggio 1961 ).
Noi stessi avevamo la gioia, al termine del Concilio ecumenico Vaticano secondo, di promulgare la Costituzione pastorale Gaudium et spes elaborata dai Vescovi del mondo intero.
La Chiesa vi riafferma il valore del « gigantesco sforzo dell'attività umana individuale e collettiva », la prevalenza del lavoro degli uomini sugli « altri elementi della vita economica, che non hanno valore che di strumenti », con i diritti imprescrittibili e i doveri che richiede un tale principio
( Cost. Past. Gaudium et spes, n. 34, 7 dicembre 1965 e
nn. 67-68 ).
La Nostra enciclica Populorum progressio, infine, si è adoperata a far prendere coscienza che « la questione sociale è diventata mondiale », con le conseguenze che ne derivano per lo sviluppo integrale e solidale dei popoli, lo sviluppo che è il « nuovo nome della pace » ( Enc.
Populorum progressio, n. 3, 26 marzo 1967
e n. 76 ).
Ve lo diciamo: Noi siamo un osservatore attento dell'opera che voi svolgete qui, di più, un ammiratore fervente dell'attività che spiegate, un collaboratore anche, felice di essere invitato a celebrare con voi l'esistenza, le funzioni, le realizzazioni e i meriti di questa istituzione mondiale, e di farlo da amico.
E Noi non vogliamo dimenticare, in questa circostanza solenne, le altre istituzioni internazionali ginevrine, a cominciare dalla Croce Rossa, tutte istituzioni meritevoli e degne di elogi, alle quali Noi desideriamo estendere i Nostri saluti rispettosi e i Nostri voti ferventi.
Per Noi che apparteniamo ad una Istituzione posta da duemila anni di fronte all'usura del tempo, questi cinquanta anni instancabilmente dedicati alla Organizzazione Internazionale del Lavoro sono la sorgente di feconde riflessioni.
Tutti sanno che una tale durata è un fatto veramente singolare nella storia del nostro secolo.
La fatale precarietà delle cose umane, che l'accelerazione della civiltà moderna ha reso più evidente e più divorante, non ha scosso la vostra istituzione, al cui ideale Noi vogliamo rendere omaggio: « una pace universale e duratura, fondata sulla giustizia sociale » ( Constitution de l'OIT, Genève, BIT, 1968, Prefazione ).
La prova subita dal fatto della scomparsa della Società delle Nazioni, alla quale era legata organicamente, dal fatto anche della nascita della Organizzazione delle Nazioni Unite in un altro continente, invece di toglierle le sue ragioni d'essere, le ha al contrario fornito l'occasione, con la celebre dichiarazione di Filadelfia, 25 anni fa, di confermarle e di precisarle, radicandone profondamente nella realtà del progresso della società: « Tutti gli esseri umani, qualunque sia la loro razza, la loro fede o il loro sesso, hanno il diritto di raggiungere il loro progresso materiale e il loro sviluppo spirituale nella libertà e la dignità, nella sicurezza economica e con uguali possibilità » ( Ib. art. 2 ).
Di cuore Noi Ci rallegriamo con voi della vitalità della vostra cinquantenaria, ma sempre giovane istituzione, dalla sua nascita nel 1919 con il trattato di pace di Versailles.
Chi dirà i travagli, le fatiche, le veglie generatrici di tante decisioni coraggiose e benefiche per tutti i lavoratori, come per la vita dell'umanità, di tutti quelli che, non senza merito, le hanno consacrato con talento la loro attività?
Tra tutti, Noi non possiamo omettere di nominare il suo primo direttore, Albert Thomas, e il suo attuale successore, David Morse.
Noi non possiamo passare sotto silenzio il fatto che a loro richiesta, e quasi dalle origini, un sacerdote è sempre stato in mezzo a coloro che hanno costituito, costruito, sostenuto e servito questa insigne istituzione.
Noi siamo riconoscenti verso tutti per l'opera compiuta, e Noi auguriamo che essa prosegua felicemente la sua missione così complessa quanto difficile ma veramente provvidenziale, per il più gran bene della società moderna.
10. Voci meglio informate della Nostra diranno quale somma di attività l'Organizzazione Internazionale del Lavoro ha realizzato in cinquant'anni di esistenza, e quali risultati essa ha ottenuto con le sue 128 convenzioni e le sue 132 raccomandazioni.
Ma come non sottolineare il fatto primordiale di una importanza capitale che manifesta questa impressionante documentazione?
Qui - ed è un fatto decisivo nella storia della civiltà -, qui il lavoro dell'uomo è considerato degno di un interesse fondamentale.
Non fu sempre così, si sa, nella storia già lunga dell'umanità.
Si pensi alla concezione antica del lavoro ( cfr. per es. Cicerone, De Officiis, 1, 42 ), al discredito che lo circondava, alla schiavitù che portava seco, questa orribile piaga, che bisogna purtroppo riconoscere che non è ancora completamente scomparsa dalla faccia della terra.
La concezione moderna, di cui voi siete gli araldi e i difensori, è diversa.
Essa è fondata su un principio fondamentale che il cristianesimo, da parte sua, ha singolarmente messo in luce: nel lavoro è l'uomo che è il primo.
Che sia artista o artigiano, imprenditore, operaio o contadino, manovale o intellettuale, è l'uomo che lavora, è per l'uomo che egli lavora.
È dunque finita la priorità del lavoro sui lavoratori, la supremazia delle esigenze tecniche ed economiche sui bisogni umani.
Mai più il lavoro al di sopra del lavoratore, mai più il lavoro contro il lavoratore, ma sempre il lavoro per il lavoratore, il lavoro al servizio dell'uomo, di ogni uomo e di tutto l'uomo.
Come non sarebbe impressionato l'osservatore nel vedere che questa concezione si è precisata nel momento teoricamente meno favorevole a questa affermazione del primato del fattore umano sul prodotto del lavoro, al momento stesso della introduzione progressiva della macchina che moltiplica a dismisura il rendimento del lavoro, e tende a rimpiazzarlo?
Secondo una visione astratta delle cose, il lavoro eseguito ormai con la macchina e le sue energie, fornite non più dalle braccia dell'uomo, ma dalle formidabili forze segrete di una natura addomesticata, avrebbe dovuto prevalere, nella stima del mondo moderno, fino a far dimenticare il lavoratore, spesso liberato dal peso estenuante e umiliante di uno sforzo fisico sproporzionato al suo troppo debole rendimento.
Ma di fatto non è così.
Nell'ora stessa del trionfo della tecnica e dei suoi effetti giganteschi sulla produzione economica, è l'uomo che concentra su se stesso l'attenzione del filosofo, del sociologo e del politico.
Perché non c'è in definitiva vera ricchezza che quella dell'uomo.
Ora, tutti lo vedono, l'inserzione della tecnica nel processo dell'attività umana si farebbe a detrimento dell'uomo, se questi non ne rimanesse sempre il padrone, se non ne dominasse l'evoluzione.
Se « bisogna in tutta giustizia riconoscere l'apporto insostituibile dell'organizzazione del lavoro e del progresso industriale nell'opera dello sviluppo » ( Populorum progressio, n. 26 ), voi sapete meglio di qualunque altro i misfatti di quella che si è potuto chiamare la parcellizzazione del lavoro nella società industriale contemporanea ( cfr. per es. G. Friedmann, Où va le travail humain; e Le travail en miettes, Paris, Gallimard, 1950 e 1956 ).
Invece di aiutare l'uomo a diventare più uomo, lo disumanizza; invece di rasserenarlo, lo soffoca sotto una cappa di pesante noia.
Il lavoro rimane ambivalente, e la sua organizzazione rischia di spersonalizzare colui che lo compie, se questi, divenuto il suo schiavo, vi abdica intelligenza e libertà, fino a perdere la sua dignità
( cfr. Mater et Magistra, n. 83 e
Populorum progressio, n. 28 ).
Tutti lo sanno, il lavoro, sorgente di frutti meravigliosi quando è veramente creatore, può invece ( Es 1,8-14 ), trascinato nel ciclo dell'arbitrario, dell'ingiustizia, della rapacità e della violenza, divenire un vero flagello sociale, come testimoniano quei campi di lavoro eretti ad istituzione, che sono stati l'onta del mondo civile.
Chi dirà il dramma talvolta terribile del lavoratore moderno, dilacerato nel suo duplice destino di grandioso realizzatore, in preda troppo spesso delle intollerabili sofferenze di una condizione miserabile e proletaria, in cui la mancanza di pane si unisce alla degradazione sociale per creare uno stato di vera insicurezza personale e familiare?
Voi l'avete capito.
È il lavoro, in quanto fatto umano, primo e fondamentale, che costituisce la radice vitale della vostra Organizzazione, e ne fa un albero magnifico, un albero che estende i suoi rami nel mondo intero, per il suo carattere internazionale, un albero che è un onore per il nostro tempo, un albero la cui radice sempre fertile lo spinge ad una attività continua ed organica.
È questa stessa radice che vi proibisce di favorire interessi particolari, ma vi pone al servizio del bene comune.
È essa che costituisce la vostra genialità e la sua fecondità;
intervenire dappertutto e sempre per portare rimedio nei conflitti del lavoro, possibilmente prevenirli,
soccorrere spontaneamente gli infortunati,
elaborare nuove protezioni contro nuovi pericoli,
migliorare la sorte dei lavoratori, rispettando l'equilibrio oggettivo delle reali possibilità economiche,
lottare contro ogni segregazione generatrice di inferiorità, per qualunque motivo - schiavitù, casta, razza, religione, classe -,
in una parola, difendere, verso e contro tutti, la libertà di tutti i lavoratori,
far prevalere instancabilmente l'ideale della fraternità tra gli uomini, tutti uguali in dignità.
Tale è la vostra vocazione.
La vostra azione non riposa, né sulla fatalità di una implacabile lotta tra quelli che forniscono il lavoro e quelli che lo eseguono, né sulla parzialità di difensori di interessi o di funzioni.
È al contrario una partecipazione organica liberamente organizzata e socialmente disciplinata alle responsabilità e ai profitti del lavoro.
Un solo scopo: né il denaro, né il potere, ma il bene dell'uomo.
Più che una concezione economica, meglio che una concezione politica, è una concezione morale, umana, che vi ispira: la giustizia sociale da instaurare, giorno dopo giorno, liberamente e di comune accordo.
Scoprendo sempre meglio tutto ciò che richiede il bene dei lavoratori, voi ne fate prendere a poco a poco coscienza e lo proponete come ideale.
Di più, voi lo traducete in nuove regole di comportamento sociale, che si impongono come norme di diritto.
Voi assicurate così il passaggio permanente dall'ordine ideale dei principi all'ordine giuridico, cioè al diritto positivo.
In una parola voi affinate a poco a poco, fate progredire la coscienza morale dell'umanità.
Compito certamente arduo e delicato, ma così alto e necessario, che chiede la collaborazione di tutti i veri amici dell'uomo.
Come non gli apporteremmo Noi la Nostra adesione e il Nostro appoggio?
Sulla vostra strada, gli ostacoli da rimuovere e le difficoltà da superare non mancano.
Ma voi l'avevate previsto, e per farvi fronte siete ricorsi ad uno strumento e ad un metodo che potrebbero bastare da soli per l'apologia della vostra istituzione.
Il vostro strumento originale ed organico è di far convergere le tre forze che sono all'opera nella dinamica umana del lavoro moderno: gli uomini di governo, gli imprenditori e i lavoratori.
E il vostro metodo - ormai tipico paradigma -, è di armonizzare queste tre forze, di farle non più opporsi ( tra di loro ), ma concorrere « in una collaborazione coraggiosa e feconda » ( Allocuzione di Pio XII al Consiglio di Amministrazione del BIT., 19 novembre 1954 ), in un costante dialogo per lo studio e la soluzione di problemi sempre rinascenti e continuamente rinnovati.
Questa concezione moderna ed eccellente è degna di sostituire definitivamente quella che ha infelicemente dominato la nostra epoca: concezione dominata dall'efficacia ricercata attraverso agitazioni troppo spesso generatrici di nuove sofferenze e di nuove rovine, rischiando così di annullare, invece di consolidare, i risultati ottenuti a prezzo di lotte più d'una volta drammatiche.
Bisogna proclamarlo solennemente: i conflitti del lavoro non saprebbero trovare il loro rimedio in disposizioni imposte artificiosamente, che privano fraudolentemente il lavoratore e tutta la sua comunità sociale della loro prima ed inalienabile prerogativa umana, la libertà.
Essi non saprebbero più trovarlo del resto in situazioni che risultano dal solo e libero giuoco - come si dice - del determinismo dei fattori economici.
Simili rimedi possono avere le apparenze della giustizia, ma non ne hanno l'umana realtà.
È solo comprendendo le ragioni profonde di questi conflitti e venendo incontro alle giuste rivendicazioni che esprimono, che voi ne prevenite l'esplosione drammatica e ne evitate le conseguenze rovinose.
Con Albert Thomas, ridiciamolo: « Il 'sociale' dovrà vincere 'l'economico'.
Dovrà regolarlo e condurlo, per meglio soddisfare alla giustizia » ( Dix ans d'organisation Intevnationale du Travail, Genève, BIT., 1931, Préface, p. XIV ).
Perciò l'Organizzazione Internazionale del Lavoro appare oggi, nel campo chiuso del mondo moderno dove si affrontano pericolosamente gli interessi e le ideologie, come una strada aperta verso un migliore avvenire della umanità.
Più di ogni altra istituzione forse, voi potete contribuirvi, semplicemente rimanendo attivamente e inventivamente fedeli al vostro ideale: la pace universale per mezzo della giustizia sociale.
17. È per questo che Noi siamo qui venuti per darvi il Nostro incoraggiamento e il Nostro accordo, per invitarvi anche a perseverare con tenacia nella vostra missione di giustizia e di pace, e per assicurarvi della Nostra umile, ma sincera solidarietà.
Perché è in gioco la pace del mondo, l'avvenire dell'umanità.
Questo avvenire non può costruirsi che nella pace fra tutte le famiglie umane in lavoro, tra le classi e tra i popoli, una pace che riposa su una giustizia sempre più perfetta fra tutti gli uomini ( cfr. Encicl. Pacem in terris e Populorum progressio, n. 76 ).
In quest'ora contrastata della storia dell'umanità, piena di pericoli, ma ripiena di speranza, è a voi che spetta, in larga parte, costruire la giustizia, e così assicurare la pace.
No, Signori, non credete la vostra opera finita, essa al contrario diviene ogni giorno più urgente.
Quanti mali - e quali mali! - quante deficienze, abusi, ingiustizie, sofferenze, quanti pianti si levano ancora dal mondo del lavoro!
PermetteteCi di essere davanti a voi l'interprete di tutti quelli che soffrono ingiustamente, che sono ingiustamente sfruttati, oltraggiosamente dileggiati nei loro corpi e nelle loro anime, avviliti da un lavoro degradante sistematicamente voluto, organizzato, imposto.
Ascoltate questo grido di dolore che continua a salire dall'umanità sofferente!
Coraggiosamente, instancabilmente, lottate contro gli abusi sempre rinascenti e le ingiustizie continuamente rinnovate, costringete gli interessi particolari a sottomettersi alla visione più ampia del bene comune, adattate le vecchie disposizioni ai nuovi bisogni: suscitatene nuove, impegnate le nazioni a ratificarle, e adoperate i mezzi per farle rispettare, perché, bisogna ripeterlo: « sarebbe vano proclamare dei diritti, se non si mettesse contemporaneamente tutto in opera per assicurare il dovere di rispettarli, da tutti, dappertutto e per tutti » ( Messaggio alla Conferenza internazionale dei diritti dell'uomo a Teheran, 15 aprile 1968 ).
Osiamo aggiungerlo: è contro l'uomo che dovete difendere l'uomo, l'uomo minacciato di non essere altro che una parte di se stesso, ridotto, come si è detto, a una sola dimensione ( cfr. per es. H. Marcuse, L'uomo a una dimensione ).
Bisogna ad ogni prezzo impedirgli di non essere che il fornitore meccanizzato di una macchina cieca, divoratrice della parte migliore di lui stesso, o di uno Stato che cerca di asservire tutte le energie al suo solo servizio.
È l'uomo che dovete proteggere, un uomo travolto dalle forze formidabili che egli mette in opera e come inghiottito dal progresso gigantesco del suo lavoro, un uomo trascinato dallo slancio irresistibile delle sue invenzioni, e come stordito dal contrasto crescente tra il prodigioso aumento dei beni messi a sua disposizione, e la loro ripartizione così facilmente ingiusta tra gli uomini e tra i popoli.
Il mito di Prometeo proietta la sua ombra inquietante sul dramma del nostro tempo, in cui la coscienza dell'uomo non arriva ad elevarsi al livello della sua attività e ad assumere le sue gravi responsabilità, nella fedeltà al disegno d'amore di Dio sul mondo.
Avremmo perduto la lezione della tragica storia della torre di Babele, in cui la conquista della natura da parte dell'uomo dimentico di Dio si accompagna a una disintegrazione della società umana? ( cfr. Gen 11,1-9 ).
Dominando tutte le forze dissolvitrici di contestazione e di babelizzazione, è la città degli uomini che bisogna costruire, una città il cui solo cemento durevole è l'amore fraterno, tra le razze e i popoli, come tra le classi e le generazioni.
Attraverso i conflitti che dilaniano il nostro tempo, è, più che una rivendicazione di avere, un desiderio legittimo di essere che si afferma sempre più ( cfr. Populorum progressio, n. 1 e n. 8 ).
Voi avete da cinquant'anni tessuto una trama sempre più fitta di disposizioni giuridiche che proteggono il lavoro degli uomini, delle donne, dei giovani, e gli assicurano una conveniente retribuzione.
È necessario che adesso prendiate i mezzi per assicurare la partecipazione organica di tutti i lavoratori, non solo ai frutti del loro lavoro, ma anche alle responsabilità economiche e sociali da cui dipende il loro avvenire e quello dei loro figli ( cfr. Gaudium et spes, n. 68 ).
È necessario anche che voi assicuriate la partecipazione di tutti i popoli alla costruzione del mondo, e vi preoccupiate da adesso dei meno favoriti, come ieri avevate per prima cura le categorie sociali più sfavorite.
Il che significa che la vostra opera legislativa deve proseguire arditamente, e impegnarsi su strade risolutamente nuove, che assicurino il diritto solidale dei popoli al loro sviluppo integrale, che permettano singolarmente « a tutti i popoli di divenire essi stessi gli artefici del loro destino »
( Populorum progressio, n. 65 ).
È una sfida che vi è oggi lanciata all'alba del secondo decennio dello sviluppo.
E vostro dovere rilevarlo.
Tocca a voi prendere le decisioni che eviteranno la ricaduta di tante speranze e soffocheranno le tentazioni della violenza distruttrice.
È necessario che voi esprimiate in regole di diritto la solidarietà che si afferma sempre più nella coscienza degli uomini.
Come ieri voi avete assicurato con la vostra legislazione la protezione e la sopravvivenza del debole contro la potenza del forte - Lacordaire lo diceva: « Tra il forte e il debole, la libertà opprime, la legge libera » ( 52ª Conferenza di Notre-Dame, Quaresima 1845, in OEuvres, del P. Lacordaire, t. IV, Paris, Pousielgue, 1872, p. 494 ) -, è necessario ormai che voi freniate i diritti dei popoli forti, e favoriate lo sviluppo dei popoli deboli creandone le condizioni, non solo teoriche, ma pratiche, di un vero diritto internazionale del lavoro a livello dei popoli.
Come ogni uomo, ogni popolo deve effettivamente, per mezzo del suo lavoro, svilupparsi, crescere in umanità, passare da condizioni meno umane a condizioni più umane ( cfr. Populorum progressio, n. 15 e n. 20 ).
C'è bisogno di condizioni e di mezzi adatti, una volontà comune, di cui le vostre convenzioni liberamente elaborate tra governi, lavoratori e imprenditori, potrebbero e dovrebbero fornire progressivamente l'espressione.
Parecchie organizzazioni specializzate lavorano già a costruire questa grande opera.
È su questa strada che vi è necessario avanzare.
Perciò, se gli ordinamenti tecnici sono indispensabili, essi non saprebbero portare i loro frutti senza questa coscienza del bene comune universale che anima e ispira la ricerca, e che sostiene lo sforzo, senza questo ideale che porta gli uni e gli altri a superarsi nella costruzione di un mondo fraterno.
Questo mondo di domani, è ai giovani di oggi che spetterà di edificarlo, ma è a voi che spetta di prepararveli.
Molti ricevono una formazione insufficiente, non hanno la possibilità reale di imparare un mestiere e di trovare un lavoro.
Molti anche adempiono compiti per essi senza significato, la cui monotona ripetizione può sì procurare loro un profitto, ma non basta a dar loro una ragione di vivere e soddisfare la loro legittima aspirazione ad occupare, da uomini, il loro posto nella società.
Chi non comprende, nei paesi ricchi, la loro angoscia dinanzi alla tecnocrazia invadente, il loro rifiuto di una società che non riesce ad integrarli, e nei paesi poveri, il loro lamento di non potere, per mancanza di preparazione sufficiente e di mezzi adatti, portare il loro generoso contributo ai compiti che li stimolano?
Nell'attuale mutazione del mondo, la loro protesta risuona come un segnale di sofferenza e come un appello di giustizia.
In seno alla crisi che scuote la civiltà moderna, l'attesa dei giovani è ansiosa e impaziente: sappiamo loro aprire le strade dell'avvenire, proporre loro dei compiti utili e prepararveli.
C'è tanto da fare in questo campo.
Voi siete ben coscienti, d'altronde, e Noi Ci felicitiamo con voi per aver inserito nell'ordine del giorno della vostra 53ª sessione lo studio di programmi speciali di impiego e di formazione della gioventù in via di sviluppo ( Organisation Internationale du Travail, Rapport VIII, [1], Genève, BIT 1968 ).
Vasto programma, Signori, degno di suscitare il vostro entusiasmo e di galvanizzare tutte le vostre energie, nel servizio della grande causa che è la vostra - che è anche la Nostra -, quella dell'uomo.
A questo pacifico combattimento i discepoli di Cristo intendono partecipare di vero cuore.
Perché se è necessario che tutte le forze umane collaborino a questa promozione dell'uomo, bisogna mettere lo spirito al posto che gli spetta, il primo, perché lo Spirito è Amore.
Chi non vede?
Questa costruzione sorpassa le sole forze dell'uomo.
Ma, il cristiano lo sa, egli non è solo con i suoi fratelli in questa opera d'amore, di giustizia e di pace, in cui egli vede la preparazione e la garanzia della città eterna che egli aspetta dalla grazia di Dio.
L'uomo non è lasciato in balía di se stesso in mezzo a una folla solitaria.
La città degli uomini che egli costruisce è quella di una famiglia di fratelli, di figli dello stesso Padre, sostenuti nei loro sforzi da una forza che li anima e li sostiene, la forza dello Spirito, forza misteriosa, ma reale, né magica, né totalmente estranea alla nostra esperienza storica e personale, perché essa si è espressa in parole umane.
E la sua voce risuona più che altrove in questa casa aperta alle sofferenze e alle angosce dei lavoratori, come alle sue conquiste e alle sue prestigiose realizzazioni, una voce la cui eco ineffabile, oggi come ieri, non cessa né cesserà mai di suscitare la speranza degli uomini in lavoro: « Venite a me voi tutti che siete affaticati e stanchi, ed io vi darò completo riposo ». ( Mt 11,28 )
« Beati quelli che hanno fame e sete di giustizia perché saranno saziati! » ( Mt 5,6 ).