Regola pastorale |
Diverso è il modo di ammonire coloro che piangono i peccati commessi e tuttavia non se ne staccano, e quelli che se ne staccano e tuttavia non li piangono.
Infatti, bisogna ammonire i primi a sapere considerare con cura che invano si purificano piangendo, coloro che si macchiano vivendo nel peccato, poiché si lavano con le lacrime per poter ritornare, lavati, alla lordura.
Perciò infatti è scritto: Il cane è ritornato al suo vomito e la scrofa lavata a rotolarsi nel fango ( 2 Pt 2,22 ).
Il cane, cioè, quando vomita rigetta certamente il cibo che gli opprimeva lo stomaco, ma quando ritorna al vomito, di cui si era alleggerito, si appesantisce di nuovo.
E coloro che piangono i peccati commessi, certamente rigettano, confessandola, la malizia con cui si erano malamente saziati e che opprimeva l’intimo dell’animo, ma la riprendono su di sé quando la ripetono dopo averla confessata.
E la scrofa, con l’arrotolarsi nel fango dopo essersi lavata, ritorna più sporca di prima.
E chi piange i peccati, e tuttavia non rinuncia ad essi, si sottopone alla pena di una colpa maggiore, poiché disprezza proprio quel perdono che poté ottenere con le lacrime, ed è come se si rotolasse nell’acqua fangosa; poiché, mentre sottrae al suo pianto la purezza della vita [ ottenuta con esso ], davanti agli occhi di Dio rende sordide perfino quelle lacrime.
Perciò ancora è scritto: Non dire due volte una parola nella preghiera ( Sir 7,15 ); infatti, dire due volte una parola nella preghiera corrisponde a commettere, dopo il pianto, ciò che è necessario tornare a piangere.
Perciò è detto per mezzo di Isaia: Lavatevi, siate puri ( Is 1,16 ); infatti, chi non custodisce l’innocenza della vita dopo il pianto, trascura di conservarsi puro dopo il lavacro.
Pertanto, si lavano e tuttavia non sono puri, coloro che non cessano di piangere i peccati commessi, ma continuano a commettere azioni degne di pianto.
Perciò è detto, per mezzo di un sapiente: Se uno si lava dopo aver toccato un morto e poi lo tocca di nuovo, che cosa serve che si sia lavato? ( Sir 34,25 ).
Si lava, cioè, dopo aver toccato un morto, chi si purifica col pianto dal peccato; ma tocca il morto dopo il lavacro, colui che dopo le lacrime ripete la colpa.
Bisogna ammonire coloro che piangono i peccati commessi e tuttavia non se ne staccano, a riconoscersi, davanti agli occhi del Giudice severo, simili a quelli che si presentano di fronte a certi uomini e li blandiscono mostrando grande sottomissione, ma allontanandosi procurano loro inimicizie e danni con effetti atroci.
Che cosa significa infatti piangere la colpa se non mostrare a Dio l’umiltà della propria devozione?
E che cos’è comportarsi iniquamente dopo avere pianto il peccato, se non praticare superba inimicizia verso colui che si era pregato?
Così attesta Giacomo che dice: Chi vuole essere amico di questo secolo, si costituisce nemico di Dio ( Gc 4,4 ).
Bisogna ammonire coloro che piangono i peccati e tuttavia non se ne staccano, a considerare attentamente che per lo più tanto inutilmente i cattivi si muovono a compunzione per la giustizia, quanto spesso i buoni sono tentati al male senza danno.
Avviene cioè che, per una mirabile misura della loro disposizione interiore, corrispondente ai loro meriti, quando quelli fanno qualcosa di buono che tuttavia non portano a termine, assumono una superba fiducia, perfino mentre continuano a compiere il male; e costoro - quando vengono tentati dal male cui per altro non consentono - quanto più la loro debolezza li fa esitanti, tanto più, attraverso l’umiltà, puntano i passi del loro cuore, con fermezza e verità, alla giustizia.
Balaam, infatti, guardando agli attendamenti dei giusti dice: Muoia la mia anima la morte dei giusti e i miei ultimi momenti siano simili a quelli di costoro ( Nm 23,10 ); ma quando si fu allontanato il tempo della compunzione, offrì il suo consiglio contro la vita di coloro ai quali aveva chiesto di divenire simile anche nella morte.
E quando trovò un’occasione per [ soddisfare ] la sua avarizia, subito dimenticò tutto quanto aveva desiderato per sé nell’innocenza ( cf. Ap 2,14 ).
Perciò, invero, il maestro e predicatore delle genti, Paolo, dice: Vedo un’altra legge, nelle mie membra, lottare contro la legge dello spirito e condurmi prigioniero sotto la legge del peccato che è nelle mie membra ( Rm 7,23 ).
Egli certamente viene tentato, proprio per essere più fortemente consolidato nel bene dalla consapevolezza della propria infermità.
Com’è dunque che quello è portato alla compunzione e tuttavia ciò non lo fa avvicinare alla giustizia; mentre questi è tentato eppure la colpa non lo macchia, se non che - come apertamente si manifesta - il bene incompiuto non giova ai cattivi né il male non consumato non condanna i buoni?
Al contrario, bisogna ammonire coloro che si staccano dal peccato e però non lo piangono, a non stimare perdonate quelle colpe che essi non purificano col pianto, anche sé non le moltiplicano col loro agire.
Infatti, uno scrittore che cessa dallo scrivere non cancella ciò che ha scritto in precedenza solo per il fatto di non aggiungervi altri scritti.
Né è sufficiente che uno che proferisce ingiurie taccia, per dare soddisfazione, mentre è necessario che contraddica con parole di umile sottomissione quelle pronunciate precedentemente con superbia.
Né un debitore è assolto perché non aggiunge debiti a debiti, ma lo è se scioglie quelli con cui è legato.
E cose, quando pecchiamo nei confronti di Dio, non diamo soddisfazione solamente se cessiamo di peccare, ma non facciano seguire anche le lacrime, di contro a quei piaceri che abbiamo amato.
Se infatti in questa vita non ci fossimo macchiati di nessuna colpa di opere, la stessa nostra innocenza, finché ancora siamo qui, non sarebbe sufficiente alla nostra sicurezza, perché molte azioni illecite busserebbero alla nostra anima; con quale pensiero, allora, si sente sicuro, uno che per le colpe che ha commesso è testimone a se stesso di non essere innocente?
Né, d’altra parte, Dio si pasce delle nostre sofferenze, ma invece cura le malattie dei peccati con medicamenti contrari ad essi, affinché noi, che ci siamo allontanati, presi dal diletto dei piaceri, ritorniamo amareggiati nel pianto e, dopo essere caduti lasciandoci andare ad azioni illecite, ci rialziamo trattenendoci anche da quelle lecite; e il cuore che era stato invaso da una gioia insana, arda di una tristezza salutare: esso, che l’esaltazione della superbia aveva ferito, sia curato dall’abiezione di una vita umile.
Perciò, infatti, è scritto: Ho detto agli iniqui: non agite iniquamente, e ai peccatori: non alzate la testa ( Sal 75,5 ). E i peccatori alzano la testa se non si umiliano a penitenza per la cognizione della propria iniquità.
Perciò di nuovo è detto: Un cuore contrito e umiliato Dio non disprezza ( Sal 51,19 ).
Infatti, chi piange i peccati ma non se ne distacca, spezza il suo cuore ma non si cura di umiliarlo; chi poi ha già lasciato il peccato ma non lo piange, umilia già il cuore, ma tuttavia rifiuta di spezzarlo.
Perciò Paolo dice: Voi foste tutte queste cose, ma siete stati lavati, ma siete stati santificati ( 1 Cor 6,11 ); perché, cioè, una vita più corretta santifica coloro che l’afflizione delle lacrime, lavandoli, rende puri.
Perciò Pietro, vedendo alcuni atterriti dalla considerazione dei loro peccati, li ammonisce dicendo: Fate penitenza: ciascuno di voi sia battezzato ( At 2,38 ).
Volendo parlare del Battesimo, premette il pianto della penitenza, affinché, prima, versassero su di sé l’acqua della propria afflizione e, quindi, si lavassero col sacramento del Battesimo.
Con quale pensiero vivono sicuri del perdono, coloro che trascurano di piangere le colpe passate, quando lo stesso sommo Pastore della Chiesa credette che si dovesse aggiungere anche la penitenza al sacramento che principalmente estingue i peccati?
Diverso è il modo di ammonire coloro che addirittura lodano le azioni illecite che compiono; e quelli che accusano le loro depravazioni ma non le evitano.
Bisogna ammonire i primi, infatti, a considerare che spesso peccano più con le parole che con le opere.
Infatti, con le opere compiono il male solo per se stessi; ma con la bocca offrono il male a tante persone quante sono le menti di coloro che ascoltano e che essi istruiscono con la lode dell’iniquità.
Bisogna ammonirli a temere almeno di seminare quei mali che essi trascurano di sradicare.
Bisogna ammonirli ad accontentarsi della loro personale perdizione.
E ancora - se non temono di essere malvagi -, bisogna ammonirli ad arrossire almeno di mostrarsi ciò che sono.
Spesso, infatti, si fugge la colpa volendo nasconderla, perché se l’animo arrossisce di apparire ciò che, tuttavia, non teme di essere, avviene talvolta che arrossisca di essere ciò che evita di apparire.
Ma quando il peccatore si fa notare con impudenza, quanto più liberamente compie qualsiasi mala azione, tanto più la considera anche lecita, e quanto più la giudica lecita senza dubbio affonda in essa maggiormente.
Perciò è scritto: Hanno reso pubblico il loro peccato, come Sodoma, e non l’hanno nascosto ( Is 3,9 ).
Infatti, se Sodoma avesse nascosto il proprio peccato, avrebbe peccato ancora nel timore, ma aveva perduto fino in fondo i freni del timore, essa che non andava a cercare le tenebre per commettere la colpa.
Perciò di nuovo è scritto: Il grido di Sodoma e di Gomorra si è moltiplicato ( Gen 18,20 ); poiché il peccato è detto voce quando è azione colpevole, ma è detto anche grido quando è commesso in libertà.
Al contrario, bisogna ammonire coloro che accusano le loro depravazioni, ma non le evitano, a considerare prudentemente che cosa diranno a propria scusa di fronte al severo giudizio di Dio, essi che, secondo il loro stesso giudizio, sono inescusabili riguardo alle loro colpe.
Così, che altro sono costoro, se non accusatori di se stessi?
Parlano contro le colpe, e con le loro opere trascinano se stessi come rei.
Bisogna ammonirli a vedere che è dalla sentenza ancora nascosta del giudizio che la loro mente è illuminata perché veda il male che commette; e tuttavia non cerca di vincerlo.
Così quanto meglio vede, tanto peggio va in rovina perché riceve la luce dell’intelligenza e non abbandona le tenebre dell’agire depravato.
Infatti, poiché trascurano la scienza ricevuta in aiuto, la voltano in testimonianza contro di sé; e con quella luce di intelligenza, che certo avevano ricevuto per poter cancellare i peccati, aumentano il castigo.
La loro malizia, cioè, quando opera quel male che pur discerne e giudica, degusta già qui il giudizio futuro poiché, mentre si conserva colpevole per il castigo eterno, neppure qui, intanto, è assolta dal suo stesso esame; e tanto più gravi tormenti dovrà ricevere là, quanto più, qui, non abbandona il male anche quando essa stessa lo condanna.
Perciò, infatti, la Verità dice: Il servo, che conosceva la volontà del suo Signore e non ha preparato né ha fatto secondo la sua volontà, riceverà molte percosse ( Lc 12,47 ).
Perciò dice il salmista: Discendano vivi nell’inferno ( Sal 55,16 ).
Perché vivi sanno e sentono le cose che si compiono intorno a loro, i morti invece non possono sentire nulla.
Così scenderebbero morti nell’inferno se commettessero il male senza conoscerlo, ma quando conoscono il male, e ciononostante lo fanno, discendono nell’inferno di iniquità, viventi, miseri e consapevoli.
Diverso è il modo di ammonire coloro che sono vinti da una improvvisa concupiscenza, e coloro che restano prigionieri della colpa con deliberazione.
Bisogna ammonire i primi a badare a se stessi, dovendo affrontare quotidianamente la guerra della vita presente, e a proteggere, con lo scudo di un pronto timore, il cuore che non è in grado di prevedere le ferite che può ricevere; abbiano così grande terrore dei dardi nascosti dell’insidioso nemico, e in un combattimento tanto oscuro si trincerino negli accampamenti del cuore, con una attenzione continua.
Infatti, se il cuore è abbandonato dalla sollecita vigilanza, resta aperto alle ferite, poiché l’astuto nemico colpisce il petto tanto più liberamente, quanto più lo sorprende nudo della corazza della previdenza.
Bisogna ammonire coloro che restano vinti da una improvvisa concupiscenza a distogliersi dalla eccessiva cura delle cose terrene, poiché mentre si coinvolgono smodatamente in realtà transitorie, ignorano da quali dardi di colpe restano trafitti.
Perciò, la voce di chi è colpito mentre dorme viene anche espressa per mezzo di Salomone, il quale dice: Mi colpirono, ma non sentii dolore; mi trascinarono e non me ne accorsi.
Quando veglierò e ritroverò ancora il vino? ( Pr 23,35 ).
La mente che dorme dimentica della sua sollecitudine viene colpita e non sente dolore, perché, come non vede i mali incombenti, così non riconosce neppure quelli che ha commesso; viene trascinata e non se ne accorge, perché è condotta attraverso le seduzioni dei vizi e tuttavia non si alza per custodirsi.
Essa, in verità, desidera vegliare per ritrovare ancora il vino, perché quantunque sia oppressa dal terrore del sonno, via dalla custodia di se stessa, si sforza tuttavia di vegliare per le cure del secolo, per essere sempre ebbra dai piaceri; e mentre dorme, rispetto a ciò per cui avrebbe dovuto prudentemente vegliare, desidera di essere sveglia per altre cose per le quali avrebbe potuto lodevolmente dormire.
Perciò più sopra, sta scritto: E sarai come chi dorme in mezzo al mare e come un pilota assopito che ha lasciato il timone ( Pr 23,34 ).
Infatti dorme in mezzo al mare, colui che, posto nelle tentazioni di questo mondo, trascura di prevedere i moti erompenti dei vizi, come cumuli di onde sovrastanti; ed è come un pilota che perde il timone, la mente che perde la tensione sollecita a governare la nave del corpo.
Poiché è perdere il timone in mare il non mantenere una attenzione previdente, tra le tempeste di questo secolo.
Infatti, se il pilota stringe con attenta cura il timone, ora dirige la nave contro i flutti ora taglia obliquamente l’impeto dei venti.
Così, quando la mente governa l’anima con vigilanza, ora calpesta e vince alcune passioni ora, con previdenza, ne aggira altre, e così, con fatica sottomette quelle presenti, e con la previdenza si rafforza contro i combattimenti futuri.
Perciò ancora si dice, dei forti combattenti, della patria celeste: La spada di ognuno è sulla coscia per via dei timori notturni ( Ct 3,8 ).
Si pone la spada sulla coscia, quando con la punta della santa predicazione si doma la malvagia suggestione della carne.
Con la notte, poi, si esprime la cecità della nostra debolezza, poiché di notte non si vede nulla di ciò che può sovrastare ostilmente.
E la spada di ognuno è posta sulla coscia per i timori notturni, poiché evidentemente gli uomini santi, col fatto che temono le tentazioni che non vedono, si mantengono sempre pronti alla tensione del combattimento.
Perciò, ancora, si dice della sposa: Il tuo naso come torre che è nel Libano ( Ct 7,4 ); infatti, ciò che non vediamo con gli occhi spesso lo prevediamo dall’odore.
Col naso, poi, distinguiamo anche gli odori buoni dai cattivi.
Dunque, che cosa si designa con naso della Chiesa, se non la previdente discrezione dei santi?
E il naso è anche detto simile a una torre che è nel Libano, poiché la previdenza discreta dei santi è posta tanto in alto che vede le lotte delle tentazioni prima che vengano, e quando sono venute gli sta contro ben difesa.
Infatti, le lotte future che vengono previste, quando si sono fatte presenti hanno minor forza, poiché quando uno si fa sempre più preparato contro i colpi, il nemico che si crede inatteso viene reso impotente proprio perché è stato previsto.
Al contrario, bisogna ammonire coloro che si fanno prigionieri della colpa con deliberazione, a considerare con attenta previdenza che, col compiere il male deliberatamente, provocano contro di sé un giudizio più severo, così che li colpisce una sentenza tanto più dura, quanto più strettamente li legano alla colpa i vincoli della deliberazione.
Forse laverebbero più in fretta i loro peccati col pentimento, se vi fossero caduti solamente per precipitazione; infatti il peccato indurito dal consiglio è anche più duro da assolvere, e se la mente non disprezzasse in ogni modo i beni eterni, non perirebbe cadendo nella colpa deliberata.
Dunque, coloro che cadono per la precipitazione e coloro che periscono per la deliberazione differiscono in ciò, che questi ultimi, quando peccando cadono dalla condizione di giustizia, per lo più cadono insieme anche nel laccio della disperazione.
Perciò, per mezzo del profeta, il Signore rimprovera non tanto i peccati di precipitazione quanto quelli dovuti a una passione coltivata, dicendo: Che non erompa come fuoco il mio sdegno e si accenda, e non ci sia chi lo spegne, per la malizia delle vostre passioni.
Quindi, una seconda volta irato, dice: Vi visiterò secondo il frutto delle vostre passioni ( Ger 4,4; Ger 23,2 ).
Dunque, i peccati commessi con deliberazione differiscono dagli altri, perché il Signore non persegue tanto il fatto del peccato, quanto la premeditazione del peccato; giacché, nel fatto, si pecca spesso per debolezza, spesso per negligenza; ma nella premeditazione, si pecca sempre per intenzione maliziosa.
Al contrario, bene si dice, per mezzo del profeta, a proposito dell’uomo beato: Non siede nella cattedra di pestilenza ( Sal 1,1 ).
Cattedra suole essere il seggio del giudice o del presidente, e sedere nella cattedra di pestilenza corrisponde a compiere il peccato con giudizio deliberato: sedere nella cattedra di pestilenza corrisponde a discernere il male con la ragione e tuttavia commetterlo con deliberazione.
È come chi siede su una cattedra di consiglio perverso chi è innalzato da una esaltazione iniqua tanto grande da tentare di compiere il male perfino attraverso il consiglio.
E come coloro che, sostenuti dall’autorità della cattedra, sono superiori alle folle che li assistono, così i peccati, ricercati con premeditazione, superano quelli di coloro che rovinano per precipitazione.
Pertanto bisogna ammonire chi si lega alla colpa anche con la deliberazione, a dedurre da tutto ciò quale sarà la vendetta con cui, prima o poi, dovranno essere colpiti, loro che ora si fanno non compagni ma principi dei peccatori.
Diverso è il modo di ammonire coloro che commettono spesso peccati, sia pur minimi, e coloro che si custodiscono dai piccoli, ma talvolta affondano nei gravi.
Bisogna ammonire coloro che cadono frequentemente in colpe sia pur piccole, a non considerare quali, ma quanti peccati, commettono.
Infatti, se quando pesano le loro azioni disdegnano di temerle, devono averne paura quando le contano.
Poiché sono profondi i gorghi dei fiumi, e sono piccole ma innumerevoli le gocce di pioggia che li riempiono; e la sentina che cresce nascostamente produce lo stesso effetto di una tempesta che infuria palesemente.
E sono piccolissime le ferite che si aprono nelle membra per la scabbia, ma quando la loro quantità, divenuta innumerevole, si estende, uccide la vita del corpo come una grave ferita inflitta nel petto.
Perciò è scritto: Chi disprezza le cose piccole a poco a poco viene meno ( Sir 19,1 ).
Infatti, chi trascura di piangere e di evitare i peccati minimi cade dalla condizione di giustizia, non di colpo, ma, poco alla volta, tutto.
Bisogna ammonire coloro che frequentemente cadono in cose minime, a considerare con cura che spesso si pecca più rovinosamente con una colpa piccola che con una più grande.
Poiché, la più grande, quanto prima è riconosciuta come colpa, tanto più rapidamente viene emendata: mentre la minore, che è valutata nulla, ha effetti tanto peggiori, quanto più tranquillamente continua a essere praticata.
Per cui avviene spesso che il cuore avvezzo a peccati leggeri non ha in orrore neppure quelli gravi e, nutrito dalle colpe, giunge a una certa sicurezza nel male; e tanto disdegna di temere le colpe più gravi, quanto, nelle più piccole, ha imparato a peccare senza timore.
Al contrario, bisogna ammonire coloro che si guardano dalle colpe piccole, ma talvolta sprofondano nelle gravi, ad aprire gli occhi su se stessi con sollecitudine, giacché, mentre il loro cuore si esalta perché si custodisce dalle piccole colpe, essi vengono divorati, dallo stesso baratro della loro esaltazione, a commettere peccati ancora più gravi; e, mentre al di fuori dominano le piccole colpe ma dentro si gonfiano di vanagloria, finiscono con l’abbattere anche al di fuori, con colpe più gravi, l’animo che, dentro, è stato vinto dalla malattia della superbia.
Pertanto bisogna ammonire coloro che si custodiscono dai peccati piccoli ma talvolta sprofondano nei gravi, a non cadere, interiormente, là dove, esteriormente, stimano di stare in piedi; e, nella retribuzione del Giudice severo, l’esaltazione non divenga una via di minore giustizia, che trascini alla fossa della colpa più grave.
Infatti, coloro che, esaltatisi vanamente, attribuiscono alle proprie forze la custodia di un bene minimo, giustamente abbandonati, si coprono di colpe più gravi e, cadendo, imparano che il loro stare in piedi non derivava da loro; ciò, affinché mali immensi umilino il cuore che beni minimi esaltano.
Bisogna ammonirli a considerare che, con colpe più gravi si caricano di una grossa responsabilità, e tuttavia spesso nelle piccole buone azioni che custodiscono, peccano più rovinosamente perché, con le prime compiono cose inique, ma per mezzo delle altre tengono coperta agli uomini la loro iniquità.
Per cui avviene che, quando commettono davanti a Dio i peccati maggiori, ciò è iniquità aperta; e quando custodiscono piccole buone azioni davanti agli uomini, è santità simulata.
Perciò infatti si dice dei Farisei: Filtrano il moscerino e inghiottiscono il cammello ( Mt 23,24 ); come se dicesse apertamente: lasciate da parte i peccati piccoli e divorate quelli grandi.
È perciò che ancora si sentono rimproverare dalla bocca della Verità: Pagate la decima della menta, dell’aneto, e del cimino e trascurate ciò che è più importante nella legge: la giustizia, la misericordia, la fedeltà ( Mt 23,23 ).
E occorre ascoltare con attenzione, perché quando parla delle decime più piccole, ricorda intenzionalmente, fra le erbe, le ultime ma profumate; certo per mostrare che i simulatori, quando custodiscono le piccole buone azioni, cercano di spandere l’odore di una santa opinione di se stessi; e quantunque tralascino di compiere i beni più grandi, hanno cura dei piccoli che, a giudizio umano, spandono profumo in lungo e in largo.
Diverso è il modo di ammonire coloro che non incominciano neppure a fare il bene e coloro che, dopo averlo incominciato, non lo portano a termine.
Quanto ai primi, non bisogna far loro presente, innanzitutto, ciò che devono sanamente amare, ma distruggere ciò a cui si applicano maliziosamente.
Infatti, non vanno dietro a ciò di cui sentono parlare senza averne l’esperienza, se prima non comprendono quanto sia nocivo quello che hanno sperimentato; giacché non desidera di essere rialzato, colui che ignora perfino di essere caduto; e colui che non sente il dolore della ferita, non ricerca il rimedio per sanarla.
Dunque, bisogna prima mostrare quanto sia vano ciò che amano, e poi con molta cautela bisogna insinuare quanto sia utile quello che tralasciano.
Vedano, prima, che quel che amano è da fuggire, e poi, senza difficoltà, si renderanno conto che è amabile ciò che fuggono.
Accolgono meglio, infatti, ciò di cui non hanno esperienza, se riconoscono per vero quanto è stato loro dimostrato su ciò che conoscono per esperienza.
Allora, dunque, imparano con pieno desiderio a cercare le cose vere e buone, quando cioè abbiano compreso con giudizio sicuro di essere stati vanamente attaccati a cose false.
Ascoltino quindi, che il piacere dei beni presenti è destinato a passare ben presto, e tuttavia la loro causa permarrà per una vendetta senza fine, poiché, ora, viene sottratto loro, contro voglia, ciò che piace; e, allora, ciò che procura dolore, sarà loro riservato come supplizio, ancora contro voglia.
E così abbiano un salutare terrore delle medesime cose da cui traggono un piacere che li danna, affinché l’animo, che resta colpito alla vista dei danni profondi della sua propria rovina e si accorge di essere giunto sull’orlo del precipizio, rivolga indietro i suoi passi e, nel vivo timore di ciò che prima amava, impari ad amare ciò che disprezzava.
Perciò viene detto a Geremia, mandato a predicare: Ecco, oggi ti ho costituito sopra le genti e sopra i regni, perché tu sradichi e distrugga, disperda e dissipi, ed edifichi e pianti ( Ger 1,10 ); perché, se prima non avesse distrutto ciò che era perverso, non avrebbe potuto edificare utilmente ciò che era retto; se non avesse sradicato dai cuori dei suoi ascoltatori le spine di un amore vano, è certo che, invano, avrebbe piantato in loro le parole della santa predicazione.
Perciò Pietro, prima abbatte per poi costruire, quando non ammoniva i Giudei riguardo a ciò che ormai avrebbero dovuto fare, ma li rimproverava di ciò che avevano fatto, dicendo: Gesù Nazareno, uomo approvato da Dio tra voi, per i miracoli, i prodigi, i segni che Dio operò in mezzo a voi, attraverso lui, come voi sapete: quest’uomo, consegnato per un disegno prestabilito dalla prescienza di Dio, lo avete ucciso inchiodandolo per mano di empi, ma Dio lo ha risuscitato, avendo sciolto le doglie dell’inferno ( At 2,22-24 ).
Disse così, evidentemente, affinché, abbattuti dalla consapevolezza della propria crudeltà, con quanta maggior tensione avrebbero ricercato l’edificazione della santa predicazione, tanto più utilmente l’ascoltassero.
E quindi, subito rispondono: Che cosa dobbiamo fare, allora, fratelli?
E ad essi viene detto: Fate penitenza e ciascuno di voi sia battezzato ( At 2,37-38 ).
Essi non avrebbero certamente fatto alcun conto di queste parole di edificazione, se prima non avessero trovato la salutare rovina della loro propria distruzione.
Perciò Paolo, quando risplendette su di lui la luce mandata dal cielo, non udì ciò che avrebbe dovuto fare di bene, ma ciò che aveva fatto di male.
Infatti, quando prostrato chiedeva: Chi sei, Signore? Gli fu subito risposto: Io sono Gesù Nazareno che tu perseguiti.
E alla sua seconda immediata richiesta: Signore, che cosa ordini che faccia?
Viene aggiunto subito: Alzati ed entra in città e là ti sarà detto che cosa è bene che tu faccia ( At 9,24ss; At 22,8ss ).
Ecco, il Signore, parlando dal cielo, rimprovera le azioni del suo persecutore e tuttavia non mostra immediatamente che cosa avrebbe dovuto fare.
Ecco, ormai tutto l’edificio del suo orgoglio era crollato e, divenuto umile dopo la sua rovina, cercava di essere riedificato.
Ma la superbia viene distrutta e tuttavia le parole dell’edificazione vengono ancora trattenute, evidentemente perché il crudele persecutore giaccia a lungo abbattuto, e poi, tanto più solidamente risorga nel bene, quanto più, prima, era caduto, rovesciato fin dalle fondamenta, dal primitivo errore.
Pertanto, coloro che non hanno ancora incominciato a compiere alcun bene devono, prima, essere rovesciati dalla loro rigida perversità, dalla mano della correzione; per essere, poi, rialzati alla condizione di chi agisce rettamente.
Poiché è come quando tagliamo un albero per innalzarlo, poi, alla copertura di un edificio: esso non viene impiegato immediatamente nella costruzione, perché prima si secchi il suo umore nocivo; e quanto più questo si asciuga nel suo interno, tanto più solidamente può essere sollevato in alto.
Al contrario, bisogna ammonire coloro che non portano a termine il bene iniziato, a considerare con molta attenzione che, col non adempiere quanto si sono proposti, strappano via anche ciò a cui avevano dato inizio.
Se, infatti, ciò che sembra di dover fare non cresce per una sollecita applicazione, diminuisce anche ciò che era stato ben compiuto.
Poiché, in questo mondo, la vita umana è come una nave che sale contro la corrente di un fiume: non le è permesso di stare ferma in un luogo, perché scivola di nuovo verso il basso, se non si sforza di salire verso l’alto.
Dunque, se la forte mano di chi opera non conduce a perfezione il bene intrapreso, la stessa interruzione dell’operare lotta contro quanto è già stato compiuto.
Ed è ciò che è detto per mezzo di Salomone: Chi è molle e trascurato nel suo operare è fratello di chi dissipa il proprio lavoro ( Pr 18,9 ).
Poiché è chiaro che, chi non esegue rigorosamente quanto ha iniziato di buono, la trascuratezza della sua negligenza è come la mano di un distruttore.
Perciò l’angelo dice alla Chiesa di Sardi: Sii vigilante e consolida le altre cose che stavano per morire, infatti non trovo complete le tue opere davanti al mio Dio ( Ap 3,2 ).
Dunque, poiché le sue opere non erano state trovate complete davanti a Dio, prediceva che sarebbero morte anche quelle altre che erano state compiute.
Infatti, se ciò che in noi è morto non si riaccende a vita, si estingue anche ciò che, in un certo senso, si conserva ancora vivo.
Bisogna ammonirli a considerare che avrebbe potuto essere più tollerabile non intraprendere la via del giusto, piuttosto che tornare indietro dopo averla intrapresa; infatti, se non si voltassero a guardare indietro, non languirebbero nel torpore, dopo l’attività iniziata.
Ascoltino dunque ciò che è scritto: Sarebbe stato meglio non conoscere la via della giustizia che voltarsi indietro dopo averla conosciuta ( 2 Pt 2,21 ).
Ascoltino ciò che è scritto: Magari fossi freddo o caldo; ma poiché sei tiepido e né freddo né caldo, incomincerò a vomitarti dalla mia bocca ( Ap 3,15-16 ).
Caldo è chi intraprende attivamente il bene e lo porta a termine; freddo è chi non incomincia neppure ciò che dovrebbe terminare.
E come dal freddo, attraverso la tiepidezza, si passa al calore; così dal calore, attraverso la tiepidezza si ritorna al freddo.
Dunque, chi vive avendo perduto il freddo della incredulità ma non supera la tiepidezza e non aumenta il suo calore così da ardere; mentre permane nella nociva tiepidezza, senza più nessuna speranza di quel calore, non fa altro che tornare freddo.
Ma, come prima di diventare tiepido l’essere freddo conservava la speranza, così ora, la tiepidezza, dopo essere stato freddo, è senza speranza.
Infatti, chi è ancora nel peccato, non perde la fiducia nella conversione; ma chi, dopo la conversione, è tiepido, si è sottratto anche quella speranza che poté avere da peccatore.
Si richiede, dunque, che uno sia o caldo o freddo, per non essere vomitato essendo tiepido, affinché, se non è ancora convertito, lasci una speranza di conversione riguardo a sé o, se è già convertito, sia sempre più ardente nella pratica della virtù; e non sia vomitato come tiepido per essere ritornato a causa della sua inerzia, dal calore che si era proposto, al freddo dannoso.
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