Figli di Dio
Sommario
I - Figli di Dio Padre in una società senza padreRichiamare, al giorno d'oggi, la figura paterna, già come semplice evocazione verbale, pone notevoli problemi. La critica verso il padre, come figura sociologica tipica di un mondo in via di estinzione, è realtà diffusa e indiscutibilmente prevalente. È quindi evidente il disagio spontaneo che coglie anche chi fa teologia quando deve affrontare il tema della "figliolanza", chiaramente corrispettivo a quello della paternità. Il fatto che in qualche modo ci incamminiamo « verso una società senza padre »1 rende più difficile e più problematico parlare anche di Dio come padre e dell'uomo come "figlio" di questo padre. Il sospetto verso ogni dipendenza, in tutti gli ambiti della realtà si è infatti ripercosso con notevole impatto anche nel campo religioso, e ha trovato motivazioni originali ed echi notevoli anche nelle varie forme di rifiuto della religione in genere e del cristianesimo in particolare. Prima, perciò, di affrontare in positivo un discorso sulla "figliolanza" divina bisognerà fare i conti con le critiche alla paternità divina, o a Dio visto sotto l'aspetto paterno, e conseguentemente all'uomo visto come figlio di Dio, proprie di tante forme della cultura di oggi. Mi pare opportuno ricordare almeno tre forme di questa reazione critica all'idea e alla realtà del padre, che hanno avuto largo effetto anche nel contesto religioso. Queste tre forme sono legate a tre grandi eventi umani e culturali di dimensione mondiale, che hanno in comune, anche con altre forme di pensiero e di azione, la componente antiautoritaria. Sono almeno tre grandi rivoluzioni, e profonde: quella psicanalitica ( specialmente dopo Freud ), quella proletaria ( dopo Marx ), e quella individuale esistenziale ( particolarmente dopo Nietzsche ). Non sono solo tre eventi del passato, o di una minoranza intellettuale elitaria, giacché segnano di se stessi il presente e il futuro dell'uomo, e quindi anche della nostra fede. Forma comune di queste tre grandi reazioni culturali alla realtà stessa della paternità ed al valore umano dell'idea di padre, e quindi di queste tre negazioni apparentemente radicali di ogni "religione del padre" e in particolare di quella religione che è il cristianesimo, è l'affermazione centrale secondo cui l'uomo, instaurando l'idea e la realtà del padre, rinnega, tradisce, avvilisce, annulla se stesso. 1. La critica psicanaliticaNell'indagine della realtà profonda della psiche umana il rifiuto del padre si delinea come una delle componenti essenziali della evoluzione dell'uomo verso la vera maturità, che implica l'eliminazione dei due grandi pesi che impediscono a quest'ultimo di essere veramente se stesso: l'illusione e la colpa. S. Freud ( 1856-1939 ) ha creduto di poter individuare nel culto di un padre onnipotente assolutamente provvidente e protettore l'essenza vera della religione. Sprezzantemente sarcastico verso le forme filosofiche e astrattamente intellettuali di religione - in quanto decisamente impersonali e quindi disumane - e verso le forme sentimentali e mistiche - riconducibili al sentimento narcisistico -, Freud è certo che la religione è culto della divinità come padre, prodotto del desiderio illusorio di onnipotenza protettiva e del senso di colpa originato dal complesso edipico, cioè dalla coscienza di aver sempre qualcosa di cui farci perdonare. Il senso frustrante del fallimento del desiderio e la coscienza colpevole dell'assassinio del padre originario ( Urvater ) portano alla venerazione totale di un padre che offra insieme il compimento del desiderio e, nell'obbedienza autopunitrice verso la sua legge, la liberazione espiatrice dalla colpa della ribellione. In fin dei conti la religione, culto e nostalgia del padre, che compie il desiderio e accetta l'offerta espiatrice, è un'illusione e la rinuncia al padre sarà la lucida presa di coscienza della realtà necessaria e realisticamente riconosciuta come dominata dalla "ananke", cioè dal destino inevitabile della realtà mondana, che segna la fine di ogni illusione e di ogni colpa, cioè di ogni possibile religione, momento necessario ma caduco del cammino della civiltà.2 2. La critica marxistaNella stessa atmosfera culturale, almeno relativamente alla spiegazione della religione, si era già mosso L. Feuerbach ( 1804-1872 ), che aveva sottoposto la religione al processo critico della cultura e aveva creduto di poter ridurre la genesi della religione all'esperienza frustrante del limite e della difettosità umana, che porta l'uomo a proiettare l'insopprimibile desiderio di perfezione, di potenza e di dominio in una sfera illusoriamente superiore ed a costruirsi una realtà trascendente e superiore in cui si concretizzano, divenuti altri da lui, cioè "alienati", tutti i suoi desideri irrealizzati. Prendendo spunto da questa critica si sono mossi anche K. Marx ( 1818-1883 ) e F. Engels ( 1820-1895 ), passando però dal contesto metafisico e psicologico di Feuerbach ad un contesto nel quale l'origine dell'illusione-alienazione non è più nel campo delle esigenze di assoluto o dei sentimenti dell'animo umano, ma esclusivamente nelle strutture economico-sociali in cui si svolge l'esistenza dell'uomo. La religione del Padre celeste, in ultima analisi, e con la genericità di una riduzione necessariamente schematica e quindi parzialmente ingiusta, diventa in Marx e nel pensiero marxista in genere la suprema consacrazione-alienante e contemporaneamente l'inefficace disperata protesta ( "oppio del popolo" ) di fronte alla realtà ben concreta dell'oppressore e del padrone terreno. Di fatto, poi, la religione del padre illusorio è necessariamente conservatrice e nemica della liberazione dell'uomo, giacché inevitabilmente si presta alla consacrazione religiosa e alla benedizione della realtà dell'oppressione di tutti quei piccoli padri reali, nell'ambito della famiglia e della società, che sono coloro che opprimono l'uomo concreto, il proletario espropriato della sua stessa natura umana: « Ogni religione non è altro che il fantastico riflesso nella testa degli uomini di quelle potenze esterne che dominano la sua esistenza quotidiana, riflesso nel quale le potenze terrene assumono la forma di potenze sovraterrene ».3 La fede in Dio-padre, quindi, e la pretesa di parlare dell'uomo come figlio di Dio, è opposta alla esigenza di costruzione di un mondo umano, di liberazione dell'umanità oppressa, di umanizzazione vera dell'uomo. 3. La critica di ribellione individualisticaUna terza grande linea culturale, che segna automaticamente di valenza negativa ogni riferimento a paternità divina e figliolanza umana, come eco di una diffidenza verso ogni dipendenza in genere, è la linea esistenziale individualista, che può trovare in F. Nietzsche ( 1844-1900 ) il suo rinnovatore e nell'esistenzialismo ateo in genere il canale di influenza più consistente nella cultura contemporanea. Anche per Nietzsche le ragioni del rifiuto del padre, e di Dio visto come padre, riecheggiano quelle già proprie di autori come Hegel, Heine, Feuerbach stesso e B. Bauer.4 Anche per lui Dio è il prodotto illusorio di una vana proiezione dei desideri umani, ma in lui l'aspetto decisivo è quello della ribellione dell'uomo contro ogni forza che lo signoreggi e cerchi di limitarlo. Fin dalla precocissima giovinezza nel suo pensiero e nei suoi scritti è emergente l'istanza prometeica.5 Per liberarsi da ogni tutela l'uomo deve rifiutare il potere di Dio padre e ciò equivarrà ad ucciderlo, e potere finalmente annunciare la sua morte. Questa è la condizione della vera libertà, perché la fede in Dio padre è "illusione" e "menzogna" reale, la radice di tutto ciò che mortifica, indebolisce, rovina e guasta l'umanità degna di questo nome. Sulla scia di Nietzsche si può collocare tutta la lunghissima serie di negazioni di Dio visto come padre-padrone ostile e rivale della felicità, della libertà, dell'essere se stesso dell'uomo.6 II - Dio rivelato: Padre diverso di figli diversiPsicanalisi, marxismo, individualismo esistenzialistico: sono tre grandi filoni culturali che hanno impregnato di sé, delle loro analisi, dei loro apriori, delle loro conquiste, dei loro errori, dei loro meriti reali tutta la società occidentale contemporanea, e che hanno creato il sospetto verso ogni forma di autorità in cui sì faccia ricorso all'immagine, alla terminologia e all'idea del padre. Questo sospetto è ciò che ha imposto questa introduzione prima di affrontare positivamente la realtà della figliolanza divina affermata nella fede e nella teologia cristiana e che ci accingiamo ad esaminare. Se paternità infatti fosse solo sinonimo di illusione regressiva e infantile, di non superato complesso di colpe immaginarie, di alienazione che espropria l'uomo della sua dignità e lo rende docile strumento di padroni terreni ben precisi, allora sarebbe blasfemo parlare di Dio come padre. Se figliolanza fosse sinonimo di dipendenza servile, di inettitudine vile, di rifiuto della libertà e del gusto creatore della fantasia e della vita, di obbedienza cieca alle forze dell'ingiustizia e dell'oppressione, allora sarebbe assurdo autoannullamento chiamarci figli, e ancor più figli di Dio. Il compito che ci si presenta è quello di dimostrare che, pur messi in guardia da Freud, Marx, Nietzsche, Sartre e da tutte le fallimentari esperienze di tanti padri veri e falsi, naturali e artificiali, detti sacri e profani, possiamo chiamarci a buon diritto, ed essere, figli di un Dio che è veramente Padre. Si tratterebbe di tentare, pur non potendo dimostrare qui esaurientemente una tesi impegnativa come questa, e prima di affrontare direttamente i contenuti della rivelazione cristiana, una riflessione per rivendicare vera originalità al nome che la fede cristiana da al Dio rivelato in Gesù Cristo quando lo chiama Padre. È fuori discussione che la paternità attribuita alla o alle divinità appare come costitutivo universale di quasi tutte le religioni7 e che il nome padre è attribuito con senso sacralizzato in un numero elevatissimo di culture antiche, ben anteriori alla cultura e alla rivelazione giudeo-cristiana. È anche chiarissimo che con una ricerca puramente filosofica non si potrebbe veramente parlare, con serietà, di paternità divina, giacché nell'ambito filosofico ci si può avviare al massimo verso l'affermazione di un divino senza nome.8 L'uso del nome padre perciò si potrebbe giustificare solo in chiave religiosa, ma proprio a questo punto riemergerebbe la critica radicale suddetta, e il discorso stesso della paternità verrebbe a cadere sotto i colpi del sospetto di cui abbiamo parlato sopra ( psicanalisi, marxismo, individualismo umanistico ateo ). Ecco perché anche noti autori cristiani hanno seriamente proposto di "rinunciare al padre", proprio per scavalcare le forche caudine di illusione-colpa-alienazione-asservimento, visti sempre latenti nella stessa idea di padre.9 Eppure con alcune precauzioni e osservazioni riteniamo di aver ancora il diritto di chiamare il nostro Dio col nome di padre e di chiamarci quindi figli di Dio. Innanzitutto, per la fede, non è l'uomo che da un nome a Dio, ma è Dio stesso che se lo da, e non ha in sé alcuna coessenzialità con la simbologia religiosa originaria, nella linea di una spiegazione dell'origine del mondo e dell'uomo in una discendenza quasi biologica. Il luogo dell'esercizio di questa paternità, cioè, non è l'origine del mondo, ma è la storia, e questo nome non è spontaneo frutto dello spirito religioso di Israele, che lo usa pochissimo, ma suggerimento esplicito di Dio stesso: « Gli israeliti danno molto raramente a Jahve il titolo di Padre quando si rivolgono a lui e raramente si dicono figli di Jahve. È piuttosto Dio stesso che si designa come padre, chiamando gli israeliti suoi figli. Tutto ciò stronca ogni mistica basata su un ipotetico legame di parentela fisica tra Dio e l'uomo ».10 Anche nel NT il nome padre indica sempre una presenza dialogale e immanente nella vita dell'uomo concreto, ben al di là di un rimando simbolico ad origini lontane. Così il nome di padre, riferito dall'uomo a Dio, non è ne pretesa di identificare in senso pieno e assoluto l'intimo stesso di Dio, ne rappresentazione simbolico-illusoria su cui cadrebbe la critica del sospetto suddetto, ne affermazione di legame fisico generativo. Il nome serve solo ad indicare l'atteggiamento di Dio verso l'uomo che dialoga storicamente con lui, che si rivela presente, e tuttavia esprime un senso preciso che non rinvia ad altro. La denominazione padre, quando viene usata dall'uomo nella luce della rivelazione, è consenso all'atto reale con cui Dio stesso si fa padre nei suoi confronti, essa non è che eco del nome che Dio ha dato a se stesso, e fonda in maniera decisamente indimostrabile, nell'ordine dell'esperienza dialogico-vitale, la verità stessa della autonominazione di Dio. Solo così, pensiamo, le critiche alla paternità non toccano veramente l'autorivelazione del padre: questa non può essere posta sul piano del sentimento vagamente "religioso" giustamente sospettato da tutta la cultura contemporanea, e non può d'altra parte essere oggetto di una dimostrazione filosofico razionale, che farebbe dell'uomo colui che da il nome a Dio e quindi si impadronisce di lui e lo riduce in suo potere. All'origine della paternità divina, nell'accezione propria della fede giudeo-cristiana, non c'è essenzialmente ne la postulazione del desiderio illusorio alienante che vuole uscire dalle frustrazioni delle diverse paternità mai sufficienti, fondandole in essa, ne lo sforzo apologetico che la fonda sulla ragione divinizzata. All'origine del nostro essere figli e chiamare Dio padre c'è la realtà gratuita e inaudita dell'instaurazione salvifica, la costatazione storica di un fatto reale, l'esistenza concreta di un popolo che è costituito figlio nella realtà di un dialogo storico la cui iniziativa è totalmente divina, non postulata dal sentimento ( illusione-desiderio-alienazione ), non dimostrata necessaria dalla ragione, ma accolta nella storia dalla risposta dialogale dello scambio del patto. La vera ragione della nominazione paterna è una dichiarazione di identità proferita da Dio e accolta dall'uomo. Non è l'uomo che da il nome a Dio ( il che sarebbe o avere potere su di lui o costruirlo sulla base della sua frustrazione alienante ), ma l'uomo riceve da Dio il nome stesso di Dio. Perciò egli può accettare di rivolgersi a lui con il nome con cui egli si è rivelato. Non ha senso, a questo punto, chiedersi se Dio poteva rivelarsi in altro modo, o se doveva necessariamente rivelarsi: la paternità è per eccellenza un dato non filosofico, non collocabile sul piano delle essenze, che è regolato da leggi interne strutturali; trasportarla su questo piano sarebbe sottomettere Dio alle leggi della nostra ragione, farne un idolo disponibile ai più diversi usi e consumi. Del resto anche la paternità naturale ha all'origine l'assoluta fattualità dell'avvenimento: essa giunge all'uomo nel puro dato dell'esteriorità di un dialogo che è il fatto primordiale che si impone con la forza invincibile della evidenza reale. III - La rivelazione del Padre nella storia dei figliSe ora proviamo a percorrere pur sommariamente le pagine della rivelazione giudeo-cristiana noi ci troviamo veramente di fronte ad una prima costatazione che conforta e conferma quanto abbiamo supposto sopra. 1. L'ATUna prima riflessione si impone, con la forza delle realtà costatate: nelle pagine dell'AT Dio è chiamato padre solo con estrema circospezione, e ciò è tanto più sorprendente quanto più vediamo che nelle religioni dei popoli circostanti l'appellativo di padre viene dato spessissimo alla divinità.11 La paternità di Jahve è presente nell'AT in forma quantitativamente relativa e mai prevalente, e per di più sempre in contesto tale da non potersi intendere nel senso ovvio di genitore o progenitore, presente massicciamente e universalmente nelle mitologie religiose fino dall'antichità.12 Il termine "padre", applicato a Dio, è esclusivamente nel contesto dell'elezione, dell'alleanza e della salvezza storica, non dell'origine del cosmo e della generazione dell'umanità. Ciò fa sì che Dio sia chiamato padre in senso esclusivamente metaforico e senza particolare insistenza. La relazione che intercorre tra Jahve e il popolo è espressa anche con tanti altri termini che si collocano sul piano metaforico, almeno con la stessa insistenza e importanza del termine "padre": Jahve è "re" del suo popolo, è "sposo" di Israele, è lo "sposo promesso" della sua giovinezza, è "pastore" di Israele.13 Sullo stesso piano è anche padre di Israele. Solo più tardi, e con chiaro influsso ellenistico, l'immagine padre-figlio viene individualizzata e passa dall'indicazione del popolo a quella della singola persona. In un contesto del genere è evidente che la figliolanza è esclusiva di Israele e il nome stesso è sinonimo di "figlio" o di "figlia" cui spetta l'eredità del padre ( Ger 3 ). Tutto sommato, dunque, Israele ha un atteggiamento molto riservato al riguardo della paternità di Dio e della sua propria figliolanza. Jahve è un Dio unico, non ha figli e figlie come nella religione cananea, è chiamato padre solo perché si occupa di Israele, lo chiama, lo libera, lo accompagna nel suo cammino, senza alcuna implicazione di cosmogonia o di genealogia divina propria delle religioni mitologiche contemporanee. Perciò è padre, pastore, re, sposo e Israele è figlio, gregge, suddito, sposa di Jahve. L'esperienza primordiale è quella storica di salvezza e di alleanza elettiva, ed è quella esperienza che produce l'immagine della paternità. L'uso della terminologia paterna è un prodotto della esperienza storico-salvifica, e non viceversa. La cosa è estremamente importante, proprio nella luce del sospetto freudiano di cui sopra. Se fosse il contrario si cadrebbe inevitabilmente nel regno dell'illusione e della colpa paralizzante e alienante. Ecco perché la formula più pregnante dell'AT parte dall'esperienza storica e arriva all'uso discreto e metaforico del nome di padre: « Sei tu, Jahve, che sei nostro padre» ( Is 63,16 ). 2. Il NTa. Terminologia e fattoAppena passiamo al NT una costatazione si impone con forza: quantitativamente l'indicazione di Dio come padre è molto più sviluppata, e qualitativamente essa riveste una serie di significati estremamente variabili, situandosi in diversissimi contesti e arricchendosi delle più differenti sfumature. È evidente quindi che si impone una notevole circospezione e un chiaro senso di prudenza nelle seguenti riflessioni, con la coscienza che si possono dare delle diverse angolazioni da cui affrontare il problema. Noi cominciamo dal punto di vista del semplice uso dei termini "padre", "figlio", "figli" e simili. I testi kerigmatici che sono negli Atti ( At 2,14-41; At 3,12-26; At 10,34-43; At 17,22-31 ) nominano Dio Padre solo una volta ( At 2,33 ), e non danno a Gesù il titolo di figlio di Dio. Nel resto degli Atti il nome di Padre è dato a Dio in 3 altri passi ( At 1,4-7; At 9,20; At 13,33 ), e in ciascuno è chiaro l'influsso della teologia di Paolo. Sulla bocca di Paolo stesso, sempre negli Atti, si trovano 2 menzioni di Gesù come Figlio di Dio ( At 9,20; At 13,33 ). Nei testi paolini, però, la teologia della paternità-figliolanza divina trova tutto il suo sviluppo. La formula « Dio padre del nostro signore Gesù Cristo » è presente 5 volte ( 2 Cor 1,3; 2 Cor 11,31; Rm 15,6; Col 1,3; Ef 1,3 ). La paternità di Dio verso gli uomini è evocata 32 volte, 8 volte quella comune a Cristo e a noi ( 1 Cor 15,24; Gal 4,6; Rm 6,4; Rm 8,15; Col 3,17; Ef 1,17; Ef 2,18; Ef 5,20 ). Paolo presenta inoltre 17 volte Gesù come figlio di Dio, e 13 volte attribuisce agli uomini il titolo di figli di Dio ( Gal 3,26; Gal 4,6.7; Rm 8,14.16.17.19.21; Rm 9,7.8.26; Fil 2,15; Ef 5,1 ). Anche altri testi, come quello di Gal 4,28, in cui si parla di « figli della promessa », possono essere significativi. Il termine specifico "yiothesia" ( figliolanza ) è presente 4 volte con certezza ( Gal 4,5; Rm 8,15; Rm 9,4; Ef 1,5 ) e forse anche in un altro testo ( Rm 8,23 ). Ma la evocazione della paternità di Dio non è certo esclusiva di Paolo. Giovanni presenta 114 volte Dio come padre di Gesù e 28 volte Gesù come figlio di Dio. Per quello che riguarda l'attribuzione della filiazione agli uomini egli è più prudente di Paolo, e distingue tra il titolo "yiòs" ( figlio ) e il titolo "pais", che ha un senso più sfumato, e che ricorre con frequenza nei suoi scritti ( Gv 1,12; Gv 11,52; 1 Gv 3,1.2.10; 1 Gv 5,2; ecc. ). I sinottici sono certamente più discreti di Paolo e Giovanni nell'attribuire a Dio il titolo di padre di Gesù Cristo: solo 2 testi sono comuni a tutti e tre ( Mc 8,38; Mc 14,36 e par. ). Un testo è comune a Mt e Mc ( Mc 13,32 e par. di Mt ). Luca ha 5 menzioni sue proprie e Matteo 13. La paternità di Dio verso gli uomini è menzionata abbastanza raramente: un solo testo in Mc 11,25-26; comune anche a Mt. Matteo e Luca hanno 4 menzioni comuni; Luca 3 in proprio e Matteo 12. Quanto all'altra faccia della medaglia, cioè alla filiazione, ecco i dati principali: Gesù è detto figlio di Dio in 18 passi, dei quali 6 sono comuni a tutti e tre, 2 sono comuni a Mt e Mc, 2 a Mc e Lc, uno è proprio di Mc, un altro di Lc, e 6 sono propri di Mt. La filiazione divina degli uomini, poi, Mc non la menziona mai. Lc la richiama 3 volte ( Lc 6,35; Lc 15,11s; Lc 20,36 ) e Mt 5 volte ( Mt 5,9.45; Mt 8,12; Mt 13,38; Mt 21,28-31 ).14 b. Significato e portataLa prima domanda cui sarà necessario rispondere, quando vogliamo passare dal dato quantitativo e filologico al senso dottrinale, e una volta stabilito ciò che abbiamo rilevato nelle osservazioni precedenti e nella teologia dell'AT, è quella che chiede perché il tema della filiazione divina è nel NT così ampio, rispetto alla scarsa presenza riscontrata nell'AT. La crescita quantitativa del tema della filiazione divina, infatti, implica anche un cambiamento del significato e della portata ideale del termine stesso. Ad un'idea di paternità-filiazione che nell'AT si colloca in modo esclusivo sul piano metaforico, come abbiamo visto, con una forte prevalenza di temi giuridico-operativi, si sostituisce nel NT l'affermazione di una filiazione ben precisa, che si colloca su un piano ben diverso da quello proprio dell'AT. La ragione vera di questa trasformazione nel significato della paternità e della figliolanza in relazione con Dio è l'ingresso, nella realtà della vita biblica, della persona di Gesù di Nazaret. Gesù è chiamato figlio di Dio in un modo che è decisamente nuovo, rispetto al senso veterotestamentario. Egli non è un figlio, ma il figlio di Dio. Egli non è solo l'erede che il Padre ha inviato dopo i profeti ( Mc 12,6-7 ); egli è in una unione specialissima di conoscenza e d'amore con il Padre: conoscenza immediata e piena, amore totale e totalmente correlativo ( Mt 11,25-27 ). Questa figliolanza speciale, totale, fa sì che sia chiara la distinzione tra lui e noi. Anche i discepoli, anche gli uomini sono detti figli di Dio, ma il Padre è suo in un modo profondamente originale ( Mt 7,21; Lc 2,49; Mc 1,11; Mc 9,7 ) che indica la intima struttura della sua vita, il suo destino, il suo assillo continuo, la sorgente segreta del suo agire, del suo pregare, del suo essere intero. Egli è veramente una cosa sola con Dio, in unità di vita, di operazione, di gloria, di potere, e di ogni altra realtà. Basterà un solo testo, splendido: « In verità, in verità vi dico, il figlio non può fare nulla da solo, se non quello che ha visto che il Padre ha fatto; infatti, quello che il Padre ha fatto, questo lo può fare anche il figlio allo stesso modo. Il Padre infatti ama il figlio, e gli manifesta tutto quello che fa… Come infatti il Padre risuscita i morti e da la vita, così anche il figlio da la vita a chi vuole. E il Padre non giudica alcuno, ma ha rimesso ogni giudizio al figlio, affinché tutti onorino il figlio come onorano il Padre. Chi non onora il figlio, non onora il Padre che l'ha mandato… Viene l'ora, ed è questa, in cui i morti udranno la voce del figlio di Dio, e chi l'udrà, vivrà. Perché come il Padre ha la vita in se stesso, cosi diede pure al figlio di avere in se stesso la vita… » ( Gv 5,19-26 ). Ma perché noi possiamo spiegarci lo sviluppo pieno, quantitativo e qualitativo, del tema paternità-figliolanza nel NT, manca ancora qualcosa, e cioè il legame tra Gesù figlio di Dio e noi, figli dell'uomo. Ecco allora che emerge la figura di Gesù come figlio dell'uomo, come uomo tra gli uomini. L'espressione "figlio dell'uomo", applicata a Gesù, si trova quasi esclusivamente nei vangeli,15 e sempre sulla bocca di Gesù stesso. Questa terminologia è concentrata soprattutto nel contesto di quei momenti in cui Gesù sperimenta fino in fondo l'essere uguale agli uomini nella povertà, sofferenza, debolezza ( Mt 8,20; Mt 11,19; Mt 20,28; Mc 8,31 e par. ), o nel contesto della promessa di quelle prospettive in cui la realtà umana sarà definitivamente glorificata ( Mt 24,27; Mt 24,30; Mt 16,27; Mt 13,41 ). Umiltà e sofferenza, perciò, vanno di pari passo con pienezza e gloria, e il testo più sintetico è quello decisivo del processo di fronte al sinedrio, in cui le due dimensioni vengono drammaticamente unificate: « Il sommo sacerdote gli disse: "Ti scongiuro, per il Dio vivente, a dirci se sei tu il messia, il figlio di Dio". Gesù gli risponde: "È come dici tu. Anzi ti dichiaro che d'ora innanzi vedrete il figlio dell'uomo assiso alla destra della Potenza e venire sulle nubi del cielo" » ( Mt 26,63-64 ). Questa reale identificazione del Figlio di Dio con il figlio dell'uomo, e del figlio dell'uomo con la reale condizione umana di tutti i figli degli uomini è la vera ragione, storica e non illusoria, gratuita e non esigenziale, inattesa e non richiesta, della filiazione divina applicata agli uomini in tutti i testi del NT e conseguentemente in tutta la tradizione cristiana ( padri, dottrine conciliari, teologia ). L'iniziativa è sempre del Padre ( Gal 4,4-5 ) e si realizza nella mediazione reale, storica, vissuta e sperimentata della vita di Gesù di Nazaret. Inviando il Figlio, che diventa uomo tra gli uomini, fratello degli uomini, e donando lo Spirito santo ( Rm 5,5; 2 Cor 1,22; 2 Cor 5,5; 1 Ts 4,8 ) il Padre fa degli uomini dei figli suoi. È in Gesù, quindi, che Dio si dà e riceve il nome di padre, padre suo e padre nostro, nell'esperienza precisa di una nominazione che non deriva dall'illusione, dall'esigenza, dal desiderio, ma dalla rivelazione improvvisa e gratuita di un fatto vissuto e annunciato a chi mai avrebbe potuto sognare qualcosa di simile. « Il Figlio ci porta il messaggio della paternità divina, ci fa conoscere il Padre e ci rivela la nostra vera condizione di figli; ma soprattutto, con la sua venuta, ci apporta il dono stesso della nostra filiazione. Egli si è fatto carne, perché noi potessimo diventare figli del Padre. Attraverso di lui - afferma s. Giovanni - ci vengono la grazia ( Gv 1,17 ) e il potere di diventare figli di Dio, e di nascere una seconda volta da Dio ( Gv 1; Gv 3,3-5 ): "Ma a quelli che lo accolsero diede potere di diventare figli di Dio, a quelli che credono nel suo nome; e questi non da sangue, ne da volere di carne, ne da volere di uomo, ma da Dio sono nati" ( Gv 1,12-13 ) »16. Ecco perché la scrittura parla di noi come figli di Dio. Gesù ci insegna a rivolgerci a Dio come padre ( Mt 6,9 ), chiama figli di Dio i pacifici ( Mt 5,9 ), quelli che amano pienamente ( Lc 6,35 ), quelli che sono risorti a vita eterna ( Lc 20,35-36 ). Questa figliolanza implica perfezionamento senza limiti, compimento della volontà del Padre, imitazione della bontà, della misericordia, dell'amore universale che è presente nell'esperienza salvifica. Essa è chiaramente, soprattutto in Paolo, un'estensione agli uomini della filiazione divina e unica di Gesù ( Rm 8,29-30 ), in forza del rapporto unico che si è venuto a creare tra Gesù e i figli degli uomini. L'elezione di Dio trasforma l'essere stesso dell'uomo, che diventa vivo della stessa vita di lui, grazie alla presenza vitale in lui del principio stesso della vita divina, che è lo Spirito ( Gal 4,5-6 ). La nuova "nascita" ( Giovanni ) quindi, o la nuova "creazione" ( Paolo ), fanno sì che l'uomo diventi veramente figlio di Dio, cioè partecipe della vita di Dio, animato e vivificato dall'azione dello Spirito: « Voi, però, non vivete così; vi lasciate guidare dallo Spirito, perché lo Spirito di Dio abita in voi… Infatti quelli che si lasciano guidare dallo Spirito di Dio sono figli di Dio. E voi non avete ricevuto in dono uno spirito che vi rende schiavi o che vi fa di nuovo vivere nella paura, ma avete ricevuto lo Spirito di Dio che vi fa diventare figli di Dio e vi permette di gridare "Abbà", che vuoi dire "Padre", quando vi rivolgete a Dio. Perché lo stesso Spirito ci assicura che siamo figli di Dio » ( Rm 8,9.14-16 ). Per questo siamo veramente figli di Dio, e Gesù, restando figlio del Padre in modo assolutamente speciale, può essere veramente detto « primogenito tra molti fratelli » ( Rm 8,29 ). Perciò la vita di figli di Dio: è realtà della nostra storia, anche se per vederla e viverla con consapevolezza è necessaria la luce della fede, e la manifestazione piena di essa è vissuta nella speranza del regno. Il nome di figli, che ci è stato dato, è nome rispondente alla realtà: « Vedete come ci ha voluto bene il Padre! Egli ci ha chiamati a essere suoi figli; e noi lo siamo veramente. Perciò il mondo non ci capisce, perché non ha capito neppure lui. Miei cari, noi già ora siamo figli di Dio, ma non si vede ancora quello che saremo; quando si vedrà, saremo uguali a lui, perché lo vedremo così come lui è realmente » ( 1 Gv 3,1-2 ). 3. Tradizione e teologiaSe dalla sommaria considerazione della realtà della filiazione adottiva presente nella scrittura volessimo passare a prendere in esame ciò che di questa filiazione hanno insegnato i padri della chiesa e hanno detto magistero ecclesiale e teologia, ci troveremo di fronte ad un materiale immenso e di difficile sintetizzazione.17 Ciò che però è assolutamente essenziale rilevare è che, salvo particolari eccezioni, si mantiene sempre chiarissimo il senso della relatività del discorso, della sostanziale metaforicità dell'attribuzione della filiazione, che proprio perciò viene detta adottiva ( riecheggiando la scrittura stessa ), e dell'inserimento di tutto il tema della filiazione nel grande discorso della "giustificazione". Voglio dire che la filiazione adottiva non è mai intesa in senso realistico generativo, ma è sempre riferita a Cristo e alla presenza dello Spirito e viene vista come uno dei modi nei quali si può descrivere il grande fatto della liberazione dal male e della chiamata alla partecipazione della natura divina. Questa partecipazione alla natura divina viene detta ora giustificazione, ora santificazione, ora grazia, ora divinizzazione, ora appunto filiazione adottiva.18 Nella descrizione teologica di questa filiazione in genere, ci si colloca a metà strada tra quella naturale, propria di chi è realmente generato dal padre, e la filiazione giuridica adottiva, che consiste nell'attribuzione gratuita esteriore di diritti ad un estraneo. La filiazione adottiva soprannaturale, affermano teologi e padri, è gratuita, ma non puramente esteriore, giacché implica una modificazione reale dell'essere stesso dell'adottato. Quanto alle spiegazioni teologiche, il discorso si farebbe estremamente ampio, e coinvolgerebbe tutti gli altri temi suddetti ( grazia, eredità, santificazione, divinizzazione, ecc. ), e può essere ricondotto utilmente all'unico grande tema della inabitazione divina nell'uomo giustificato, cioè della presenza donata e operante dello Spirito santo nella vita dell'uomo, che già nella condizione terrena consente di vivere realmente la vita stessa di Dio, di possedere cioè, già fin d'ora e veramente, il dono increato.19 È evidente che questa voce non può presumere di affrontare compiutamente tutti questi temi, per cui al termine mi limiterò a segnalare una bibl. essenziale. Quello che qui vorrei fare, invece, è un tentativo di presentazione, in termini culturalmente moderni e soprattutto sintetici, dei risultati degli stimoli documentari e contenutistici passati in rassegna finora. IV - Figli di Dio oggiTutta questa realtà di rivelazione e di consapevolezza, di ricchezze tematiche e di sospettose messe in guardia si riversa su chi vuole proporre all'uomo di oggi una riflessione sulla figliolanza divina che sia fedele al dato della fede e stia attenta a non incappare negli scogli facili ma mortali e senza credibilità dell'illusione, o addirittura del complesso di colpevolezza, o della sottomissione alienante che legittima lo status quo e santifica "religiosamente" l'oppressione, elevando a categoria di merito la sopportazione passiva e la rinuncia a fare la storia, a realizzare l'umanità e la vera "mondanità" di questa vita. Una volta messi in guardia, però, dai "maestri del sospetto", noi non possiamo e non dobbiamo perdere assolutamente la ricchezza spirituale e vitalmente operante del grande tema della filiazione divina e dobbiamo tradurlo in termini che siano percepibili e credibili anche dall'uomo di oggi, « in cammino verso una società senza padre ». Nella luce dei temi strettamente dogmatici, quali l'inabitazione trinitaria, l'appropriazione allo Spirito dell'azione divinizzatrice, il tema della presenza della grazia increata nella vita stessa dell'uomo e così via, il cammino di una odierna riflessione "spirituale" sulla filiazione è straordinariamente ricco e capace di modificare realmente, se preso sul serio, l'esistenza dell'uomo e del mondo.20 1. Figliolanza divina nella luce di Gesù CristoLa prima osservazione da fare, in questo tentativo di traduzione spirituale, cioè esistenzialmente vitale, del messaggio della filiazione divina degli uomini, è quella secondo la quale il discorso deve essere sempre ancorato come alla sua origine e al suo unico ambito alla realtà concretissima della persona di Cristo Gesù. Gesù di Nazaret, e solo Gesù di Nazaret, donato, presente, vissuto e rivissuto nella storia reale dell'uomo ci dà la possibilità di parlare realmente di filiazione divina. Se non ci fosse lui, la sua presenza, la sua mediazione, la sua parola e la sua vita reale, tutto cadrebbe nell'illusione ( Freud ), o nell'alienante consacrazione dell'ingiustizia fatta autorità ( Marx ), o nella dispotica tirannia negatrice del gusto e della libertà della vita ( Nietzsche e l'ateismo di ribellione individualistica ). Ne basterebbe, è ovvio, il senso puramente metaforico e carico di significati ambigui di cui è ancora testimone l'AT, in cui paternità attribuita a Dio è prevalentemente un modo umano di raffigurarsi l'indicibile e il non raffigurabile, in fondamentale analogia con l'esperienza religiosa universale degli uomini, più carica di ambiguità e di illusione che di contenuti reali.21 In Gesù Salvatore la figliolanza divina diventa reale e non illusoria, per quanto sempre sottomessa - ogni volta che noi la pensiamo e la esprimiamo e in quanto siamo noi a pensarla e ad esprimerla - al rischio dell'ambiguità e della strumentalizzazione ideologica. In Gesù Dio si da definitivamente il nome di Padre, con una autonominazione che non risponde ad esigenze umane di conforto e di protezione ( giacché questa paternità appare realmente tutt'altro che confortante e proteggente ). Per convincerci di questo ci basterà pensare all'esperienza di umanità debole, sofferente, abbandonata e morente che si verifica in Gesù Figlio. Questo Padre non è un padrone che aliena dalla responsabilità e dal gusto del vivere e del costruire la storia; non è un rivale che vince nella sconfitta dei figli, ma è la realtà totalmente nuova di un Dio definitivamente diverso, come è diverso Gesù di Nazaret da ogni salvatore sognato o richiesto. Ecco allora che annunciare la filiazione divina sarà prendere coscienza della salvezza che Gesù di Nazaret ha portato, nella sua specifica doppia realtà di liberazione da ciò che la fede chiama male, o peccato, e di definitiva offerta-presenza di una divinizzazione che può essere veramente espressa in termini di filiazione solo perché è assimilazione inaudita a Colui che si dice, ed è proclamato, ed è veramente il Figlio diverso ed unico di questo Padre diverso ed unico. Parlare dunque di filiazione divina sarà parlare di salvezza in Cristo, e non di un'imitazione morale ( o peggio moralistica ), di atteggiamenti vagamente filiali ( o peggio infantilistici ), nei confronti di un padre immaginato sul modello di padri umani, buoni o cattivi che siano. Su questo fondamentale discorso, discriminante tra l'infantilismo fondamentalmente morboso e l'autentica "infanzia spirituale" evangelica e cristiana tornerò in seguito. Ora è il momento di descrivere, sulla base della rivelazione biblica e dell'esperienza viva della fede viva nella comunità storica che è la chiesa, nel contesto della cultura di oggi, la realtà della salvezza cristiana nella quale l'uomo diventa veramente, anche lui, figlio diverso di un Padre diverso, in Cristo e nello Spirito che è effuso nella sua vita reale di uomo tra gli uomini ( Rm 5,5 ). 2. Gesù Cristo è la salvezzaLa vita reale dell'uomo, appunto, che è la storia, è stata percorsa da una coscienza storica, prima indecisa e ambigua, indistinta e non esplicitata, poi sempre più chiara e luminosa, che si è concretizzata nell'esperienza reale di Gesù di Nazaret e di coloro che lo hanno accolto e che ne hanno trasmesso la "notizia", annunciando il mistero inaudito finalmente rivelato. Non è un ideale morale, un programma di vita, un complesso di precetti cultuali, ma una persona viva, una realtà umana in tutta la sua pienezza di limitazione creaturale comune e di assoluta originalità divina. Perciò questa vita storica concreta, questa "parola", questa comunione di esperienza umana debole e dolorante è la pienezza di un cammino che veniva da lontano, cominciato da tempo per assoluta iniziativa di Jahve: « Dio nei tempi passati parlò molte volte e in molti modi ai nostri padri, per mezzo dei profeti; ora invece, in questi tempi che sono gli ultimi, ci ha parlato per mezzo del Figlio » ( Eb 1,1-2 ). La coscienza che questa presenza è realtà nuova e contemporaneamente è alla fonte stessa di ogni vita passata, presente e futura emerge nel programma di chi lo ha incontrato e lo annuncia a tutti: « Quello che era fin da principio, quello che abbiamo udito, quello che abbiamo veduto coi nostri occhi, quello che abbiamo contemplato e le nostre mani hanno toccato a riguardo della parola della vita - e la vita si è manifestata, e noi abbiamo visto e rendiamo testimonianza e vi annunciamo la vita eterna che era presso il Padre e che si è manifestata a noi - quello che abbiamo visto e udito lo annunciamo anche a voi, affinché voi pure siate in comunione con noi. Ma la nostra comunione è con il Padre e con il Figlio suo Gesù Cristo» ( 1 Gv 1,1-3 ). Gesù di Nazaret, dunque, è la salvezza. Dio stesso che entra nella nostra "carne",22 nella nostra storia, cammina sulle nostre strade, piange le nostre lacrime, soffre i nostri dolori, gioisce della nostre povere gioie, ama ciò che noi amiamo, muore la nostra morte e risorge della sua vita che diventa nostra, ci offre la sua speranza, ci vivifica della sua gioia, ci trasfigura nella sua divinità umana, ci raccoglie nella sua unità perfetta col Padre e con i fratelli, nella storia e al di là della storia, in una pienezza che non è alienante regalo a deboli rinunciatari, ma conquista quotidiana sostanziata dalla sua energia di amore e di fraternità concretissima: « Dio ha tanto amato il mondo, che ha sacrificato il suo figlio unigenito, affinché ognuno che crede in lui non perisca, ma abbia la vita eterna » ( Gv 3,16 ). Cristo dona se stesso, diventando uno come noi, uno di noi, e ci fa entrare nella sua vita senza fine, nella sua comunione personale con quel Dio che egli chiama padre e con gli altri, in un'unità di destino che sconfigge il dolore e la morte, la solitudine e l'incapacità di trasformare la storia del mondo. Questa non è certo realtà evidente o che indichi con certezza sperimentale il cammino di ogni giorno. Questa salvezza non ha eliminato il dolore, ne la morte, ma ci ha indicato la strada. La soluzione è in qualche modo donata, ma dobbiamo farla nostra; non è imposizione che annienti la libertà, costringa la nostra intelligenza e la nostra volontà, alieni, in una parola, la nostra dignità, che consiste nel prendere in mano la nostra esistenza, nel camminare il nostro faticoso cammino di uomini tra gli uomini, con gli stessi problemi degli altri, ma con un annuncio nuovo per tutti. Prendiamo in mano la nostra storia e la scopriamo storia di Dio, perché è realmente anche storia sua, e con lui camminiamo alla costruzione quotidiana di terra nuova e cieli nuovi, nell'attesa operante del compimento definitivo che lui ( con noi ) realizzerà donando senso e pienezza a ciò che è umano, in modo inaudito e ben al di là di tutte le più grandi aspirazioni dell'uomo stesso: « Occhio umano mai vide, orecchio umano mai udì, cuore umano mai poté presagire quello che Dio ha preparato per coloro che lo amano » ( 1 Cor 2,9 ). Tutta questa realtà è racchiusa in lui, Cristo Gesù, figlio di una donna del popolo, fratello nostro nel dolore e nella morte, « provato in tutto come noi, fuorché nel peccato » ( Ef 4,15 ). Lui è veramente il Dio vivo e vero, non costruito dai nostri sogni e dalle nostre illusioni frustrate dalla durezza della realtà quotidiana; in lui, finalmente, noi uomini scopriamo il vero volto di Dio, e riconosciamo il nostro vero volto di « uomini umani ».23 Egli ci ha finalmente scoperto la "faccia" di Dio: « Nessuno ha mai potuto vedere Dio: l'unigenito figlio, che è nel seno del Padre, lui ce lo ha rivelato » ( Gv 1,18 ). Ma allo stesso modo egli ci ha rivelato la sostanza stessa della nostra vita, che consisterà nell'amare gli uomini fratelli, in lui figli di un unico padre: « Nessuno ha mai visto Dio: se ci amiamo tra di noi. Dio abita in noi, e il suo amore è giunto in noi alla perfezione » ( 1 Gv 4,12 ). 3. Salvezza: liberazione e divinizzazioneCristo è dunque la salvezza, il salvatore, l'alfa e l'omega di tutta la creazione, di tutta la storia umana, come proclama Paolo in questo testo di inesauribile ricchezza divina e umana, in cui parla della nostra salvezza e di quella di tutto il creato: « Ringraziando con gioia il Padre, che ci ha fatti degni di partecipare alla sorte dei santi nella luce, ci ha liberato dal potere delle tenebre, e ci ha trasferito nel regno del Figlio del suo amore, nel quale abbiamo la redenzione, la remissione dei peccati. Egli è l'immagine del Dio invisibile, primogenito di tutta la creazione, perché in lui sono state create tutte le cose… tutto è stato creato per mezzo di lui e per lui. Egli è prima di tutte le cose, e tutte sussistono in lui. Egli è il capo del corpo, cioè della chiesa; egli è principio, primogenito dai morti, affinché sia lui ad avere il primato in tutto: perché volle che abitasse in lui tutta la pienezza, e che fossero, per mezzo di lui, riconciliate tutte le cose in lui, facendo pace per mezzo del sangue della sua croce, cioè per mezzo di lui, sia le cose della terra, che quelle dei cieli » ( Col 1,12-20 ). Egli è l'uomo perfetto, l'uomo totale, l'uomo nuovo che ha vinto tutte le alienazioni di cui sperimentiamo il tremendo peso sulla nostra vita: l'egoismo, la solitudine, la morte. Risorto da morte egli ci offre se stesso, e la nostra salvezza è la sua risurrezione, ricomposizione definitiva di quella unità originaria rotta dall'avvento del male in tutte le sue forme. Salvezza significa pienezza, novità, totalità, compimento della storia dell'uomo, realizzazione piena dell'umanità dell'uomo stesso. Nella risurrezione di Gesù di Nazaret, che diviene risurrezione dell'uomo, questa salvezza si realizza nei due momenti fondamentali che la costituiscono: quello negativo di superamento del peccato, della morte, della schiavitù della legge, del dolore, dell'inefficacia, e quello positivo della glorificazione, vivificazione, comunicazione dello Spirito, liberazione totale, in una parola della divinizzazione dell'uomo, che teologicamente è proprio la sostanza della filiazione divina dell'uomo in Gesù Cristo, di cui stiamo trattando. a. La salvezza come liberazione vittoria sulla morte, sul peccato e su tutto ciò che impedisce all'uomo la sua pienezza umanaCristo risorge sconfiggendo la morte e la sua risurrezione è la definitiva vittoria sull' "ultimo nemico", che è appunto la morte ( 1 Cor 15,26 ). La morte è l'elemento che supremamente disgrega l'uomo, mantiene in atto la sua alienazione da se stesso e dai fratelli, è rottura, è dispersione, è disordine definitivo. Essa è diretta conseguenza del peccato, nello schema teologico paolino ( Rm 5,12; Rm 6,23 ), giacché esso è, per sua natura, lacerazione dell'unità, alienazione dell'uomo e rottura dell'armonia.24 Perciò la vittoria sulla morte, la risurrezione, è conseguenza della vittoria definitiva sul peccato per opera di Cristo ( Rm 6,5; Eb 9,26; 1 Gv 1,7; 1 Gv 3,5 ). Così viene eliminata ogni scissione, ogni inimicizia ed ogni ostilità all'interno dell'uomo, fra gli uomini È il grande avvenimento della restaurazione della comunione amichevole tra Dio e gli uomini e tra gli uomini tutti: la totalità dell'uomo « a immagine e somiglianza di Dio », come nell'immaginario scenario biblico iniziale, si ricompone e si ricostruisce.25 Cristo risorto è colui che « ha distrutto la morte »,26 distruggendone la radice che era il peccato, e l'ostilità che esso aveva scatenato tra l'uomo e Dio, e tra gli uomini stessi. b. La salvezza come "glorificazione" e divinizzazione dell'uomoE tuttavia se il discorso sulla salvezza si arrestasse a questo punto, verremmo a mutilarlo dell'elemento suo più proprio e più specifico, più sconvolgente e più nuovo, contenuto nella sostanza più genuina della rivelazione cristiana. Perché il desiderio struggente della liberazione dal male è proprio anche del sentimento religioso naturale e di altre religioni e ideologie astoriche, che hanno affermato l'anelito ad una purificazione dalle limitazioni e dai fallimenti dell'esistenza, vagheggiando un impossibile ritorno alle origini o l'eliminazione dei desideri come base della felicità possibile, o anche la fuga verso una dimensione diversa e opposta al mondo.27 Ma su questa strada hanno avuto ed hanno buon gioco i sopra citati "maestri del sospetto", mettendo in difficoltà un cristianesimo non estremamente rigoroso e vigilante sulle sue stesse caratteristiche. E la caratteristica più profonda del messaggio cristiano, nella lucidità di una coscienza inaudita che si afferma con la forza della gratuità che sopraggiunge inattesa, e quindi non come possibile proiezione di sogni impossibili, è proprio questa: l'affermazione lucida e pienamente dottrinale della salvezza come divinizzazione reale, non illusoria, non decolpevolizzante, non alienante, ma storica e concreta dell'uomo storico e concreto. Vale la pena di ripeterlo: è la sostanza più profonda del messaggio cristiano direttamente concernente l'uomo. In Gesù di Nazaret, figlio unigenito del Padre, l'umanità stessa entra, in modo realissimo e "carnalissimo",28 non ideologicamente, ma storicamente, in comunione totale di vita con Dio stesso che in Cristo non solo si rivela ( Cristo segno-immagine del Padre ), ma si comunica ( Cristo segno efficace del Padre ). Perciò lui è « sacramento dell'incontro con Dio », sacramento primordiale, fonte e realtà ultima e vera di tutti i sacramenti, che altro non sono e non debbono essere che punti di incontro e di innesto della sua realtà divina nella nostra realtà umana.29 Ciò vuoi dire, ed è l'essenza più intima della salvezza cristiana, che in Cristo Dio e l'uomo sono diventati un'unica realtà, in un unico ritmo di vita che unisce tempo ed eternità, storia ed assolutezza, materia e spirito… Dall'incarnazione-morte-risurrezione di Gesù di Nazaret, alfa e omega della storia, l'uomo è libero di entrare a far parte del mistero d'amore e di vita che è la realtà trinitaria; da quel momento l'uomo è Dio per grazia di Dio,30 figlio vero di Dio perché fratello vero di Cristo, e solo la sua libera e assurda scelta negativa, il peccato, può impedire questa misteriosa ed esaltante realtà. Solo in questo modo sconvolgente è pienamente vera la trionfale esclamazione di Paolo: « Dove abbondò il peccato sovrabbondò la grazia » ( Rm 5,20 ). Se la salvezza consistesse solo nel ricondurre l'uomo allo stato ipoteticamente preesistente al peccato questo testo non avrebbe senso. E non avrebbero senso tanti altri testi scritturistici, e non sarebbero altro che modi di dire, mentre suonano con una chiarezza perentoria che non consente dubbi ed equivoci, una volta entrati nella dimensione della fede. Questi testi non consentono dubbi ed equivoci almeno a chi non cede alle tentazioni spiritualeggianti di un platonismo manicheo, ed a chi non ha paura di prendere sul serio l'incarnazione di Cristo, che diventa la chiave di volta della storia, la forza trasformatrice del tempo presente, della terra attuale, e non soltanto del tempo futuro, dell'al di là, di un "cielo" immaginato non con le categorie realistiche del mondo biblico ma con i fantasmi falsamente celesti di un certo spiritualismo di origine dualista e pagana: « Cristo è la nostra pace, colui che ha fatto di due cose una cosa sola, che ha abbattuto il muro della separazione,31 l'inimicizia, abolendo per mezzo della propria carne la legge… per creare in sé, dei due, un solo uomo nuovo, ristabilendo la pace, e per riconciliare ambedue con Dio, in un solo corpo, per mezzo della croce, avendo ucciso in se stesso l'inimicizia… Così dunque non siete più forestieri, ma concittadini dei santi e membri della famiglia di Dio » ( Ef 2,14-19 ). Solo perciò ( lo vedevamo sopra ) noi « ci chiamiamo figli di Dio e lo siamo veramente » : in Gesù di Nazaret l'uomo è diventato « partecipe della natura di Dio » ( 2 Pt 1,4 ), « erede di Dio » ( Rm 8,17 ), ed è per questo che da allora l'atteggiamento nei confronti dell'uomo è identicamente l'atteggiamento nei confronti di Dio. Amare l'uomo significherà amare Dio: « quello che avete fatto ad uno di questi piccoli lo avete fatto a me » ( Mt 25,40 ). E la reciproca non sarà meno vera; amare Dio è cosa reale solo quando si ama l'uomo: « Chi non arna suo fratello, che vede, come può amare veramente Dio, che non vede? Abbiamo infatti questo comando da lui: che chi ama Dio, ami anche i fratelli » ( 1 Gv 4,20-21 ). Per questo lo stesso Giovanni può affermare con sicurezza trionfale una cosa che, a noi così lontani dalla concretezza della "carne" di Cristo, appare sorprendente e riduttiva: « Noi sappiamo di essere passati dalla morte alla vita, perché amiamo i fratelli! » ( 1 Gv 3,14 ). "Passare dalla morte alla vita" è lo stesso che risorgere, è la salvezza in tutta la sua portata, che consisterà quindi proprio nella ( v. ) carità, cioè nell'amore dell'uomo nel nome di Cristo. Ciò tuttavia non significherà uno strumentalizzare l'uomo a Cristo, amandolo quindi "come se fosse Cristo", giacché dal momento dell'incarnazione redentrice l'uomo è Cristo, ogni uomo è il figlio di Dio, nella concretezza realissima di questo dono storico supremo che ha trasformato la condizione umana ( morte, separazione, solitudine, odio di sé e degli altri ) nella « meravigliosa sorte dei santi nella luce », che è la luce stessa che è Dio: « Dio è luce, e in lui non c'è tenebra alcuna» ( 1 Gv 1,5 ). Certo, la tentazione resta sempre forte: quella di trasferire tutto questo discorso solo nell'aldilà, tradendo lo spirito fondamentale della scrittura e restando fedeli, purtroppo, allo spirito fondamentale di una certa "cristianità", cioè del modo inefficace e storicamente sempre imperfetto con cui la parola di Dio stessa è stata ricevuta e vissuta dai "cristiani", peccatori e deboli come gli altri uomini, ed ancora di più ogni volta che pensano di essere loro, e non il Cristo con loro, a salvare il mondo e la storia. L'amore di Dio che si finalizza all'uomo, questo che diventa, per grazia, una sola cosa con Dio, la storia dell'uomo che diventa storia di Dio in Cristo: questo è l'annuncio della salvezza cristiana e la figliolanza divina. In questa prospettiva Cristo risorto è una sola cosa con l'umanità salvata, il "Cristo totale", cioè la chiesa, popolo di Dio che cammina verso la definitiva rivelazione dei figli di Dio ( Rm 8,19 ), il luogo privilegiato, il segno pregnante di questo avvenimento che è la salvezza e la dimostrazione efficace del suo attuarsi nella storia degli uomini.32 Il Cristo, per mezzo della chiesa, popolo dei figli di Dio, è la possibilità reale e già storicamente operata ed operante, per quanto non ancora totalmente manifestata, della realizzazione della salvezza come liberazione dal male, come divinizzazione dell'uomo, reso vero figlio di Dio stesso. Ma proprio per questo la salvezza non è un ideale, non è un'ideologia, non è un valore etico astratto e neppure un codice di comportamento, ma una storia reale. La vita-morte-risurrezione di Gesù di Nazaret e la vita-morte-risurrezione dell'uomo sono due momenti, due facce di un'unica realtà, di un unico evento che segna il vero ed unico "destino" - senza alcun fatalismo - dell'uomo, rivelando e realizzando insieme il senso dell'uomo nella storia, che diventa storia di salvezza reale. In questo senso nessun assorbimento dell'uomo, della sua dignità, della sua libertà in un Dio che lo annulli, lo domini o si sostituisca a lui: la salvezza non è imposta, ma offerta alla libertà umana; e non è offerta altezzosamente, da una distanza infinita che umili l'uomo e lo costringa a cercare protezione illusoria di fronte ad un assoluto concorrente e rivale del suo essere e della sua libertà. La salvezza è in un uomo, gli viene offerta da una mano fraterna, una mano di "figlio dell'uomo", « capace di compatire alta nostra debolezza » ( Eb 4,15 ), perché ne ha condiviso il fardello pesante, « in tutto fatto simile a noi fuorché nel peccato » ( Eb 4,15 ). Ha messo da parte lo splendore della sua divinità, del suo « essere uguale a Dio », per impadronirsi della « forma umana », la « forma di servo », di creatura, per trasformarla nella stessa vita divina, in comunione d'amore con il Padre e con lui, il figlio, dove la totalità dell'uomo e degli uomini si ricompone senza dissolversi e si compie nella compresenza della totalità di Dio in Cristo ed in essi, attendendo e preparando nella prassi storica il momento in cui « egli riconsegnerà il regno al Padre… affinché Dio sia tutto in tutti» ( 1 Cor 15,24-28 ). Nessuna paura, quindi, di parlare di figliolanza divina e di libertà umana, di storia umana e di storia della salvezza; non sono realtà contrapposte o sovrapposte illusoriamente, ma sono insieme la struttura intima della realtà intera, che si compie nella progressiva manifestazione della compresenza di Dio in Cristo nel cuore stesso della storia e della vita dell'umanità che cammina concretamente nella storia. V - ConclusioneTutto questo lungo itinerario, allora, ci porta, nella luce della parola, della riflessione dottrinale e della situazione culturale contemporanea, all'affermazione della figliolanza divina, come a una delle forme in cui, una volta messi in guardia dai rischi smascherati dai "maestri del sospetto", può essere presentata la realtà piena della salvezza dell'uomo e del mondo, l'annuncio dell'evangelo come "buona notizia" universale. Ciò vuol dire che salvezza, come figliolanza divina, non è salvezza dell'anima, ma salvezza dell'uomo, di tutto l'uomo e di tutti gli uomini viventi in inscindibile solidarietà con il cosmo intero che attende anch'esso salvezza, come ci annuncia Paolo, e come Teilhard de Chardin ha profondamente riproposto:33 «La creazione attende, infatti, con gran desiderio, la rivelazione dei figli di Dio… sappiamo, infatti, che fino ad oggi tutta quanta la creazione geme unanime e soffre le doglie del parto; e non solo essa, ma anche noi, che abbiamo le primizie dello Spirito, anche noi sospiriamo dentro di noi attendendo la piena figliolanza… » ( Rm 8,19-23 ). Il Cristo glorioso non è più solo, figlio unigenito dell'unico Padre, « da cui prende nome ogni paternità » ( Ef 3,15 ),34 ma come capo del corpo che è la chiesa ( Col 1,18 ), come capo dell'intera creazione, offre all'uomo, signore della storia, nel suo mistero di morte e di risurrezione, la possibilità realissima di sconfiggere il male, ogni inimicizia, di entrare nella pienezza di amore e di vita con il Padre e con gli altri uomini, scoperti pienamente fratelli. Questa salvezza-figliolanza-divinizzazione è insieme dono di Dio, perché « l'amore viene da Dio » ( 1 Gv 4,7 ), e compito storico che impegna la libertà e la risposta dell'uomo storico. Ciò significa che la salvezza-filiazione diviene realtà pienamente posseduta solo quando l'uomo risponde con tutta la sua persona al dono gratuito e lo fa suo attraverso la fede, implicita o esplicita, che è incontro reale di persone, e che trasforma l'uomo nella nuova creatura, vero figlio di Dio, membro vivo del corpo che è Cristo, coerede con lui e con i fratelli della risurrezione e della pienezza della storia. In questa chiave l'impegno terreno per un mondo più giusto e meno disumano è sostanza portante della filiazione divina vissuta e realizzata nella storia.35 La filiazione-salvezza non uccide l'impegno, non protegge illusoriamente dai contraccolpi della storia, non aliena verso un'eternità che è negazione del tempo, non è nemica della fantasia e del gusto di creare tempi nuovi e di costruire il regno dell'uomo.36 Anzi: l'impegno storico terreno diventa il modo con cui l'uomo, diventato veramente "uomo umano", liberato e divinizzato nel tempo, realizza, mosso dallo Spirito di Cristo che diventa il suo Spirito ( Rm 5,5; Rm 8,14 ), il programma grandioso con cui Dio stesso costruisce la storia e l'eternità: « Ecco, io faccio nuove tutte le cose » ( Ap 21,5 ). |
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Rapporto con il Padre | Celebrazione I,1 |
… nella Chiesa | Chiesa II,2 |
… nel battesimo-cresima | Chiesa II,3 |
Libertà dei … | Amicizia IX |
Libertà II |
1 | A. Mitscherlich, Verso una società senza padre, tr. it., Milano, Feltrinelli 1970; G. Mendel, La rivolta contro il padre, Firenze, Vallecchi, 1973; J. Lussu, Padre, Padrone, Padreterno, Milano, Mazzetta 1976 |
2 | Sul pensiero di Freud nei confronti della religione: A. Vergete, Interpretaziuni psicologiche dei fenomeni religiosi nell'ateismo contemporaneo in L'Ateismo contemporaneo (dir. Giulio Girardi), Torino, SEI 1967ss, I, 327-380; L. Beirnaert, Introduction a la psychanalise freudienne de la religion in Etudes 2 (1968) 200-210 e ivi 8 (1968) 278-286; J. C. Sagne, De l'illusion au svmbole, la reconnaissance du Pere in LumVie 104 (1971) 38-58; A. Pie, Freud et la religion, Parigi, Cerf 1968 (tr. it.. Roma, Città Nuova 1970); cf anche bibl. |
3 | F. Engeis, Antidiihring in K. Marx-F. Engeis, Opere complete, Roma, Editori Riuniti 1975, XXV, 304. Si badi bene che propriamente Marx non ha mai preso in considerazione la religione in sé, ma sempre come riflesso e prodotto della vera unica alienazione profonda dell'uomo che è quella economica. Ecco perché mi pare abbiano ragione autori come I. Mancini e R. Orfei quando rilevano che bisogna stare attenti a letture semplicistiche, e perciò false, del rapporto marxismo - religione. Cf I. Mancini, Teologia. Ideologia. Utopia, Broscia, Queriniana 1974, in part. Religione e oppio, 329-362; R. Orfei, Marx. Il regno della libertà, Roma, Coines 1976, in part. 162-172 |
4 | Su questi precedenti: G, Siegmund, Nietzsches Kunde vom Tode Gottes, Berlino, Morus Verlag 1964 |
5 | « Il mio orgoglio non sopporta che gli dèi… portino lo scettro… Fatti forza, cuore mio, perché ora si rivelerà l'inganno, se cioè egli è un re o solo un fantasma ». F. Nietzsche, Werke una Briefe, Monaco, Beck 1933, 63. Sullateismo di Nietzsche in genere cf G. Siegmund, F. Nietzsche in L'Ateismo contemporaneo, cit., II, 259-286 |
6 | J. Lotz, Ateismo ed Esistenzialismo, ivi, II, 305-364; G. Penzo (a cura) Il Nichilismo da Nietzsche a Sartre, Roma, Città Nuova 1976, con amplissima bibl. |
7 | M. Eliade, Trattato di storia delle religioni, Torino, Boringhieri 1954, in part. 42 |
8 | Decisivo, in questo senso, mi pare il contributo di K. Rahner, soprattutto in Uditori detta Parola, Torino, Boria 1968 |
9 | P. Ricoeur, De l'interpretation. Essai sur Freud, Parigi, Seuil 1965; J. M. Pohier, Au nom du Pire in Esprit 347 (1966) 480-500; 348 (1967) 947-970. Quest'ultimo saggio è pubblicato in italiano nel volume di Pohier: Ricerche…, di cui in bibl. |
10 | E. Jacob, Théologie de l'AT, Neuchàtel, Delachaux et Niestié 1955, 49 |
11 | V. la monumentale voce Poter in GLNT IX, 1111-1328, in part. 1126-1147; 1164-1175 |
12 | J. Blinzier, voce Figliolanza in Diz. di Teol. Biblica (a cura di B. Bauer), Brescia, Morcelliana 1965, 538-551, in part. 539-540 |
13 | le voci "re", "sposo", "pastore", nei diversi dizionari biblici |
14 | Per questa analisi testuale del NT mi riferisco soprattutto a H. Bourgeois, Le Dieu Pére et la théologie in LumVie 104 (1971) 134-135 |
15 | e eccezioni sono: At 7,56; Ap 1,13; Ap 14,14 |
16 | R. Tufariello, voce Figlio in Schede Bibliche Pastorali, Bologna, Dehoniane 118, 13 |
17 | Accenno solo alcuni testi in cui il tema è ampiamente trattato: M. De La Taille, Actuation creé par ade increé in RecSR, 1928, 253-268; Y. M. Congar, La déification dans la traditìon spirituelle de l'Orient in VSpS XLIII (1935), 91-107; J. Gross, La divinisation du chrétien d'après les Pères grecs, Parigi, Vrin 1938; S. I. Dockx, Fils de Dieu par gràce, Parigi, Desclée 1948; F. Bourassa, Adoptive Sonship. Our Union with thè Divine Persons in 7-S XIII (1952), 309-335; M. Flick-Z. Aiszeghy, II vangelo delta grazia, Firenze, LEF 1964, 498-529; H. Kung, La giustificazione, Brescia, Queriniana 1969, 135-159; 236-249; J. Ratzinger, J. Auer, Il vangelo delta grazia, Assisi, Cittadella 1971, 148-168 |
18 | Baumgartner, La grazia del Cristo, Roma, Desclée 1966, 150-224, in part. 173-178, con indicazioni di fonti e bibl. ampia ad ogni capitolo |
19 | Leo XIII, Divinum Illud Munus, 9-5-1897, AAS 29, 644-658, cit. da Pio XII in Mystici Corporis, 29-6-1943, AAS 1943, 193-248: «Tale unione ammirabile che si chiama inabitazione non differisce che per la condizione e lo stato da quella in cui Dio abbraccia e rende beati gli eletti ». Mi permetto di citare a tale proposito questo pensiero di Teresa di Lisieux sul letto di morte: « Non riesco proprio a vedere cosa potrò avere di più, dopo la morte, che non abbia già in questa vita. Vedrò il buon Dio, è vero, ma quanto ad essere con lui, io lo sono già pienamente sulla terra». Entro nella vita. Ultimi colloqui, Brescia, Queriniana 1974, 35. Cf G. Gennari, Teresa di Lisieux. La verità è più bella, Milano, Ancora 1974, in part. 242-249 |
20 | Ho usato di proposito l'aggettivo "spirituale", che indica, al di fuori degli schemi dualistici di origine pagana, la realtà della vita di Dio, lo Spirito, che trasforma e « fa nuove tutte le cose ». Questo è il vero senso di spiritualità cristiana. È "spirituale" solo ciò che trasforma vitalmente l'esistenza dell'uomo e del mondo intero. Il mondo è l'ambiente dell'uomo. In questo senso sopra ho parlato di vera "mondanità" della vita, facendo riferimento al senso positivo della parola "mondo" nella teologia di Giovanni, e richiamando la grande lezione di quell'amico di Dio e degli uomini che è stato D. Bonhoeffer |
21 | Basterà consultare la voce "figliolanza divina" in Enciclopedia delle Religioni, Firenze, Vallecchi, II; 1604-1606, per vedere quanti riferimenti ambigui ci sono a realtà primitive. Si pensi, ad es., allo Juppiter latino, ed allo Zeus Patir dei greci, per capire ciò che vogliamo dire. Cf anche G. Van der Leeuw, Fenomenologia delta religione, Torino, Boringhieri 1975, 138-143 |
22 | "Carne" ha qui il senso di esistenza umana nella sua pienezza di realtà segnata di tempo e spazio, di intelligenza e di volontà, di fede vissuta nella storia e nella precarietà della debolezza creaturale. Non fa quindi riferimento al dualismo pagano di materia-spirito o corpo-anima, che ha influenzato anche il pensiero di tanti cristiani. Cf la voce "sarx" (carne) in TWNT e nei vari dizionari biblici. Non c'è, in questo senso, alcun significato peggiorativo; e perciò « il Verbo si è fatto carne » ( Gv 1,14 ). Cf anche Sal 84,3 (Vg); Mt 19,6; Gv 6,56; e Credo la risurrezione della carne » |
23 | L'idea di Cristo come l'uomo nuovo, l'uomo vero, in parallelo antitetico con l'uomo vecchio, realizzazione perfetta della stessa creazione dell'uomo, è uno dei temi di fondo di tutto il NT in relazione all'AT. Cf Gen 1,26: l'uomo immagine di Dio e Eb 1,3: Cristo immagine del Padre; Gen 3: Adamo " primogenito dei peccatori e Rm 5: Cristo primogenito dei giusti; Gen 12: Abramo iniziò della promessa e Gal 3: Cristo, figlio di Abramo attraverso David, pienezza della promessa; Gen 22: Isacco offerto dal padre in sacrificio e Gv 3: Cristo offerto dal Padre per la salvezza del mondo; Is 42-49-50-53: il Servo sofferente e Mt 26-27, Mc 14-15, Lc 22-23, Gv 18-19: la passione di Cristo; Dn 7,13-14 e Ap 5; Ap 19 ecc |
24 | A. Giudici-G. A. Palo, Peccato in Diz. Teol. (a cura di J. Bauer e C. Molari), Assisi, Cittadella 1974, 509-520; P. Schoonenberg, La potenza del peccato, Brescia, Queriniana 1970. Questa idea del male come lacerazione dell'unità e rottura di rapporti, può offrire una fecondissima linea di lettura dei cc. 3-11 di Gen, che mi pare molto interessante: il peccato sarebbe rottura dell'uomo con Dio ( disobbedienza all'ordine di Dio e paura di Adamo dopo il peccato ), con se stesso ( la vergogna della nudità ), con la donna ( Adamo contro Eva nell'accusa e nel dominio ), con la vita stessa ( la morte "stipendio" del peccato ), con la vita da comunicare ( il parto fonte di dolore ), con la terra nel lavoro ( sofferenza e improduttività ), con i fratelli nella violenza ( Caino uccide Abele ), con la natura intera che si ribella ( diluvio universale ), con i fratelli sul piano della comunicazione del pensiero ( la torre di Babele e il disperdersi degli uomini ) |
25 | Chiamo "immaginario" lo scenario iniziale di Gen tenendo presente il genere letterario e la natura del racconto religioso della creazione e dell'origine del male. Cf U. Baumann, Peccato originale in Bis. Teol. (Bauer-Molari), cit., 521-529 |
26 | « Ha distrutto, morendo, la nostra morte; ha restituito, risorgendo, la nostra vita » (da un Prefazio pasquale): cf anche 2 Tm 1,10 |
27 | La concezione "ciclica" della storia, propria della antichità pagana e del pensiero filosofico di tanti autori (Fiatone, Rousseau,…), è l'opposto della concezione "lineare" della scrittura, il cui punto d'arrivo è una realtà tutta nuova, e non un ritorno alle origini. Per l'altro aspetto cf le filosofie orientali, il buddhismo, la concezione stoica e cinica, e, in Occidente, il pensiero di Schopenhauer |
28 | Sopra, nota 22 |
29 | E. Schillebeeckx, Cristo, sacramento dell'incontro con Dio, Roma, Edizioni Paoline 1974 |
30 | La precisazione è essenziale; se si negasse ciò si correrebbe il rischio di negare l'esistenza stessa della redenzione come opera dell'amore, e quindi gratuita. Ma una volta premesso ciò, non c'è alcuna ragione per non prendere sul serio la divinizzazione stessa. In questa prospettiva riveste grande importanza, per la teologia contemporanea, la grande e discussa sintesi di Teiihard de Chardin. Al di là dei limiti ed oscurità del suo pensiero egli è e resta uno dei punti di riferimento della spiritualità e della teologia di oggi. Cf H. De Lubac, La pensée religieuse du P. Teiihard de Chardin, Parigi, Aubier 1971; G. Crespy, Dalla scienza alta teologia, Roma, AVE 1968. Un panorama bibl. su T.d.Ch. l'ho proposto nel mio volumetto Cristo speranza delle speranze umane, Roma, Edizioni Paoline 1973, 126s |
31 | Is 59,2: « La vostra colpa è il muro tra voi e il vostro Dio ». Cf anche sopra, nota 24 |
32 | Evidentemente la chiesa, in questo senso e in questo contesto, non è assolutamente coestensiva ed identificata con tutte le strutture umane, culturalmente condizionate dalla storia della società, che in essa si sono succedute nei secoli. Essa è il "popolo di Dio", la "Sposa di Cristo", che coesiste con i peccati dei suoi membri, con le istituzioni umane imperfette nelle quali pure è presente. La chiesa ad es., non è lo Stato della Città del Vaticano, in identità piena con tutte le sue strutture e i suoi servizi |
33 | H. De Lubac, La pensée religieuse…, cit., e. XII (ed. it. Brescia, Morcelliana 19662, 201-217) |
34 | Evidentemente Paolo afferma semplicemente questo fatto, senza porsi alcun problema di illusione o di alienazione. I maestri del sospetto non erano ancora venuti, e Paolo scriveva in una società in cui non c'era alcuna forma di « rivolta contro il padre » (Mendel). Oggi, invece, noi dobbiamo essere più cauti, e nella prima parte della voce abbiamo visto perché |
35 | In questa linea va vista come pienezza di comprensione del messaggio anche la riscoperta dell'impegno politico in generale, come impegno per l'uomo, come momento dell'evangelizzazione. Teologia delle realtà terrene, teologia politica, teologia della speranza, teologia della liberazione ecc. non sono venute invano. È, del resto, tutto lo spirito animatore della GS |
36 | Sarebbe utile, in questo spirito, rivedere la teoria e la prassi della dottrina tradizionale dell' "infanzia spirituale", che è realmente stata mal compresa e confusa troppo spesso con l'infantilismo. Per quello poi che riguarda in particolare la dottrina di Teresa di Lisieux l'argomento richiederebbe una trattazione a parte. Teresa non ha mai insegnato l'infanzia spirituale così come è stata diffusa a nome suo dalle sorelle, anche con gravissime manomissioni testuali. Il modello della sua spiritualità non è il bambino (enfant), ma è il Figlio (Enfant) Gesù Cristo vivificato dallo Spirito e abbandonato al Padre. Mi permetto di rimandare al mio volume (Teresa di Lisieux. La verità è più bella, cit. alla nota 19). Anche se ha suscitato qualche polemica e parecchie resistenze, mi pare che Teresa ne esca più vera, più viva e più attuale che mai, ben più grande del moralismo della "piccola via" distorta da troppi testimoni poco fedeli. |