Il consenso degli Evangelisti |
Fra tutti i libri insigniti di autorità divina che sono contenuti nelle sacre Scritture il Vangelo occupa meritamente un posto di preminenza.
Difatti ciò che la Legge e i Profeti preannunziavano come futuro, nel Vangelo si mostra realizzato e compiuto.
Primi predicatori di questo Vangelo furono gli Apostoli.
Essi videro presente nella carne il nostro Signore e Salvatore Gesù Cristo e, assunto l'incarico della predicazione, si premurarono d'annunziare all'umanità le parole udite dalla sua bocca e le opere da lui compiute in loro presenza conforme a quanto potevano ricordare.
Inoltre si incaricarono di trasmettere ciò che avevano investigato e conosciuto sul periodo che precedette la loro adesione a Cristo in qualità di discepoli.
Erano cose che riguardavano la sua nascita, la sua infanzia e puerizia, cose avvenute per intervento divino e quindi meritevoli d'essere ricordate; ed essi le poterono domandare o a lui personalmente o ai suoi genitori o ad altre persone e conoscerle sulla base di informazioni certissime o di attestati quanto mai degni di fede.
Di questi Apostoli alcuni, cioè Matteo e Giovanni, misero in iscritto, ciascuno con un libro, le cose che nei suoi riguardi ritennero doversi scrivere.
1.2 Per quanto riguarda la conoscenza e la predicazione del Vangelo non si deve credere che ci siano differenze se ad annunziarlo sono coloro che seguirono, servendolo da discepoli, il Signore apparso in terra rivestito di carne o gli altri che, divenuti credenti ad opera degli Apostoli, ritennero fedelmente le cose da loro apprese.
Fu pertanto disposto dalla divina Provvidenza che anche ad alcuni che avevano seguito i primi Apostoli fosse concessa ad opera dello Spirito Santo l'eccelsa prerogativa di annunziare il Vangelo, non solo ma anche quella di scriverlo.
Tali sono Marco e Luca.
Quanto agli altri che tentarono, o osarono, scrivere qualcosa sulle gesta del Signore o degli Apostoli, già fin dai loro tempi non furono tali che la Chiesa li ritenesse meritevoli di fede o ne ammettesse gli scritti nella serie autorevole e canonica dei Libri santi.
Questo, non solo perché essi non erano tali da meritare che si credesse alle loro narrazioni ma anche perché nei loro scritti inserirono falsità che la regola della fede cattolica e apostolica condanna, e così pure la sana dottrina.
Quattro dunque sono gli evangelisti, personaggi notissimi in tutto il mondo.
Che siano quattro lo si deve forse al fatto che quattro sono le parti del mondo dove si sarebbe estesa la Chiesa di Cristo, cosa che essi in certo qual modo indicarono col mistero del loro numero.
A quanto ci si riferisce, essi hanno scritto nel seguente ordine: primo Matteo, poi Marco, terzo Luca e per ultimo Giovanni, di modo che uno fu l'ordine in cui si susseguirono nella conoscenza e nella predicazione e un altro quello in cui avvenne la stesura dei libri.
Per quanto infatti riguarda la conoscenza e la predicazione certo furono primi quelli che seguirono il Signore presente corporalmente, lo udirono parlare, lo videro agire e da lui personalmente furono mandati ad evangelizzare.
Nello scrivere il Vangelo viceversa - cosa che è da ritenersi avvenuta per disposizione divina - i due evangelisti appartenenti al numero di coloro che il Signore scelse prima della passione occupano il primo e l'ultimo posto: il primo posto Matteo, l'ultimo Giovanni.
Gli altri due, che non erano del numero degli Apostoli ma avevano seguito Cristo che parlava per mezzo di costoro, dovevano essere abbracciati come figli e in tal modo, collocati in mezzo agli altri due, essere da loro come difesi da ambedue i lati.
2.4 Secondo la tradizione, di questi quattro soltanto Matteo scrisse in lingua ebraica; gli altri in greco.
E per quanto può sembrare che ciascuno abbia in certo qual modo seguito nella narrazione un suo proprio ordine, tuttavia si constata che nessuno di loro volle scrivere come ignorando il suo predecessore e che nessuno omise, ignorandole, le cose che si riscontrano scritte dagli altri.
Seguivano piuttosto l'ispirazione ricevuta, alla quale ognuno aggiunse una collaborazione personale che non è stata certamente superflua.
A quanto ci è dato comprendere, Matteo cominciò a narrare l'incarnazione del Signore secondo la stirpe regale, a cui aggiunse molti detti e fatti del Salvatore, limitandosi alla presente vita di uomo.
Marco seguì Matteo e sembra essere un suo alunno ed epitomatore.
In effetti, in comune col solo Giovanni non disse nulla; egli da solo riferisce pochissime cose; in comune col solo Luca anche di meno, mentre di cose comuni con Matteo ne disse moltissime, e alcune alla stessa maniera e quasi con le stesse parole, concordando o con lui solo o, se del caso, anche con gli altri.
Luca appare interessato maggiormente della stirpe sacerdotale del Signore e della funzione sacra esercitata dalla sua persona.
Ascende infatti a Davide non seguendo la genealogia regale ma attraverso coloro che non furono re e così giunge a Natan, figlio di Davide, che non fu re. ( Lc 3,31 )
Non fece come Matteo, il quale discende attraverso il re Salomone e prosegue ricordando ordinatamente anche gli altri re, ( Mt 1,6 ) disponendo la serie secondo un numero mistico, di cui parleremo appresso.
Il Signore Gesù Cristo è l'unico vero re e l'unico vero sacerdote: come re ci regge, come sacerdote espia per noi.
Questi due uffici, singolarmente rappresentati negli antichi Padri, egli stesso confermò di aver esercitato nella sua persona.
Così nel titolo che era stato affisso alla croce si diceva: Re dei Giudei, ( Mt 27,37; Mc 15,26; Lc 23,38; Gv 19,19 ) e fu per mozione celeste che Pilato rispose: Ciò che ho scritto ho scritto, ( Gv 19,22 ) in quanto era stato predetto nei Salmi: Non guastare l'iscrizione del titolo. ( Sal 75,1 )
Circa poi l'ufficio di sacerdote, lo si riscontra in ciò che egli ci insegnò ad offrire e a ricevere, per cui nei suoi riguardi premise quella profezia che diceva: Tu sei sacerdote per sempre secondo l'ordine di Melchisedech. ( Sal 110,4 )
Da molti altri testi scritturistici appare che Cristo è re e sacerdote, ( Sal 2,6; Sal 45,2; Mt 2,2; Mt 21,5; Mt 27,11; Mc 15,2; Mc 9,12; Lc 19,38; Lc 22,2; Lc 3; Gv 1,49; Gv 12,13; Gv 15; Gv 18,37; Gv 19,14; Eb 1,5; Eb 5,5; Eb 6; Eb 7,17 ) come quando si parla di Davide, di cui non a caso Cristo è detto " figlio " più frequentemente che non di Abramo.
Questo ritennero tanto Matteo quanto Luca: Matteo che lo fa discendere da lui tramite Salomone, Luca che risale a lui tramite Natan. ( Mt 1,6; Lc 3,31 )
Orbene Davide, che come tutti sanno fu re, figuratamente rappresentò anche la persona del sacerdote quando mangiò i pani della proposizione, che non era lecito mangiare se non ai soli sacerdoti. ( Lv 24,9; 1 Sam 21,6; Mt 12,13 )
Si aggiunge anche il fatto, ricordato solo da Luca, che anche Maria fu dall'angelo descritta come parente di Elisabetta, ( Lc 1,36 ) che era moglie del sacerdote Zaccaria.
Scrive infatti Luca di Zaccaria che aveva per moglie una discendente di Aronne, ( Lc 1,5 ) cioè della tribù sacerdotale.
3.6 Avendo dunque Matteo rivolto l'attenzione alla persona del re e Luca a quella del sacerdote, tutt'e due sottolineano principalmente l'umanità di Cristo.
In quanto uomo infatti Cristo è diventato e re e sacerdote, e a lui Dio ha dato la sede di Davide suo padre, ( Lc 1,32-33 ) in modo che il suo regno non abbia fine e sia lui, l'uomo Cristo Gesù, il Mediatore fra Dio e gli uomini che vive sempre ad intercedere per noi. ( 1 Tm 2,5 )
Pertanto Luca non ha avuto chi lo seguisse come epitomatore, come Matteo ebbe Marco.
E ciò forse non senza un significato misterioso.
È proprio infatti dei re non esser privi dell'omaggio di cortigiani, e quindi chi si incaricò di descrivere la persona regale di Cristo ebbe al suo seguito una specie di accompagnatore, che in certo qual modo ne calcasse le orme.
Viceversa è del sacerdote: egli entrava solo nel Sancta Sanctorum. ( Lv 16,17 )
Per questo Luca, che si propose di descrivere il sacerdozio di Cristo, non ebbe alcun seguace o accompagnatore che ne riepilogasse in qualche modo la narrazione.
I tre primi evangelisti si sono diffusi a narrare di preferenza le cose compiute da Cristo nell'ordine temporale mediante la sua carne umana.
Giovanni al contrario si volge soprattutto alla divinità del Signore per la quale egli è uguale al Padre.
Questa divinità si propose d'inculcare con la massima cura nel suo Vangelo, e vi si dedicò nella misura che ritenne sufficiente agli uomini.
Pertanto egli si leva molto più in alto che non gli altri tre.
Ti par di vedere i tre primi quasi trattenersi sulla terra con Cristo uomo, lui invece oltrepassare le nebbie che coprono la superficie terrestre e raggiungere il cielo etereo, ( Sir 24,6 ) da dove con acutissima e saldissima penetrazione della mente poté vedere il Verbo che era in principio, Dio da Dio, ad opera del quale tutte le cose furono fatte.
Lo osservò anche fatto carne per abitare in mezzo a noi, ( Gv 1,1-14 ) precisando che egli prese la carne, non che si sia mutato in carne.
Se l'incarnazione infatti non fosse avvenuta conservando il Verbo immutata la sua divinità, non si sarebbe potuto dire: Io e il Padre siamo una cosa sola. ( Gv 10, 30 )
Non sono infatti una cosa sola il Padre e la carne.
Ed è ancora lo stesso Giovanni che, unico fra gli evangelisti, ci riporta questa testimonianza del Signore nei riguardi di se stesso: Chi ha visto me ha visto anche il Padre, e: Io sono nel Padre e il Padre è in me, ( Gv 14,9-10 ) e: Che essi siano una cosa sola come io e tu siamo una cosa sola, ( Gv 17,22 ) e: Tutto ciò che fa il Padre, questo stesso lo fa ugualmente i Figlio. ( Gv 5,19 )
Queste parole e le altre, se ce ne sono, che designano a chi le capisce debitamente la divinità di Cristo nella quale è uguale al Padre è Giovanni che, esclusivamente o quasi, le ha poste nel suo Vangelo.
Egli aveva bevuto più copiosamente e in certo qual modo più familiarmente il mistero della divinità di Cristo, attingendolo dallo stesso petto del Signore sul quale nella cena gli fu consentito di reclinare il capo. ( Gv 13,25 )
All'anima umana sono proposte due forme di virtù: quella attiva e quella contemplativa.
Con la prima si cammina, con la seconda si perviene; nella prima si fatica per purificare il cuore e renderlo degno di vedere Dio, ( Mt 5,8 ) nella seconda si riposa e si vede Dio; la prima osserva i precetti che regolano la presente vita temporale, la seconda gode della manifestazione della vita eterna.
Pertanto l'una opera, l'altra riposa, poiché l'una ha il compito di purificare dai peccati, l'altra fruisce della luce di chi è già purificato. ( Col 1, 12.14; Eb 1,3 )
E per quanto concerne la presente vita mortale, l'una si occupa delle opere d'una buona condotta, ( Gc 3,13; 1 Pt 2,12; 1 Pt 3,16 ) l'altra consiste prevalentemente nel credere alla parola e, sia pure in pochissimi, in una qualche visione dell'immutabile verità, visione peraltro speculare, enigmatica e parziale. ( Rm 5,2; Gal 2,16; Gal 3,8; Fil 3,9; Gc 2,22; 1 Cor 13,12 )
Queste due virtù troviamo rappresentate nelle due mogli di Giacobbe, ( Gen 29,16 ) di cui ho trattato, secondo le mie modeste risorse e quant'era sufficiente per quell'opera, nel libro Contro Fausto manicheo.
Difatti Lia significa " affaticata ", mentre Rachele " visione del principio ".
Da tutto questo, se lo si considera attentamente, è dato concludere che i primi tre evangelisti, occupandosi di preferenza dei fatti e detti temporali del Signore, validi soprattutto per la formazione dei costumi durante la vita presente, si limitarono alla prima categoria di virtù, cioè quella attiva.
Giovanni invece narra molto meno fatti riguardanti il Signore, mentre riferisce più diligentemente e abbondantemente i detti di lui, specialmente quelli che presentano l'unità della Trinità e la felicità della vita eterna.
Ciò facendo mostra che la sua attenzione e predicazione erano rivolte ad inculcare la virtù contemplativa.
Mi sembra dunque che fra quei ricercatori che hanno interpretato i quattro esseri viventi dell'Apocalisse ( Ap 4,7; Ap 5,6-7; Ez 1, 5.10 ) significando con essi i quattro evangelisti meritino - probabilmente - maggiore attendibilità coloro che hanno identificato il leone con Matteo, l'uomo con Marco, il vitello con Luca, l'aquila con Giovanni, che non gli altri che hanno attribuito l'uomo a Matteo, l'aquila a Marco, il leone a Giovanni.
Per sostenere questa loro congettura essi si basarono piuttosto sull'inizio del libro che non sul piano globale inteso dagli evangelisti, cosa che invece bisognava di preferenza investigare.
Era pertanto molto più logico che con il leone si vedesse raffigurato colui che sottolineò assai vigorosamente la persona regale di Cristo.
Difatti anche nell'Apocalisse il leone è ricordato insieme con la tribù regale, là dove si dice: Ha vinto il leone della tribù di Giuda. ( Ap 5,5 )
Secondo Matteo si narra anche che i Magi vennero dall'Oriente per cercare e adorare il Re che mediante la stella era loro apparso come già nato; e dello stesso re Erode è detto che ebbe timore di quel Re bambino e per ucciderlo fece trucidare molti piccoli. ( Mt 2,1-18 )
Che col vitello si indichi Luca non ci sono dubbi fra le due categorie di studiosi, e il motivo è da ricercarsi nella vittima più grande che soleva immolare il sacerdote.
In effetti l'autore del terzo Vangelo comincia la sua narrazione con il sacerdote Zaccaria e ricorda la parentela fra Maria ed Elisabetta; ( Lc 1,5-36 ) da lui si raccontano adempiuti in Cristo bambino i segni misteriosi del sacerdozio veterotestamentario ( Lc 2,22-24 ) e tante altre cose, che possono ricavarsi da una ricerca diligente, attraverso la quale appare che Luca intese descrivere la persona di Cristo sacerdote.
Quanto a Marco, egli non volle narrare né la stirpe regale né la parentela o la consacrazione sacerdotale, e tuttavia appare occuparsi delle cose compiute da Cristo come uomo.
Ora fra quei quattro esseri viventi egli appare raffigurato dal simbolo del semplice uomo.
Quanto poi a questi tre esseri viventi: il leone, l'uomo e il vitello, si deve dire che essi si muovono sulla terra, cosa che si addice ai primi tre evangelisti, i quali si occupano prevalentemente delle cose che Cristo operò nella carne e dei precetti che diede agli uomini rivestiti di carne insegnando loro come debbano trascorrere la presente vita mortale.
Viceversa Giovanni come aquila vola sopra le nebbie della fragilità umana e vede con l'occhio acutissimo e sicurissimo del cuore la luce della verità immutabile.
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