Summa Teologica - I |
In 1 Sent., d. 14, expos.; d. 31, q. 2, a. 1; q. 3, a. 1; d. 34, q. 2; d. 36, q. 1, a. 3, ad 5; De Verit., q. 1, a. 7; q. 7, a. 3; In Rom., c. 11, lect. 5; In 2 Cor., c. 13, lect. 3
Pare che gli attributi essenziali non siano stati convenientemente appropriati alle persone dai santi Dottori.
1. S. Ilario [ De Trin. 2,1 ] dice che « l'eternità è nel Padre, la specie [ o bellezza ] nell'Immagine, l'utilità nel Dono ».
Ora, qui troviamo tre nomi propri delle Persone, cioè: quello di Padre, quello di Immagine, che è proprio del Figlio, come si è detto [ q. 35, a. 2 ], e quello di Dono, riservato allo Spirito Santo, come si è spiegato [ q. 38, a. 2 ].
Troviamo anche tre termini appropriati: poiché l'eternità viene appropriata al Padre, la specie al Figlio, l'utilità allo Spirito Santo.
Ma questa appropriazione non Pare ragionevole.
Infatti l'eternità comporta durata nell'essere, la specie è principio dello stesso essere e l'uso o utilità pare appartenere all'operazione.
Ora, né l'essere né l'operazione sono mai stati appropriati a qualche Persona.
Quindi l'appropriazione di quegli attributi alle varie Persone non è esatta.
2. S. Agostino [ De doctr. christ. 1,5 ] afferma che « nel Padre c'è l'unità, nel Figlio l'uguaglianza, nello Spirito Santo la concordia dell'uguaglianza e dell'unità ».
Ciò però non pare conveniente, poiché una persona non è denominata formalmente in base a ciò che è appropriato a un'altra: si è detto infatti [ a. prec. ad 2; q. 37, a. 2, ob. 1 ] che il Padre non è detto sapiente per la sapienza generata.
Ora, come S. Agostino aggiunge nello stesso luogo, « le tre [ persone ] sono tutte e tre unità per il Padre, tutte e tre uguali per il Figlio e tutte e tre concordi per lo Spirito Santo ».
Non è dunque conveniente quell'appropriazione.
3. Secondo S. Agostino [ cf. Ugo di S. Vittore, De Sacram. 1,2,6 ], al Padre va attribuita la potenza, al Figlio la sapienza e allo Spirito Santo la bontà.
Ciò però non pare giusto.
Infatti la virtù [ o forza ] si identifica con la potenza.
Ora, troviamo nella Scrittura [ 1 Cor 1,24 ] che la virtù o è appropriata al Figlio, « Cristo potenza di Dio », o anche allo Spirito Santo, poiché sta scritto [ Lc 6,19 ]: « Da lui [ cioè dal Verbo ] usciva una virtù che guariva tutti ».
Quindi la potenza non va appropriata al Padre.
4. Sempre secondo S. Agostino [ De Trin. 6,10.11 ], « non si devono considerare senza ordine alcuno quelle espressioni dell'Apostolo "da lui, per lui e in lui": poiché egli dice da lui per indicare il Padre, per lui per indicare il Figlio, in lui per designare lo Spirito Santo ».
Ma ciò non Pare esatto.
Infatti l'espressione in lui pare stia a indicare un rapporto di causa finale: e questa è la prima fra tutte le cause.
Quindi questo rapporto causale dovrebbe appropriarsi al Padre, che è il principio senza principio.
5. Al Figlio è appropriata la verità, secondo le parole evangeliche [ Gv 14,6 ]: « Io sono la via, la verità, la vita ».
E così pure gli si appropria il titolo di libro della vita, poiché l'espressione dei Salmi [ Sal 40,8 ]: « In capo al libro di me è scritto » così viene spiegata dalla Glossa [ ord. ]: « cioè presso il Padre, mio capo ».
E gli è anche appropriata la formula Colui che è: spiegando infatti le parole [ Is 65,1Vg ]: « Eccomi alle genti », la Glossa [ interlin. ] aggiunge: « Qui parla il Figlio, il quale a Mosè disse: Io sono Colui che sono ».
Ma pare che queste locuzioni costituiscano dei termini propri per il Figlio e non dei termini appropriati.
Infatti la verità, secondo S. Agostino [ De vera relig. 36.66 ], è « la somma somiglianza col principio, senza ombra di dissomiglianza »: è perciò evidente che conviene come attributo personale al Figlio, che [ in quanto tale ] deve avere un principio.
- Così pure l'espressione libro della vita pare essere un qualcosa di proprio, indicando un essere che è derivato da un altro, giacché ogni libro è scritto da qualcuno.
- E anche la formula Colui che è pare che sia da riservarsi al Figlio.
Se infatti quando a Mosè fu detto: « Io sono colui che sono » avesse parlato la Trinità, Mosè avrebbe potuto dire: Colui che è Padre e Figlio e Spirito Santo mi ha mandato a voi.
E quindi avrebbe anche potuto dire: Quella tale persona [ ille ] che è Padre e Figlio e Spirito Santo mi ha mandato a voi, indicando una persona determinata.
Ma ciò è falso, poiché nessuna persona è Padre e Figlio e Spirito Santo.
Quindi [ Colui che è ] non indica tutta la Trinità, ma soltanto il Figlio.
Il nostro intelletto, che dalle creature è condotto come per mano fino alla conoscenza di Dio, segue necessariamente in questa conoscenza i medesimi procedimenti che gli sono familiari nello studio delle creature.
Ora, nella considerazione di una qualsiasi creatura ci si presentano successivamente quattro punti di vista.
Primo, si considera la cosa in maniera assoluta, cioè in quanto è un certo ente.
Secondo, si passa a considerarla in quanto è una.
Terzo, si prende in esame la sua capacità di agire e di causare.
Quarto, si studiano le sue relazioni con gli effetti.
Per cui queste quattro considerazioni ricompaiono anche nella nostra conoscenza delle realtà divine.
Dalla prima di queste considerazioni dunque, che consiste nel guardare Dio semplicemente nel suo essere, deriva l'appropriazione proposta da S. Ilario, secondo la quale al Padre viene appropriata l'eternità, la specie al Figlio e l'utilità allo Spirito Santo [ cf. ob. 1 ].
Infatti l'eternità, significando un essere senza principio, ha una certa somiglianza con gli attributi personali del Padre, il quale è principio senza principio.
Invece la specie, ossia la bellezza, presenta una certa analogia con le particolarità personali del Figlio.
Per la bellezza infatti si richiedono tre doti.
In primo luogo l'integrità o perfezione: poiché le cose incomplete, proprio in quanto tali, sono deformi.
Poi [ si richiede ] la debita proporzione o armonia [ tra le parti ].
Finalmente la chiarezza o lo splendore: infatti diciamo belle le cose dai colori nitidi e splendenti.
- Ora, la prima di queste doti presenta una certa somiglianza con quella proprietà personale del Figlio che consiste nell'avere in sé la natura del Padre in modo integrale e perfetto.
E a ciò vuole accennare S. Agostino [ De Trin. 6,10.11 ] quando dice che « in lui », cioè nel Figlio, « c'è vita somma e perfetta ».
La proporzione poi o armonia è affine alle proprietà del Figlio in quanto egli è l'immagine perfetta del Padre.
Infatti diciamo che un'immagine è bella quando rappresenta perfettamente l'oggetto, anche se questo è deforme.
E a questo aspetto accenna S. Agostino [ De Trin. 6,10.11 ] con quelle parole: « in lui si trova la perfetta rassomiglianza e la somma uguaglianza ».
La terza dote finalmente, [ ossia lo splendore ], ha affinità con le doti personali del Figlio poiché questi, in quanto Verbo, « è splendore e luce dell'intelletto », come dice il Damasceno [ De fide orth. 1,13 ].
E S. Agostino [ De Trin. 6,10.11 ] vi accenna quando dice: « come Verbo perfetto a cui nulla manca, e arte o sapienza di Dio onnipotente ».
L'utilità a sua volta presenta una certa affinità con le proprietà personali dello Spirito Santo, se però l'utilità [ o usus ] è presa in senso lato, in quanto abbraccia anche il godimento [ fruitio ]: in quanto cioè usare corrisponde ad « avere qualcosa a disposizione della propria volontà », e fruire, come dice S. Agostino [ De Trin. 10,11.17 ], corrisponde a « usare con gioia » di una cosa.
Quindi l'utilità, che corrisponde alla fruizione reciproca del Padre e del Figlio, è affine a quell'aspetto tutto personale dello Spirito Santo che è l'Amore.
Ed è precisamente quanto dice S. Agostino [ De Trin. 6,10.11 ]: « Quella dilezione, compiacenza, felicità o beatitudine fu chiamata utilità da S. Ilario ».
- L'utilità invece che corrisponde alla nostra fruizione di Dio ha una certa somiglianza con l'altro aspetto proprio dello Spirito Santo, che ce lo fa considerare come Dono.
Ed è ancora quanto insegna S. Agostino [ De Trin. 6,10.11 ]: « C'è nella Trinità lo Spirito Santo, dolcezza del Padre e del Figlio, che con ingente larghezza e sovrabbondanza ci inebria ».
È chiarito così perché l'eternità, la bellezza e l'utilità siano attribuite e appropriate alle persone, a differenza dell'essenza e dell'operazione.
In queste ultime infatti, essendo esse comuni alle tre Persone, non vi è nulla che abbia un rapporto di somiglianza con le proprietà particolari di una data persona.
La seconda considerazione da farsi nei riguardi di Dio consiste nel considerarlo come uno.
E in questo senso S. Agostino appropria al Padre l'unità, al Figlio l'uguaglianza, allo Spirito Santo la concordia o connessione [ cf. ob. 2 ].
È chiaro che tutte e tre queste cose implicano il concetto di unità, ma in modi diversi.
L'unità infatti lo implica per se stessa, senz'altro presupposto.
E per questo viene appropriata al Padre, che non presuppone un'altra persona, essendo egli principio senza principio.
- L'uguaglianza invece implica il concetto di unità in correlazione con un'altra cosa: poiché si dice uguale la cosa che ha la stessa quantità di un'altra.
E per questo l'uguaglianza viene appropriata al Figlio, che è principio derivante da un principio.
- La connessione poi implica l'unità esistente tra due cose.
Quindi è appropriata allo Spirito Santo, che procede da due.
E da queste considerazioni si può intendere poi l'affermazione di S. Agostino che « le tre [ persone ] sono un'unità per il Padre, sono uguali per il Figlio, sono concordi o connesse per lo Spirito Santo ».
È evidente infatti che ogni cosa viene attribuita [ di preferenza ] a quel principio nel quale anzitutto essa si trova: così, p. es., si dice che tutti i viventi inferiori vivono per l'anima vegetativa, essendo essa il loro primo principio vitale.
Ora, l'unità si riscontra immediatamente nel Padre anche se, per impossibile, non esistessero le altre Persone.
Quindi le altre due l'hanno da lui.
- Tolte invece le altre Persone, non c'è nel Padre l'uguaglianza, ma essa sorge non appena si pone il Figlio.
Quindi le altre persone che vengono denominate uguali lo devono al Figlio.
Non che il Figlio causi l'uguaglianza del Padre, ma perché se non ci fosse un Figlio uguale al Padre, il Padre non potrebbe essere detto uguale: poiché la sua uguaglianza viene considerata anzitutto in ordine al Figlio.
Infatti anche lo Spirito Santo, se può dirsi uguale al Padre, lo deve al Figlio.
- Così pure, se si esclude lo Spirito Santo, che è il nesso tra i due, non si potrebbe intendere l'unità di connessione tra il Padre e il Figlio.
Per cui si dice che tutte le Persone sono connesse per lo Spirito Santo: perché solo dopo che si è posto lo Spirito Santo si vede come possano dirsi connessi il Padre e il Figlio.
Dalla terza considerazione invece, che consiste nel prendere in esame l'efficacia di Dio nel causare, si desume la terza appropriazione, quella cioè della potenza, della sapienza e della bontà [ cf. ob. 3 ].
Tale appropriazione, se si bada a quanto di positivo si trova [ in forza delle loro denominazioni: Padre, Figlio … ] nelle Persone divine, viene fatta per via di somiglianza; se invece si bada a quanto di negativo [ in forza di tali denominazioni ] c'è nelle creature, allora è fatta per via di dissomiglianza.
La potenza infatti presenta l'aspetto di principio.
E per questo ha una certa affinità con il Padre celeste, che è il principio di tutta la divinità.
Invece talora viene a mancare nel padre terreno, in conseguenza della vecchiaia.
La sapienza poi offre una somiglianza col Figlio celeste che, in quanto Verbo, non è altro che il concetto della sapienza.
Ma talora viene a mancare nei figli terreni, per la loro tenera età.
- La bontà infine, che è il movente e l'oggetto dell'amore, ha una certa analogia con lo Spirito divino, che è l'Amore.
Invece si presenta come elemento estraneo allo spirito terreno, in quanto questo implica l'idea di violenza e di urto, secondo le parole della Scrittura [ Is 25,4 ]: « Lo spirito dei prepotenti è come una procella che abbatte le muraglie ».
Quanto alla virtù, essa è appropriata al Figlio e allo Spirito Santo non nel significato di potenza, ma in quello di effetto della potenza, come le imprese poderose di qualcuno sono dette sue virtù.
Stando finalmente alla quarta considerazione, che consiste nel prendere in esame i rapporti esistenti fra Dio e le realtà create, abbiamo l'appropriazione dei termini ex quo ( dal quale ), per quem ( per il quale ) e in quo ( nel quale ) [ cf. ob. 4 ].
La preposizione ex infatti alcune volte indica un rapporto di causa materiale [ ex = di ], ma questa causa in Dio non può aver luogo.
Altre volte invece indica un rapporto di causa efficiente [ ex = da ].
Causalità questa che conviene a Dio a motivo della sua potenza attiva: quindi [ l'espressione dal quale ] viene appropriata al Padre come la potenza.
La preposizione per invece qualche volta designa una causa intermedia, come quando diciamo che il fabbro opera per il martello.
Allora il per non è un termine appropriato, ma addirittura proprio ed esclusivo del Figlio, secondo l'espressione evangelica [ Gv 1,3 ]: « Tutto è stato fatto per lui ».
Non perché il Figlio sia uno strumento, ma perché è un principio derivante da un principio.
Altre volte invece [ il per ] indica un rapporto con la forma che serve alla causa agente per operare, come quando diciamo che l'artefice opera per la sua arte.
E in questo senso il per quem viene appropriato al Figlio allo stesso modo della sapienza e dell'arte.
- La preposizione in, infine, indica propriamente un rapporto di contenenza.
Ora, Dio contiene le cose in due modi.
Primo, per le loro idee o immagini rappresentative, cioè in quanto esse sono in Dio come oggetto della sua scienza.
E allora l'espressione in lui andrebbe appropriata al Figlio.
Secondo, in quanto egli con la sua bontà le conserva e col suo governo le fa giungere al loro fine.
E in questo caso l'espressione nel quale va appropriata allo Spirito Santo, come la bontà.
E non è necessario che il rapporto di causa finale, la prima fra tutte le cause, sia appropriato al Padre, che è il principio senza principio: poiché le Persone divine, di cui il Padre è principio, non procedono da lui come tendenti a un fine, essendo ognuna di esse l'ultimo fine, ma per processione naturale, che è piuttosto rispondente all'attributo essenziale della potenza.
Quanto poi alle altre attribuzioni di cui parlano le obiezioni [ cf. ob. 5 ], rispondiamo che la verità, come si è detto altrove [ q. 16, a. 1 ], per la sua connessione con l'intelletto è un termine appropriato al Figlio, ma non ne è un termine proprio.
La verità infatti può essere considerata, secondo le osservazioni già fatte [ q. 16, a. 1 ], come è nell'intelletto [ verità logica e di conoscenza ] o come è nelle cose [ verità ontologica ].
Come dunque [ parlando di Dio ] intelletto e cosa sono termini che di per sé si riferiscono all'essenza e non alle Persone, così è anche per la verità.
- Ora, S. Agostino nella definizione riferita ha di mira la verità in quanto è appropriata al Figlio.
Per quanto riguarda il libro della vita, notiamo che direttamente esso implica l'idea di conoscenza e indirettamente quella di vita: poiché, come si è detto [ q. 24, a. 1 ], esso è la conoscenza che Dio ha di coloro che giungeranno alla vita eterna.
Quindi va appropriato al Figlio, sebbene la vita venga appropriata allo Spirito Santo, in quanto include il concetto di moto interiore, che ha una certa affinità con ciò che è proprio dello Spirito Santo, cioè con l'Amore.
- Che poi il libro sia scritto da qualcuno non conviene al libro come libro, ma solo come prodotto dell'arte.
Quindi esso non comporta di per sé origine e non è un attributo personale, ma solo appropriato a una Persona.
Infine l'espressione Qui est ( Colui che è ) non viene appropriata al Figlio di per sé, ma per delle considerazioni occasionali: in quanto cioè in quelle parole dette da Dio a Mosè era prefigurata la liberazione del genere umano che fu poi operata dal Figlio.
Tuttavia, se il Qui [ Colui che ] viene preso come relativo, potrebbe anche essere riferito alla persona del Figlio, e allora significherebbe la persona: nella frase, p. es., il Figlio è il Qui est generato, il relativo è un termine personale, come Dio generato.
Preso però senza determinazioni [ Qui est ] è un appellativo essenziale.
- E quantunque il pronome determinativo questi [ iste ], grammaticalmente parlando, sembri riferirsi a una determinata persona, tuttavia si osservi che qualunque cosa indicabile in particolare può essere grammaticalmente chiamata persona, sebbene non lo sia nella realtà.
Diciamo infatti questa pietra, questo asino.
Quindi, grammaticalmente parlando, l'essenza divina medesima, significata e designata dal nome Dio, può essere indicata col pronome dimostrativo questi [ iste ], come appare nella Scrittura [ Es 15,2 ]: « Questi è il mio Dio e lo glorificherò ».
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