Summa Teologica - II-II |
3 - Per essere esatti, e quindi per non varcare i limiti imposti dalla giustizia, è necessario distinguere subito tra la virtù di religione e i vari atti in cui si esercita.
Non c'è dubbio che, già prima di S. Tommaso, molto si era parlato di devozione, di adorazione, di preghiera, di sacrificio, di voti e di giuramenti; ma non era chiaro il legame di tutti questi atti come esercizio di un'unica virtù, specificamente distinta da quelle teologali e dalle altre virtù morali.
Si era parlato sporadicamente anche di religione come virtù, ma a ben guardare codeste pericopi, si nota che non si tratta della virtù speciale, bensì di quella generale.
Perché i nostri lettori meno preparati possano comprendere meglio questa distinzione, riportiamo qui subito una precisazione di S. Tommaso: « Come la magnanimità è una virtù speciale, sebbene si serva degli atti di tutte le virtù secondo l'aspetto speciale del proprio oggetto, che consiste nel proporsi grandi cose nell'esercizio di tutte le virtù; così anche la religione è una virtù speciale, considerando negli atti di tutte le altre virtù l'aspetto specifico del proprio oggetto, cioè l'aspetto di cosa dovuta a Dio; e in tal modo è appunto parte della giustizia.
Però alla religione vengono attribuiti in modo speciale quegli atti che non appartengono a nessun'altra virtù, come le prostrazioni e simili, nei quali secondariamente consiste appunto la religione.
Da ciò risulta evidente [ p. es. ] che l'atto di fede appartiene materialmente alla religione, come gli atti delle altre virtù; .., ma formalmente è distinto dalla religione, avendo per oggetto un'altra ragione formale ( In De Trinit., q. 3, a. 2, fine ).
Chi ha la fortuna di poter leggere integralmente l'articolo citato ( che in gran parte si ritrova riproposto in q. 81, a. 1 ) può rendersi conto che tale distinzione non era affatto chiara negli autori precedenti, dai quali l'Aquinate prendeva le mosse.
Nella Somma, per essere più chiaro, S. Tommaso dà alla religione come virtù generale un nome proprio: santità ( q. 81, a. 8 ).
4 - I pochi accenni su cui poteva contare per una buona definizione egli li trovava in Cicerone ( cfr. 2 Rhet., c. 53 ) e in S. Isidoro ( 10 Etym., litt. R, n. 234 ).
Ma essi potevano servire più per una definizione nominale ed etimologica, che per una definizione reale, capace di far emergere questa virtù dalle altre qualità morali con la sua fisonomia distinta e inconfondibile.
Il commento al De Trinitate di Boezio, di cui ci siamo serviti sopra, è attribuito dagli studiosi e dai biografi moderni del Santo al periodo terminale del primo insegnamento parigino [ 1257- 1258 ].
Ma già qualche anno prima egli aveva avuto modo di precisare il suo pensiero sulla virtù di religione nella dura lotta combattuta dagli Ordini Mendicanti contro i maestri secolari dell'università parigina.
Ci sembra di poter scorgere un'eco di questa circostanza storica nell'ultimo degli argomenti sed contra dell'articolo citato, in cui si tratta del problema se la fede sia distinta dalla religione: « Sono chiamati comunemente religiosi coloro che sono legati da speciali voti; mentre non essi soltanto sono chiamati fedeli.
Perciò fedele e religioso non s'identificano, e quindi neppure la fede e la religione » ( ibid., arg. 3 S. c. ).
La conferma di quanto diciamo possiamo trovarla nell'opuscolo nato dalla polemica suddetta: Contra irnpugnantes Dei cultum et religionem.
Non è necessario sfogliare molte pagine.
Nel primo capitolo troviamo subito trattato il problema che c'interessa: « Quid sit religio, et in quo consistat religionis perfectio ».
La questione però non è approfondita come nelle opere successive, per quanto riguarda la definizione esatta della religione come speciale virtù.
Ben diversa è I' impostazione del problema nel Commento alle Sentenze, in cui il giovane Baccelliere mostra di aver acquisito con chiarezza un principio quanto mai fecondo per la sistemazione definitiva del trattato sulla religione nella sua sintesi dottrinale: egli accetta da Cicerone l'elenco delle parti potenziali della giustizia, in cui la religione occupa il primo posto ( 3 Sent., d. 33, q. 3, a. 4, qc. 1 ).
Nel commentare il medesimo libro egli aveva abbozzato poco prima la divisione di un eventuale trattato sul nostro argomento: « In noi ci sono tre tipi di beni: spirituali, corporali e beni esterni.
E poiché tutti e tre ci vengono da Dio, dobbiamo rendere a lui Con tutti e tre il culto di latria.
Con lo spirito gli offriamo il debito amore; con il corpo le prostrazioni e il canto; coi beni esterni gli offriamo sacrifici, candele, lampade, e altri doni con-Simili: le quali cose offriamo a Dio non perché ne abbia bisogno, ma in riconoscimento del fatto che tutto abbiamo da lui.
E riconoscendolo con tutti i beni, con tutti lo onoriamo » ( 3 Sent., d. 9, q. 1, a. 3, qc. 3 ).
Abbiamo riportato il brano anche perché il lettore avveduto noti l'enorme distanza che passa tra l'abbozzo giovanile e il piano attuato nella maturità.
Nella Somma infatti si salva quest'ordine, ma con materiali diversi.
Infatti gli atti esterni abbracciano la devozione ( q. 82 ) e l'orazione ( q. 83 ); gli atti del corpo si riducono all'adorazione ( q. 84 ); le cose esterne abbracciano sacrifici ( q. 85 ), oblazioni e primizie ( q. 86 ), e finalmente le decime ( q. 87 ), i voti ( q. 88 ).
Inoltre a questi tre elementi se ne aggiunge un quarto, che consiste nell'assumere e nell'impiegare cose divine: sacramenti ( III Parte ) e nome di Dio.
Quest'ultimo viene assunto con il giuramento ( q. 89 ), con lo scongiuro ( q. 90 ), con l'invocazione e la lode ricorrendo alla parola ispirata delle Scritture ( q. 91 ).
Inutile indugiare sui luoghi paralleli: gli spunti che possiamo raccogliere sono ben poca cosa.
L'abbozzo del 3 Cont. Gent., ( cc. 119, 120 ), presenta indubbiamente buoni spunti apologetici contro l'irreligione che disprezza il culto esterno, e la superstizione che degrada il sentimento religioso; ma non offre nulla di originale e di inedito nei confronti con il testo della Somma.
Perciò il trattato che stiamo presentando al pubblico italiano nella nostra traduzione ha questa caratteristica: mentre per altri argomenti l'Autore ha completato altrove il suo pensiero, o lo ha esposto in maniera più sintetica sotto altri punti di vista, per la virtù di religione la Somma è tomisticamente esauriente.
L'Autore ne ha costruito il trattato di sana pianta, servendosi dei pochi elementi a disposizione per strutturare la virtù, e raccogliendo in sintesi organica le membra sparse dei suoi molteplici atti.
5 - Uno sguardo panoramico sullo schema generale dell'Opera è sufficiente a persuaderci che siamo ancora nell'ambito della giustizia.
Perché la religione è essenzialmente virtù morale e non teologale; e non essendo tra le quattro cardinali, rientra imperfettamente sotto la formalità specifica della giustizia.
Questo schema così logico non compromette affatto la dignità della religione; perché l'appartenenza a una virtù principale come parte potenziale non pregiudica l'intrinseca dignità o priorità di una virtù.
E si sa che S. Tommaso dà alla virtù di religione la preminenza su tutte le altre virtù morali ( q. 81, a. 6 ).
Ma questa dipendenza logica pare che urti i nervi di certi teologi, i quali hanno preferito criteri meno razionali.
Ecco la giustificazione introduttiva di uno di essi: « Aderendo alla distribuzione logica dei trattati, S. Tommaso dopo aver terminato gli articoli sulla prudenza passa subito a parlare della giustizia, virtù cardinale di cui la religione è una parte potenziale.
Molti teologi moderni però, tra i quali ci mettiamo anche noi, preferiscono l'ordine di dignità, cosicché trattano prima della religione che della giustizia » ( VERMEERSCH A., S. J., Theol. Moralis Prineipia, Bruges, 1937, l I, p. 143 ).
É questa la maniera più efficace per confondere le idee degli studenti, i quali si formeranno così la falsa convinzione che le parti potenziali di una virtù sono sempre gerarchicamente in e non ad essa.
- Meno tollerabile ancora è l'impostazione di quei moralisti che legano immediatamente la religione alle virtù teologali ( p. es. LANZA-PALAZZINI, Theologia Moralis, Torino, 1955, t. Il, pp. 233 ss. ).
- E poi addirittura ridicolo il proposito di giustificare questa dislocazione del trattato, facendo rientrare la religione nell'ambito delle virtù teologali.
L'argomento più curioso in proposito è quello di Mons. E. Aman. Secondo lui S. Tommaso avrebbe ricondotto la virtù di religione alla giustizia, perché Cicerone l'aveva elencata tra le parti potenziali della giustizia.
L'Autore della Somma si sarebbe trovato davanti a una « categoria imposta dalla storia » ( D.T.C., XIII, col. 2308 ).
Oltre tutto la storia del trattato ci dice con assoluta chiarezza che la documentazione di cui S. Tommaso disponeva non poteva imporre nulla, perché scarsa e in parte incoerente.
Per convincersene basta leggere per intero un articolo che abbiamo già citato: 3 Sent., d. 33, q. 3, a. 4.
E chi non ha a disposizione altre opere dell'Aquinate, legga la q. 80, che forma il prologo dell'Autore al nostro trattato.
Ma ci sono ben altre considerazioni da tener presenti: qui noi abbiamo a che fare con un pensatore così eccezionale per la coerenza sistematica, da lasciare sbalorditi gl' ingegni più penetranti.
Ora, questa coerenza incontrovertibile non si potrebbe neppure concepire in uno studioso, disposto a lasciarsi imporre categorie prefabbricate dall'incoerente storia del pensiero filosofico.
Sarà meglio quindi applicarsi con impegno a scoprire i motivi profondi che hanno guidato il Dottore Angelico nell'impostazione del trattato sulla virtù di religione.
- Per distinguerla dalle virtù teologali sarà bene ricordare quanto egli aveva già scritto nel suo originalissimo commento al De Trinitate di Boezio: « La religione non è una virtù teologale; poiché ha per materia quasi tutti gli atti, sia della fede che delle altre virtù, che però essa offre a Dio come cose dovute; ed ha invece Dio per fine.
Prestare infatti culto a Dio consiste nell'offrire a lui codesti atti come dovuti » ( In De Trinitate, q. 3, a. 2 ).
Meglio ancora sarà leggere poi nella Somma l' articolo 5 della q. 81, in cui si ribadisce l'idea che mentre le virtù teologali hanno per oggetto l'ultimo fine ( Dio ); la religione, al pari delle virtù morali, anche se nel modo più immediato ( cfr. a. 6 ), ha per oggetto i mezzi per raggiungerlo ( atti di culto, sacrifici, preghiere, sacramenti … ).
Dopo tutto questa virtù può e deve concepirsi nei suoi elementi essenziali anche nell'ordine puramente naturalistico: gli stessi pagani, guidati dalla legge naturale, sono capaci di atti di culto.
Invece per le virtù teologali è indispensabile la divina grazia.
6 - Non si creda però che S. Tommaso si muova su un piano naturalistico o filosofico nella costruzione del trattato: la formalità delle cose non gli fa mai dimenticare la loro concretezza.
Ecco perché la fonte principale del suo trattato rimane, senza possibili confronti, la sacra Scrittura: vecchio e nuovo Testamento.
E accanto alla Scrittura l'autore preferito: S. Agostino.
Non volendo però sacrificare alla completezza del trattato l'armonia della sintesi generale, scopo principale dell'Opera, S. Tommaso ha rinunciato di proposito a parlare dei sacramenti, che costituiscono la parte preminente del culto cristiano: « Dell'uso dei sacramenti parleremo nella Terza Parte di quest'opera » ( q. 89, prol. ).
Com'è possibile infatti svolgere codesto tema, senza aver prima parlato del Redentore Divino?
Ma anche così ridotto il De Religione è inserito nella Somma in un contesto essenzialmente teologico.
Il fatto di essere una parte potenziale della giustizia non viene dimenticato quando si tratta di stabilire il dono corrispondente di codesta virtù, secondo il programma fissato in partenza ( II-II, Prol. ).
S. Tommaso non dimentica che tra tutte le parti della giustizia la religione occupa il primo posto ( quae est potissima pars iustitiae », q. 122, a. 1 ).
Quindi le attribuisce quel dono dello Spirito Santo, che forma il coronamento divino della virtù di religione: cioè il dono della pietà.
Questo muove a prestare a Dio il culto e l'obbedienza non più come a Creatore e Signore dell'universo, ma come al Padre nostro che è nei cieli ( cfr. q. 121, a. 1 ).
7 - Dallo sguardo d'insieme scendiamo ora ai particolari.
Il lettore attento noterà da sè a colpo d'occhio la differente lunghezza delle questioni: si va dalla q. 83, dedicata alla preghiera, che con i suoi diciassette articoli costituisce un piccolo trattato nel trattato, alla q. 91 di due soli articoli.
Ebbene, noi ci fermeremo qui a esaminare proprio quest'ultima, dedicata alla lode divina.
La brevità in questo caso non deve trarci in inganno: i problemi in essa trattati sono vitali per il culto esterno, e oggi sono al centro delle discussioni per il rinnovamento liturgico.
Le lodi divine recitate o cantate dall'assemblea di fedeli, o dal coro dei chierici, costituiscono un atto vitale della Chiesa di Cristo.
Platone racconta che Socrate, sul finire della vita, dopo essersi elevato ai più alti fastigi del pensiero e della perfezione morale, espresse il proposito di dedicarsi alla musica.
Anche se la notizia non fosse vera, è però verosimile: siamo certi infatti che altri giganti dello spirito hanno sentito lo stesso impulso al vertice della loro ascesa verso Dio.
S. Francesco d'Assisi, per citare un esempio ben noto, negli ultimi anni, dopo le stimmate, compose e cantò il Cantico di frate sole, e spesso bastava il tocco di uno strumento musicale per mandarlo in estasi.
- Da queste esperienze eccezionali non si deve però concludere che il canto delle lodi divine deve essere riservato ai pochi scalatori delle vette.
La Chiesa praticamente ci dice il contrario: essa si è sempre servita del canto liturgico per l'elevazione spirituale delle masse.
Ecco perché S. Tommaso, al pari di S. Agostino, vede nel canto liturgico una materna condiscendenza della Chiesa verso i più infermi dei suoi figli ( q. 92, a. 2 ).
Perciò a suo parere il canto liturgico e la lode divina non devono mai essere ridotti a una bandita di caccia per un certo numero di privilegiati.
Sono quindi pienamente giustificati dalla sua dottrina i passi compiuti per vincere le difficoltà, incontrate dalla massa, per gustare i canti, i riti e i testi liturgici.
8 - In questa breve introduzione non possiamo neppur tentare un confronto delle disposizioni positive emanate dal Concilio Vaticano Il con la dottrina di S. Tommaso.
La cosa però potrebbe essere utile e vantaggiosa per i teologi e i liturgisti, i quali ultimi non dovrebbero mai dimenticare questo principio, enunciato da un loro collega: « Iuris liturgici fundamenta habentur in ipso iure naturali » ( MORETTI A., Caeremoniale, Torino, 1936, vol. I, p. 1 ).
Noi qui ci limiteremo a esaminare brevemente i problemi proposti dall'Aquinate nella Somma Teologica.
Sia ben chiaro però che per la lode divina, come per tutto il De Religione, nei luoghi paralleli delle altre sue opere non troviamo molto da aggiungere.
Lo spoglio di essi, del resto, è presto fatto.
Dal commento della lettera agli Efesini ( Ad Ephesios, c. , lect. 7 ) si può raccogliere l'indicazione storica, che furono gli eretici a combattere il canto vocale delle lodi di Dio; nonché i tre effetti derivanti da codesta lode esteriore:
1) l'incremento della devozione personale di chi canta ( cc Sed si ex hoc aliquis commoveatur ad dissolutionem, vel in gloriam inanem, hoc est contra intentionem Ecclesiae );
2) la devozione degl'ignoranti ( rudes );
3) il senso della gratitudine verso Dio negli uni e negli altri.
Le altre pericopi relative alla lode di Dio noi le troviamo nel commento incompleto dei Salmi ( In Sal 33,1-3; Sal 34,2-5; Sal 50,7-9 ).
Di esse abbiamo tenuto conto nelle nostre note agli articoli della Somma, e non le dimenticheremo in questa nostra introduzione.
9 - La cosa che più meraviglia nell' impostazione tomistica e la netta distinzione tra preghiera e lode divina: le due questioni Sono poste a rispettosa distanza tra loro ( q. 83, q. 91 ).
Eppure la loro affinità è riconosciuta da S. Tommaso stesso nel prologo della q. 91: "Veniamo quindi a trattare dell'uso che del nome di Dio facciamo invocandolo nella preghiera e nella lode.
Ma della preghiera abbiamo già parlato …
La cosa non ha meravigliato soltanto noi; perché tutti i trattati moderni sulla religione uniscono la lode alla preghiera vocale, trovando scomodo e incongruente l'ordine della Somma Teologica.
Pensiamo che S. Tommaso abbia perseguito nel suo schema due scopi molto importanti.
Da un lato egli ha voluto sottolineare con chiarezza l'aspetto essenziale della preghiera, che è e deve rimanere un atto interno non già esterno dell'anima religiosa; dall'altro ha voluto porre in rilievo l'elemento divino [ il nome di Dio comunicatoci dalla Scrittura ] che viene a integrare codesto atto, soprattutto nella preghiera vocale.
É evidente che nella preghiera pubblica e collettiva le due cose sono indissolubilmente connesse, e in concreto i due atti si alternano e si confondono.
Ma il Dottore Angelico ha avvertito che la lode presenta problemi che di suo non interessano la preghiera.
Quando infatti parla dell'orazione solo indirettamente considera l'aspetto liturgico di essa; quando invece parla della lode la liturgia è sempre in primo piano.
Esiste però una questione preliminare comune: perché l'orazione vocale?
Nella soluzione di essa S. Tommaso stabilisce che la liturgia ha valore di mezzo e non di fine: « La preghiera comune … deve essere conosciuta da tutto il popolo per il quale viene fatta.
Il che non sarebbe possibile se non fosse vocale » ( q. 83, a. 12 ).
« La preghiera vocale non viene presentata per far conoscere a Dio qualche cosa che egli non sa; ma per sospingere verso Dio l'animo di chi prega, o degli altri [ che ascoltano ] » ( ibid., ad 1 ).
Da ciò si deduce che l'Autore non ammette che normalmente la preghiera pubblica debba essere ridotta a un frasario intelligibile per la maggioranza dell'assemblea.
Aggiunge poi di rincalzo questa osservazione: le parole possono anche impedire e disturbare la devozione; « ma quelle che esprimono quanto è oggetto di devozione eccitano gli animi, specialmente quelli meno devoti » ( ibid., ad 4 ).
É inutile insistere: potremmo citare un numero indefinito di testi per dimostrare la stessa cosa.
Per l'Autore della Somma la parola come veicolo di pensiero deve rimanere l'elemento base dell'azione liturgica.
Per questo motivo egli ammette il canto, ma non tollera in Chiesa la semplice musica strumentale ( cfr. q. 91, a. 2, ad 4 ).
10 - É discussa l'interpretazione da dare a questo divieto, che il Santo attribuisce alle consuetudini della Chiesa: « Nel vecchio Testamento c'erano gli strumenti musicali, e il canto vocale.
Perché dunque la Chiesa ha abolito i primi, adottando il secondo?
Si possono addurre due ragioni mistiche: Perché quegli strumenti avevano [ solo ] un significato simbolico.
2°, Perché Dio viene lodato con l'anima e con la voce, non già con gli strumenti.
Si può portare anche un'altra ragione, desumendola dalle parole del Filosofo [ 8 Polit., c. 5 ], il quale afferma essere contrario a saggezza che gli uomini s'istruiscano in lire e altri strumenti musicali, perché questi occupano eccessivamente l'animo nel loro esercizio; mentre al contrario la musica deve esser semplice, affinché coloro che si dedicano alle lodi di Dio non vengano distolti dalle cose materiali » ( In Psalm., 32, 3 ).
Ora, è risaputo che al tempo dell'Aquinate l'uso dell'organo in Chiesa era ormai molto diffuso in occidente ( vedi LUNELLI R., in Enc. Catt., IX, « organo », coli. 292 ss. ).
Cosicché Durando, morto nel 1292, appena ventidue anni dopo S. Tommaso, descrivendo le acclamazioni del cc Sanctus », afferma nel suo Rationale ( lib. 4, c. 34 ): « In hoc angelorum et hominum concentu quandoque organa concrepant, quod a David et Salomone introductum est ».
- Ci sembra quindi che le parole dell'Aquinate debbano essere interpretate nel senso più restrittivo: pare che egli voglia giustificare la sola esclusione del suono non ordinato all'accompagnamento del canto, e di quegli strumenti ( trombe, cetre, salteri o tamburelli ) che costituivano l'apparato strumentale della liturgia ebraica.
11 - Qualcuno troverà forse nell'interpretazione solita dei testi citati, contro la musica strumentale, una conferma dell'intellettualismo tomista; ma ci sembra che non si possa insistere su quella nota, dimenticando come il Santo Dottore giustifichi il sentimento nei nostri rapporti con Dio.
Ecco infatti come egli sa quietare gli scrupoli di chi lamentava l'incomprensione di tante parole, sacrificate dal canto liturgico: « Il canto di chi cerca il godimento estetico distrae l'animo dalla considerazione del testo che si canta.
Ma se uno canta per devozione, considera più attentamente le parole che dice, sia perché vi si ferma più a lungo, sia perché, come si esprime S. Agostino, "tutti i diversi sentimenti del nostro spirito trovano nel canto la loro propria modulazione, che li risveglia in forza di un occulto intimo rapporto".
Lo stesso si dica per coloro che ascoltano: i quali, sebbene talora non comprendano ciò che si canta, tuttavia comprendono il motivo per cui si canta, cioè per dare lode a Dio; e questo basta per eccitare [ in essi ] la devozione » ( q. 91, a. 2, ad 5 ).
Tenendo ben presente il testo citato, della cui lunghezza ci scusiamo con i nostri lettori, possiamo ricapitolare così tutti i vantaggi del canto liturgico:
1°) Acuisce l'attenzione di chi canta;
2°) contribuisce a dare consistenza e forma agli affetti più delicati e profondi;
3°) suscita in chi ascolta la devozione anche se le parole restano talora incomprese.
Tutto ciò è largamente provato dall'esperienza.
Ascoltando una melodia cantata con devozione e proprietà si resta commossi, anche se ci è negata la possibilità di afferrarne le parole.
Ma l'osservazione di S. Tommaso ci autorizza a credere che si possa ridurre impunemente tutta la liturgia a un eccitante del sentimento religioso?
Il passo riportato parla di un fatto sporadico, non di una regola generale.
Così pure egli mostra di apprezzare l'intenzione dei poveri ignoranti che si limita a tener presente Dio e l'oggetto della preghiera, quando è incapace di afferrare il valore delle parole; ma in tal caso nota giustamente che il nutrimento spirituale viene a mancare ( q. 83, a. 13 ).
Ora, uno degli scopi della preghiera liturgica dovrebbe essere quello di istruire e di far progredire gli ignoranti, assicurando loro tutti i vantaggi dell'orazione.
12 - Sempre per questo motivo S. Tommaso sostiene che, anche in ordine alla lode di Dio, c' è qualche cosa di superiore alla liturgia, e cioè l'istruzione religiosa e la predicazione. « un modo più nobile provocare gli uomini a devozione con la dottrina e con la predicazione, che con il canto.
Per questo motivo i diaconi e i prelati, che hanno l'ufficio di portare le anime verso Dio con la dottrina e con la predicazione, non devono occuparsi nel canto, per non essere distolti da cose più importanti » ( ibid., q. 91, a. 2, ad 2 ).
Dunque, prima delle solennità liturgiche bisogna assicurare ai fedeli la predicazione sacra e l'istruzione religiosa; anche perché da questa unica fonte può scaturire una vera preghiera.
Difficilmente quindi il Dottore Angelico saprebbe giustificare quei liturgisti che son pronti a sacrificare la predicazione e la confessione al decoro delle funzioni liturgiche nei momenti di vera necessità.
E pensare che S. Bernardo, uno dei più grandi figli spirituali di S. Benedetto, si dichiarava disposto a sacrificare le solennità liturgiche alle faccende campestri … « Ordo praeposterus », egli spiega, « sed necessitas non habet legem » ( ML 183, 1022-23 ).
Esistono ancora altri pericoli che è necessario evitare perché la liturgia possa essere di vero giovamento per le anime.
E noi li indicheremo così come affiorano dalla lettura della Somma Teologica.
Prima di tutto bisogna stare attenti che nelle funzioni liturgiche il godimento estetico non sorpassi l'istruzione e la devozione ( II-II, q. 91, a. 2 ).
- Non sappiamo come certe esecuzioni di musica polifonica possano reggere un confronto con questo canone tomistico, che si accorda straordinariamente col buon senso cristiano.
In secondo luogo si deve fuggire la teatralità, anche perché i modi teatrali di certi canti danno luogo alla vanità dei cantanti.
E dove fa capolino la vanità fugge la devozione.
S. Tommaso denuncia anche un altro pericolo della devozione nell'eccessivo tecnicismo.
Abbiamo già riportato le sue parole in proposito; ma siccome a qualcuno potrebbero essere sfuggite le ripetiamo: « Il canto che è eseguito con troppa ricercatezza allo scopo di dilettare, distrae la mente dalla considerazione di ciò che si canta ».
Quando il Dottore Angelico scriveva queste cose non pare che fosse elevato a un grado molto alto di astrazione.
Solo chi vuoi estraniarsi dalla realtà può pensare che il tecnicismo raffinato di certe esecuzioni, anche di canto gregoriano, possa lasciare indisturbata la devozione dei cantanti e degli ascoltatori.
13 - Se volessimo presentare ai lettori italiani della Somma i singoli atti della virtù di religione, troppo lungo sarebbe il nostro discorso.
E neppure sarebbe utile: perché proprio non è il caso di sostituirsi all'Autore, o di ripeterne i concetti in formule meno esatte.
Le poche cose che a nostro giudizio era necessario aggiungere le abbiamo segnalate nelle note che via via accompagnano il testo.
Pensiamo che per la nostra mentalità moderna sia più difficile orientarsi tra i vizi contrari alla virtù di religione; perché le forme degenerative del sentimento religioso variano sensibilmente col mutare dei tempi.
I testi della Somma, p. es., ci descrivono con efficacia le superstizioni caratteristiche del medioevo; ma già non dicono abbastanza dell'idolatria, che S. Tommaso considerava ormai quasi del tutto tramontata ( cfr. q. 94, a. 4, ad 2 ).
- Purtroppo le nostre conoscenze geografiche ed etnologiche ci presentano una situazione ben diversa.
Siamo perciò costretti a riconoscere che è molto difficile per l'uomo superare o scoglio della superstizione in tutte le sue forme.
Del resto alle persistenti superstizioni antiche si sostituiscono le degenerazioni moderne del sentimento religioso, che spesso si riscontrano in quegli stessi individui che credono di combatterle nella maniera più radicale, cioè negando e distruggendo la religione.
Il mito infatti trova il suo antidoto nella religione autentica dell'unico Dio Creatore; mentre la scomparsa di quest'ultima ne rende quasi inevitabile l'efflorescenza.
A parte forme soggettive più ridicole, notiamo nelle masse scristianizzate occidentali, ed occidentalizzate, quei fenomeni d'infatuazione collettiva che vanno sotto il nome di patriottismo, nazionalismo, razzismo, collettivismo classista.
Codesti movimenti in certe loro forme di fanatismo non si spiegano, senza l'adesione incondizionata ad un mito, il quale sostituisce la religione.
Non per nulla essi ci forniscono un apparato cultuale che ricopia il frasario e le manifestazioni della liturgia cristiana.
Tutte codeste mitologie hanno avuto i loro apostoli ( gli apostoli dell'idea ); ad essi sono seguiti i martiri; la mistica, e finalmente le celebrazioni, i sacrari e persino gli altari …
14 - S. Tommaso non poteva certo pensare a tutta questa liturgia laica, che oggi sostituisce per molti il culto del vero Dio.
Ai suoi tempi invece il pensiero laico era impegnato in una difesa a oltranza di un'altra forma di superstizione: l'arte divinatoria imperniata sull'astrologia.
Era questo infatti uno dei punti di maggiore attrito fra i teologi cristiani e gli averroisti latini del secolo XIII e dei secoli successivi.
E non sono mancati studiosi nostri contemporanei, i quali hanno preteso di scorgere nella disperata difesa dell'occultismo in tutte le sue aberrazioni un momento indispensabile del progresso scientifico moderno.
E un modo anche questo di avvilire le discipline storiche, come quelle antiche elucubrazioni sui misteriosi influssi degli astri era un modo di avvilire la scienza.
É chiaro che l'Aquinate, come tutti i suoi contemporanei, attribuiva ai corpi celesti molte funzioni che invece hanno cause più immediate sulla terra; ma non si stancò mai di ripetere che è ridicolo e assurdo attribuire all'influsso degli astri quanto dipende dal libero arbitrio negli eventi umani.
Dopo tutto la sua polemica contro l'astrologia non ebbe mai la virulenza del fanatismo religioso.
« Sulla liceità della divinazione astrologica », scrive P. T. Litt, « abbiamo sei testi [ 2 Sent., d. 15, q. i, a. 3, ad 4; De iudiciis astrorum ad Fr. Regin.; Gai., e. 4, lect. 4; De sortibus, c. 5, n. 668; I-II, q. 9, a. 5, ad 3; II-II, q. 95, a. 5 ], in cui l'insegnamento rimane costante durante tutta la lunghezza della carriera di S. Tommaso, senza che si possa scorgere un'evoluzione nè verso una maggiore nè verso una minore severità.
La dottrina si riduce a questo: non è superstizioso nè illecito cercare di prevedere mediante gli astri le siccità, la pioggia, ecc.
É invece superstizioso ed illecito cercare di prevedere mediante gli astri gli atti liberi umani.
Risulta poi, stando all'autorità di S. Agostino, che il demonio s'immischia spesso in questo genere di consultazioni, che per ciò stesso diventano un patto con il demonio » ( Les corps célestes dans l'univers de S. Thomas d'Aquin, Lovanio, 1963, p. 241 ).
Per chi ha interesse ad approfondire lo studio dell'argomento dobbiamo segnalare il testo tomistico più importante, che l'illustre Padre Carmelitano sembra avere dimenticato, 3 Cont. Gent., cc. 84-92.
Nel testo riferito esso non è citato, perché non parla formalmente della liceità dell'astrologia.
In codesta opera apologetica S. Tommaso espone le teorie astrologiche del tempo, confutandole efficacemente.
Oggi nessuno prende più sul serio l'astrologia; e quelli stessi che leggono gli oroscopi sui quotidiani mostrano di non dare importanza a codeste sciocchezze, considerandole solo come divertenti curiosità.
15 - Ci sono invece ben altre forme di superstizione ai nostri giorni che attirano il culto serio ed assiduo di milioni d'adepti, e sono la teosofia, l'antroposofia e lo spiritismo: il tutto spesso va sotto il nome di occultismo.
Questo nome però è rivendicato come privativa assoluta dal primo di codesti fenomeni, che si è prodotto specialmente alla fine del secolo XIX e all' inizio del secolo XX.
La fondazione della Società Teosofica risale al 1875.
Il S. Uffizio dichiarò incompatibili tali dottrine con la dottrina della Chiesa nel 1919, aggiungendo la proibizione di appartenere a detta società e di leggerne le pubblicazioni ( DENZ.-S., 3648 ).
Nel movimento si sono prodotti vari scismi, uno dei quali ha assunto l'altra forma di occultismo, che abbiamo già ricordato: l'Antroposofia.
Questa si deve all'iniziativa personale di R. Steiner [ 1861 - 1925 ], pensatore dai molteplici interessi filosofici e religiosi.
La Società Antroposofica da lui fondata, a carattere segreto, ebbe molti aderenti nei paesi di lingua tedesca.
« Lo Steiner diede all'antroposofia il significato di una nuova visione completa del mondo e dell'uomo.
L'uomo s'inserisce nell'universo e consta di diversi elementi via via capaci di esprimersi nello svolgersi della sua vita che partecipa della evoluzione del mondo.
In questa concezione rientra pure un ripensamento del tutto eterodosso del cristianesimo: questo, visto nella tradizione occulta orientale, è inteso come fatto mistico e il suo insegnamento ridotto a esperienza che soltanto la scienza riesce a chiarire e a rendere compiuta » ( PELLOUX L., ccSteiner R. », in Enc. Catt., XI, col. 1317 ).
16 - Lo Spiritismo è un fatto di ben più ampie proporzioni.
Per una definizione descrittiva possiamo dire che consiste nell'interpretare alcuni fenomeni metapsichici, come prodotti da anime disincarnate, cioè dalle anime dei trapassati; ed è pure teoria e prassi circa l'evocazione di codesti spiriti.
L'origine dello spiritismo moderno risale al 1847, cioè alle ben note vicende della famiglia Fox nelle vicinanze di New York.
Dopo alcuni anni codesta famiglia si trasferì a Londra, e così con essa varcò l'Atlantico l'uso dei tavoli parlanti o semoventi, che si era già diffuso in America con la rapidità di un'epidemia.
Fin dal 1857 A. Kardek tracciava le grandi linee teoriche dello Spiritismo, affermando nell'uomo l'esistenza di una tricotomia che vagamente sembra ricollegarsi a quella dei neoplatonici: un corpo fisico che si dissolve con la morte; uno spirito indistruttibile; e finalmente un peri-spirito, o corpo fluido, che durante la vita terrena unisce lo spirito al corpo, e dopo la morte resterebbe Unito con l'anima disincarnata.
Per mezzo appunto del peri-spirito si produrrebbero per lo più quelle manifestazioni particolari di codeste anime, che vanno sotto il nome di fenomeni medianici.
In seguito si è prodotta come per incanto tutta una letteratura pseudo-mistica e pseudo-scientifica basata su queste comunioni medianiche con l'al di là.
Essa ha preteso di fornire i più ampi particolari sul disincarnarsi degli spiriti, sulla loro esistenza ultraterrena, sul loro trasferimento progressivo nelle varie sfere che compongono l'universo ultrasensibile, e finalmente sulle ragioni che muoverebbero gli spiriti ad avvicinare i viventi, per illuminarli, aiutarli, proteggerli, ecc.
Attraverso le pubblicazioni periodiche dei vari circoli spiritici si è cercato di fare un ragguaglio statistico dei cultori dello spiritismo.
Prima dell'ultima guerra mondiale si calcolavano così intorno a quindici milioni di adepti.
Con l'andare del tempo la pretesa spiegazione spiritista dei fenomeni medianici va perdendo terreno tra i cultori di quella nuova disciplina che si chiama la metapsichica, la quale studia tutti i fenomeni para-normali: telepatia, ipnotismo, rabdomanzia, radiestesia, medianismo …
La controversia tra naturalisti e spiritisti è ancora in atto.
17 - Vediamo quale sia la disciplina e la dottrina della Chiesa in proposito, cominciando dalla risposta emanata il 24 Aprile 1917 dalla Suprema Congregazione del S. Uffizio: « É lecito assistere alle sedute spiritiche di qualsiasi genere, sia col medium che senza di esso, mediante e senza ipnotizzazione, quando non mancano segni di onestà e di pietà, sia interrogando le anime o gli spiriti, sia ascoltando le risposte, sia guardando solamente, e con la protesta tacita od espressa di non voler avere nessun commercio con gli spiriti maligni? »
- Risposta confermata dal Sommo Pontefice il 26 Aprile: « Negative in omnibus ».
Tale posizione di assoluta intransigenza si spiega col fatto che i teologi e i moralisti cristiani ritengono concordemente che tutte le manifestazioni paranormali, attribuite dagli spiritisti agli spiriti disincarnati, quando non interviene il trucco o non è possibile una spiegazione naturalistica del fenomeno, sono da attribuirsi a un intervento diabolico.
In sostanza siamo rimasti ancorati al principio tomistico che « i demoni intervengono nelle vane ricerche del futuro per irretire gli uomini nelle vanità » ( q. 92, a. 2 ).
É certo che niente impedisce, nè da parte della ragione naturale, nè da parte del dogma cattolico che le anime dei defunti possano talora comunicare con i vivi.
Esempi di simili comunicazioni sembra che siano seriamente provati.
Ma nè la ragione nè il dogma cattolico ammettono che le anime dei trapassati siano a disposizione dei vivi, per soddisfare alle loro curiosità spesso meschine e per assecondare i loro capricci.
Nell'al di là le anime dei defunti sono certamente sottoposte al sovrano dominio di Dio, più di quanto lo fossero mentre vivevano sulla terra; perciò sarebbe ridicolo fare di Dio il complice di tutte queste manifestazioni viziate dal capriccio e dalla superficialità, o addirittura da passioni ignobili.
Le anime poi, che cercano con sincerità nelle pratiche spiritiche la via per tenersi in contatto con i loro defunti, devono convincersi facilmente, dalle vaghe e insignificanti risposte, che codesti oracoli non sono degni nè delle anime dei trapassati, nè della infinita sapienza di Dio.
Del resto le apparizioni meglio fondate sono brevi, motivate e soprattutto spontanee, cioè non provocate da una determinata tecnica evocativa.
L'altro motivo che spinge i teologi a condannare lo spiritismo è dettato dal rispetto dovuto alla salute fisica del nostro corpo, specialmente quando è in pericolo il sistema nervoso.
Sta il fatto che le sedute spiritiche, anche se promosse per divertimento, e quasi come un gioco di società, danneggiano la salute mentale, soprattutto quando chi vi partecipa non è in perfette condizioni di equilibrio psichico.
Dopo tutto queste pratiche hanno generalmente effetti deleteri sui sentimenti religiosi e morali dei loro frequentatori, oltre che su quella dei medium.
Basterà ricordare la fine miseranda delle sorelle Fox, prime artefici di questa torbida superstizione contemporanea.
Dopo essersi separate per gelosia di mestiere, Caterina e Margherita Fox si degradarono nella lussuria.
La prima morì nel 1892, bruciata dall'alcool e abbandonata da tutti.
La seconda chiuse i suoi giorni l'anno successivo, prostrata dal vizio e vomitando volgarità.
Anche a proposito dello spiritismo bisogna ricordare che esso moralmente si condanna da sè, perché il suo motivo ispiratore principale rimane la curiosità.
Ora, la curiosità è un vizio, come spiegherà in seguito S. Tommaso nella q. 167.
Essa infatti non va confusa con l'interesse per I' indagine seria e scientifica, che l'Autore denomina studiosità ( q. 166 ).
La ricerca del futuro contingente è una delle forme caratteristiche della curiosità; e così altra forma d'indiscrezione è la pretesa di conoscere cose estranee all'attuale capacità della nostra intelligenza ( q. 167, a. 1 ).
Ora, sono precisamente questi i motivi ordinari che sollecitano l'interesse per le sedute spiritiche.
La Chiesa però, non volendo ostacolare in nessun modo il progresso della scienza, è pronta a concedere ai veri studiosi che lo chiedono, il permesso d'indagare anche sperimentalmente sui fatti medianici, per distinguere in essi, nei limiti del possibile, la realtà del trucco, ciò che è naturale da ciò che va attribuito a forze preternaturali.
18 - Ciò non toglie che in certi casi questo vicolo cieco sia servito, e possa continuare a servire, come canale di ricupero per quelle anime che sono lontane da ogni sentimento e da ogni pratica religiosa.
Classico ormai, nell'Italia di quest'ultimo dopoguerra, il caso di Pitigrilli, il quale ha documentato il suo itinerario spirituale nel suo libro La Piscina di Siloe.
In esso egli scrive candidamente: « Cercare di frugare le piccole verità non è andare incontro alla grande Verità, ma negarla …
Tuttavia io ho trovato la fede così …
Da quel giorno col cominciare a credere a una parte, ho cominciato a credere a tutto: a Dio, alla potenza della preghiera …
Si obbietterà: Dio non sceglie questi mezzi.
E io rispondo: Che ne sappiamo noi?
Il P. Lacordaire in una conferenza a Notre Dame, affermò: "Souvent Dieu, mes frères, pour parvenir à ses fins, emploie des moyens vraiment diaboliques" » ( pp. 87-89 ).
Ma per vincere gli ostacoli che l'uomo oggi incontra nello sviluppo del sentimento religioso, normalmente bisogna percorrere ben altre vie.
Innanzi tutto si deve affrontare con serietà e con impegno il problema religioso alle sue radici, e cioè al livello metafisico; quindi procedere a una conoscenza approfondita delle origini del cristianesimo.
Stando sul piano morale, in cui si muove la Seconda Parte della Somma Teologica, bisognerà partire dalla convinzione ragionata della utilità somma, per il genere umano, del sentimento religioso.
Questo lungi dall'essere, come pretendono Marx e i suoi fanatici satelliti, una forma di alienazione, concilia queste due tendenze apparentemente contrastanti del nostro essere: la brama della propria personale felicità, e la propensione di gettarci col nostro agire in un'altra realtà che ci trascende.
Dio infatti, causa estrinseca e fine estrinseco dell'universo, soddisfa quest'ultimo desiderio senza annientare la persona singola, come invece fa la società, o la classe che pretende di sostituirlo.
Inoltre il sentimento religioso armonizza la ricerca della felicità personale con il desiderio assoluto del vero e del bene, essendo Dio la felicità somma e la fonte prima di ogni verità e di ogni bontà in tutto l'universo.
Che poi in alcuni casi il sentimento religioso sia stato occasione di eccessi e persino di guerre, non è una cosa che si possa concedere senza riserve.
Spesso infatti codeste guerre promosse apparentemente per motivi religiosi, avevano moventi assai meno spirituali; e la religione era solo un pretesto per soddisfare la brama di ricchezza, oppure l'ambizione personale o collettiva.
Nel caso dovremmo considerare molto più nocive per il consorzio umano la famiglia, il matrimonio, il possesso dei beni terreni, l'onorabilità personale; perché pretesto e occasioni di guerre, di odi, di delitti crudeli e nefandi, assai più della religione.
Inseguendo così le idee di certi dissennati arriveremmo a condannare le istituzioni essenziali del vivere civile.
Di esse la religione anche in sede naturale è la suprema.
Per questo la Chiesa Cattolica, pur avendo piena coscienza di essere la depositaria infallibile della rivelazione divina, di fronte a una civiltà che pretende di mettere sotto processo il fatto religioso come tale, ha voluto affermare nel Concilio Vaticano II il valore di quanto c'è di positivo nelle altre religioni.
Esse, pur nelle loro aberrazioni, hanno conservato nell'uomo il senso della dipendenza da una realtà suprema, e quindi un' inclinazione e una disponibilità al messaggio evangelico.
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